Da San Francisco a Los Angeles, attraverso i grandi parchi dell’ovest

San Francisco - Las Vegas - Los Angeles, attraversando Sequoia, Bryce, Zion, Antelope Canyon, Death Valley, Grand Canyon, Monument Valley, Horseshoe Bend, Dead Horse Point, Joshua Tree, Valley of Fire, Capitol Reef, Arches, Route 66, ecc...
Scritto da: Nick74
da san francisco a los angeles, attraverso i grandi parchi dell'ovest
Partenza il: 19/04/2019
Ritorno il: 04/05/2019
Viaggiatori: 2

turistipercaso

DA CONEGLIANO A SAN FRANCISCO
VENERDI 20/4/2019 

Sveglia alle 5 del mattino, con un po’ di difficoltà per aver dormito poco; alle 5:30 appuntamento con il mio collega Deri vicino al casello di Conegliano. Arrivati a Mestre alle 6, abbiamo preso la navetta del Marriott che ci ha portato all’aeroporto. Il nostro volo British Airways è decollato alle 7:50, e abbiamo fatto scalo ad Heathrow alle 9:00 (ora di Londra); ripartiti alle 14:20, siamo atterrati a San Francisco alle 17 (le 2 di notte in Italia); per fortuna durante il volo sono riuscito anche a dormire, a differenza del primo viaggio negli USA dove non avevo quasi chiuso occhio.

Abbiamo fatto un’ora di coda alla dogana, quindi alle 19 abbiamo preso il treno per il centro città.

Una volta giunti al nostro hotel, il Club Quarters, verso le 21 siamo andati a cena al pub “The Irish Time”; temperatura freddina, la cima dei grattacieli più alti era immersa nella foschia; in giro per il quartiere non c’era molta gente, noi abbiamo fatto una passeggiata nelle vicinanze per digerire la cena prima di rientrare in albergo verso le 23, decisamente stanchi per il viaggio e per il cambio di fuso orario.

SAN FRANCISCO, EMBARCADERO, CASTRO, TWIN PEAKS, PAINTED LADIES, LOMBARD STREET, GOLDEN GATE, ALCATRAZ
SABATO 20/4/2019

Dovendo sfruttare al massimo il poco tempo a disposizione, la sveglia ha suonato alle 6:30 e siamo andati al vicino Embarcadero a fare colazione. Poi con la metropolitana siamo andati a visitare Castro, il quartiere “alternativo” di San Francisco considerato il cuore della comunità gay, dove ovunque appaiono i colori della bandiera arcobaleno, perfino sulle strisce pedonali. Da lì siamo saliti in autobus a Twin Peaks, una collina che domina la zona residenziale sottostante, alla quale si giunge attraverso strade molto ripide e tortuose; sulla sommità c’era un forte vento freddo che soffiava dal mare, e una nebbiolina che a tratti nascondeva completamente la città e la baia; abbiamo resistito un po’, quindi abbiamo preferito ridiscendere verso la città. Abbiamo visto le Painted Ladies nel quartiere Alamo Square, una serie di casette in stile vittoriano colorate di tinte pastello; di fronte ad esse, sul grande prato, c’erano moltissime persone intente a fotografarle, anche se più che dal vivo i caratteristici colori spiccano maggiormente nelle foto viste su internet… La successiva attrazione da visitare è stata Russian Hill, la parte più caratteristica di Lombard Street, una tortuosa strada nel centro città percorribile a senso unico in discesa ad una velocità massima di 8 km/h, e considerata “la strada più tortuosa al mondo”. Avremmo voluto prendere un cable car, ossia uno dei tram storici tipici di San Francisco, che sono trainati da un cavo d’acciaio sotterraneo al quale vengono agganciati come una funivia, ma non c’è stato il tempo sufficiente: dovevamo infatti andare a visitare il Golden Gate. Ci siamo arrivati in autobus, attraversandolo fino a giungere al lato opposto (troppo lungo da fare a piedi) come suggeritoci da un abitante di San Francisco che ha fatto quasi l’intero tratto assieme a noi e che si è prodigato in spiegazioni e dettagli su cosa visitare e su come spostarci. Dopo aver scattato un bel po’ di foto all’immenso ponte di colore rosso (anzi, “international orange”), al momento di ritornare verso il centro città abbiamo avuto un po’ di difficoltà a trovare la fermata dell’autobus (non c’erano cartelli, solo il numero della fermata scritto con la vernice sull’asfalto) e quindi abbiamo dovuto fare le corse per arrivare in tempo al molo 33, dove alle 18:00 partiva il nostro tour notturno per Alcatraz. Per la visita del famoso penitenziario abbiamo preso il traghetto Alcatraz Cruises che in circa 20 minuti ci ha sbarcati nell’isola; da lì abbiamo fatto la visita guidata (grazie anche all’audioguida in italiano) visitando le celle, l’armeria, il parlatorio, le docce, la mensa, e ascoltando gli aneddoti riguardanti i detenuti più famosi passati da lì (tra cui Al Capone) e i tanti tentativi di fuga. Rientrati stanchi morti al molo di San Francisco, siamo quindi andati al Pier 39 a berci una birra prima di rientrare in hotel.

