Una “Corte dei Miracoli” sotto il cielo iracheno

Parole, rime, ritmica, ma chi lo dice che la poesia debba essere compresa? A volte la poesia non si può ascoltare, ma si può sentire, quando addirittura non vedere. Io l’ho vista una volta. L’ho vista di notte, sulla strada che da Baghdad mi riportava verso Amman, e quindi verso casa. L’ho vista nell’unico posto di ristoro allora...
Scritto da: Luigia Storti
Parole, rime, ritmica, ma chi lo dice che la poesia debba essere compresa? A volte la poesia non si può ascoltare, ma si può sentire, quando addirittura non vedere.

Io l’ho vista una volta. L’ho vista di notte, sulla strada che da Baghdad mi riportava verso Amman, e quindi verso casa. L’ho vista nell’unico posto di ristoro allora esistente tra la capitale irachena e la frontiera giordana, quella sorte di moderno caravanserraglio che già dal nostro primo viaggio avevamo battezzato “la corte dei miracoli.” Ed era proprio una corte. Una serie di costruzioni basse di cemento riparate da portici, che facevano ala ad un vasto spiazzo dove ci si fermava tutti. C’erano i camionisti che trasportavano petrolio, e che solo in quel luogo potevano unirsi ai comuni viaggiatori, obbligati com’erano a viaggiare per tutto il tragitto verso la frontiera sull’autostrada parallela destinata al traffico pesante. C’erano pellegrini pakistani che per giorni si erano battuti il petto nelle sacre moschee sciite di Najaf e Kerbala, invocando Ali e ricordando la morte dei suoi figli Hussein ed Hassan.

C’erano distinti, misteriosi ed eleganti uomini di varie nazionalità che viaggiavano da soli, magari pensando al lucroso affare appena concluso a Baghdad. C’erano religiosi con il capo coperto dal turbante, figure ieratiche che sembravano solo sfiorare il terreno camminando, i piedi nascosti dalle lunghe vesti. C’erano autobus pieni di giovani di chissà quale paese, che scendevano assonnati a sgranchirsi le gambe, e con la mente ancora rivolta allo spettacolo da essi rappresentato in uno dei teatri all’aperto della mitica Babilonia. C’erano famiglie intere che improvvisamente apparivano uscendo da vecchie macchine arrugginite che sembrava potessero ospitarne solo la metà, e che viaggiavano forse per tentare di ricostruirsi una vita altrove, o forse per accompagnare un ammalato verso le cure e gli ospedali che il proprio paese non poteva più offrire. E poi c’eravamo noi, in pochi e quasi sempre gli stessi, che cercavamo con le scuse più banali di prolungare la sosta a dispetto dell’autista sempre frettoloso, consci come eravamo che il nostro viaggio stesse finendo ancora una volta.

E così, scesi dall’auto, in pochi come eravamo, riuscivamo a disperderci in quella corte. Chi andava a bere ancora un istikan chai, l’ottimo, bollentissimo e speziato the iracheno servito in piccoli bicchieri di vetro, chi decideva di rischiare mangiando qualcosa nel ristorante lercio e squallido, le tovaglie di plastica, le sedie di ferro, ed alle pareti stravaganti foto di paesaggi montani di chissà dove. Si potevano comprare i datteri alla “corte dei miracoli,” i datteri iracheni, i migliori datteri del mondo, che niente hanno a che vedere con quelli che ancora per tradizione adornano molte tavole italiane a Natale. Un anno ci è capitato di comprarli e tornando verso l’auto con i pacchetti in mano, di accorgerci di quanto assurdi essi fossero se paragonati alle enormi ceste piene di quelle delizie che l’autista ci aveva imposto come ingombranti compagni di viaggio. Non c’era molto altro da comprare, né lì né nel resto del paese, l’embargo aveva strangolato l’economia, ed allora si poteva gironzolare per cercare di cogliere gli ultimi odori che ci sarebbero rimasti addosso fino a quando il nostro cervello avesse voluto continuare a percepirli. Il forte odore della benzina ed il distante ma onnipresente odore del greggio, gioia e dolore del paese, la sua ricchezza e la sua morte. Odore di carne cotta alla brace, crema di ceci e melanzane, cetrioli e miele, sigarette forti e motori ormai alla fine. Odore di ricchezze inaccessibili e povertà tangibile. L’odore delle capre e delle pecore che indisturbate pascolavano in un piccolo recinto, i loro padroni lì a fianco a godersi un barbecue notturno prima di ripartire.

Oppure, ed era proprio quello che tutti noi cercavamo di fare, ci si sforzava di fissare in ogni spazio libero della mente qualsiasi frammento di immagine che i nostri occhi potessero cogliere. E’ strano, ma ora, a guardare le foto scattate in Iraq nel corso degli anni mi rendo conto di quante poche io ne abbia della “corte dei miracoli.” Era come se arrivati lì, sapendo che ormai solo i controlli alle due frontiere ci separavano dal distacco, volessimo smettere di immortalare scene da mostrare agli amici e conservare quei momenti di tristezza solo per noi che li condividevamo. Ecco perché non ci sono foto della poesia che ho visto quella notte, quella notte coperta di stelle sul piatto orizzonte del pietroso deserto iracheno.

Nello spiazzo davanti alla corte, tra auto, camion, capre e persone, qualcuno aveva messo dei letti. Dei semplici letti di ferro con le reti protette da luride coperte di ruvida lana. Su un letto un ragazzo. Le gambe stese e la schiena appoggiata alla testiera accostata ad una delle colonne del porticato da cui pendeva sconsolata una lampadina dalla luce fioca.

In mezzo al chiasso ed alla confusione, con poca luce e solo molte stelle, quel ragazzo leggeva. Non so che libro avesse in mano, quale fosse l’argomento che lo faceva sembrare solo in mezzo a noi tutti. Vedevo solo il suo profilo e le sue labbra muoversi seguendo le righe: vedevo la poesia.

Tutta la poesia di un popolo che aveva visto atrocità, guerre, fame, malattie e morte, ma che era ancora capace di trovare pace nelle parole. Quella poesia che non ha lingua, e che ho visto molte altre volte in Iraq, in mille volti ed in mille sorrisi, in mille sensazioni ed in mille affetti, quella poesia che ho paura, ora, di non rivedere più, coperta, nascosta, sopraffatta dal dolore infinito della ennesima guerra.



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