La via degli Dei. Bali

Indonesia-BALI LA VIA DEGLI DEI Testo di Manuela Fiorini. “Fede e Armonia”, penso sia questo il binomio con cui poter riassumere la società balinese. La loro complessa teologia fatta di molteplici personificazioni e manifestazioni della stessa divinità suprema, Sanghyang Widhi, si riflette nella vita quotidiana, attraverso una devozione...
Scritto da: Manuela Fiorini 1
la via degli dei. bali
Partenza il: 11/02/2003
Ritorno il: 21/02/2003
Viaggiatori: in coppia
Spesa: 500 €
Indonesia-BALI LA VIA DEGLI DEI Testo di Manuela Fiorini.

“Fede e Armonia”, penso sia questo il binomio con cui poter riassumere la società balinese.

La loro complessa teologia fatta di molteplici personificazioni e manifestazioni della stessa divinità suprema, Sanghyang Widhi, si riflette nella vita quotidiana, attraverso una devozione che accompagna le persone dalla nascita fino alla morte. Per la nostra mentalità occidentale, risulta incomprensibile come una religione con un pantheon così fornito di dei possa considerarsi monoteista. Tuttavia, basta passare un po’ di tempo a contatto con i balinesi per comprendere come tutto si incastri perfettamente in questa logica.

La prima tappa del nostro itinerario, che ci avrebbe consentito di vedere da vicino i più importanti luoghi di culto dell’isola, inizia con una sosta al tempio di Pura Besakih, il grande Tempio Madre. L’occasione è propizia. In questi giorni si sta svolgendo la cerimonia dell’anniversario di quel tempio, l’odalan, che coinvolge gli appartenenti alla terza casta, i Wesia. La società balinese, così come quella indiana, è ancora divisa in caste. La prima casta, quella dei bramini, è formata da coloro che officiano le cerimonie religiose, in una parola, i sacerdoti. Queste alte personalità sono considerate purissime e sacre, poiché sono il tramite tra gli uomini e gli dei. Essi non lavorano, ma vivono delle offerte che i fedeli recano al tempio. La seconda casta, i Satria, comprende i militari e gli uomini politici. I Wesia, i commercianti e gli artigiani, costituiscono la terza casta, mentre i Sudra, i contadini, rappresentano circa il 90% della popolazione e sono inquadrati nell’ultima casta. Tuttavia, a differenza di quanto accade nella società indiana, il sistema delle caste prevede la possibilità di passare da una all’altra. Le donne assumono sempre la posizione sociale del marito, che sia di una casta superiore o inferiore. In questo ultimo caso, dal momento che le famiglie non si dimostrano molto accondiscendenti nel dare la mano di una ragazza ad un uomo di una casta più bassa, si ricorre ad un metodo che molto assomiglia alla nostrana fitina, oppure il futuro marito paga una cospicua dote ai genitori della fanciulla da impalmare.

