India, agosto 2003

1° agosto 2003, 12.39 Giusto a fianco del gate C 24 attendiamo di imbarcarci per la prima parte della traversata. Non molto coraggiosamente ci siamo posti a distanza, speriamo di sicurezza, da un gruppo di israeliani che partirà prima di noi ma dal nostro stesso gate. I controlli sono stati rigidissimi, la nostra drammatica sudditanza nei...
india, agosto 2003
1° agosto 2003, 12.39 Giusto a fianco del gate C 24 attendiamo di imbarcarci per la prima parte della traversata.

Non molto coraggiosamente ci siamo posti a distanza, speriamo di sicurezza, da un gruppo di israeliani che partirà prima di noi ma dal nostro stesso gate.

I controlli sono stati rigidissimi, la nostra drammatica sudditanza nei confronti degli yankees è testimoniata dalle domande che ci vengono rivolte al check-in dagli addetti alla sicurezza: “Avete con voi bagagli che vi ha dato qualcuno e di cui non conoscete il contenuto ?” ! (tra le altre).

Ultimo chinotto per i prossimi 20 giorni… eccoci.

21.24 Aeroporto di Kuwait City, si discute con Silvana, nostra prima conoscenza ed alla quarta volta in India in pochi mesi. Il viaggio è andato bene, ogni tanto i video di bordo indicavano la posizione della Mecca rispetto all’aereo per chi volesse pregare.

Ottimo il pollo all’agrodolce servito con cortesia.

00.20 Per la prima volta nella mia non breve esperienza di viaggi un aereo decolla e, 20 minuti dopo, torna alla base, sempre Kuwait-City, per problemi tecnici che ci dicono pure essere seri, forse ci è andata anche bene! Insomma, ci tocca fare altre 3 ore di attesa all’aeroporto di Kuwait City oltre alle due di ritardo con cui eravamo partiti. Ci offrono un pasto per l’attesa ma, esaminatane la natura, preferiamo sdraiarci dove possibile per cercare di dormire un po’, poca fame alle 4 di mattina! Com’è come non è arriviamo a Delhi alle 12 anziché alle 5 previste.

In taxi prepagato raggiungiamo il Broadway Hotel in un traffico caotico, disordinato e puzzolente. Problemi indiani con la stanza, pure prenotata: ci sbattono in una singola rimediata assicurandoci una doppia per l’indomani.

2 agosto, 16.30 local time Ora, quasi cotti, sorseggiamo Coca-cola al Thug, bar dell’Hotel dopo aver vagato a piedi e in tuk-tuk nel tentativo, sembrerebbe riuscito, di organizzare il pezzo forte del viaggio: Rajasthan, Agra e Kajhurhao.

Il contatto di Ale, Sandra, incontrata al Park Hotel ci ha fatto ricredere sulle nostre pretese in materia di budget. Pare che da due anni lo stato indiano abbia imposto forti dazi sui viaggi in Rajasthan, cosicché l’offerta che ci propone, sembrando destinata ad una clientela danarosa e comodosa, merita qualche approfondimento che lei stessa ci consiglia.

In effetti, ci fermiamo al primo gabbiotto incontrato poco fuori dall’albergo e, dopo, una breve contrattazione, otteniamo delle condizioni che, se non economiche, ci sembrano assai più accettabili. E’ fatta, a meno che alle 8.30 di lunedì non si presenti nessuno davanti al nostro albergo.

Stasera proveremo la cucina del Broadway che risulta assai decantata sia dalle nostre guide che dai diversi attestati appesi all’ingresso.

22.00 Anche se stravolti non possiamo mancare di riconoscere l’eccellenza della cena. Ci buttiamo su un Tandoori Sampler. Per Tandoori si intende una particolare procedura di cottura con yogurt e spezie che, nel nostro caso, viene applicata ad agnello, pollo e pesce non molto piccanti e, soprattutto per il pollo, capace di mutarne la stessa struttura così che al gusto risulti particolarmente tenero e saporito.

L’ambiente, poi, è decisamente particolare, con una vecchia Fiat dai fari lampeggianti in un angolo dell’ampio locale, sedie e tavoli in legno scolpito e tutti diversi, musica indiana, molti avventori locali e gran gentilezza del personale.

3 agosto, 13.25 Seduti ai bordi di un pozzo, nel largo giardino prospiciente il mausoleo di Humayum faccio il punto della prima mattinata.

Anche se è domenica, l’impressione di trovarsi nella patria dell’umanità brulicante è fortissima, direi che, almeno per me, è impensabile avventurarsi a piedi per le strade di Chandi Chowk (il centro commerciale di Delhi).

Non è un problema di sporcizia, voglio precisare, ma della miriade di persone, cose e animali che si muovono in tutte le direzioni.

Sensazioni intense alla più grande moschea dell’India, la Jama Masjid, ampio cortile dove camminare scalzi, ma con calzini, non esiste un interno ma solo un porticato sotto tre immense cupole che vedremo anche dall’alto, dopo aver scalato un buio e stretto minareto. Dalla sommità dello stesso si gode una meravigliosa vista a 360° di Delhi. C’è qualche anacronistico grattacielo, ma la cosa impressionante per la sua maestosità è il Red Fort.

Lo visitiamo di li a poco, dopo una lunga fila dovuta alle perquisizioni personali compiute dai numerosi soldati presenti. In effetti non ci si sente tranquilli, fucili spianati dietro piccole trincee di sacchetti di sabbia, tuttavia la paura di attentati e la locale presenza permanente di un base dell’esercito lo giustifica.

Oggi, come detto, è domenica e se questo ha ridotto di un po’ il traffico, anche il Red Fort è pieno di locali che trascorrono il loro giorno di festa.

