Dall’Himalaya al Gange..

19 Settembre 2008 In volo Londra, h.18.08, il volo 257 della British Airways con destinazione Delhi è decollato da pochi minuti, ancora sotto ai miei occhi il cielo incredibilmente limpido della City, mi permette di scorgere le campagne londinesi. Sto volando verso l’India, un nuovo viaggio è cominciato, un nuovo sogno da concretizzare e...
Scritto da: vagamondi
dall'himalaya al gange..
Partenza il: 19/09/2008
Ritorno il: 11/10/2008
Viaggiatori: in coppia
Spesa: 1000 €
19 Settembre 2008 In volo Londra, h.18.08, il volo 257 della British Airways con destinazione Delhi è decollato da pochi minuti, ancora sotto ai miei occhi il cielo incredibilmente limpido della City, mi permette di scorgere le campagne londinesi. Sto volando verso l’India, un nuovo viaggio è cominciato, un nuovo sogno da concretizzare e trasformare in esperienza e realtà. Era ora. E’ passato più di un anno dall’ultima incredibile ed indimenticabile avventura in Tibet e Nepal e col passare dei mesi, il mio animo stava diventando sempre più inquieto. Ladakh, e poi Uttar Pradesh, dall’Himalaya al Gange…Tutto nato quasi per caso, tra una chiacchera e l’altra durante un pranzo indiano (anzi, un colanzo!) al Tempio d’Oro, con chi oggi sta condividendo con me questo viaggio: Graziana, ormai inseparabile compagna di viaggio oltrechè amica vera, di quelle senza le quali tutto avrebbe meno senso, e due nuovi compagni, Velcha e Francesco. Non vedo l’ora di essere a Delhi, ma ci vorranno ancora tante ore, ed ho sonno, anche se mi conosco, e sarà dura addormentarsi…Lunga giornata quella di oggi, cominciata all’alba di una delle tante grigie mattinate milanesi, sotto una leggera pioggia, quasi a segnare la fine dell’estate, e dopo una notte semi insonne per colpa dell’ultima zanzara stagionale…E poi via all’aereoporto di Linate, in abbondante anticipo…Fra un po’ mi aspetta Delhi, il sonno può aspettare… 20 Settembre 2008 Delhi, h.17.40. Sconvolgente. Non mi vengono in mente altre parole per descrivere il primo impatto con Delhi. Eppure ero preparato, ho vissuto impatti con città e realtà in ogni parte del mondo, ma Delhi un po’ mi spaventa, perché non riesco a decifrarla. Tra il volo aereo e la notte semi insonne milanese, ormai son 48 ore che non chiudo occhio, sono distrutto. Delhi ci accoglie con la pioggia, ed è un sollievo vedere all’uscita dell’aereoporto il nome di Velcha su un cartello retto da un ragazzo che, come da accordi intercorsi dall’Italia via email, ci porterà alla Wonghden House. La prima folle corsa ammassati coi nostri zaini in una piccola utilitaria; le regole della strada qua non esistono, il chè non mi sorprende: tutti suonano per avvertire della loro presenza, considerando che l’uso degli specchietti è sconosciuto, e cambiare corsia è la norma, è anche un bene. Piove, fango ovunque, tanti tuk tuk che spuntano da tutte le parti, qualche ciclista che da solo trasporta carichi enormi, che neanche un minivan da noi riuscirebbe, piccole baracche fatte di fango e mattoni, enormi vacche, qualche bambino che osserva il passaggio delle auto, e tanta, tanta gente, persone di ogni età, non si capisce dove vadano o cosa aspettino, ma sono davvero tante. Arriviamo al quartiere tibetano (Tibetan Refuge Colony) a nord di Delhi, completamente diverso dalle zone attraversate in auto per arrivarci: è un labirinto di piccoli e bui vicoli, abitato solo da esuli tibetani, ed è infatti evidente la differenza dei tratti somatici. La Wonghden House è una pensione dignitosa, doppia con bagno in camera 475 rupie a notte, considerando il cambio 64 rupie a 1 euro, è un buon prezzo. Ci offrono anche un thè di benvenuto, giusto il tempo di posare gli zaini e riprenderci un minimo, e sian già fuori, non avrebbe senso addormentarsi