Arcana, la nostra indispensabile guida, ci spiega che i balinesi, fin da piccoli, imparano quattro lingue differenti, poiché devono essere in grado di comunicare con persone di rango differente, riconoscibili attraverso il complesso sistema della nomenclatura. E’ sempre la persona di casta inferiore che deve usare il linguaggio del suo interlocutore socialmente più elevato. Penso che, a questo punto, sia più saggio sforzarsi nell’imparare qualche parola di indonesiano, che è la lingua ufficiale dell’isola, piuttosto che rischiare di ferire la sensibilità di qualcuno utilizzando termini non adatti alla sua posizione sociale. Tutto questo ci veniva spiegato da Arcana, la nostra fedele guida, mentre salivamo a piedi la lunga scalinata che ci conduceva al Tempio Madre, il più sacro di Bali, non solo perché racchiude le più antiche manifestazioni della religione Indù-Balinese, ma anche perché, nei suoi cortili interni, sono presenti circa 200 tra templi minori e altari. Fondato nel XIV secolo, questo santuario è stato ingrandito nel corso dei secoli con altre costruzioni, fino a raggiungere le dimensioni attuali. Tuttavia, ciò che conferisce a Pura Besakih l’intima sacralità che gli è universalmente riconosciuta, è la sua posizione privilegiata, alle pendici del vulcano Gunung Agung. I balinesi hanno fatto dei luoghi elevati le sedi predilette delle divinità che, di tanto in tanto, scendono sulla terra durante le cerimonie religiose. E dire che, durante l’ultima esplosione, nel 1963, questa mistica montagna ha ucciso più di mille persone e distrutto centinaia di abitazioni. Da allora gli abitanti non hanno mai smesso di fare offerte e di abbellire questo tempio per chiedere scusa agli dei adirati. Nel santuario di Pura Panataran Agung, la parte più sacra del tempio, sono presenti i caratteristici meru, torri a gradini che ricordano le pagode cinesi, elevati per sentirsi più vicini alle divinità. Mentre saliamo, siamo affiancato da uomini, donne e bambini che recano in testa coloratissime ceste per le offerte. Sono colme di frutta, cibo e fiori. Le donne indossano variopinti abiti di broccato, mentre i bimbi sono vestiti di bianco e portano sulla fronte, come simbolo rituale di abbondanza, alcuni chicci di riso bollito. Gli uomini hanno sul capo il caratteristico udah, un copricapo a forma di aureola che serve per racchiudere il pensiero-bene ed elevarlo agli dei. Tutti portano in vita una fascia colorata, ne viene data una anche a noi. “Serve per separare la parte pura, dalla vita in su, da quella impura, che noi dobbiamo coprire” – ci spiega la nostra solerte guida. La folla che continua ad affluire al tempio sembra un grande fiume colorato. I cesti con le offerte sono deposti sugli altari. Arcana ci spiega che il cibo, una volta benedetto con l’acqua dai sacerdoti, viene riportato a casa dalle famiglie e consumato tutti insieme.

La nostra visita è interrotta da un acquazzone tropicale. Sembra che qui tutti siano abituati a questi rovesci, sanno già dove ripararsi, sotto tende improvvisate o sotto gazebo di foglie di palma. Noi risaliamo in fretta sul nostro pulmino, dove il solerte e silenzioso Dewa ci attende per ripartire verso la nostra prossima destinazione: Gunung Kawi, il tempio della Tomba Reale.

I RE SCOLPITI NELLA PIETRA Seguiamo il corso del fiume Pakrisan, che si addentra in una fitta vegetazione tropicale. Lungo il percorso, tra ponticelli sospesi, palme imponenti e frutti dell’albero del pane, incontriamo molti piccoli templi dedicati alla divinità fluviale. Continuiamo a camminare lungo un sentiero che diventa sempre più stretto e fangoso. I lati della collina assumono la forma di una complessa terrazza, dove riusciamo a scorgere i primi germogli delle piantine di riso. Il paesaggio si apre e colpisce lo sguardo con il suo verde intenso. Ad un tratto, nella parete della montagna, immersi nella jungla, spuntano cinque gigantesche strutture che sembrano nascere dalla montagna.

“Sono candi” – ci spiega Arcana – Vogliono commemorare gli antenati dell’ultimo re della dinastia Udayana. Il culto degli antenati reali ha avuto origine nel IX secolo, quando re, regine e loro consorti venivano deificati. Un tempo si credeva che i candi fossero luoghi di sepoltura dei monaci, solo successivamente si è scoperto che avevano una funzione prettamente celebrativa”.

A questo gruppo principale di cinque monumenti, se ne aggiungono altri quattro, situati nella parte ovest rispetto al fiume ed un unico candi isolato a Sud della Valle, dedicato ad un alto ufficiale dell’esercito del re. E’ davvero sorprendente. Penso che queste misteriose costruzioni giacciono qui da centinaia di anni, immersi in una jungla che, nonostante i mutamenti, rimane sempre uguale a se stessa, mentre il silenzioso fiume continua a scorrere.