Dopo aver attraversato un lungo corridoio aperto e pieno di bancarelle assai poco frequentate, giungiamo ad un primo colonnato, rosso anch’esso con al centro un gran trono in marmo bianco. Serviva ad ospitare il Mughal (si pronunzia Mogul!) nelle udienze pubbliche. Dietro, giardini ben tenuti e altri in cui fervono lavori di sistemazione, tanti scoiattoli, alcune strane ma bellissime palazzine di color grigio scuro piene di porticati e terrazzi ad ogni piano, hanno qualcosa di occidentale difficile da definire.

Vi sono poi padiglioni che si dichiarano “musei” anche se, in realtà, il primo che visitiamo contiene giusto qualche resto di artigianato dell’epoca. Decisamente più impressionante è il colonnato in marmo bianco assai ben lavorato che doveva costituire la stanza per le udienze private.

17.00 al Broadway Di cose viste ce ne sono tante ma, prima, due parole sulle sensazioni, correzione sulla sporcizia: ve ne è davvero tanta, ci è capitato di fare il pelo in tuktuk ad una grossa mucca che ruminava immondizia, era posta proprio al centro di un grosso mucchio della stessa al lato della strada, intorno enormi uccellacci neri apparivano assai impegnati.

Ho detto ad Ale che la prima differenza con lo splendido viaggio in Cambogia di 18 mesi fa sta nel fatto che qui visitiamo templi “vivi” anziché morti.

Anche nel palazzo reale di Pnomh Penh ho visto un numero di cambogiani paragonabile a quello di indiani che qui affolla luoghi più o meno sacri oggi visitati. Così, per esempio, al Qubt Minar i resti maestosi della più antica moschea indiana (si parla del 1100 d.C.) erano letteralmente invasi dai sari colorati delle donne e da bambini vocianti.

Il nostro rick shaw driver ci farà vedere anche il Parlamento e gli immensi edifici governativi ad esso vicini.

Cena bis al Chor Bizzarre, questa volta esageriamo con polpetta di carne Gotchaba e formaggio locale cotto in un sugo di pomodoro per me. Misto di carne e verdure per Ale. Ci offrono anche una crema come dolce (con molta cannella) e il thè finale.

La notte passerà malissimo con sogni assurdi da parte di entrambi. Anche mangiando poco o nulla a pranzo dovremmo regolarci meglio sulle dimensioni dei piatti ordinati.

4/8, ore 17.30 Scrivo, ora, dal delizioso cortile, pluridecorato e porticato della Mandawa Haveli.

Siamo partiti dal Broadway alle 8.30, siamo arrivati qui alle 16.00, ma ad un certo punto ho avuto ben più di un qualche serio dubbio sul buon esito della giornata.

Dunque, il nostro prode autista Gurnam ha dovuto dapprima affrontare un traffico allucinante, vacche comprese, che ci ha consentito di fare 13 km in 90 minuti! Poi un pò di autostrada verso Jaipur quindi la deviazione per Mandawa.

Ogni tanto qualche goccia di pioggia, qualche pozza su strade non malaccio e qualche villaggio mostruosamente incasinato da cose, uomini e animali.

E’ proprio mentre lasciamo il villaggio di Juhm Juhm che, nell’affrontare una pozza più lunga delle altre, urtiamo violentemente il pianale, non ci saranno danni ma lo scopriremo dopo.

Poi si scatena il monsone: un torrente, un fiume, una valanga d’acqua invade la strada. La nostra assurda Tata Indica (una sorta di Matiz, per capirci) è palesemente inadeguata e, dopo vari conciliaboli sotto il diluvio tra il pilota e i locali, si decide di lasciare la strada principale.

Solo le jeep e gli enormi autobus riescono a praticarla. Sto pensando che solo Ale, o meglio solo con Ale, potevo spingermi in una situazione così poco prudente. Ovviamente il cellulare non prende e se ci dovessimo fermare qui, credo che avremmo molti più problemi di quella volta che in Namibia mi cappottai…

Come vuole il cielo smette di piovere, e a forza di chiedere indicazioni Gurnam riesce a portarci in questa piccola, decadente e deliziosa città.

I segni della ricchezza passata sono in piena rovina: palazzi di vario tipo mostrano i resti scrostati di decorazioni policrome, pozzi monumentali ma ormai secchi sono circondati da piccoli minareti. Addirittura l’interno dei pozzi era piastrellato e decorato.

Quello che vediamo ora, passeggiando nel fango, sono scheletri di edifici con le immancabili bancarelle e negozietti di sarto, barbiere e farmacista. Non piove più, fa molto caldo, poi torna a rinfrescare e il boss della casa prevede che presto pioverà. Noi attendiamo fiduciosi la cena dopo che lo stesso boss ci ha detto che questo è”il miglior ristorante di Mandawa”, e come potrebbe essere diversamente! La nostra fiducia viene parzialmente tradita da una cena esclusivamente vegetariana, con buffet e a prezzo fisso. L’unico piatto sostanzioso è un pasticcio di peperoni, pomodori, cipolle e formaggio che non è poi tanto male. Il tutto annaffiato, almeno per me, dalla King Fisher, birra locale.

La parte migliore della serata viene dopo, sul terrazzo più alto della haveli e vicino ad una cisterna.

Nel cielo luna, nuvole e lampi, nell’aria il canto approssimativo di due muezin o similari, si perdoni l’ignoranza, ci fumiamo due Montecristo n. 4 che ho preso a Cuba a capodanno e, direi, si sono fatti mezzo giro del mondo.

Altre quattro chiacchiere in un salotto porticato al primo piano e la scoperta che non si può telefonare.

Il viaggio sta prendendo la sua forma più desiderata ed auspicata ma non per questo priva di meraviglia e del piacere della scoperta. In effetti, a forza di sentire racconti, vedere documentari, leggere guide poteva temersi la sensazione del quasi già visto ma, al momento, ciò proprio non è.

5/8, ore 16.10 Che cosa vecchia un diario di viaggio !? Ho appena finito di parlare al cellulare con casa e con un amico, ovviamente in Italia, e ora mi accingo a scrivere queste note.

