Laos, meraviglia d’Indocina

Un viaggio alla scoperta del meno noto sud del Paese
Scritto da: fabri979
laos, meraviglia d'indocina
Partenza il: 28/03/2018
Ritorno il: 08/04/2018
Viaggiatori: 3

Vientiane, Phonsavan, Luang Prabang, Pakse, Champasak.

Quest’anno concludiamo il tour dell’Indocina. Dopo la struggente Cambogia ed il pirotecnico Vietnam chiudiamo il cerchio con il Laos, un quieto Paese sì in movimento, ma ancorato ancora fortemente alle tradizioni. Apprezzeremo nei prossimi giorni il clima rilassato e tutt’altro che frenetico della gente, la loro tranquillità interiore, l’ estrema spiritualità ed i fantastici paesaggi.

Partenza il 28 marzo 2018 da Roma Fiumicino

Rientro il 8 aprile 2018

Volo intercontinentale Thai Airways (Roma – Bangkok – Vientiane)

Voli interni Lao Airlines (Vientiane – Xieng Khouang; Luang Prabang – Pakse; Pakse – Vientiane)

Costi:

Volo intercontinentale 694,78 Euro (p persona)

Vientiane – Xieng Khouang 75,55 US$ pp

Luang Prabang – Pakse 130,55 US$ pp

Pakse – Vientiane 113,55 US$ pp

I biglietti sono stati acquistati sul sito internet delle compagnie aeree i primi di novembre

 

Hotel: prenotati dall’Italia sul sito Booking.com con scelte dettate dalle recensioni dei viaggiatori.

Vientiane: Ali Hotel 1 notte 33,00 US$

Phonsawan: Kongkeo Guesthouse 2 notti 104,00 US$

Luang Prabang: Lan Kham Riverside 3 notti 114,00 US$ + 3 US$ Tax

Pakse: Phi Dao Hotel 3 notti 96,00 US$

Le aspettative non sono state disattese.

 

Itinerario: Il programma è stato molto compresso per la mancanza di tempo; i giorni a disposizione sono stati 10, escluso il viaggio. La scelta dei voli interni è stata valutata per velocizzare i tempi dei trasferimenti necessari per visitare anche il sud del Paese, che, anche se non è molto pubblicizzato, merita sicuramente. Tutto sommato, in dieci giorni si riesce a mettere insieme un viaggio che fa conoscere gli aspetti ed i luoghi salienti del Laos.

Fonti di informazione sono state la guida Lonely Planet, Itinerari in Indocina di Claudio Bussolino e le recensioni dei viaggiatori che ci hanno preceduto, raccolte nel mondo di Internet.

28 Marzo 2018

Roma. Il volo parte alle 14.00 in perfetto orario. Il glorioso Boeing 747 è stato sostituito quest’anno con il nuovo Airbus A350, meno capiente ma pieno in ogni ordine di posto, come sempre. Ci apprestiamo a trascorrere le prossime dieci ore fra film e tentativi (mal riusciti) di prendere sonno.

29 Marzo

Bangkok. Atterriamo nella capitale Thailandese alle cinque di mattina che è ancora buio. Valutiamo l’ ipotesi di prendere il treno (il rail link) che porta in centro, ma in una città che ancora dorme ci sembra tempo sprecato. Riusciamo a schiacciare un pisolino, e facciamo colazione in uno dei tanti ristori che abbondano nei corridoi dello scalo. Finalmente giunge l’ora di imbarcarci per il volo che ci porterà a Vientiane, dove atterriamo alle 12,30. Il disbrigo delle formalità per il visto sono abbastanza celeri. Bisogna compilare un modulo disponibile al posto di frontiera, che va consegnato, unitamente ad una foto formato tessera ed alla carta di sbarco, all’ufficio immigrazione. Il pagamento di una quota di 35 US$ da il via libera all’ottenimento del visto, che viene applicato sul passaporto. Tutta questa operazione non ha richiesto più di cinque minuti. A destra dell’uscita c’è un ufficio di cambio, dove converto un minimo di valuta locale. Sono equipaggiato con dollari americani di nuova emissione, ma sulla tabella di cambio esposta il super euro mostra i muscoli, e così decido di cambiare la nostra moneta. Torna facile anche il calcolo, 1 euro = 10076 Kip.

Uscito dall’aeroporto mi appresto a contrattare un Tuc Tuc o un pulmino, ma un gentilissimo tassista mi invita a rientrare nella stazione, dove un apposito bancone, sulla sinistra rispetto all’uscita, gestisce il traffico dei soli taxi o minivan. Comunichi dove vuoi andare, o il nome dell’hotel, e paghi una tariffa fissa. Il mio trasferimento all’Ali Hotel, in prossimità del lungo fiume, mi costa 57000 kip, meno di 6 euro. L’hotel non è niente di eccezionale, è un covo di zaini con quattro o cinque camere private. Molto spartano, essenziale, ma per una notte può andare. L’ho scelto principalmente per la posizione, ma in seguito apprezzerò molto la cortesia e la disponibilità dei proprietari. Sono circa le due quando usciamo per iniziare la visita della città. Ci dirigiamo in senso opposto al fiume, e iniziamo subito ad incontrare una miriade di templi. Il nostro obiettivo sono i due principali, il Wat Si Saket ed il Haw Pha Kaeo, ma ci fermiamo a visitarne altri tre, (Inpeng, Ongten e Mixay) tralasciandone almeno un altro paio. All’interno dell’Ongten ci sediamo a fare due chiacchiere con un monaco che vuole fare un poco di pratica con l’inglese, e ci impartisce una benedizione. Ci dà anche le indicazioni per raggiungere la nostra meta. Percorriamo un lungo corso a senso unico per circa un chilometro, forse meno, e giunti in prossimità del Palazzo Presidenziale ci rendiamo conto che siamo giunti a destinazione. Sulla sinistra, in fondo ad un largo viale a doppia carreggiata che inizia dal cancello del Palazzo, si staglia la sagoma del Patuxai, l’Arco di Vientiane, mentre appena superata la strada troviamo in successione sulla sinistra il Wat Si saket, e sulla destra il Haw Pha Kaeo.