KINGS CANYON & SEQUOIA NATIONAL PARK
DOMENICA 21/4/2019

Una Pasqua un po’ di diversa dal solito. Alle 7 abbiamo lasciato l’hotel e con la BART (la metropolitana di San Francisco) abbiamo raggiunto l’aeroporto; abbiamo ritirato l’auto a noleggio (un SUV) e ci siamo diretti verso Fresno, lasciando la baia di San Francisco attraverso il San Mateo Bridge (un ponte lungo 11 km), e salendo poi fino al Kings Canyon & Sequoia National Park, dove siamo arrivati verso le 15. All’ingresso del parco abbiamo acquistato l’Annual Pass, una tessera che permette di accedere a tutti i parchi nazionali. Abbiamo percorso la Generals Highway, una lunga strada piena di curve e saliscendi che attraversa il parco, in buona parte immersa nella nebbia. La temperatura è scesa a 5 gradi attorno ai 2.000 metri di altitudine, ed è comparsa la prima neve ai bordi della strada; una volta arrivati, abbiamo visto le gigantesce sequoie tra le quali spiccavano il Generale Grant (81.5 metri), il Fallen Monarch (una sequoia caduta circa 300 anni fa) e il Generale Sherman che è considerato per volume il più grande organismo vivente al mondo (tra i 2300 e i 2700 anni di età, alto 83.8 metri, un diametro alla base di 11 metri, un peso di 1.910 tonnellate e un volume di 1.487 metri cubi). Siamo usciti dal parco verso le 18:30 e abbiamo proseguito verso Bakersfield, distante un paio d’ore, e una volta arrivati ci siamo fermati a mangiare una pizza. Quindi abbiamo raggiunto il Days Inn By Wyndham, un classico motel di quelli che si vedono nei film americani, decisamente vecchio e malandato, con le stanze che puzzavano di fumo di sigaretta. Alle 22:30 eravamo già a dormire, stanchi per i 620 km percorsi nella giornata.

DEATH VALLEY NATIONAL PARK, ZABRISKIE POINT, FURNACE CREEK
LUNEDI 22/4/2019

Alle 4:45 ero già sveglio, non sono abituato ad andare a letto così presto… Ci siamo alzati alle 6:30, e abbiamo fatto colazione nel motel; gli americani sembrano apprezzare molto i Froot Loops (anellini di cereali colorati e zuccheratissimi al sapore di frutta, che mettono nel latte al posto dei corn flakes) ma noi abbiamo preferito le più classiche fette biscottate con la marmellata. Abbandonato in fretta il motel, verso le 8 siamo partiti con destinazione Valle della Morte; abbiamo fatto una pausa a Tehachapi fermandoci in una stazione di servizio in mezzo al nulla, come tutte dotata di frigoriferi con bibite ghiacciate di tutti i tipi, birra (solitamente in lattine da 24 once liquide, pari a 0.71 litri), root beer (bevanda analcolica fatta con le radici di sassofrasso, molto popolare negli USA), snack e sandwiches, dolci, e le immancabili confezioni di carne secca. Siamo passati per Mojave e Bradys, fino a giungere all’entrata della Death Valley che è ben evidenziata da un grande segnale stradale, uno dei punti più fotografati della zona; prima di Panamint Springs ci siamo fermati al Father Crowley Vista Point, una piazzola di sosta sull’altopiano da cui si può ammirare una veduta della valle, e dove c’è un cippo in memoria di Padre Crowley, un prete che a inizio Novecento aveva una immensa parrocchia che si estendeva per centinaia di miglia tra la Death Valley e il Monte Whitney.

Abbiamo fatto una sosta a Stovepipe Wells per prendere qualche snack e dei souvenir. Siamo quindi andati a vedere le Mesquite Flat Sand Dunes, una distesa di dune di sabbia simili a quelle dei deserti africani; il caldo cominciava a farsi sentire, e anche fare poche decine di metri sprofondando nella sabbia richiedeva un po’ di fatica. La visita successiva è stata quella ad Harmony Borax Works, una vecchia miniera dove tra il 1883 e il 1889 veniva estratto il borace che poi veniva trasportato fino a Mojave (dove arrivava la ferrovia, a 275 km di distanza) utilizzando due grosse cisterne su dei carri trainati da 20 muli (il Twenty-mule-team wagon, che pesava in tutto circa 33 tonnellate).

Siamo poi arrivati a Furnace Creek, l’unico insediamento abitato di tutta la Death Valley nonché l’unico posto dove poter fare benzina; c’è un campeggio, un villaggio con i bungalow dove poter dormire, e un hotel di lusso con tanto di campo da golf a 18 buche e una piscina. In mezzo al deserto, e con le temperature micidiali della Death Valley, è una vera e propria oasi dove potersi gustare una birra fresca seduti in un pub con l’aria condizionata; ci sono anche un paio di ristoranti, un saloon, e un piccolo supermarket che vende un po’ di tutto. A due passi da Furnace Creek, ad Indian Village, vive la tribù degli indiani Timbisha Shoshone; abitano principalmente in bungalow prefabbricati, e gestiscono un piccolo negozio dove vendono articoli di artigianato e dove è possibile mangiare dei tacos o gustarsi una granita. Abbiamo quindi approfittato per pranzare lì prima di andare al nostro motel, il “Ranch”, dove per 300 dollari a notte ci hanno dato una stanza con aria condizionata, wi-fi (nella Death Valley non c’è segnale telefonico) e doccia tiepida. I prezzi sono ovviamente elevati, visto che si è a decine di chilometri da qualsiasi città, e non vi sono altre alternative economiche per chi desidera dormire all’interno della valle. Dopo esserci rinfrescati siamo andati al Devil’s Golf Course, il “campo da golf del Diavolo”: è una distesa di terra e sale mescolati tra loro in zolle irregolari e seccate dal sole, a cui si accede attraverso una strada sterrata piena di buche, dove il SUV diventa indispensabile. Abbiamo poi proseguito per Badwater Basin, un vasto lago salato ormai prosciugato (tranne che per alcune pozze d’acqua) che rappresenta il punto più basso del Nord America: sulla parete di roccia alle sue spalle, infatti, si vede in alto un cartello con la scritta “Sea Level” che rappresenta il livello del mare; Badwater si trova a -86 metri, ed è una meta obbligata per i tanti turisti che in auto o caravan entrano quotidianamente nella Death Valley.