Ripercorriamo a ritroso il sentiero immerso nel verde e, con ancora nella mente le immagini dei grandi re scolpiti nella pietra, ci incamminiamo verso la nostra ultima tappa della giornata.

IL MISTERO DELLA GROTTA DELL’ELEFANTE Goa Gajah è stata scoperta solo nel 1922, ma la sua costruzione viene fatta risalire al XI secolo.

Entriamo in quello che sembra un grande parco, scendiamo una scalinata e ci soffermiamo ad osservare quello che ci viene detto essere un teatro nel quale avvengono i combattimenti di galli in occasione delle feste religiose. Nel mezzo di un ampio spiazzo si trovano due enormi vasche, in ognuna delle quali stanno tre doccioni a forma di figura femminile, forse ninfe o divinità fluviali, che gettano acqua nelle fonti sacre. La grotta ha la forma di un viso mostruoso dall’enorme bocca spalancata. Alcuni studiosi l’anno collegata alla figura del dio Shiva, altri ritengono invece che si tratti della strega Rangda. Intorno al viso scolpito nella pietra si trovano fini cesellature della pietra che rappresentano figure che sembrano fuggire nell’intricata vegetazione, animali ed onde che conferiscono a questa magnificente opera un intrinseco e affascinante dinamismo. La figura mostruosa sembra voler distogliere i visitatori dal proposito di entrare nella grotta, in una sorta di atteggiamento di protezione nei confronti di qualcosa di estremamente sacro. Decidiamo di avventurarci nell’interno e ci introduciamo nell’inquietante bocca spalancata. Di colpo la luce viene meno. Il corridoio è stretto e umido. Su entrambi lati troviamo delle strette nicchie, che servivano da giaciglio per le meditazioni dei monaci. Arriviamo alla fine del corridoio e ci troviamo in una stanza a T. Alla nostra destra, immerso in un’atmosfera senza tempo, il volto calmo del dio Ganesha, dal volto di elefante, osserva un orizzonte indefinito. Dalla parte opposta si trovano tre lingga, raffigurazione stilizzata della trinità indù. Non è ben nota l’origine di questo tempio. La statua di Ganesha, figlio di Shiva, posizionata all’interno, lo fa risalire ad una setta shivaista, mentre gli elementi decorativi esterni, di chiara matrice buddista, fanno presupporre che il tempio abbia un’origine collegata al buddismo tantrico. TRA LE BRACCIA DELLA DEA DEL LAGO Il giorno successivo spostiamo la nostra purtroppo temporanea residenza balinese a Sanur, l’altro grande centro di attrazione turistica, oltre a Kuta e a Nusa Dua.

Rimandiamo la visita della spiaggia alla sera e decidiamo di sfruttare il pieno delle energie mattutine per dirigerci nella zona centrale di Bali. Passato il villaggio di Bedugul, a meno di un’ora da Bangli, incontriamo il lago Bratan. Formatosi da un cratere del vulcano Batur, che con i suoi 1717 metri garantisce un clima più umido e fresco rispetto alla vicina zona collinare, il lago fa da scenario ad uno dei templi più belli e suggestivi dell’isola: Pura Ulun Danu. Entriamo da un maestoso cancello e ci incamminiamo in un giardino multicolore. Il tempio sembra galleggiare sull’acqua, sostenuto da sculture a forma di rana, posizionate tutt’intorno all’edificio.Al centro del tempio svetta un alto meru. Il tempio è dedicato alla dea del lago Dewi Danu, che garantisce l’acqua necessaria per l’irrigazione e vigila sui raccolti. Decidiamo di scattare qualche foto da una prospettiva differente, così prendiamo a noleggio per 20.000 rupie (circa € 2,50) una barca con rematore. L’imbarcazione è molto piccola e stretta, ma stabile. Cominciamo a muoverci sulle placide acque del lago, circondati da coloratissime ninfee. Ogni tanto, dal lago, emerge una costruzione improvvisata, si tratta delle postazioni di pesca degli abitanti del luogo. Tutt’intorno siamo abbracciati dalla montagna, dalla quale scende una mistica nebbia, che rende quel luogo sacro ancora più suggestivo.