Iniziamo con il Si Saket, il tempio più antico della città che è anche catalogato come museo (biglietto 10.000 kip), bellissimo, con le sue centinaia di nicchie che ospitano coppie di piccole statuette di Buddah. Il corpo centrale purtroppo non è fotografabile, ma rimane indelebile il ricordo del bellissimo soffitto e degli antichi affreschi. Tutto intorno, all’esterno, su tre lati, fanno da cornice al tempio innumerevoli statue di diverso materiale disposte sotto tettoie le cui pareti sono traforate anche queste da innumerevoli nicchie.

Attraversiamo la strada e facciamo capolino nel cortile del Ho Phra Keo, (ingresso 10.000 kip) dove troneggia il tempio che una volta ospitava il famoso Buddah di smeraldo predato dai Siamesi.

Dopo la visita prendiamo il viale che conduce al Patuxai (ingresso 3.000 kip), dalla cui cima, alla cupola al terzo livello si gode una superba vista della città. Molto bello il soffitto dipinto dell’arco.

A questo punto facciamo il percorso a ritroso verso l’hotel, fermandoci ad un chiosco dove ci rinfreschiamo con un eccellente frullato (10.000 kip). Io scelgo un mix di mango – avocado – papaya, e devo dire che il risultato è sorprendente.

Dopo una salutare doccia rigenerante ripercorriamo la stessa strada (Th.Setthathirath) alla ricerca di un locale per la cena; le ombre della sera sono calate e la fame si fa sentire. Di locali ce ne sono tanti, taluni di stampo europeo anche consigliati dalla Lonely Planet, ma prendiamo posto sul marciapiedi di uno frequentato solo da gente locale; una giovane coppia si stringe per farci posto, e ci aiutano con le ordinazioni, in quanto nessuno parla una sola parola al di fuori del Lao. Prendiamo due zuppe di noodles ed un piatto di riso con verdure come quello che stanno mangiando i nostri commensali: l’aspetto è decisamente invitante. Non sazi ordiniamo due piatti di riso con pollo caramellato, e finiamo la cena. Costo totale, comprensivo di due birre ed una Seven Up, 85.000 kip. Il locale non ha insegna con alfabeto latino, ma è sormontato da un cartello della pepsi cola ed è di fronte al tempio con i due grandi elefanti di lato all’ingresso.

Raggiungiamo il fiume e facciamo una passeggiata in mezzo alle bancarelle del mercato notturno, quindi attraversata la strada, entriamo in hotel (dopo aver lasciato le scarpe all’ingresso) per il meritato riposo. La giornata è stata sufficientemente piena.

30 Marzo

Vientiane. Mi alzo di buon’ora e mi dirigo sul lungofiume avvolto nella foschia mattutina. Osservo una nutrita schiera di ciclisti suddivisa in vari gruppetti che parlottano fra di loro, mentre un gruppo di donne è intento nella pratica dei Tai – Ji. Un giovane occidentale appoggiato al proprio zaino guarda il sorgere del sole, mentre una coppia, forse in attesa di raggiungere il proprio ostello, si scambia effusioni. Sopra di me sventola una sequenza di bandiere laotiane intervallate da bandiere rosse con la falce ed il martello. Rientro in hotel per chiudere le valigie e fare una colazione molto scarna, devo dire, quindi usciamo per un giro della città percorrendo il lungofiume ed addentrandoci nelle viuzze interne. Visitiamo l’essenza della quotidianità mattutina locale, alle bancarelle intente a friggere, arrostire e cucinare; ci prendiamo un succo e della polpa di cocco per rinfrescarci.