ora che è ancora mattina qua…Su indicazione della ragazza tibetana della reception, prendiamo un tuk tuk a pedali, guidato da un anziano (indiano) che spinge come un dannato nel caotico (ed è solo sabato) traffico della città fino ad arrivare alla stazione Vidhan Saqbha della Metropolitana, che dista non più di un quarto d’ora dalla guesthouse. Il viaggio a coppie su due tuk tuk ci costa solo 40 rupie! Scendendo le scale della fermata, appare un altro mondo, un’altra realtà: tutto è pulitissimo e lucido, pochissime persone, l’esatto contrario di qualche istante fa. I biglietti della metro son dei piccoli gettoni di plastica il cui prezzo varia a seconda della fermata a cui si intende scendere. È tutto ultra moderno, e prima di entrare ai binari, bisogna passare il controllo al metaldetector, e aprire zaini e borse per la perquisizione dei poliziotti, numerosi per timore degli attentati di matrice religiosa che anche solo qualche giorno fa, hanno provocato morti nei mercati della città. Anche i vagoni sono pulitissimi, è assolutamente vietato perfino mangiare o bere qua sotto. Mai visto, neanche a Londra, una metropolitana così moderna e futuristica, se penso alle nostre, mi sembra di essere nel futuro…E invece sono…In India! Rispuntiamo in superficie e tutto cambia…Stiamo andando alla stazione ferroviaria per prenotare i biglietti che ci occorreranno per il proseguio del viaggio una volta rientrati dal Ladakh. La stazione è un luogo già di per sé caotico, ma qua è tutto amplificato. Per arrivare all’ufficio prenotazioni, bisogna attraversare un ponte che passa sopra ai numerosi binari, ed è un impresa: fa caldo, e ci mescoliamo a quello che è un fiume umano, una mescolanza di razze e etnie mai vista prima. Tantissima gente, si fa fatica a rimanere vicini, indù, musulmani, qualche raro viaggiatore che parte o arriva col suo gigantesco zaino…Tanti, tanto poveri, ma povertà estrema, gente mutilata, gente che dorme e che a fatica riesci ad intuire se sta ancora respirando, gente che nonostante corporature esili, trasporta di tutto…Fa impressione così tanta gente che scorre…Arriviamo a fatica all’ufficio prenotazioni, un’oasi dal marasma umano, almeno ci sono i ventilatori che fanno aria. Prenotiamo i nostri biglietti per la seconda parte del viaggio, purtroppo la scorbutica addetta alla biglietteria ci dice che non ci son più le prime classi, proveremo l’esperienza della terza, nonostante la fama dei treni qua non sia delle migliori e ci toccheranno lunghi spostamenti notturni, ma non abbiamo scelta. Ripercorriamo il ponte attraversato dal fiume umano, e facciamo un primo breve giro a Connaught Place, dove ci fermiamo anche a mangiare…Ha smesso di piovere, non è ancora sera quando in metro e poi in tuk tuk rientriamo in guesthouse. Sono anche stanco, ma questo primo impatto con Delhi un po’ mi ha turbato: domani all’alba voleremo in Ladakh, un’altra cosa, poi torneremo qua…Ma qual è la vera Delhi? Possibile che basti scendere qualche gradino sotterraneo per scoprire una realtà così diversa dalla superficie? Dove, come e quando si incontrano questi due mondi? Abbiamo girato solo qualche ora, e siam passati dal giovane vestito alla moda in metrò che ascolta la musica dal suo Ipod, alle donne con bimbi anche piccolissimi che bivaccano per strada vestiti di qualche sporco straccio, dal poliziotto serio e teso che vigila agli angoli delle strade, all’anziano mutilato invisibile agli occhi del fiume umano di persone che gli passa accanto…Genti diverse, vesti diverse a seconda dell’appartenenza religiosa, donne dai sari coloratissimi, uomini arabi in tunica bianca, sik col turbante…Sembra che queste realtà si incrocino ma senza mai incontrarsi veramente. Tutto questo mi fa sentire un po’ spaesato. Qual è il