Ritornando verso Furnace Creek abbiamo poi preso una deviazione sulla destra che porta alla Artist’s Drive, una strada panoramica a senso unico lunga circa 14 km che passa anche per Artist’s Palette, la “tavolozza dell’artista”: un’insieme di formazioni rocciose che assumono colori differenti per effetto dei minerali contenuti (rosso, rosa, giallo, verde e viola); si deve guidare piano perché la strada è tortuosa, piena di saliscendi e curve che passano radenti alle pareti rocciose.

Visto che ormai il sole cominciava a calare, abbiamo fatto la nostra visita a Zabriskie Point, che proprio al primo mattino e verso il tramonto offre lo spettacolo più bello con le tante sfumature che si riflettono sul paesaggio lunare. Siamo poi rientrati a Furnace Creek, e dopo una doccia e un po’ di riposo abbiamo cenato fuori dal saloon; nel frattempo la temperatura è leggermente scesa, e si è alzato un po’ di vento. Prima di andare a letto siamo ritornati a Zabriskie Point, che dista pochi chilometri da Furnace Creek, perché volevo scattare delle foto alle stelle approfittando del buio totale; c’erano solo un paio di persone nel grande parcheggio sottostante, e con la nostra piccola torcia elettrica abbiamo percorso la salita asfaltata che porta al belvedere. Nel frattempo purtroppo il cielo si è fatto un po’ coperto, e anche la brezza ha cominciato a dare un po’ fastidio, per cui poco dopo abbiamo preferito rientrare al Ranch.

La Death Valley non offre alcun tipo di svago notturno, d’altra parte i turisti che arrivano durante il giorno escono prima del tramonto dalla valle, e si fermano all’interno solo quelli che pernottano al Ranch o al lussuoso Furnace Creek Inn, o quei pochi temerari che dormono in camper o in tenda.

Ringraziando per la presenza dell’aria condizionata e del distributore di ghiaccio, e un po’ meno per qualche scarafaggio che zampettava nel corridoio esterno, verso mezzanotte siamo andati a riposare; in totale oggi abbiamo percorso 525 km.

HOOVER DAM, VALLEY OF FIRE STATE PARK, LAS VEGAS
MARTEDI 23/4/2019

Alzati poco dopo le 6:30, abbiamo lasciato Furnace Creek in direzione Las Vegas, fermandoci prima nuovamente a Zabriskie Point verso le 8 per scattare qualche foto. Siamo quindi andati a visitare la diga di Hoover, nel confine tra Arizona e Nevada, che raccoglie le acque del fiume Colorado. Per avvicinarci alla diga, abbiamo dovuto superare un posto di blocco dove vengono ispezionate le auto per motivi di sicurezza; abbiamo parcheggiato in un’area di sosta e attraverso un percorso pedonale a zig zag siamo saliti fino al lungo ponte che attraversa il Colorado.

Tornati all’auto, abbiamo percorso la strada sopra la diga e siamo saliti per qualche tornante per vederla dall’altro lato, prima di ritornare indietro e dirirgerci verso la Valley Of Fire. Vi siamo giunti poco prima delle 15, ed è stata subito un’esplosione di colori: le grandi rocce rosse spiccavano sotto il sole, in netto contrasto con le tinte più pallide del paesaggio desertico. Abbiamo pagato il pedaggio di 10 dollari (essendo uno State Park non è valida la tessera dei parchi nazionali), e proseguito in auto lungo la “scenic loop road” per visitare i vari punti di interesse. Abbiamo cominciato dalla Atlatl Rock, accessibile tramite delle scalette in ferro, sulla quale si possono vedere i petroglifi incisi dagli antichi abitanti della valle, risalenti anche a 2300 anni fa. Nel parco ci sono molti trail da fare a piedi, ma vista anche la temperatura elevata abbiamo preferito limitarci a visitare i punti di interesse più facilmente raggiungibili in auto; tra questi l’Arch Rock (un arco naturale), i Beehives (rocce a forma di alveri), la Elephant Rock e le Seven Sisters (le “sette sorelle”, un gruppo di grandi massi rossi). La Valley of Fire è anche una location scelta da molte coppie per le foto del matrimonio, infatti ne abbiamo trovate un paio che posavano per il fotografo. Poco dopo le 17:30 siamo usciti dal parco, dirigendoci verso l’aeroporto di Las Vegas, dove per le 19 dovevamo riconsegnare l’auto. In totale oggi abbiamo percorso 650 km; meno male che qui la benzina costa molto poco…

Un’ora dopo siamo arrivati al nostro hotel, l’Excalibur (ispirato a Camelot e ai Cavalieri della Tavola Rotonda), dove abbiamo cenato al Dick’s Last Resort, un ristorante noto per i modi volutamente maleducati dei camerieri, sempre pronti a prendere in giro i clienti che proprio per questo si divertono come matti; tuttavia la cameriera che ci ha accolti, Christine, ha capito subito che non capivamo praticamente nulla delle sue battute e quindi ci ha trattati “quasi” normalmente; il conto è stato comunque salato, come tutto a Las Vegas, e le due birre da litro ci sono costate quasi 20 dollari l’una (ma ci hanno regalato il boccale di plastica). Siamo poi andati a fare una passeggiata lungo la Strip, fermandoci a vedere le fontane danzanti del Bellagio ed entrando a visitare il Paris Las Vegas (dove avevo soggiornato nel viaggio precedente del 2017). Rientrati in hotel dopo la mezzanotte, siamo andati a dormire verso l’1:30.