Alle dieci prendiamo un tuc tuc (50.000 kip) e raggiungiamo l’aeroporto per il trasferimento a Xieng Khouang. Il terminal dei voli nazionali è sottoposto a lavori, e transitiamo nella piccola stazione in mezzo alle auto che ci sfiorano i trolley. Il volo parte in orario con un ATR 72 turboelica, e dopo mezz’ora atterriamo in mezzo al nulla: abbiamo risparmiato mezza giornata di autobus. I bagagli raggiungono il “terminal” su due carrelli trainati da un trattore, e disposti sul marciapiedi per la consegna ai legittimi proprietari. Avvenuta la registrazione all’ufficio immigrazione nel piccolo edificio che funge da tutto, prendiamo un taxi che ci conduce a Phonsavan alla Guesthouse Kong Keo (dai nomi dei due fratelli che la gestiscono), dietro il mercato. Piccolo malinteso al momento del check in. Kong mi guarda di cagnesco quando mi vede con una giovane ragazza dai tratti asiatici: la struttura non dispone di camere triple e mi ci vuole un poco a far capire a Kong che si tratta di mia figlia, e che ho prenotato due camere. Finalmente, raggiunti da mia moglie, e dopo aver consultato e avuto conferma da un libro mastro di proporzioni abnormi, tutto si chiarisce con un largo sorriso e pacche sulla spalla. Ad ogni buon conto faccio assegnare una camera alle due donne: io dormirò da solo. Anche questa pensione è essenziale, senza colazione, ma i proprietari sono molto disponibili e propongono varie visite guidate. Prenotiamo (850.000 kip in tre) il pulmino per la visita ai tre siti della piana delle giare per domattina, pranzo incluso, e cerchiamo un ristorante per il pranzo. Phonsavan fondamentalmente è una sola via nella quale si concentra tutto quello che c’è, gestito principalmente da una folta comunità vietnamita, ma dove spicca il ristorante italiano del sig. Usai (!). Pranziamo dunque in un ristorante vietnamita (Simmaly) in fondo alla via e passiamo il pomeriggio visitando il centro UXO, dove lasciamo un contributo per la realizzazione di protesi in favore delle sfortunate vittime delle mine, quindi ci dirigiamo al mercato, che è sempre un’esperienza da non perdere. Decidiamo di prenderci un caffè e ci fermiamo all’angolo dove si svolta per entrare nel mercato. Dopo un minuto eccoci serviti con due bevande con uno strano colore che svela la presenza di latte non richiesto. Mi accingo a chiamare la proprietaria quando la mia attenzione viene catturata da un qualche cosa che galleggia in superficie: è una mosca. Guardo nel bicchiere di mia moglie e vedo emergere altri due di questi simpatici animaletti: no, grazie, sarà per un’altra volta, e ce ne andiamo. Comincia a cadere qualche goccia di pioggia: riusciamo appena a raggiungere la tettoia della guest house che inizia un acquazzone che ben presto si trasforma in una furibonda, interminabile grandinata. Trascorriamo così un’ora buona a scaldarci attorno ad un braciere ricavato da un contenitore di bombe a grappolo, prima di poter raggiungere le camere. La sera torniamo allo stesso ristorante e ceniamo con meno di 80.000 kip, zuppa di noodles e riso fritto, ompagnato dalla ottima Beer Lao.

31 Marzo

Piana delle Giare. Alle otto e mezza è fissata la partenza, ma un’ora prima siamo in strada per la colazione. Ieri abbiamo adocchiato una panetteria – pasticceria a due passi dalla guest house, e ci sorbiamo caffè vietnamita e dolcetti niente male. La gentilissima commessa ci fa accomodare.

All’orario prefissato partiamo alla volta del sito numero 1. Durante il tragitto notiamo nella nostra direzione verdi colline completamente spoglie di alberi, effetto del famigerato agente arancio, ci spiega il nostro autista; in questa zona c’è stata la più alta concentrazione di bombardamento di tutta la storia della guerra del Vietnam: una azione ogni otto minuti, 365 giorni all’anno per nove anni. Sosta per una visita didattica nel locale adiacente la biglietteria, e breve trasferimento con un mezzo elettrico fino all’ingresso del sito; qui il percorso è segnalato a causa delle mine ancora presenti nel terreno. È presto, poca gente, ed una strana sensazione ci pervade, in questa distesa di giare che giacciono da circa tremila anni in mezzo ai crateri più recenti lasciati dalle bombe. Una, del peso di circa 6 tonnellate, è bellissima, l’esatta fotocopia in pietra di un vaso per la marmellata: ha il rilievo per il coperchio che non c’è.

– “ne troverete pochi di coperchi”, ci ammonisce il nostro autista. “lo spostamento d’aria delle esplosioni li ha fatti volare via e gli spezzoni sono stati usati come materiale da costruzione dalla gente del luogo”.

Riusciamo comunque a vederne qualcuno, di coperchio, interrato e malridotto.

La storia delle giare è ancora sconosciuta, e questo rende ancora più fatato il luogo. Si pensa che siano nate come urne funerarie, ma non si riesce ad ipotizzare da dove vengano e soprattutto come possano essere state trasportate in questi luoghi. Visitiamo una grotta che era adibita ad ospedale da campo, al cui interno prendono posto tanti mucchi di sassolini; sono le preghiere che aiutano i defunti a salire in cielo.

Proseguiamo ora per il sito nr. 3, situato in cima ad una collina dove si giunge transitando per un percorso in mezzo alle risaie asciutte dopo aver attraversato uno sgangherato ponticello di legno. È un posto molto suggestivo; qui, a differenza del sito nr. 1, le giare sono rade e giacciono sotto le piante, e danno un senso di magico. La sosta è breve, e ci dirigiamo al sito nr. 2, dove ci fermiamo per il pranzo. Consueta zuppa di noodles (guardo terrificato il nostro autista che inserisce nella ciotola tutte le salse nauseabonde e le spezie presenti sul tavolo), e visita del sito. La collina a sinistra è con più vegetazione, e fa bella mostra di sé una giara rotta all’interno della quale è cresciuto un albero; la collina di sinistra è più brulla, e conserva giare di diverse fatture. È interessante un raro coperchio che reca in rilievo un corpo animale. Rientriamo a Phonsavan alle 16,30 circa e ci immergiamo nel mercato, dove comperiamo degli eccellenti manghi per rinfrescarci. La sera ceniamo in un ristorantino niente male di fronte alla pasticceria (Bamboozle Restaurant & Bar). È di uno standard superiore alla media locale, ma paghiamo nella media (88.000 kip).