vero volto di Delhi? Non riesco a darmi una risposta, o forse non c’è…Ci dormirò su. Sono in India…Un nuovo viaggio sta cominciando… 21 Settembre 2008 Ladakh Delhi è ancora buia, non piove, son da poco passate le 4 del mattino quando arriva il taxi prenotato la sera prima per portarci in aereoporto. Facciamo con zaino in spalla il piccolo tratto tra i vicoli che ci porta sulla strada e da lì partiamo. Appena usciti dal quartiere tibetano, mi fa impressione vedere centinaia di persone che dormono ai bordi delle strade, o sui marciapiedi: intere famiglie, qualcuno si è appena alzato, son tantissimi e di tutte le età, sembrano, così sdraiati e coperti, tanti cadaveri, tra i quali si aggirano i cani randagi in cerca di cibo. E’ una scena quasi straziante. Sulla strada quasi solo camion, con la scritta “Horn Please” ovunque, un invito a suonare per segnalare il sorpasso! Il nostro tassista, ma non solo lui, è incurante dei semafori rossi. In breve siamo all’aereoporto nazionale. Il volo della Jet airways è puntuale e il panorama che in breve ci si presenta dai finestrini è spettacolare: sotto di me la catena Himalayana, con le vette ricoperte di neve e un cielo blu intenso. In un’ora siamo a Leh, la capitale del Ladakh. Appena metto piede a terra mi coglie una strana sensazione, mi sembra di essere di nuovo in Tibet, mi sembra di tornare in un recente ed indimenticabile passato. Il primo impatto è proprio questo: sono già entusiasta, l’aria rarefatta, poca gente e il silenzio, una tranquillità che subito mi rapisce…Tutto attorno già al piccolo aereoporto, imponenti montagne. Il Ladakh…Cerco un taxi, mi indicano che c’è un piccolo ufficio che ci assegnerà un tassista tra quelli presenti, infatti i prezzi sono fissati da una cooperativa gestita dal sindacato, e così partiamo a bordo di un piccolo minivan guidato da un esile e simpatico uomo, dai lineamenti tipicamente tibetani. Qui tutta la popolazione o quasi è tibetana, questa è la prima evidente differenza rispetto a Delhi. Le prime enormi ruote di preghiera, le file di bandierine colorate che si muovono nell’aria, le cime innevate…Si, mi sembra di essere in Tibet, e mi sento già bene! Arriviamo e per fortuna troviamo posto, alla Jigmet Guesthouse (Upper Tukcha Rd, Jigmetguesthouse@yahoo.Com) bella e accogliente sistemazione, con un grande e fioritissimo giardino, dove è possibile pure mangiare all’ombra di un enorme albero di mele. L’atmosfera è proprio tranquilla e familiare. Anche la camera, dotata di bagno, è proprio carina, nonostante sia la numero 119…Non sto nella pelle, sono rapito da tutto…Velcha saggiamente ha chiesto il numero di telefono del nostro gentile tassista, così nei prossimi giorni ci affideremo a lui nel caso avessimo bisogno di spostarci. Anche se Leh a prima vista sembra proprio a misura d’uomo. Sono impaziente, in breve tempo siamo già a spasso per le tranquille vie di Leh. I primi tre giorni li passeremo qui, per l’acclimatamento, necessario a queste altitudini (già qui siamo a 3500 metri, e saliremo nei prossimi giorni). Movimenti lenti e tanta acqua da bere, Dalla Jigmet percorrendo un piccolo e stretto vicolo in discesa, contornato da mura basse e bianche, si arriva in pochi minuti al centro, ma prima, dopo aver incrociato la prima mucca sul nostro cammino, ci concediamo un pranzo in un piccolo ristorante tibetano, il Tedzin: all’interno poster che inneggiano all’indipendenza del Tibet, la bandiera e l’immancabile foto del Dalai Lama. Finalmente, mentre Fra e Graziana si abbuffano, riassaporo gli squisiti momo, quelli fritti al formaggio sono squisiti. Così come buonissimo è il thè tibetano che l’anziana signora del ristorante ci serve, il Sorig herbal thè! Cominciamo a curiosare senza meta per Leh; subito i primi acquisti in un