Dopo lenta colazione con prima banana indiana si è partiti con destinazione Bikaner, circa 200 km a ovest di Mandawa. Non piove ma lo ha fatto stanotte. Una prima volta Gurnam si rivela geniale nel prendere letteralmente di sguincio una gigantesca pozza che si frappone tra noi e il resto del cammino.

Sfioriamo il muro di una casa a destra e un cavo di sostegno di un palo della luce a sinistra ma, incredibilmente, passiamo. Poco dopo il quasi disastro con Alessandro che, di fronte a quello che si rivelerà una specie di mare che copre almeno 500 m. Di via di un centro abitato, pontifica “ma lì l’acqua arriva si e no alla caviglia”. Se la macchina non si spegne è per puro miracolo, l’acqua passa addirittura dal fondo della vettura filtrata dal tappetino che copre il pozzetto del freno a mano. Le guarnizioni della portiera tengono, ma tra camion, tuk tuk e biciclette impantanati, procediamo lentissimamente con ulteriore pericolo di blocco del motore.

Sono stressato, se ci fermiamo qui chi ci trainerà ? Uno dei numerosi cammelli che abbiamo incontrato lungo la strada ? La Tata supera la prova ma 3 km. Dopo, al primo rallentamento si spegne inesorabilmente. Abbiamo acqua nella marmitta e, secondo Gurnam, anche nella testata.

In un caldo asfissiante riusciamo a farla ripartire a spinta e, avendo cura di tenere alti i regimi, arriviamo a destinazione dove scegliamo lo Harasar haveli sul quale convergono buone referenze sia della Lonely Planet che della mia Routard. In effetti, una volta fatte cambiare le lenzuola, la stanza è ampia e il bagno in ordine.

Ora ci aspetta il forte di Bikaner, vecchio di 400 anni di cui 350 non hanno fatto altro che vedere innovazioni e ampliamenti che, comunque, non ne compromettono un’armonia complessiva. Quindi, in un piccolo gruppo e con una guida simpatica, visitiamo diversi cortili dalle splendide pavimentazioni e con vari “accessori”: notevole un trono al centro di una piccola piscina da cui il Maraja assisteva alla festa dei colori, partecipandovi anche, tirando polvere colorata sulla folla.

Visitiamo, poi, varie stanze degli appartamenti privati, tutte riccamente decorate.

Mi colpisce molto la sala della musica, con le pareti e il soffitto pieno di nuvolette squarciate, di tanto in tanto, da fulmini. In basso, all’altezza del nostro battiscopa, una pioggia torrenziale è fittamente disegnata.

il caldo è asfissiante ed è curioso scriverlo ora, mentre, fuori della nostra stanza, la pioggia del monsone ha rinfrescato l’aria in modo assai piacevole. Forse Bikaner offriva qualche altra meta nelle vicinanze ma la macchina è a riparare e noi abbiamo voglia di poltrire un pò.

Mezzo pomeriggio trascorre disegnando una pessima silhouette del forte che si può ammirare dalla terrazza. Due chiacchiere con una coppia italica proveniente da Jaisalmer dove ha avuto ampi disagi intestinali e si è fatta l’ora di cena.

Cattiva e scarsa, al risveglio poi, forse per il ventilatore puntato sulla pancia, devastante situazione di malessere generale.

Partiamo alle 10.00, orario imposto dalla riparazione di chissà quale parte della Tata.

6/8 Sono un cadavere e mi sa che lo è pure Ale anche se simula indifferenza. 7 ore in Tata. Ora sono le 22.20 e, con le forze residue scrivo. Non sono stato bene tutto il giorno, forse ora sto meglio.

Ciononostante partiamo dall’inizio. Prima tappa a 32 km da Bikaner, “il tempio più strano dell’Asia” come lo definiscono varie guide. Si tratta del Kamiji Mata e la sua particolarità consiste nell’essere invaso dai topi. Protetti dagli uccelli da grosse reti metalliche che ne coprono gli spazi aperti e dai fedeli che, per quel poco che abbiamo avuto la forza di vedere, sembrano crederci veramente.

Ale, come spesso insoddisfatto, sostiene che nel servizio televisivo da lui visto i topi erano molti di più. Per me va benissimo che fossero nel servizio.

Poi comincia la faticosa via che in 6 ore e 30 di paesaggi piatti e monotoni ci condurrà a questa meraviglia.

Gurnam, scopriamo, è un sikh e ciò ci tranquillizza ulteriormente conoscendo le rigorose regole di onestà che seguono i seguaci del Libro Sacro di Amristar.

Comunque, vedersi stagliare la sagoma del forte di Jaisalmer a ormai 10 km dalla meta, mi causa quell’emozione in cui speravo, in fondo, nella mia mente, questa è la prima vera tappa del nostro viaggio in India e ha già rispettato le mie aspettative.

Quattro passi per il forte dopo una difficile ma, direi, ben conclusa ricerca dell’alloggio (al Niwas Vilas), ci riportano veramente al medioevo indiano. Certo i negozietti da tutte le parti con le loro offerte e la gigantesca stazione eolica che si vede, nemmeno tanto in lontananza, rovinano un pò l’atmosfera. Ma già in una passeggiata di mezz’ora, a forza di girare per vicoletti, si possono raggiungere angoli incantevoli e pressoché deserti o vissuti dagli abitanti e non da negozianti.

Le nostre guide convergono nel segnalare il Trio come l’unico ristorante serio tra dentro e fuori il forte. Hanno ragione, è affacciato su un bastione e con personale molto gentile.

Purtroppo le mie condizioni odierne non mi permettono di saggiarne a pieno le qualità, spero e conto di rifarmi domani.

7/8 Ancora una brutta notte per il caldo mostruoso, in questa occasione anche Ale si pronuncia a favore dell’accensione del condizionatore nonostante la sua notevole rumorosità.