1 Aprile

Luang Prabang. La mattina alle 7,45 ci dirigiamo all’adiacente mercato dove c’è la partenza dei mezzi pubblici (solo minivan, la stazione dei bus è a quattro chilometri), ed acquisto i biglietti per Luang Prabang (150.000 kip pp). È una scelta obbligata, in quanto il trasferimento è solo terrestre, e le alternative sono due: il bus o il minivan. Abbiamo optato per quest’ultimo, che dovrebbe garantire almeno un’ora in meno di viaggio, anche se risulterà essere terrificante per gli sballottamenti curva dopo curva. Siamo gli unici occidentali a bordo, poco abituati al forte odore di aglio che i locali ruminano in continuazione, fra rumorose eruzioni di gas di stomaco. Arriviamo a destinazione alle 15,00 con mia moglie moribonda, dopo aver superato una serie interminabile di monti e qualche migliaio di tornanti. Il paesaggio è stato da cartolina. Al terminal contatto un tuc tuc mentre l’autista scarica dal portapacchi una serie interminabile di scatoloni, stie di polli, borse, sacchi di juta e anche le nostre valigie. Contratto 20.000 kip a testa e partiamo alla volta del Lan Kham Riverside, centro città. Giunti a destinazione, non c’è traccia della nostra prenotazione; mostro la conferma, e spunta fuori un libro mastro da dove non risulta nulla. Guardando attentamente il logo, noto che siamo al Nam Khan Riverside, tuttoda rifare. Chiedo lumi, e mi indicano di proseguire diritto per qualche centinaio di metri: altro Khan Riverside ma non Lan. Sembra che siano tutti Khan, ma del nostro non c’è traccia. Fermo un tuc tuc e gli chiedo di portarci a destinazione. Conciliabolo con altri autisti e finalmente, due dietrofront dopo e due traverse oltre, siamo sul Mekong, l’autista ci aveva condotto sulla riva del Nam Khan, il secondo fiume di Luang P: fine della corsa. Bella sistemazione, interni in legno e terrazza; succo fresco di benvenuto. Via le scarpe per non rovinare il parquet e si sale in camera, decisamente accogliente. Usciamo a visitare la città: Luang Prabang è una città bellissima, adornata di tantissimi templi, praticamente uno in ogni traversa, e bei palazzi di stile coloniale; il lungofiume è una bella passeggiata, oltre che essere il punto di partenza fluviale per varie escursioni. La via principale, sopra di noi, è un’isola pedonale, dove si possono visitare negozi o sedersi ai tavoli degli innumerevoli locali; siamo alla fine del pomeriggio, e cominciano a comparire gli ambulanti che allestiscono il mercato notturno ed i ristoratori di strada. Notiamo il cancello del Museo Nazionale ed il dirimpettaio ingresso della scalinata che conduce allo stupa alla sommità della collina, due escursioni da fare i prossimi giorni. Cambio 100 euro al tasso di uno a 10.000 tondi tondi, e facciamo una passeggiata per il corso. Una giovane ragazza francese intenta a sorbirsi una birra ci indica il locale alle sue spalle con un “delisiosso”, e la prenderemo in parola per la cena. Esagero: mangio un tipico piatto laotiano a base di riso con verdure e tenerissime cotiche di maiale unte e bisunte che sono una delizia; mia moglie opta per un piatto thailandese e mia figlia per salsicce laotiane e riso bollito; con le solite immancabili beer lao e la seven-up totalizziamo 93.000 kip, Giro al mercato notturno, il solito caravanserraglio di miriadi di merci colorate, e poi a letto.

2 Aprile

Luang Prabang. Mi alzo alle cinque e mezza per assistere alla questua dei monaci. Non faccio in tempo a mettere fuori il naso dalla porta appena socchiusa della guest house che vengo letteralmente accalappiato da una donna che mi attacca ai polsi due cestini che contengono riso bollito e verdure lesse.

– “for the monks”, farfuglia, one hundred thousand kip, please.

Ancora mezzo assonnato le allungo la banconota, subito pentito, non per i dieci euro di controvalore, ma per l’enormità della richiesta; ma… tant’è. La seguo poco distante, dove mi fa accomodare ad un crocevia, allestito con tanto di sgabelli, in attesa della calata dei monaci. Molte donne, attrezzate con vettovagliamenti, si contendono i passanti con pressanti richieste: hanno evidentemente creato il loro lucroso business! Lascio la postazione e corro in stanza a svegliare mia moglie per renderla partecipe dell’evento, e stranamente non mi stramaledice ma mi segue; pochi minuti ed udiamo il suono dei gong che annunciano l’uscita dei religiosi per la raccolta delle offerte. Molta gente locale, certamente più devota di noi, occupa la strada e si prepara alla questua, che in un ambiente di estremo silenzio assume un’aurea di misticismo. Tutto sommato è stata un’esperienza toccante.