LAS VEGAS, BANCO DEI PEGNI, FREMONT STREET
MERCOLEDI 24/4/2019

Abbiamo approfittato per dormire un po’ di più, e ci siamo alzati verso le 8:45; siamo andati al negozio Gold & Silver Pawn Shop (il banco dei pegni della serie TV), quindi abbiamo camminato fino a Downtown Las Vegas, il centro cittadino. Lì si trovano tutti i vecchi casinò e hotel che fecero la storia di Las Vegas, ormai definitivamente chiusi o poco frequentati perché tutta la vita mondana si è trasferita sulla Strip, nella parte nuova della città; è quindi meno caotica e anche meno cara, e ovunque si respira l’aria di decadenza come se fosse un vecchio luna park ormai abbandonato. Il centro vitale è Fremont Street, una via dove si trovano negozi e bar, e dove spesso i tipi più strani si mettono a chiedere denaro ai passanti (tra questi abbiamo visto un uomo anziano praticamente nudo, e un tipo vestito da coniglio). Qui le insegne dei casinò sono ancora fatte con i neon o con migliaia di lampadine, meno moderne rispetto a quelle a LED della Strip; tra le più famose, la sagoma del cowboy Vegas Vic. Abbiamo pranzato con pizza e birra al Mickie Finnz Fish House & Bar prima di ritornare sulla Strip dove abbiamo visitato il Palazzo, il Venetian e l’enorme Caesar Palace; più tardi siamo stati a vedere il famoso cartello “Welcome to fabulous Las Vegas”, dove c’è sempre una fila di persone in attesa di farsi una foto sotto di esso. Abbiamo visitato il Luxor, hotel casinò a forma di piramide (sulla sommità ha un potentissimo faro puntato al cielo da 315.000 watt) che confina con l’Excalibur, quindi verso le 17 abbiamo fatto rientro in hotel per una doccia e un riposino prima di andare a cena al Backstage Deli dell’hotel Luxor. Ci siamo anche quasi persi nell’hotel, continuavamo a salire e scendere con l’ascensore per tornare nella nostra stanza ma non trovavamo mai il numero della camera, poi ci siamo resi conto che avevamo confuso la Royal Tower con la Resort Tower, ed eravamo nella parte opposta dell’hotel (che ha 4.008 stanze).

GIOVEDI 25/4/2019: ZION NATIONAL PARK, BRYCE

Ci siamo alzati alle 7, e usciti dall’Excalibur abbiamo utilizzato Uber per andare al Treasure Island Hotel, distante circa 4 km; l’autista si chiamava Arthur, e durante il tragitto (durato circa venti minuti, perché la Strip è parecchio trafficata anche di prima mattina e ci sono molti semafori) ci ha spiegato la storia di alcuni dei casinò principali. Con un po’ di difficoltà al Treasure Island abbiamo ritirato la nostra auto a noleggio e ci siamo diretti verso lo Zion National Park, nello Utah.

Una volta arrivati, alle 13:45 abbiamo preso la navetta che percorre la “Zion Canyon Scenic Drive”; è infatti vietato entrare con le auto private, e il servizio di shuttle è molto efficiente con corse ogni 10 minuti circa.

Abbiamo fatto la “riverside walk” costeggiando il Virgin River, vicino al Tempio di Sinawawa (il dio coyote degli indiani Paiute), una grande formazione rocciosa con una cascata nel mezzo. Altro punto interessante è stata la Weeping Rock, la “roccia piangente”, una insenatura a cui si accede attraverso un ripido sentiero.

Dopo esser tornati al Visitor Center, verso le 16:50 siamo partiti per la successiva destinazione, il Bryce Canyon. Avendo dovuto allungare di molto la strada a causa di una strada interrotta, ci siamo fermati a Cedar City per la cena al Chili’s Grill & Bar dove ci siamo concessi un buon menù messicano. Poco dopo le 21 siamo arrivati a Tropic dove avevamo prenotato presso il Bryce Canyon Inn, un simpatico e confortevole motel con casette in legno, dove siamo stati accolti con grande cortesia dalla titolare.