Oggi abbiano iniziato a vivere Jaisalmer, piano piano, anche per un caldo mostruoso, abbiano vagato prima per la cittadina, sino alla Salim Sing Haveli (haveli sta per antica casa di nobili o commercianti), semplicemente splendida. Segnalando quello che le guide non dicono, sono rimasto folgorato dalla discoteca di due o tre secoli fa.

La stanza più alta della palazzina, infatti, è interamente ricoperta di specchi e pietre colorate, anche sul pavimento, con tre aperture ai lati per tre musici e un piccolo trono nella quarta parete, anch’essa aperta verso l’esterno per la circolazione dell’aria, dove sedeva il potente ministro. Immaginare le danzatrici negli infiniti giochi di luce creati dalle lampade che, allora, pendevano dal soffitto, può veramente riportare alle atmosfere delle mille e una notte.

Rinfrescati dall’acqua di frigo acquistata all’uscita della haveli, ci siamo lentamente incamminati verso il forte. Giro diverso rispetto a ieri e prima sosta preso un venditore di copriletto che ieri vendeva bhang davanti al forte e ci ha prontamente riconosciuto.

Non si compra niente, ma è piacevolissimo stare seduti su un divano, sotto un ventilatore, e placidamente guardandolo mentre srotola e decanta una dozzina di coloratissimi teli.

Altri quattro passi tra mucche, bambini, mosche e turisti e nuova fermata. Questo è un vero venditore, molto simpatico e io, che non sono interessato ai copriletto, mi godo la trattativa di Ale e do qualche utile consiglio sui colori e sui disegni.

Poiché l’operazione è assai lunga, mi siedo poi sull’uscio e mi diverto ad osservare gli asinelli che trasportano la terra proveniente da chissà quali lavori, le bambine in divisa che tornano da scuola, un’adolescente in un sari verde dal sorriso celestiale, l’offerta del the che mi viene fatta dal negozietto di fronte (e che gentilmente rifiuto), insomma, un pò di vita del posto.

Dopo, visto che entrambi siamo interessati alle famose pachmine, il tizio del negozio ci fa scortare da un lavorante da quello che ci dice essere il miglior negozio in materia.

E’ di nuovo nella cittadina, molto defilato, ci accoglie un panciuto e piccolo indiano che dichiara la propria famiglia come impegnata nella vendita di pachmine dall’alba dei tempi, sarà…

Interessante l’illustrazione delle tre qualità di lana: del collo di capra dell’Himalaya; della pancia della medesima capra; della pancia di pecore sempre dell’Himalaya.

In effetti al tatto è notevole e, forse impregnati della strana aria di questo posto, esauriamo, praticamente al sesto giorno di viaggio, i rispettivi budget previsti sotto la voce acquisti e regali.

Una coca e una fanta mi fanno da pranzo mentre rientriamo sotto il sole delle 14.00. Ho anche smesso di sudare, forse perché oltre non è fisicamente possibile.

Anche oggi pomeriggio non si riesce a dormire, visto come è andata la notte c’è quasi da preoccuparsi. Si esce alle 18.00 con l’obiettivo del tramonto dal forte ma, quasi subito, veniamo inseguiti da degli insistenti “Hallo! Hallo!”.

Rais, il tizio delle pachmine, si è accorto di essersi sbagliato nei conti di 1600 rs (noi ce ne eravamo accorti, ma avevamo glissato). Morale! Si becca il dovuto e mi piazza un’altra pachmina multicolore che, ad onor del vero, mi sembra proprio splendida.

Nonostante il fuoriprogramma riusciamo a goderci un tramonto dal forte semplicemente stupendo e con tanto di arcobaleno per due gocce di pioggia cadute in precedenza. “Qua”, ci dice il venditore di copriletto “sono tre anni che non piove”.

La cena al Trio mi vede in forma migliore rispetto a ieri, tuttavia il pollo tandoori non soddisfa le mie aspettative, a cui meglio risponde il montone al curry. Banana fritta e the per finire.

Il locale è pieno di spagnoli e, anzi, fino ad ora, sembra che mezza penisola iberica sia da queste parti. Siamo alla sera del sesto giorno su 21… Sono insieme preoccupato e curioso, Comunque Jaisalmer è un luogo irreale e ciò, voglio precisare, nonostante l’enorme sporcizia che ne riempie le strade e, qualche volta, ne appesta l’aria.

8/8 L’inizio è negativo: l’aria condizionata pare averci fregato ad entrambi la spalla destra. La colazione è, come ieri, allucinante. Servita di malavoglia in un mare di mosche, senza nemmeno i cucchiaini per girare lo zucchero nel the. Domani se la scordano.

Oggi tocca ai dintorni e, in mattinata, vediamo il tempio jain di Lodruva con una rilucente statua di divinità in marmo nero, assisa in una nicchia di marmo bianco e che una fedele lucida in continuazione con una sorta di olio.

I giardini, alquanto spelacchiati, di Amar Sagar con un insistente tizio che ci vuole vendere bibite e una bella vista di verde pieno di mucche e rovine in lontananza.

Infine i cenotafi di Bada Bagh, dove si respira una bell’aria di silenzio e raccoglimento. I corpi dei maraja di Jaisalmer venivano bruciati sul Gange, ma qui le loro effigi, raffigurate sulle lapidi, guardano verso la fortezza.

Anche oggi sudata fuori misura e, mentre Ale ricomincia a contrattare selvaggiamente teli e cuscini, mi rintano nella stanza. Si riparte alle 16.00, destinazione un decantato villaggio abbandonato: Kuldhara.

Per fortuna, appena arrivati leggiamo, su un rarissimo segnale, della presenza del Khabha Fort nelle vicinanze. Nessuna delle nostre numerose guide ne parla e decidiamo di tentare. La strada è fattibile e raggiungiamo i ruderi di un piccolo forte dal quale si vedono la prime dune del deserto. Ai piedi della collinetta, dominata dalle sue torri ormai malmesse, giacciono i resti di un villaggio tra cui si può notare, ancora intero, un modesto tempio in arenaria.