Rientriamo in camera ed attendiamo il momento della colazione, che viene consumata su di una terrazza sulla sponda del Mekong: ambiente stupendo, ma pasto scarno e frugale che sicuramente va migliorato; non è possibile che non siano presenti quantomeno frutta e succhi tropicali. Sono le otto e ci dirigiamo alla poco distante biglietteria fluviale che ho adocchiato ieri sera per acquistare i biglietti (65.000 kip pp) per il battello che ci condurrà alle grotte di Pak Ou. Alle 08,30 puntuale una flotta di imbarcazioni lascia gli ormeggi, e iniziamo la risalita del fiume per le grotte (circa un’ora e mezzo), con una sosta al Wiskey Village ad uso e consumo dei turisti. Qui un solerte Caronte passa a riscuotere i soldi per i biglietti di ingresso alle grotte (10.000 kip pp); è evidente che anche lui si è organizzato il suo business dividendo a metà con l’addetto alla biglietteria. Con noi gli va male, perché all’arrivo richiederemo ed otterremo i tagliandi, anche se a denti stretti. Le grotte sono due, una alla sommità ed una alla base dello sperone roccioso; avevo letto che la grotta inferiore non è niente di che, invece devo dire che non ha nulla da invidiare a quella superiore. Quest’ultima è particolare, più vasta ed in un ambiente buio visitabile con l’ausilio di torce, ma in entrambe la moltitudine di statue ammassate le une sulle altre sono uno spettacolo.

Il pomeriggio facciamo l’ascensione al Monte Phusi (ingresso 10.000 kip pp) lungo la ripida scalinata di fronte al Museo Nazionale. Dalla cima si gode una splendida veduta del paesaggio sottostante. Visitiamo lo stupa ed iniziamo la discesa lungo il percorso opposto alla salita, transitando attraverso vari luoghi di culto, fra cui l’impronta del piede di Buddah, ed alla fine sbuchiamo nella via principale passando per il cortile del Wat Siphoutthabat Thippharam.

Rientriamo in camera per una rinfrescata, quindi, con una bella passeggiata risalendo il corso del lungofiume, raggiungiamo il Wat Xiengthong (ingresso 20.000 kip pp), sicuramente il complesso più bello della città. L’albero della vita (a mosaico) che decora la parete esterna opposta all’ingresso del tempio principale vale da solo una visita. Molto bello anche il Buddah disteso e le decorazioni interne. Usciti dal complesso ci dirigiamo verso casa, ma fatte alcune decine di metri ci imbattiamo nel Wat Sikhounmuang, nel momento che iniziano le preghiere serali dei monaci. Ci accomodiamo insieme ad un piccolo gruppetto di fedeli ed assistiamo alla funzione, una nenia di cantilene diretta dal monaco più anziano cui fanno da contorno otto o dieci novizi.

La sera ceniamo all’angolo della strada che divide dal Museo Nazionale: piatto fisso, zuppa di noodles. Una giovane ragazza riempie le ciotole attingendo da un pentolone in costante ebollizione da dove preleva gli spaghetti di riso che ha precedentemente messo a cuocere; aggiunge le verdure fresche con le quali si rinvigorisce la zuppa, e la cena è servita a 15.000 kip.

3 aprile

Luang Prabang. Questa mattina come odo i rintocchi del gong balzo dal letto e mi precipito in strada per filmare la processione dei monaci. Appena fuori dal portone, che a quest’ora è già spalancato, mi sbatto con la solita aitante signora in cerca di clienti per la questua dei monaci, ma garbatamente la scanso e mi piazzo in postazione. Da una miriade di edifici religiosi, praticamente sparsi ad ogni angolo di ogni via, esce la colonna dei monaci in fila indiana, con le loro sporte sotto il braccio e nel più totale silenzio. Solo a questo incrocio ne sono transitate tre, ed in tutta la città è un susseguirsi di tuniche color zafferano.

Dopo colazione partiamo per le cascate di Kouang Si, con un pulmino prenotato nella Guest House e riempito dai vari alberghi. Il prezzo è molto onesto (50.000 kip pp), più economico e più comodo rispetto a quanto propostomi ieri con discesa lungo il fiume. Le cascate sono uno spettacolo unico, e consiglio vivamente di percorrere il tragitto nella foresta che costeggia il salto principale. È preferibile giungere presto sul luogo, in quanto le piscine vengono prese d’assalto da orde di Koreani vocianti ed invadenti che si appropriano di tutti gli spazi. Il centro di recupero degli orsi secondo me non ha senso di essere visitato, perché mette queste bestie a contatto con esseri che andrebbero evitati, essendo la causa delle loro disgrazie.

Il pomeriggio visitiamo il Museo Nazionale, dove per la prima volta (e unica in tutto il viaggio) ho a che fare con una persona maleducata, un corpulento donnone sgraziato ed isterico posto alla biglietteria, che evidentemente è entrato in pieno nella parte del Padreterno in virtù del potere conferitogli. Va al diavolo.

Dulcis in fundo, non leggo gli avvisi e ci dirigiamo diretti al museo senza transitare al deposito dove devono essere riposti tutti gli effetti personali; logica conseguenza è il dietro front. Ricordatevene, oltre alla tenuta di un abbigliamento consono al luogo. Abbiamo pagato 5000 kip per il nolo di un indumento con il quale coprire le gambe di mia figlia, lasciandone 50.000 di cauzione.