BRYCE CANYON NATIONAL PARK, CAPITOL REEF NATIONAL PARK, MOAB
VENERDI 26/4/2019

Svegliati alle 7:30, ci siamo diretti verso il Bryce Canyon National Park, distante circa 20 km da Tropic. Giunti al parco, per prima cosa abbiamo visitato l’immenso anfiteatro naturale dove si trova il Sunset Point (a 2438 metri di altitudine); la vista è stata di grande impatto, con le centinaia di “hoodoos” (pinnacoli simili alle piramidi di terra, create dall’erosione di vento, acqua e ghiaccio) che hanno sfumature bianche, arancioni e rosse, e che dalle tinte pallide del primo mattino diventano di colori accesi quando c’è il sole. Volevamo percorrere il Navajo Trail, un sentiero ad anello che scende lungo l’anfiteatro di roccia, ma l’accesso era vietato perché c’erano ancora dei tratti pericolosi con neve e ghiaccio; abbiamo proseguito quindi sulla sinistra fino al Sunrise Point, poi siamo ritornati verso il lato opposto e abbiamo percorso il sentiero in salita fino all’Inspiration Point, presso il quale c’è uno spiazzo sullo strapiombo che permette di avere un vista panoramica dell’anfiteatro. In auto abbiamo poi raggiunto il Bryce Point, quindi abbiamo percorso altri 28 km fino allo Yovimpa Point e al Rainbow Point, che si trova a 2778 metri di altitudine, e dal quale si ha una spettacolare veduta dell’intero parco; siamo poi ritornati verso il Visitor Center fermandoci ad alcuni degli overlook più interessanti, tra i quali l’Agua Canyon e il Natural Bridge.

Usciti dal parco verso le 14, ci siamo diretti al Capitol Reef National Park, distante circa 200 km; una volta giunti al Visitor Center abbiamo percorso la “scenic drive”, lunga circa 13 km, e ci siamo anche addentrati col SUV in una strada sterrata che passava tra le rocce; il panorama è diventato decisamente più imponente, con le grandi formazioni rocciose stratificate dai colori accesi che andavano dal verde al grigio, e dal giallo al rosso.

Terminata la visita del parco, abbiamo proseguito in direzione Moab, paesino dello Utah a due passi dal fiume Colorado, dove siamo arrivati alle 20:40; siamo andati in cerca di un posto dove cenare e abbiamo optato per il Gravel Pit Lanes, una birreria in periferia con annessa sala giochi e bowling; dopo cena abbiamo fatto un giro in paese, dove si teneva il Moab Car Show: ovunque c’erano automobili rombanti, pickup, auto sportive che si esibivano girando per le vie cittadine. Siamo poi andati al Red Stone Inn, il motel che ci avrebbe ospitato per le due notti di permanenza in città.

ARCHES NATIONAL PARK, DEAD HORSE POINT STATE PARK
SABATO 27/4/2019

Sveglia alle 7:45, e partenza per andare a visitare l’Arches National Park; siamo entrati nel parco alle 9:10, dopo aver fatto un po’ di coda con l’auto al check point perché c’erano già molti turisti, vista anche la bella giornata di sole; nel parco nazionale degli Arches si trovano circa 2000 archi naturali di arenaria. Abbiamo percorso la “scenic drive”, lunga circa 34 km, fermandoci a vedere la Balanced Rock, le Courthouse Towers, le Three Gossips, il Double O Arch, lo Skyline Arch, la Parade Of Elephants, il Cove Of Caves, il Devil’s Garden, e il più famoso Delicate Arch (che compare anche nelle targhe automobilistiche dello Utah); verso le 12:30 siamo usciti dal parco per dirigerci al Canyonlands National Park.

Alle 13:30 siamo arrivati all’Island In The Sky Visitor Center, e abbiamo seguito la “scenic drive” che ci ha portati allo Shafer Canyon Overlook, dove si vede la strada che scende a zig zag fino a 400 metri più in basso; lo strapiombo è da vertigini, anche perché non ci sono parapetti o protezioni; con grande attenzione ci siamo a turno avvicinati al bordo mentre l’altro scattava una foto da qualche decina di metri di distanza. Siamo poi stati al Mesa Arch (altro pauroso precipizio ma spettacolare panorama) e al Buck Canyon Overlook, dove si vedono in lontananza le profonde fratture sul terreno; si notano ancora più da vicino al Grand View Point Overlook; al Green River Overlook si scorge all’orizzonte l’omonimo fiume, affluente del Colorado; all’Upheaval Dome si vede il grande cratere di 5 km di diametro, causato dall’impatto di un meteorite.

Verso le 17:40 siamo arrivati al Dead Horse Point State Park, ad uno degli overlook più spettacolari del nostro viaggio: l’ansa di 270 gradi sul fiume Colorado, resa famosa dalla scena finale di “Thelma & Louise”.

L’obiettivo era arrivare prima del tramonto, in modo da veder calare il sole all’orizzonte, la stessa idea avuta da un sacco di altre persone a giudicare dalla folla che pian piano si è radunata… Il parco è visitato ogni anno da oltre mezzo milione di persone, ma è abbastanza isolato perché il paese più vicino nel quale trovare benzina, cibo o una farmacia è Moab, a quasi 50 km di distanza.

Il sole è calato dopo le 20, noi abbiamo approfittato per rilassarci guardando il panorama e scattando molte foto; dopo il tramonto, quasi tutti se ne sono andati abbastanza in fretta anche perché cominciava a tirare un’aria fresca che nel giro di pochi minuti ha portato un temporale e la pioggia.

Tornati a Moab abbiamo cenato vicino al motel (per me gli immancabili chili beans, una bistecca, patate fritte e una birra), e alle 22:20 ci siamo ritirati.

