Irian jaya: delirio verde seconda parte

Al torneo di calcio partecipano le squadre dei villaggi limitrofi e non. L’incontro più atteso è Angguruk-Wamena. Wamena schiera un giocatore che indossa l’astuccio penico (il rischio di bucare il pallone è veramente alto), il pubblico esulta ad ogni goal, che sia per una o per l’altra squadra, l’arbitro fischia...
irian jaya: delirio verde seconda parte
Partenza il: 25/07/1997
Ritorno il: 25/08/1997
Viaggiatori: in gruppo
Al torneo di calcio partecipano le squadre dei villaggi limitrofi e non. L’incontro più atteso è Angguruk-Wamena. Wamena schiera un giocatore che indossa l’astuccio penico (il rischio di bucare il pallone è veramente alto), il pubblico esulta ad ogni goal, che sia per una o per l’altra squadra, l’arbitro fischia continuamente agitando l’ombrello che tutti i giorni porta rigorosamente in mano. Quando al novantesimo la partita finisce, le due squadre si trovano in parità. L’arbitro sancisce che bisogna tirare i calci di rigore, il pubblico tutto scende in campo, i due pappagalli kakadù del villaggio s’adagiano sulla traversa della porta, il dottore e la dottoressa, medici in …Trasferta, si portano timidamente ai margini del campo, lei con in mano una tazza di caffè pronta a consegnarla a qualcuno dei vincitori, l’insegnante missionario protestante chiama la moglie incinta. E quando anche i calci di rigori finiscono in parità, tutti s’abbracciano, tutti sono contenti, tranne… La dottoressa, rimasta in piedi con in mano una tazza di caffè.

Dopo tre giorni, alle cinque del mattino, è musica per le nostre orecchie, il rumore del Cessna è inconfondibile, e dopo circa un’ora il primo gruppo vola per Wamena, pronti per organizzare il difficile trasferimento a sud nella regione degli Asmat dei Kombai e dei Korowai.

Gli Asmat sono una popolazione di varie migliaia di melanesiani che vivono nella foresta tropicale sudorientale dell’Irian Jaya. Il loro territorio è quasi inaccessibile; vivono in una foresta acquitrinosa segmentata da centinaia di fiumi, corsi d’acqua, rigagnoli, che fanno di questa popolazione una delle più isolate del pianeta. In mezzo alla foresta acquitrinosa non esistono pietre, il metallo è quasi sconosciuto, ed è il legno l’elemento preponderante, addirittura vitale per queste popolazioni. E’ con il legno che costruiscono le case, l’arco e le frecce per la caccia, le canoe e le pagaie per gli spostamenti. E’ con il legno che accendono il fuoco per cucinare, è con il legno che sono diventati abili scultori, ed è dall’albero del sago che ricavano la loro principale fonte d’alimentazione.

Ci rendiamo immediatamente conto che la trasferta nella regione degli Asmat sarà molto problematica, poiché è impossibile giungere ad Agats via aerea.

Decidiamo di puntare su Timika, dove affittiamo una barca e dopo tre ore di fiume e nove ore nel Mare di Arafura giungiamo ad Agats. Il viaggio naturalmente non è dei più tranquilli, anzi; viaggiamo per sette ore, di notte, in una barchetta cui sono agganciati due motori da 40 CV tirati al massimo da un capitano folle che guida a luci spente su un mare nero d’inchiostro, dove l’unica luce che riusciamo a scorgere è il riflesso delle stelle. Heidi è letteralmente terrorizzata, tanto che ad un certo punto gonfia uno dei materassini usati per dormire, occupando un po’ del già esiguo spazio che abbiamo a disposizione; ma nessuno osa fiatare perché la tensione è veramente alta.

L’arrivo ad Agats è indimenticabile! Sembra una scena uscita direttamente da un film di Pasolini. Appena mettiamo piede sul molo, barcollando, ci ritroviamo senza neanche rendercene conto in una stanza fatiscente, dove gli odori più nauseabondi si mescolano, creando un’aria dal sapore marcescente, tutto condito da un pavimento “dondolante”che ci dà la sensazione d’essere ancora fluttuanti in mezzo al mare. Come per incanto, superata la prima degradante stanza, ci ritroviamo in una seconda camera che sembra uscita questa volta da un film di Walt Disney. Divano nuovo di zecca, televisore mega schermo a colori, videoregistratore a quattro testine, stereo con quattro casse ai quattro angoli della stanza. Non è la casa di Mago Merlino. E’ invece la casa del nostro folle capitano.Appena fuori dalla casa ho come la sensazione d’essere allucinato, con la torcia in mano illumino il sentiero costituito da centinaia d’assi di legno, montate su una sorta di palafitte che sormontano il mare sottostante, ed ho una visione sfuocata di una flebile luce violacea che illumina l’insegna dell’unico Hotel esistente ad Agats: l’Asmat Inn.

La mattina, dopo varie contrattazioni affittiamo una lancia, cerchiamo di comprare dei viveri, e ci catapultiamo nella foresta.

Navighiamo per alcuni giorni lungo il fiume nel cuore della foresta.