Interessante il museo, molto bella la Pagoda all’ingresso e la serie di auto del Monarca. Sorrido osservando che l’ultima, una Citroen DS, è stata spogliata di qualsiasi accessorio utilizzabile come pezzo di ricambio. La crisi fa fare questo e altro, evidentemente. Terminata la visita ci dirigiamo dall’altro versante in direzione opposta al Mekong, dove arriviamo sulla sponda del Nam Khan, l’affluente che si immette nel grande fiume ad ovest: ci preme attraversare uno sgangherato ponte in bambù che abbiamo visto dalla sommità del monte Phusi. Da questa parte la città diventa completamente anonima, e torniamo indietro concedendoci un assaggio di spring rolls ad una bancarella, per poi sistemarci ad ammirare il tramonto sul fiume seduti sulla terrazza della Guest House. La sera ceniamo in un vicoletto in fondo alla strada, in prossimità della rotatoria, dove mangiamo un pesce alla brace e spiedini di carne.

4 Aprile

Pakse. Dopo la colazione prenoto un tuc tuc alla reception e ci dirigiamo all’aeroporto per il volo per Pakse, il capoluogo del sud del Paese. Arriviamo a mezzogiorno e mezzo, e prendiamo il taxi all’apposito bancone sulla destra all’uscita. 60.000 kip per portarci al Phi Dao hotel, appena superato il ponte francese dentro la città. Pakse non è un bel posto, è anonimo, per la prima volta osservo costruzioni di cattivo gusto; neanche il clima è gradevole, umido e afoso. È stata però una scelta obbligata per poter visitare questa parte del Paese alla quale tenevamo, in particolare l’altopiano di Bolaven ed il tempio Khmer di Champasak. Dopo un pranzo consumato sotto la veranda dell’hotel, cerchiamo di far passare il pomeriggio; iniziamo con la visita al Wat Luang, che è due passi, e molto bella è la struttura originaria visitabile solo dall’esterno, ora adibita a scuola di cultura e canto buddista. Attraversata la strada diamo un’occhiata alla facciata del Palazzo della Congregazione Cinese, e poi ci dirigiamo, sotto un sole non proprio tiepido, lungo il viale che ci conduce al Wat Tham Fai, complesso molto vasto e bello anche se parzialmente in rovina. Alcuni edifici sono chiusi. Rientriamo in hotel per una doccia, poi rimaniamo spiaggiati sui letti in attesa della sera. Tutto intorno a noi è un susseguirsi di ristorantini etnici, vietnamiti, malesi, indiani, indonesiani e chi più ne ha ne metta, occupati dagli amanti dello zaino, che socializzano fra di loro; noi ceniamo in albergo, dato che il cibo ha un giusto prezzo ed è cucinato bene. Inorridisco osservando al tavolo di fianco due Koreani alle prese con piatto di pseudo – spaghetti alla bolognese: portano alla bocca la pasta ed aspirano rumorosamente gli spaghetti schizzando sugo a destra ed a manca. Non posso sopportare oltre questo scempio: mi alzo e tolgo la forchetta dalle mani di quello a sinistra, quello più maldestro.

– “scusa Ciccio, sono Italiano, guarda, si fa così!”

Mi aspettavo una reazione, invece questo congiunge le mani a preghiera e comincia a dondolare il capo avanti e indietro in segno di ringraziamento, meno male. Il risultato è comunque che ora porta alla bocca rotoli impressionanti di spaghetti fino quasi a congestionarsi.

Dopo cena facciamo una capatina al vicino “centro commerciale”, niente di che, poi a nanna.

5 Aprile

Pakse. Alla vicina agenzia, al di là della strada, acquisto tre biglietti (150.000 kip pp) per un giro all’Altopiano di Bolaven, che comprende fra l’altro le cascate e le piantagioni di caffè che tanto mi interessano. La partenza è alle nove, ma sono ormai quasi le dieci quando abbiamo compiuto il giro di tutti gli alberghi e guest houses. Iniziamo con la visita delle cascate (doppie) di Tat Fan, con il salto di oltre 120 metri che compare quasi per incanto dal folto della vegetazione. Favoloso scatto da un eccellente punto di osservazione. Breve sosta e partenza per le piantagioni di thè e di caffè dell’altopiano. Finalmente posso toccare con mano ed osservare le bacche nelle diverse colorazioni, dal verde e rosso sulle piante al color nocciola, marrone e nero dopo tostatura. Naturalmente mi tolgo lo sfizio di prendere un caffè, anche se rimango un poco deluso: mi aspettavo una preparazione tipo “a caduta” sullo stile vietnamita, invece mi viene servito un espresso (buono, nulla da eccepire) confezionato da una macchina Saeco! Faccio il pieno (Arabica e Robusta, rigorosamente in chicchi) e si riparte. Se siete amanti del caffè non lasciatevi sfuggire questa occasione, al rientro il profumo intenso della bevanda vi farà ricordare con non poca nostalgia questi luoghi. Visitiamo ora un villaggio di una minoranza etnica, passeggiando in mezzo a distese di chicchi di caffè messi ad asciugare, cani e porci (nel senso letterale), gioiosi bimbi e gente intenta alle proprie attività. Mi stupisco nel vedere giovanissimi ragazzini tirare ampie boccate di fumo da pipe grosse quasi quanto loro; non droghe, ma scorze di chicchi di riso, verrò a sapere.