MONUMENT VALLEY, FORREST GUMP POINT, HORSESHOE BEND
DOMENICA 28/4/2019

Sveglia alle 7:45, e partenza per la Monument Valley; poco dopo Mexican Hat (paesino di una trentina di abitanti che deve il suo nome a una formazione rocciosa che assomiglia ad un sombrero) ci siamo fermati al Forrest Gump Point (il punto in cui nel film Forrest si ferma e dice “Sono un po’ stanchino…”), da dove si ha una vista panoramica della valle, con le sue “butte” e “mesas” di sabbia e roccia rossa; la US-163 non è molto trafficata, quindi c’è la possibilità di scattare qualche foto anche in mezzo alla carreggiata tra un’auto e l’altra. Siamo poi entrati in territorio Navajo, ben avvisati dai cartelli a bordo strada; al check point abbiamo consegnato la nostra prenotazione (si paga poco più di 20 dollari per auto) e abbiamo raggiunto il Visitor Center, da dove inizia la Monument Valley Loop Drive che abbiamo percorso in un paio d’ore fermandoci nei luoghi più caratteristici: il John Ford’s Point (dove è possibile anche farsi fotografare in sella al cavallo sullo sfondo reso famoso da John Wayne), le Three Sisters, la Mitchell Mesa, l’Elephant Butte, Camel Butte e Merrick Butte. Gli indiani della tribù Navajo si vedono poco in giro, sembrano piuttosto riservati e tendono a non mescolarsi con i turisti; perlopiù organizzano escursioni guidate a bordo delle loro jeep, o vendono articoli di artigianato sulle tante bancarelle all’aperto. Nella valle soffia spesso il vento, che solleva la polvere rossa in gran quantità, come se non bastasse tutta quella alzata dalle auto che percorrono la strada panoramica ad anello.

Usciti dalla valle poco prima delle 16, ci siamo poi diretti verso Page, distante circa 200 km; alle 18:15 siamo arrivati all’Horseshoe Bend, dove c’era già molta gente; lasciata l’auto nel parcheggio, in circa 20 minuti abbiamo percorso la salita sulla collina e abbiamo fatto la discesa fino al meandro del fiume Colorado. Ci sono degli spazi messi in sicurezza tramite piattaforme dotate di parapetti, ma la maggior parte del costone di roccia è senza protezioni; vedere tante persone (soprattutto tanti ragazzi e ragazze) in bilico sul bordo per farsi un selfie, con uno strapiombo di 300 metri dietro di loro, metteva molta ansia… Soprattutto quando il sole è tramontato ed è arrivata un po’ di brezza che sollevava la tanta sabbia, sarebbe bastata una piccola perdita di equilibrio, un piede appoggiato male sulle rocce, un attimo di distrazione per fare un volo pauroso. All’Horseshoe Bend sono già morte una decina di persone dal 2010 in poi; nulla a che vedere con i numeri del Grand Canyon, ma comunque io ho preferito spingermi fino al bordo solamente steso a terra, ed ho evitato i punti più pericolosi. Lo spettacolo del tramonto di fronte a noi è stato sicuramente una delle cose più belle di questo viaggio, soprattutto per i colori delle rocce e per le sfumature del fiume Colorado.

Verso le 20:45 siamo ritornati a Page, dove avevamo prenotato al motel Rodeway Inn; dopo una doccia per toglierci tutta la polvere, siamo stati a cena in un pittoresco locale messicano, quindi a nanna verso le 23:30.

LUNEDI 29/4/2019: LOWE ANTELOPE CANYON, UPPER ANTELOPE CANYON, GLEN CANYON DAM OVERLOOK, GRAND CANYON

Alle 6:15 è suonata la sveglia, e dopo aver fatto colazione al motel ci siamo diretti al Lower Antelope Canyon, che si trova in territorio Navajo ed è visitabile esclusivamente con uno dei tour autorizzati gestiti dagli indiani; noi avevamo prenotato il tour di Dixie Ellis, e quando è venuto il nostro turno con un piccolo gruppetto di turisti abbiamo seguito la nostra guida che ci ha condotti fino alla spaccatura nel terreno da dove si scende nel canyon attraverso delle scalette di ferro. Il cielo era nuvoloso e cadeva qualche goccia di pioggia; la guida ci ha spiegato che nel 1997 persero la vita 11 turisti perché vennero sorpresi nel canyon da una piena improvvisa, generata da una violenta pioggia 11 km più a monte; per tale motivo se piove molto vengono sospese le escursioni, inoltre le guide sono sempre in contatto radio con chi monitora la situazione del meteo, in modo che nel caso si formasse un fiume d’acqua siano pronte a far evacuare i turisti. Essendo il canyon molto stretto, l’acqua che penetra in profondita acquista una forte velocità, e trovarsi lì sotto sarebbe come entrare in una grande centrifuga. Nel canyon si devono rispettare alcune regole ferree: non fermarsi troppo per non ostacolare gli altri gruppi di turisti, non sporcare o scrivere sulle rocce, vietato entrare con zaini e borsette o animali, proibito fare video e non è ammesso neppure spargere le ceneri dei propri defunti (è successo un paio di volte in passato, hanno dovuto chiudere il canyon fino a quando uno sciamano non ha fatto il rito di purificazione). La guida ci ha spiegato l’origine del Lower Antelope, che è lungo circa 400 metri, ci ha dato indicazioni preziose su come settare le nostre fotocamere (cambiando il tipo di illuminazione si possono ottenere foto tendendi all’azzurro, al rosa o al giallo), e ci ha indicato le rocce più belle: vengono chiamate con vari nomi a seconda di ciò a cui assomigliano, ce n’è anche una in cui si vede la faccia di Trump, una che sembra una pancia con l’ombelico, e una chiamata “Woman in the wind”; in altri casi, le figure appaiono nel contrasto tra le rocce e il cielo, così ad esempio si può vedere un cavalluccio marino o un orso.