L’atmosfera è notevole, la ventilazione alleggerisce la pressione del caldo e facciamo due chiacchiere con una coppia, tedesco e rumena, giunta fino a qui in cammello! Sulla strada del ritorno, Kuldhara si rivelerà una deviazione del tutto inutile mentre, il tanto decantato deserto, con gabella di 11 Rs per accedervi, ha tali e tanti contorni di sola per turisti da farci scappare imbestialiti. Ancora una volta foreremo una gomma, così come a Cuba e in Cambogia (tradizione rispettata).

La cena è nuovamente al Trio, dove mi hanno anche restituito l’orologio dimenticato ieri, ma, dopo una sola settimana, comincio ad avvertire difficoltà ad ingerire sapori locali (il ristorante di Delhi, poi, ci aveva abituato male).

Provo con una cineseria, pollo in agro dolce, buono ma domani vorrei filetto di bue e parmigiana di melanzane. Inutile tentativo di parlare con casa via cavo, qui i cellulari non prendono, e a nanna prima delle 4/5 ore che ci aspettano fino a Jhodpur.

Sono contrario alla globalizzazione selvaggia, ma accetterei volentieri la maglietta di un locale con su scritto “god bless america” in cambio di una maggiore pulizia delle strade.

9/9 Con 4 ore e passa di guida, turbata solo da una grossa autocisterna perfettamente cappottata di traverso rispetto alla strada, siamo a Jhodpur. Decidiamo di dormire fuori dall’incasinato centro città e finiamo al Dewi Bahavan. Si tratta di cottages in un giardino ben tenuto, c’è assai poco dell’India vista fino ad ora ma ottima sistemazione.

Ormai prossimi alla città abbiamo avuto il nostro primo contatto con la fortezza di Meherengarh che visiteremo subito dopo l’abbandono delle valigie. C’è poco o molto da dire, moltissimo da vedere, 500 anni di storia che giustificano tutte le fantasie viste nei film di Aladino, Simbad etc. Questi erano re con tutti i crismi.

Ale pare essersi fregato con l’aria condizionata della macchina e lamenta un forte raffreddore, spero non sia contagioso. Prima navigata su internet, in patria poche nuove e alcune mail di lavoro che evito di leggere fino in fondo… Almeno per ora.

La cena la consumiamo nel giardino, vicino ad una enorme macchina ventilatrice per fortuna spenta. E’ buona e abbondante, anche se imposta sulla base di un piccolo menu: pollo, verdure, crema con banane, tutto con sapori non speziati che assaporo con gusto.

10/8 ore 20.30 Udaipur, cerco le parole per descrivere l’incredibile spettacolo che godo dalla terrazza del Sai Niwas hotel (in realtà una casa privata con stanze ben messe): varie catene di monti incorniciano il lago che, già di per sé, è acceso dalle luci del fiabesco Lake Palace, dell’isola templare che lo segue e della lingua di terra che lo precede trafiggendo il lago come una spada.

La cima del monte più alto è illuminata dalle luci del Monsoon Palace, il cielo, pieno di nuvole, riflette il rosa degli ultimi raggi di sole. Note leggere nell’aria.

Per godere di tutto questo altre 7 ore di Tata, comprensive di una breve ma significativa sosta al tempio jain di Ranakpur. Marmo bianco a profusione, 1444 colonne tutte diverse (assicurano le guide e mi pare possibile crederci), scolpite come fossero di legno, divinità e danzatrici ovunque e gli idoli con gli occhi brillanti in tante piccole cappelle.

Questi ultimi non sono fotografabili, io ci ho provato di nascosto, chissà se è venuto qualcosa! Piove anche ma la cosa non ci turba.

Alle 17.00 siamo ad Udaipur e, dopo un’ora di riposo, facciamo due passi raggiungendo 3 ghat (rive) da cui godere diverse prospettive del lago Pichola.

Prima della cena, che per me è accettabile mentre Ale non la gradisce, assistiamo ad uno spettacolo inquietante.

Da un tetto di una casa più alto del terrazzo da cui siamo affacciati, piovono una dozzina di grosse scimmie che continuano velocissime la corsa verso le fronde di un albero vicino alla sponda del lago. Ci passano a non più, di due o tre metri e la loro irruenza e le dimensioni ci spaventano non poco.

11/8 Strano posto Udaipur o, meglio, strane le sensazioni che mi trasmette.

Oggi visita obbligata al City Palace ma, la teoria infinita di angusti corridoi e ampi cortili mi lascia freddo tranne, forse, per il cortile dei pavoni e per alcune stanze ricoperte di specchi. Ci sono moltissimi turisti, il luogo ha qualcosa di finto, insomma la mattinata ci lascia male e, in più, siamo distrutti e alle 11.00 di nuovo a letto.

Alle 14.00 ripartiamo con Gunram per i dintorni. Ci vuole portare a vedere un paio di giardini, uno tipo orto botanico. “Ci vai tu ai giardini.. Ci vai..”.

Ci facciamo portare, piuttosto, al Monsoon Palace, sulla collina più alta.

Vista da paura, palazzo diroccato, vento fresco sulla terrazza e che filtra all’interno attraverso le finestre sfondate, aquile che volano nel cielo. I 40 minuti migliori di Udaipur con il sole. Al ritorno, visita di cortesia al negozio collegato alla casa dove dorme il nostro autista, non dobbiamo comprare ma almeno farci vedere così che lui non abbia problemi. Oggetti di palese fattura industriale, ma il massimo è una sedicente Top Quality pachmina proposta a 16.800 Rs. Esattamente quanto me ne sono costate 4 a Jaisalmer che, per di più, sembrano di fattura superiore. 12/8 La cena di ieri al Jaghat Niwas, è stata ottima, un pollo al limone con patate al forno e verdure miste, seguito da gelato alla vaniglia mentre Ale vantava le qualità del suo pollo all’afghana. La serata si è chiusa piacevolmente, chiaccherando con Stefano e Alessandra, simpatici romani giramondo che sono arrivati oggi al Sai Niwas. Scrivo ora, alle 18.00, dal patio del Sunset Hotel di Puskar, 8 ore e rotti di macchina per arrivare fin qui e, mentre aspettiamo una pizza margherita (!), ripercorro la giornata.