All’ora di pranzo facciamo sosta a Tad Lo, un’altra scenografica cascata dove è uno spettacolo vedere le evoluzioni dei bimbi locali nelle piscine naturali. Nel pomeriggio visitiamo il villaggio di Ban Huy Houn, noto per le tessitrici, e terminiamo il giro alle cascate di Phasuam. Sono due, diametralmente opposte; a destra, inoltrandosi in un percorso che conduce ad una struttura ricettiva in stato di abbandono, c’è quella minore. A sinistra, transitando per un ponte di bambù veramente simpatico, si raggiunge la seconda, il cui effetto scenico è migliore della prima.

A onor del vero, con il senno del poi, non rifarei questa esperienza. Da anni ormai non sono più abituato e questo tipo di escursioni, troppo turistiche. Meglio muoversi diversamente, magari contrattando un’auto per chi non può utilizzare il motorino, come nel nostro caso. Per usare i mezzi pubblici non la fate tanto facile, perché gli autisti spesso non parlano inglese e diventa difficile spiegare dove farsi scendere. La cascata di Tat Fan merita sicuramente una visita, come pure una sosta in una delle tante piantagioni, ma se avete modo di organizzarvi, lasciatevi portare dove vi porta il vostro mezzo e fermatevi al bisogno.

 

6 Aprile

Pakse. La mattina presto, dopo colazione, mi dirigo nuovamente all’agenzia e chiedo per tre biglietti per Champasak, in quanto vogliamo visitare il tempio Khmer di Wat Phou. Ieri sera ho sentito due altri noleggi: 50 – 55.000 kip a tratta, compreso il traghetto. Poi tuc tuc fino alle rovine, che distano qualche chilometro dal centro abitato. Lo sveglio gestore capisce al volo:

– Vai al tempio? Ti ci porto io, ti aspetto e ti riporto indietro dopo pranzo. 50.000 kip a testa a tratta.

Va bene, andiamo. Dividiamo il mezzo con due signore canadesi ed un uomo francese che si fermerà a Champasak. Non ci sarà traghetto, passiamo il ponte sul Mekong e prendiamo la strada che conduce al confine, per poi svoltare a sinistra e raggiungere la città (meriterebbe una breve visita) e di li a poco il complesso archeologico. Il biglietto è il più caro fin qui pagato, 50.000 kit e comprende il trasferimento con la navetta elettrica e l’ ingresso al piccolo museo.

Il complesso è molto bello, anche se avrebbe bisogno di uno sforzo sovrumano per rimetterlo in sesto. Alla base i due Baray, i laghi, seguiti da due costruzioni simmetriche rettangolari rimesse in quadro da renderne l’idea, quindi inizia, dolce per diventare sempre pi ripida, l’interminabile scalinata che conduce alla sommità del monte sacro, simbolo fallico di Shiva. Sul primo terrazzo fa bella mostra di sé un corpulento guardiano in pietra, adornato e vestito a festa, dove sostano i fedeli per una preghiera. Ora le scale diventano impegnative, anche se la vegetazione di due file di frangipani che fanno da ali riparano dal sole che comincia a picchiare. Raggiunta la cima, la visuale sulla valle è meravigliosa. Ora vale la pena di perderci un poco di tempo. Oltre il santuario, alle sue spalle, sulla parete rocciosa è stata scolpita una Triade Indù molto bella, mentre a sinistra ancora sgorga l’acqua dalla sacra sorgente. Sopra la Triade, a destra, si può raggiungere l’impronta di Buddah, scolpita nella parete. Non è facile scovarla, ma mi accompagna uno sveglio ragazzino che mi chiede come compenso il mio affezionato cappello. Dopo vari anni di onesta compagnia (lo porto solo nei viaggi) lo cedo volentieri a questa simpatica creatura. Lasciata quest’area e spostandosi a destra, seguendo le indicazioni, si possono ammirare la stupenda pietra dell’elefante, magnificamente intagliata, mentre a sinistra, più internata, con un poco di fatica si scova quella del coccodrillo, a mio avviso opera incompiuta. Praticamente siamo soli, e solo iniziando la discesa iniziamo ad incrociare le prime vocianti comitive; anche oggi è andata di lusso. Nella piana visitiamo il museo, più interessante nella parte didattica che in quella dei reperti, e alle 13.00 raggiungiamo il minivan per il rientro. Pranziamo a Champasak su una splendida terrazza sul fiume, mangiando riso fritto e rinfrescandoci con una ottima Beer Lao ghiacciata, quindi torniamo a Pakse, dove ci facciamo lasciare all’ingresso del complesso del Nuovo Mercato. Mi rimane il dubbio che forse valeva la pena di fermarsi a visitare la città e rientrare con un altro mezzo.

Al di là dei soliti colori e della gente di svariate etnie, il mercato, immenso, è a misura della gente del posto, è quindi un occidentale non trova quasi certamente oggetti di interesse. Montagne di oro di bassa caratura fanno da biglietto da visita all’entrata, ma la qualità è decisamente bassa. Gironzoliamo comunque in mezzo a queste scene di vita, ma quando entriamo nel reparto alimentare decidiamo di abbandonare l’impresa: un puzzo nauseabondo ci assale, provocandoci conati di vomito. In due enormi tinozze sono stati messi a macerare una moltitudine di pesci di piccola pezzatura, e a giudicare dallo stato di decomposizione saranno lì da almeno qualche giorno; una donna di mezza età rimesta il tutto con una pagaia. Il sole picchia, ed il caldo fa il resto: battiamo in ritirata e rientriamo in albergo con una bella sudata. Fermo un tuc tuc che mi accorgo essere occupato; l’autista ha la pretesa di fare scendere la giovane donna per fare posto a noi, e decisamente rifiutiamo.