La visita è durata circa un’ora, al termine della quale abbiamo salutato la nostra guida, lasciando tutti una mancia che viene divisa tra gli indiani che lavorano al canyon. Siamo tornati a Page per un caffè, quindi alle 11:30 ci siamo portati al punto di ritrovo per la successiva escursione all’Upper Antelope Canyon, prenotata con il tour di Roger Ekis; il canyon dista pochi chilometri da Page, che abbiamo percorso sul cassone di alcuni camioncini, a gruppi di 10/12 persone. Non è infatti permesso arrivare al canyon con la propria auto, anche perché il terreno è pieno di sabbia rossa e un’automobile resterebbe probabilmente bloccata. Giunti a destinazione, siamo entrati nella fenditura della roccia che segna l’inizio del canyon; a differenza del Lower, che è sotterraneo, qui si rimane a livello terra; l’Upper è lungo circa 200 metri, e si è formato nel corso di milioni di anni per l’erosione della roccia arenaria dovuta a vento e acqua. La nostra guida Navajo era una donna, ed è stata molto brava nello spiegarci come ottenere le foto più belle, addirittura qualche foto le ha scattate lei.

Il nostro tour era prenotato per l’orario nel quale si sarebbero potuti vedere i light beams, dei potente raggi di luce solare che filtrano dall’alto verso mezzogiorno tra metà marzo e metà ottobre, ma purtroppo quel giorno il cielo era coperto. Al termine dell’escursione la nostra guida ci ha riportati tutti a Page con il camioncino, e anche lei si è guadagnata la sua mancia.

Dopo un buon panino da Subway, verso le 14 siamo andati al Glen Canyon Dam Overlook, un punto panoramico vicino alla diga sul fiume Colorado, da cui si genera il lago artificiale Powell (lungo 300 km, il secondo più grande degli Stati Uniti).

Da lì abbiamo poi raggiunto il Grand Canyon verso le 16:30; abbiamo iniziato la visita del South Rim, il versante più frequentato dai turisti; siamo saliti sulla Desert View Watchtower, quindi abbiamo visto la lapide in memoria delle 128 vittime dello scontro tra due aerei passeggeri avvenuto il 30 giugno 1965 a 6400 metri di altitudine sopra il canyon. In auto abbiamo raggiunti gli altri overlook: Navajo Point, Lipan Point, Moran Point, Grandview Point, Duck On A Rock Viewpoint, Yaki Point; da qualsiasi punto lo guardi, il Grand Canyon risulta impressionante per l’estensione, la profondità e la bellezza dei colori.

Ci siamo poi diretti a Tusayan, a 3 km dall’entrata sud del parco, dove siamo giunti alle 19:15 al nostro hotel, il Best Western Premier Grand Canyon Squire Inn; cena alla vicina Big E Steakhouse, e poi a letto verso le 22:30.

MARTEDI 30/4/2019: GRAND CANYON, ROUTE 66, SELIGMAN, INDIO

Alzati prima delle 7, dopo aver lasciato l’hotel ci siamo diretti al Grand Canyon Village, ma ben presto abbiamo capito che non si sarebbe visto nulla di quanto era in programma: c’era un fitta nebbia nel canyon che rendeva impossibile vedere oltre poche decine di metri; le previsioni non davano grandi speranze di miglioramento, quindi per non rischiare di sprecare la giornata abbiamo preferito rimetterci in strada, tantopiù che per quel giorno ci aspettava una tappa molto lunga.

Alle 9 siamo ripartiti in direzione sud, siamo passati per Williams dove ci siamo immessi sulla I-40, poi poco dopo Ash Fork abbiamo deviato verso Seligman, un piccolo paesino che ha ispirato il film d’animazione “Cars – Motori ruggenti”; da lì fino agli anni settanta passava la Route 66, una highway lunga 3755 km che partiva da Chicago e attraversava gli States fino ad arrivare alla spiaggia di Santa Monica; tuttavia, la successiva costruzione della vicina Interstate 40 ha causato il lento declino di Seligman, che è rimasta tagliata fuori dalla zona di passaggio. La Route 66 esiste tuttora come Historic Route 66, e chi devia dalla Interstate e decide di passare per Seligman può vedere ancora qualche vecchio motel funzionante, e alcuni negozi di souvenir che ricordano gli antichi fasti della città. Da lì siamo ripartiti rimanendo sulla Route 66, e ci siamo fermati a pranzare al Grand Canyon Caverns, un motel-ristorantino quasi deserto in un posto isolato che sembrava uscito dal film “Non aprite quella porta”: la grande insegna che cadeva a pezzi, un campo di recupero con auto e camioncini arrugginiti, un vecchio distributore di benzina, inquietanti manichini a bordo strada, addirittura una finta auto della polizia nascosta dietro una siepe con un agente-fantoccio all’interno; il pranzo comunque non è stato male…

Ripartiti con la pancia piena, siamo passati per Peach Springs, Kingman, Vidal Junction, Desert Center, e siamo arrivati ad Indio, in California, verso le 19. Siamo passati vicino all’Empire Polo Club, dove gli operai stavano smontando il gigantesco palco utilizzato per il Coachella Valley Music And Arts Festival che si era concluso il 21 aprile con il concerto di Ariana Grande. Abbiamo raggiunto il motel Days Inn By Wyndham; dopo esserci rinfrescati, verso le 21 siamo usciti a cena all’In-N-Out Burger, poi siamo rientrati al motel, stanchi per i 700 km percorsi nella giornata.