IL TEMPIO SULLA SCOGLIERA E giunge anche il nostro ultimo giorno sull’isola degli dei. Fabrizio ed io siamo piuttosto malinconici e già pensiamo alle giornate fredde e piovose che ci attendono al nostro ritorno in Italia.

La mattinata è splendida, calda e piena di sole. Pensiamo di relegare i nostri pensieri negativi quando saremo sull’aereo e ci dirigiamo nell’estremo Sud, nella Penisola del Bukit.

Il paesaggio è veramente mozzafiato: alte scogliere si stagliano su di un mare verde azzurro, separato dal cielo terso da una linea sottile. L’Oceano Indiano, al di sotto di noi, ci offre una visione superba. Alte onde spumeggianti si infrangono sulla scogliera, sfidate da intrepidi surfisti.

Ed ecco, in bilico sul bordo di una scarpata, il tempio di Pura Uluwatu. Si confonde con il paesaggio, al punto che risulta difficile capire dove finisce l’opera dell’uomo e inizia quella della natura. Mi sporgo per vedere meglio e noto un leggero oscillare della vegetazione. Mi trovo a faccia faccia con un buffo musetto. La scimmietta mi guarda perplessa, poi fugge rapida e sparisce nella boscaglia alle mie spalle. La seguo con lo sguardo e mi accorgo che non siamo affatto soli. Decine di occhi ci osservano, curiosi e nascosti dal fogliame verde brillante. Sono i silenziosi custodi del tempio, che si presenta ai nostri occhi nella maestosità del suo cancello dalle incisioni a forma di ali. Ci troviamo nel primo dei tre cortili, il cortile impuro, al quale possono accedere tutti. Il secondo cortile, il jaba tengah, il cortile puro, è fiancheggiato da una statua del dio Ganesha. Notiamo un cortile successivo, facciamo per proseguire, ma Arcana ci ferma: solo coloro che professano la religione induista e intendono pregare possono accedere al jeroan, il cortile purissimo. Ci accontentiamo di ammirarlo da lontano, sfruttando un punto di osservazione localizzato su un lato. Vorremmo rimanere ancora, a goderci il profumo salmastro dell’oceano e il suo colore verde smeraldo. Mi soffermo un attimo per fissare il profumo, le tonalità e il calore di Bali nella mente, sulla pelle e nell’anima. LA MALINCONIA DEL RITORNO E’ ora di tornare. Un pasto veloce e poi la corsa in aeroporto. Io e Fabrizio quasi non ci parliamo, ci scambiamo solo sguardi tristi ed eloquenti. Penso che tutte le cose belle, per essere apprezzate debbano avere una durata relativa. E mentre il nostro volo sta per partire, l’isola ci regala un altro dei suoi sfolgoranti tramonti. Domani sarò di nuovo in Italia e porterò con me un bagaglio di ricordi indelebili. Quello che mi mancherà di più, oltre alle verdi colline e al misterioso fascino del sacro racchiuso nelle cerimonie indù, sarà il saluto mattutino di chi incontri per strada, la cortesia e la gentilezza insita in questa razza bellissima e misteriosa e il sorriso di Arcana, che è lo stesso sorriso in cui si riflette questo popolo. Ed è proprio sui suoi appunti, quelli in cui, con la sua scrittura incerta, tentava di insegnarmi qualche parola di indonesiano, che indugio sull’unica frase che mi sento di pronunciare in questo momento: Selamat tinggal, arrivederci, Bali.



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