La sera decidiamo di uscire per mangiare in uno dei tanti ristoranti etnici, ma un improvviso nubifragio ci fa desistere dal proposito. Concludiamo in hotel così come abbiamo iniziato.

7 Aprile

Vientiane. La mattina chiudiamo le valigie e ci prepariamo per la partenza. Abbiamo il tempo di fare una passeggiata, e gironzoliamo fino al fiume, transitando per il centro commerciale (nulla di che nemmeno di giorno), l’ospedale e la chiesa cattolica, curiosa: il Cristo ha un mantello tricolore, blu, bianco e rosso. La chiesa è particolare, con le pareti dipinte di scene dei Vangeli ma con personaggi dei nostri giorni. All’esterno la grotta di Lourdes. Alle 11,00 prendiamo un tuc tuc in attesa di clienti dall’altra parte della strada e raggiungiamo l’aeroporto per prendere il volo che ci riporterà a Vientiane. Una volta giunti a destinazione, alle 14,00, cerchiamo di parcheggiare i bagagli, perché abbiamo il volo di rientro alle 21,00 e non vogliamo sprecare il pomeriggio. Ci dirigiamo all’adiacente terminal internazionale, e chiedo di un deposito bagagli: niente da fare, per ragioni di sicurezza. Il check in apre alle 19,00 e fino a quell’ora ti arrangi. Prendiamo un taxi e ci facciamo condurre all’Ali Hotel, quello della prima notte; l’intenzione è quella di prendere una camera “ad ore” a prezzo ridotto. Il gentilissimo proprietario si ricorda di me e mi fa lasciare i bagagli senza problemi e senza addebito. Mi chiede se ho bisogno il trasferimento in aeroporto, e pago subito i 50.000 kip fissando l’appuntamento per le 20,00. Liberi e spediti ci dirigiamo, nel noto percorso, alla volta del Wat Si Muang, il tempio più caro agli abitanti della città. Ci lasciamo alle spalle i tanti templi già visitati, e giungiamo al “Pillar”, il Santuario che racchiude il “Pilastro” della nascita della città, ma che purtroppo è chiuso. Cento metri a sinistra si trova il tempio, ingresso libero, da vedere. Questo luogo conserva un pilastro fallico (con molta immaginazione) che rappresenta il simbolo di Vientiane. Molti fedeli in preghiera, spesso benedetti in gruppo dai monaci. Il complesso è vasto, occupato da più costruzioni, ed anche gli esterni meritano attenzione. La temperatura è gradevole, e passeggiare è una delizia. Cambio 5 (cinque) euro giusto per avere qualche soldo in tasca, e ci dirigiamo al mercato sul fiume, visitando strada facendo l’ennesimo tempio (ho perso il conto). Alle bancarelle compriamo due paia di leggerissimi pantaloni per le mie donne, molto belli, a 10 e 15.000 kip e qualche pensierino per le colleghe di mia moglie. Sono le 18,00 e cala la sera; decidiamo di cenare. Torniamo al locale del primo giorno e prendiamo due piatti di riso ed una zuppa, una birra e due bottigliette di acqua: 40.000 kip. A questo punto torniamo al mercato, che è tutto in fermento: è in atto il festival laotiano del caffè 2018. Sorseggiamo ottimi caffè nelle più disparate preparazioni (mi inorgoglisco, ma rifiuto gentilmente una tazza di Illy!) e ci soffermiamo sotto il palco dove musicisti e danzatrici in abiti tradizionali si cimentano in spettacoli folkloristici. Ho ancora i soldi per comprare una busta di caffè Dao (e mi ci regala pure la tazza) e lasciare gli ultimi spiccioli in elemosina ad uno dei pochi mendicanti trovati.

Con leggero anticipo e a malincuore prendiamo la via dell’aeroporto, dopo aver salutato e ringraziato il gentilissimo proprietario.

Facciamo il check in e spediamo all’ultimo secondo le cartoline che rischiavamo di portarci a casa, e aspettiamo l’ora nel piccolo ambiente di imbarco pieno di gente asiatica. L’aereo è in ritardo, ma finalmente si sale a bordo, su un A330 semivuoto. La francese dietro di me continua ad agitarsi e a sbattermi il sedile: sopporto sentendone il respiro affannoso. Ad un certo punto mi sento afferrare una spalla e chiedermi con voce mozzata:

-excuse me, are you sure that is this the fly to Bangkok?

La guardo stralunato. Certo!

-Ma, farfuglia, la sala era piena di gente, dove sono ora?

Sto per risponderle che saranno andati a farsi i caxxxcci loro, quando interviene la giovane inglese del sedile laterale:

– C’erano due voli per la Korea, erano tutti Asiatici, non hai visto?

Apparentemente si rilassa, ma sono convinto che sta pregando.

Comunque non c’è più tempo, l’aereo si muove e si porta in pista, poi comincia a rullare e quindi decolla.

Non sono triste, sono felice.



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