MERCOLEDI 1/5/2019: JOSHUA TREE NATIONAL PARK, PIONEERTOWN, LOS ANGELES, MULHOLLAND DRIVE

Sveglia alle 8, colazione al motel e partenza alle 9:15 per il Joshua Tree National Park, dove siamo arrivati alle 10:15 dall’ingresso di Cottonwood. Il parco deve il suo nome ad una pianta, la “Yucca brevifolia”, conosciuta come “albero di Giosuè”: il nome venne dato dai Mormoni perché i suoi rami ricordano le braccia che Mosè alzava al cielo pregando, e che secondo la Bibbia permettevano all’esercito di Giosuè di vincere le battaglie; ma “The Joshua Tree” è anche il nome di un famoso album degli U2. Ci siamo fermati a Cholla Cactus Garden (dove si cammina su una passerella in mezzo alle piante di yucca), alla Skull Rock (una roccia a forma di teschio), a Keys View (il punto panoramico più alto del parco, da dove si vede la Coachella Valley), e a piedi abbiamo fatto il loop trail di un paio di chilometri fino alla Barker Dam (una piccola diga costruita nel secolo scorso dai contadini per trattenere l’acqua che serviva al bestiame) ma il laghetto era quasi prosciugato.

Usciti dal parco, ci siamo fermati per il pranzo al Joshua Tree Saloon; poi abbiamo fatto una deviazione e siamo andati a visitare Pioneertown, una ghost town (città fantasma) creata negli anni quaranta come set cinematografico per film western, ma con la particolarità che gli edifici (la banca, il maniscalco, il saloon, l’ufficio postale ecc…) non dovevano essere dei semplici fondali ma vere e proprie strutture in grado ad esempio di ospitare gli attori e quanti lavoravano alle riprese; abbiamo passeggiato lungo Mane Street, una strada sabbiosa che attraversa il piccolo paesino, senza incontrare anima viva; tuttavia da ottobre a giugno, ogni secondo e quarto sabato del mese, a Pioneertown arrivano molti turisti per una specie di rievocazione storica del vecchio West.

Ritornati indietro, abbiamo proseguito fino a Los Angeles dove siamo giunti alle 19; siamo andati al nostro motel, il Travelodge By Wyndham Hollywood sulla North Vermont Avenue. Verso le 20:30 abbiamo preso l’auto e abbiamo sperimentato il grande traffico di Los Angeles, con le sue strade a 5/6 corsie per senso di marcia, dove tutti corrono come dei pazzi; inoltre negli USA è permesso superare anche a destra, quindi si è continuamente circondati da camion, auto e SUV che arrivano da ogni lato a tutto gas. Abbiamo percorso un bel pezzo della Mulholland Drive, la tortuosa e buia strada che si snoda sulle colline di Hollywood e che ha dato il titolo ad un inquietante film di David Lynch. Abbiamo poi fatto un salto a Santa Monica, città turistica famosa per la sua spiaggia, e sul cui molo termina la Route 66. Per la cena ci siamo accontentati di un panino da Subway, poi a mezzanotte siamo tornati al motel.

GIOVEDI 2/5/2019: BEVERLY HILLS, RODEO DRIVE, WALK OF FAME, OSSERVATORIO GRIFFITH, LOG BEACH

Sveglia alle 8, poi in metropolitana e autobus siamo stati in visita a Beverly Hills e a Rodeo Drive (la strada delle boutique più famose), con obbligatoria fermata davanti all’hotel di Pretty Woman; quindi siamo andati all’Hollywood Boulevard all’affollatissima Walk Of Fame, sul cui marciapiede ci sono oltre 2600 stelle dedicate a famosi cantanti, attori, registi e personaggi inventati (anche Topolino, Biancaneve e i Simpson). Alle 16 siamo stati all’Osservatorio Griffith, facendoci una bella camminata fino alla sommità della collina, ma era chiuso; abbiamo comunque potuto ammirare il panorama e vedere la famosa scritta “Hollywood” in lontananza. Quindi siamo andati a Long Beach, e dopo un giro del molo abbiamo cenato al Shenanigans Irish Pub prima di rientrare verso mezzanotte.

VENERDI 3/5/2019: BEL AIR, HOLLYWOOD SIGN, SANTA MONICA

L’ultimo giorno del nostro viaggio ci siamo alzati con calma alle 8, poi alle 10 abbiamo lasciato il motel e con il nostro SUV siamo andati fin sotto alla scritta “Hollywood”, alla fine della Mulholland Highway; le lettere bianche sono alte 15 metri, larghe 9, e la scritta in totale è lunga 110 metri. Abbiamo percorso poi la Bellagio Road nel quartiere di Bel Air, dove si trovano le stupende ville dei VIP (tutte nascoste da siepi e da grandi cancelli), poi verso le 13 siamo andati a Santa Monica dove abbiamo trascorso qualche ora; verso le 17 ci siamo avviati verso l’aeroporto, dove abbiamo riconsegnato l’auto. Alle 22 abbiamo preso il volo British Airway che ci ha portati a London Heathrow, dove siamo atterrati alle 16:25 locali del giorno seguente, sabato 4 maggio.

Il nostro viaggio si è concluso con 5.155 km percorsi in auto, e 151 km a piedi.

SABATO 4/5/2019: DA LOS ANGELES A VENEZIA

Atterrati a Heathrow alle 16:25 locali, poi alle 20:20 abbiamo preso il volo per Venezia, dove siamo arrivati alle 23:25.

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