Lungo la strada ci siamo fermati alla fortezza di Chittaugarh, gigantesca, oltre 5 km di mura su vari livelli, piena di palazzi, torri e templi. Ecco che però il corso dei miei pensieri viene deviato dall’arrivo della pizza, buona e, per un euro, ottima, mentre un tizio ha iniziato a tambureggiare selvaggiamente davanti a noi e la gente aumenta per vedere il tramonto. Mica male Puskar! 13/8 In effetti, Puskar non offre molto, ma a noi basta. Mi spiego. Abbiamo completato il periplo del lago, compreso il ponticello che va attraversato scalzi perché passa sul lago sacro a Brama. L’80% della cittadina è un susseguirsi di negozietti e di mendicanti, con mucche e maiali (a proposito, che ci fanno di tanti maiali se non li mangiano?).

Ora, seduti di nuovo al Sunset, è chiaro che c’è solo da far passare il tempo contemplando il lago. A me non dispiace, mentre Ale smania che vorrebbe già partire perché ha visto quello che c’era da vedere.

Non mi sembra sia entrato nella giusta sintonia con il luogo. Invece il pomeriggio trascorre tranquillo, tra una coca e una patata al forno con formaggio ai funghi (l’intera città è vegetariana), per cenare poi con due simpatici piemontesi forse un pò imbranati.

14/8 Sono cadavere (again). Lasciata con rimpianto Puskar, ci fermiamo nella vicina Ajmer per vedere la tomba del “famoso” santo sufi Khaja-ud-Din Chisthi (?). Con annessa moschea. Questa volta lo spettacolo degli storpi e del mercato che attraversiamo per arrivare alla cittadella è davvero il più duro da quando siamo qui, evito i dettagli.

Ci tocca, poi, toglierci le scarpe e veniamo letteralmente proiettati dalla folla tramite un ingresso che profuma delle migliaia di petali in vendita per le offerte al santo. Riusciamo, quindi, a farci comprimere come sardine all’interno della stessa tomba, una piccola cappella di cui ricordo solo un impressionante drappo nero che cala dal soffitto segnato di iscrizioni di verde brillante. La calca è terrificante.

Il ritorno alla macchina, sempre tra bancarelle e mendicanti, mi dà quasi il colpo di grazia, ma il mio stomaco resiste. Ale fa l’impavido.

Si prosegue per Jaipur in una lotta al coltello con centinaia di camion che percorrono la nostra stessa strada. Quasi tre ore per poco più di 100 km ma alle 15.00 siamo di nuovo in pista, prima City Palace dove ci fanno pagare per la macchina fotografica che quasi non si può usare. Divieto nella sala delle vesti, delle armi e delle arti nonché altre sale proprio non visitabili. Comunque il complesso è di un rosso ocra non male e numerosi sono i padiglioni.

Lo spettacolo vero è, in realtà, all’osservatorio astronomico dove costruzioni gigantesche e metafisiche, per un osservatore non edotto, servivano e servono a calcolare l’ora, gli ascendenti, le eclissi etc. E’ uno spettacolo di scale ed edifici degno di un disegno di Escher, eravamo nel XVIII secolo.

Dopo che Gurnam ci ha inutilmente portato in un paio di negozi di gioielli palesemente per polli, decidiamo di fare da noi e ci facciamo avanti e indietro lo Johar Bazar che, sotto dei bei portici, contiene innumerevoli negozietti pieni di vita locale.

Troviamo i ciondolini che cercavamo, io un Ganesh portafortuna per la nuova macchina in arrivo a settembre.

In serata tentiamo, follemente a piedi, di raggiungere il ristorante prescelto.

Avventura dantesca. Buio, polvere, auto, biciclette, moto, puzza di improbabili ristoranti su strada e vacche. Convinco l’Ale a prendere un rickshaw e raggiungiamo il Niro’s, tra i migliori indirizzi segnalati.

Lui, poi, si lamenterà dell’aria condizionata, ma io mi godrò un’ottima”piccatta” di pollo e delle infuocate patate al curry. Si chiude chiaccherando in hotel con Silvana, incontrata sul volo dall’Italia e che pare si stia appena riprendendo da 5 giorni di malattia. Mi sa che ha voluto fare un pò troppo l’indiana, con il suo amore per i ristoranti vegetariani.

15/8 Il ferragosto viene degnamente celebrato. In quattro massacranti ore visitiamo tre splendidi forti nei dintorni di Jaipur.

Dell’opulenza: Amber, della grandiosità: Jhaigharath, della decadenza dorata: Naigharath.

Al di là delle peculiarità di questi giganti, colpisce anche molto il complesso difensivo che essi costituiscono e costituivano, uniti come sono da mura che si inseguono su tutte le alte colline che difendevano naturalmente Jaipur da questo lato. Nel secondo e terzo caso, poi, è ancora più piacevole per la quasi totale assenza di turisti come noi. Sembra che il giro classico dei tour organizzati contempli solo Amber, se ce ne rallegriamo personalmente, certo quei tour si potranno dire largamente incompleti.

Ho le gambe doloranti per gli scalini affrontati, ma questa parte della visita a Jaipur è veramente memorabile.

Domani si parte per Agra ia Fathepur Sikri, altre due tappe importanti in un viaggio di gran carriera, questa terra, però, è talmente ricca di storia che non so proprio come avremmo potuto fare diversamente.

La cena da Niro’s sembra ok, il pollo al limone dovrebbe essere inoffensivo ma lui o il gelato, che per la gola ci concediamo, rovinerà a me la notte e ad Ale la mattinata successiva.