In questi giorni il tempo sembra non esistere, la barca prosegue lentamente in un silenzio quasi irreale, di tanto in tanto incontriamo delle zattere con alcune capanne montate sopra, trascinate dalla corrente. Gli abitanti sembrano essere nomadi del fiume; il rumore del nostro motore desta la loro tranquillità, e qualcuno si affaccia, curioso, dall’uscio, osservandoci con stupore seguendoci con lo sguardo fino a quando l’orizzonte ci sfuma nelle acque color ocra del fiume. Al tramonto l’ambiente diventa straordinario, il fiume spesso ritira le proprie acque, e ci ritroviamo a dover navigare quasi toccando la melma sottostante, molti uccelli a quell’ora si riuniscono, e sembra che camminino sull’acqua. Ad ovest, dove tramonta il sole, il cielo assume dei colori pastello e ad est diventa quasi perlaceo, il silenzio di colpo si trasforma in un misto di rumori che arrivano dalla foresta circostante, sono gli uccelli che a stormi s’avvicinano sulle rive del fiume per pescare. La sera, dopo aver montato le tende, ed aver consumato una frugale cena, ci addormentiamo molto presto. La foresta brilla ai primi chiarori dell’alba la quale avviluppa le nostre tende in un’aura fosforescente, il tutto mi dà un senso di grande pace, un senso d’adempimento, e come se avessi sempre desiderato vivere questi momenti.

Le prime luci danno i contorni alle cose circostanti, ed il crepitio del fuoco acceso da Frangkie sveglia il resto della comitiva.

I giorni passano lentamente fino a quando siamo costretti a fermarci ed abbandonare la barca. Il fiume è ormai in secca E’ impossibile proseguire. Prima di arrivare a Yemu incontriamo un piccolo villaggio, dove reclutiamo dieci portatori con i quali fissiamo un appuntamento per l’indomani mattina sulle rive del fiume che bagna Yemu. I nostri programmi a questo punto saltano.Decidiamo di proseguire per raggiungere Yaniruma a piedi.

Il capo villaggio ci dice di accamparci accanto ad una capanna dove un paio d’ore prima moriva di malaria un ragazzo giovanissimo. Quella stessa notte, purtroppo, tocca la stessa sorte ad un bambino di cinque anni. Per tutta la notte il lamento funebre della madre ci tiene insonni. Abbiamo tutti addosso quel senso d’impotenza che ti coglie di fronte alla morte. Qui al sud dell’Irian Jaya la malaria fa strage di uomini, donne e bambini; l’età media sfiora appena i quarant’anni. Adesso capiamo la preoccupazione di Frangkie alla partenza per Agats, e capiamo il perché continua ad andare in giro coperto con una giacca a vento sfidando l’umidità ed il caldo torrido.

Quella sera non riesco a stare in tenda, provo ad uscire e mi lascio ipnotizzare dal cielo, sembra una cava di antracite con miliardi di diamanti che brillano di luce propria al suo interno. Mi viene la pelle d’oca, mi sento quasi sopraffatto dalla bellezza di questo posto, ma allo stesso tempo la tristezza degli eventi appena descritti mi mette addosso una grande angoscia che svanisce solo alle prime luci dell’alba.

L’indomani mattina, dopo un rapido controllo alle nostre scorte, ci rendiamo conto di avere cibo sufficiente per un giorno, massimo due. Camminiamo per tre giorni nella foresta, senza più cibo né acqua, non vediamo l’ora d’arrivare a Yaniruma. Qualcuno (Io!) spera di trovare un alberghetto, un ristorantino, una doccia (non ci laviamo da molti giorni). Delusione e sconforto, ecco che cosa si può leggere nei nostri occhi quando, stravolti dalla fatica, arriviamo a Yaniruma. Niente alberghetto, niente ristorantino, niente doccia, niente di niente. Non troviamo né acqua né cibo, ci resta solo un po’ di riso, qualche bustina di tè…E sei giorni di trekking da affrontare.

Non possiamo mollare! I Korowai sono lì a portata di mano. Frangkie afferma che il riso che abbiamo, più le felci che raccoglieremo nella foresta saranno sufficienti per tutti quanti. Una volta nella foresta, alla vista dei primi appostamenti Korowai, i dubbi svaniscono di colpo.

I Korowai sono costituiti da diversi nuclei familiari che vivono isolati nella foresta. Ogni nucleo costruisce la propria casa (Rumatingi) isolata dagli altri nuclei. I Rumatingi sono capanne costruite dai quindici ai trenta metri dal suolo. Abbiamo visto Rumatingi “bucare” la foresta, avvicinarsi il più possibile al…Cielo. Il perché questi indigeni vivano così in alto non è ancora certo. Il National Geographic afferma che è per eludere i numerosissimi insetti che vivono nella foresta. Un antropologo americano che vive da un anno a Yaniruma e studia queste popolazioni da alcuni anni, asserisce che la loro indole animista li porta ad aver paura degli Spiriti della foresta.

E così stiamo per alcuni giorni a stretto contatto con questi alieni venuti dal passato.

Siamo ormai giunti alla fine di questo incredibile viaggio, siamo tutti molto stanchi ma appagati dal susseguirsi d’emozioni che ci hanno letteralmente travolto in questi giorni passati nella foresta.

Un ultimo doveroso ricordo va al “mago di Oz”.Alla fine dell’estenuante trekking tra i Korowai, dopo che Paola, Heidi, Stefano ed io decidiamo di far ritorno un giorno prima a Yaniruma, uno dei nostri portatori si offre di guidarci nella foresta. Siamo veramente molto stanchi e la disillusione che avevamo avuto giorni prima all’arrivo a Yaniruma ci frustra non poco. Appena arrivati a Yaniruma il “mago di Oz” ci ospita a casa sua, tira fuori dal cilindro otto Sprite e quattro enormi gamberoni di fiume che ci rimettono al mondo, e ci riconciliano con Yaniruma.

Il nostro viaggio in pratica finisce qua,ma ricorderò per tutta la vita quest’esperienza travolgente.

Sono passati ormai cinque anni dal nostro rientro dall’Irian Occidentale e ogni tanto c’è qualcuno che mi chiede se oggi rifarei ancora quel viaggio. La risposta è SI, lo rifarei anche domani! Giovanni.



    Commenti

    Lascia un commento

    Leggi anche