16/8 Partenza alle 9.00 di una lunga giornata. Sempre camion, vacche e tutto il resto fino alle 14.00 quando finalmente arriviamo a Fathepur Sikri la capitale voluta dall’imperatore mughal Akbar. Il complesso abitativo è vastissimo ma anche molto pesante nella sua architettura priva di curve e raramente ornata da qualche motivo floreale.

Anche qui il colore dominante è il rosso ocra. Nelle immediate vicinanze sorge una immensa Moschea, si parla di una copia di quella della Mecca (!). La porta d’ingresso è meravigliosamente intarsiata e non posso esimermi dal togliermi le scarpe anche se vorrei proprio evitarlo.

Ad Agra arriviamo verso le 16.00 ma la ricerca dell’albergo è complicata. E’ il sabato dopo la festa dell’indipendenza e la città è piena di turisti, soprattutto locali. Dopo 6 tentativi finiamo all’Athithi che pare vantare pure una piscina. Finalmente possiamo andare al Taj, la cui cupola abbiamo intravisto ne vari giri.

Per 15 euro ci danno l’accesso ad una vera meraviglia o, secondo altri,ad una massa di marmo bianco.

Per me come per Ale il complesso ha, nonostante le dimensioni, una grande leggerezza e grazia. Sono probabilmente le enormi nicchie concave che ne facilitano la fruibilità. Per l’interno dovrò ancora andare scalzo, ma la ringhiera di marmo traforato che circonda le tombe Shah Jan e della sua musa, ispiratrice di tutto questo, mi ripaga ampiamente.

Forse la stanchezza della giornata non ci permette di godere appieno ma riconosco che si tratta di una delle cose più impressionanti viste finora.

Peccato che i locali si dimostrino molto poco rispettosi di quella che, dopo tutto, è una tomba, urlando per provare il rimbombo degli interni.

Fortunatamente la piscina resta aperta sino alle 19.00 e possiamo goderci una mezz’ora di vero relax prima di prepararci per il vicino Pizza Hut. Quest’ultimo si rivelerà economico ed assai affidabile.

17/8 Lo posso dire, lo dico, sono un pò stanco, non del paese ma della lontananza da casa. Oggi tappone, 5 ore e mezza per Orccha sulla strada per Khajhurao.

Niente da fare, anche questa volta siamo costretti ad ammettere la peculiarità, la bellezza ed il fascino di questi luoghi. Il paese in sè è piccolo e rilassato, e già questo è un merito, poi è circondato da palazzi e templi dalle architetture ardite e piacevoli.

Ammiriamo, in particolare, gli affreschi ancora policromi al Khshami Narayan Temple che è in fase di restauro e pieno di impalcature alla buona che scavalchiamo impavidamente.

Soldati a cavallo, elefanti alla carica, divinità e animali vari, la fantasia dei disegnatori si era proprio sbizzarita in questo tempio hindu.

Stasera ceneremo al ristorante dello Sheesh Mahal, il palazzo principale del maraja locale, speriamo che, oltre all’ambientazione affascinante, la cucina non riservi sorprese spiacevoli. In effetti, nonostante la chiara vetustà del posto gli springroll al pollo sono ottimi, come anche il pollo arrosto, e la compagnia dei torinesi Marco e Marina assai piacevole. Orccha si conferma una meta interessante.

18/8 Tappone di 5 ore e rotte per Khajurhao e location a “casa William” locanda suggerita da un’amica di Ale.

Il tizio che ci accoglie in un discreto italiano è effettivamente disponibile e premuroso ma capiremo presto che il luogo ha vissuto giorni migliori. Tra l’altro, il cuoco specializzato in cucina italiana ha da poco abbandonato, perché ? Piove a dirotto e per 3, 4 ore vegetiamo in una triste sala ristorante. Il giudizio di “eccellente” che gli attribuisce la Lonely planet deve appartenere al passato. Finalmente spiove e proviamo a fare quattro passi, il paesino è minuscolo, abbondano i locali che garantiscono prelibatezze nostrane (!). Ci colpisce in particolare il Mediterraneo che garantisce “chef trained in Rome” e che si rivelerà ottimo dispensatore di pizza tranne che per Ale. Volendo strafare, ne ordina una seconda Indian style che necessiterà di 12 ore di digestione.

19/8 La mattina si apre bene e male, in effetti piove ancora a dirotto ma si fa colazione con Adelasia (!), portentoso esempio di viaggiatrice solitaria miniera di aneddoti e di consigli. I templi principali sono a 100 m dall’albergo, per cui cominciamo da quelli più piccoli e distanti. Francamente non ci impressionano e, cosa più grave, le poche scene erotiche dei templi principali, che alla fine raggiungiamo, non sembrano giustificare la nostra presenza qui.

Ale è particolarmente scorato e progetta improbabili deviazioni a Varanasi che, in ogni caso so fin da Roma non condividerò. Non credo di amare ed apprezzare l’India, amo il Rajasthan che, sempre di più, risulta farne parte solo sulla cartina. A dirla tutta, dopo un paio d’ore trascorse in piscina e all’inizio di un tramonto alquanto limpido, anche questo luogo emana un certo fascino agreste. Tuttavia, la piccola Orccha trasmetteva sensazioni analoghe con attrattive archeologiche ben maggiori. Per cena torneremo sicuramente al Mediterraneo e la terza notte qui è già stata cancellata. Domani Gwalior. Il Mediterraneo si conferma con pollo “roman style” e agnello alla cacciatora.

20/8 E’ il mantra di questo viaggio, anche oggi mega tappa di 6 ore, ma permette di percepirne la dimensione. Le distanze non sono enormi ma le strade pessime, le condizioni di traffico allucinanti e il paesaggio sempre monotono quando non proprio squallido. Per quello che ho visto l’India del nord contiene molte perle in un mare di immondizia e di sterco di vacca.

Gwalior non si presenta bene, e dopo aver scartato il Surya ci sembra accettabile la stanza proposta dal Residency hotel.

Dopo un’ora scappiamo, mozzicati da insetti invisibili ma voraci, da una stanza senza finestre invasa da formiche e con l’aerazione insufficiente. Ancora stravolti dal viaggio ci buttiamo al Regency, di meglio c’è solo il palazzo del maraja, costa un botto, la stanza ha il frigo ma le pareti scrostate, la piscina ma una notevole puzza nella hall e ai piani, insomma il lusso indiano. Comunque ci sta bene e confidiamo nel discreto aspetto del ristorante. Quest’ultimo non ci tradirà anche se io non andrò oltre al pollo al limone. Ale comunque riporterà impressioni favorevoli dal suo pollo in salsa verde piccante. Il tutto allietato da alcuni musici tra cui una ragazza dalla voce molto piacevole.

Al termine ci verrà portato l’ennesimo conto sbagliato a nostro danno, ma ci siamo abituati.

21/8 Con una certa sufficienza e pregiudizio negativo cominciamo la visita al forte di Gwalior ma, ancora una volta, ne usciremo più che soddisfatti.

Intanto, mentre Gurnam affronta la salita, scorgiamo delle imponenti sculture giainiste scolpite direttamente dentro la roccia di cui rimandiamo la visita. Quindi ci si inerpica sino al palazzo del maraja. Tutto sommato non è molto grande ma la facciata esterna porta ancora ampi esempi del maiolicato policromo che un tempo la ricopriva integralmente, vi erano raffigurate anatre, elefanti e altri animali oltre a vari motivi floreali, decisamente bello.

L’interno, ormai spoglio, presenta ancora animali scolpiti per reggere piccoli porticati e splendidi lavori di traforo raffiguranti ballerine. Subito a seguire molteplici padiglioni e palazzi, decisamente fatiscenti ma in un’atmosfera molto tranquilla, compongono la vecchia cittadella.

Un’immensa cisterna, piena si e no per un quarto, ospita, da un lato, dei bufali al bagno, dall’altro i giochi d’acqua di una decina di ragazzi. Spero molto nella foto scattata.

La vista aperta sulla città e la campagna sottostanti non è eccezionale anche se favorita da uno dei rari cieli limpidi di questa vacanza.

Si riprende il giro in macchina per raggiungere prima due templi indù, tanto imponenti nell’architettura quanto curati nelle pareti scolpite, in particolare il maggiore, il Sasbhau. Poi tocca al nostro autista condurci ai misteri del locale tempio Sikh. In realtà saremo accolti da una sorta di guardiano, con barba e turbante di ordinanza, che ci terrà molto a darci le informazioni di base sulla loro fede e, poi, ci offrirà il tè che proprio non ci sentiremo di rifiutare.

Lo consumeremo nella vicina sala di accoglienza, i Sikh sono noti per la loro disponibilità nei confronti dei poveri. Sarà indubbiamente l’atto più potenzialmente pericoloso compiuto fino ad oggi ma la gentilezza del nostro ospite lo imponeva. In effetti, comunque, né io né Ale finiremo per accusare problemi particolari.

L’ultima visita nella cittadella è ad un’imponente struttura templare, il Tali-ka-mandir che, tra l’altro, presenta delle figure erotiche assai finemente incise nella pietra.

Iniziata la discesa dalla cittadella, ci fermiamo ben presto per fotografare le molte figure umane, in piedi e accovacciate, alcune delle quali sono alte ben oltre i sei, sette metri. Insomma la mattinata risulta ottimamente spesa ed il bagno in piscina ci rinfranca del caldo sofferto, anche se il sole, che picchia inesorabile, quasi ci ustiona.

Il programma di ritorno prevede una tarda partenza per Delhi dove, alle tragiche sei di mattina del 23 agosto, dovremmo imbarcarci per Kuwait-city. Alla quasi fine della fiera sono contento di tornare ma anche molto di essere venuto.

22/8, ore 23.20, cotti e sonnecchianti sulle poltrone dell’Indira Gandhi Iternational Airport, iniziamo la nostra odissea del ritorno. Per riuscire ad arrivare qui a quest’ora ci siamo inventati di tutto.

Partenza alle 11.30 da Gwalior, soste a Mathura e Vrindavan, subito dopo Agra. Nella prima, visita al grande complesso che racchiude il luogo di nascita di Krishna, la Betlemme degli Hindu, vietate le foto e siamo perquisiti come mai ci era capitato. Molti hindu affollano gli spazi, del resto solo l’altro ieri si celebrava proprio la nascita dell’avatar. Nel complesso l’insieme è pacchiano ai nostri occhi, soprattutto le tante statue pluricolorate a grandezza naturale.

Nella seconda località, nota per le sue centinaia di templi, rapida visita al Govind Temple, decantato dalla Lonely Planet ma che ci lascia indifferenti ed al quartier generale mondiale (!) degli Hare Krishna.

Rifiuto di togliermi le scarpe e non entro, ma Ale mi informerà di statue dorate e di alcuni occidentali, ormai acquisiti al nuovo culto, che suonano nelle stanze del tempio.

Io, aspettando fuori, ho finito per farmi un’ulteriore immersione nell’India caotica e sudicia che non amo ma che, devo ammetterlo, ha un certo fascino.

A Delhi arriviamo alle 20.30 al Chor Bizzarre dove consumiamo una cena assai lunga per i nostri standard, due ore, ma sono io che contribuisco in gran parte a giustificare la nostra permanenza gustando, tra l’altro, nuovamente il fantastico Tandoori Sampler.

Gurnam ci lascia all’areoporto e noi gli lasciamo una meritata mancia che, dal suo sorriso, riteniamo lo soddisfi pienamente, tentiamo infine un’improrobabile foto a tre affidando la macchina ad un incapace locale che non verrà poi tanto male… Ciao India.



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