mercatino di bancarelle tibetane. Ci sono anche diverse persone musulmane, dai tratti somatici e dall’abbigliamento totalmente diverso dai tibetani; molti di loro hanno delle piccole botteghe di artigianato e abbigliamento, qui da sempre le due etnie convivono pacificamente. Tutto sembra tranquillo…Come primo impatto devo dire ottimo! Non funziona il cellulare qui, copertura zero, sarò un po’ isolato, ma in fondo non mi dispiace più di tanto. A pochi passi c’è un piccolo internet point da cui eventualmente chiamare in Italia. Peccato solo che la sera mi prende una terribile cervicale che mi rovina un po’ la serata e non mi fa gustare il kebab afgano che avevo preso! 22 Settembre 2008 Secondo giorno in Ladakh, alla scoperta di Leh. Alla Jigmet non c’è acqua calda, farsi la doccia coi secchi di acqua bollente che chiediamo al signor Jigmet è un po’ un’impresa, ma ce la si fa! Al mattino tramite il “nostro” ormai personale tassista, ci facciamo portare al Leh Palace, il vecchio edificio che sovrasta dall’alto la città, impossibile da raggiungere a piedi se non con ore di cammino. Ci facciamo lasciare nei pressi, e proseguiamo a piedi. Attraverso una ripida e sconnessa scalinata in discesa, si arriva prima ad un piccolo Gompa, la porta è però chiusa con un enorme lucchetto. Non c’è nessuno se non qualche anziano, che vedendomi, chiama una vecchia signora che sorridente viene ad aprire la porta, indicandoci di togliere le scarpe per entrare. All’interno del piccolo e buio Gompa, solo una enorme e decoratissima statua del Budda, sarà alta almeno 20 metri, mi sento piccolissimo. Ringrazio l’anziana signora che ci aspetta sull’uscio, lasciando una piccola mancia. Tutto attorno a noi silenzio, e ovunque bandierine colorate, che sono ormai parte integrante dei magnifici paesaggi. Il Leh Palace all’ interno è vuoto, disabitato, non pensavo. In pratica è una serie di cuniculi bui, che portano alle varie stanze o terrazze. Da qui si vede il panorama di Leh dall’alto, ma è soprattutto l’atmosfera che colpisce. Il pomeriggio invece lo passiamo a spasso per Leh. Nella via centrale c’è la moschea, dai bizzarri colori verdi e bianco, punto di riferimento della comunità araba, con alle spalle, in lontananza e in cima ad una altura, il Leh Palace. Da lì inizia una lunga via piena di negozietti che vendono di tutto, artigianato, abbigliamento, articoli casalinghi e cibo! C’è anche Dozma, un negozietto segnalato dalla Loonely Planet, presso il quale è possibile rifornirsi di acqua, senza quindi inquinare comprando nuove bottiglie di plastica, ma riciclando le stesse, che fa anche da lavanderia ecologica, e vende alcuni prodotti biologici tra i quali delle squisite albicocche secche. E poi i mercatini con l’artigianato tibetano per cui ho un debole! Nelle polverose vie vagano mucche, asini e diversi cani, e noi! La sera poi dalla camera si sente chiaramente il richiamo del Muezzin che richiama i fedeli alla preghiera: è affascinante sentire nella tranquillità assoluta questo suono, e affacciarsi dalla finestra vedendo le piccole vie polverose di Leh, attraversate da mucche e gente tibetana, una strana mescolanza che sa di viaggio, di convivenza…Prima di cena, mi concedo un massaggio in camera fatto da un simpatico signore conosciuto lì alla Jigmet, che lo fa come lavoro. Prima un po’ titubanti, poi anche Gra, Fra e Velcha si fanno tentare. Ci voleva! Cena al ristorante Gesmo.

23 Settembre 2008 Stamattina, dopo colazione da Jigmet con thè marmellate e biscotti, partiamo per Alchi col “nostro” tassista di fiducia con il quale abbiamo concordato la cifra. Alchi rimane distante un paio di ore di strada da Leh in direzione ovest. Lungo la strada, mentre gli altri se la dormono, chiacchero col simpatico tassista e ammiro i primi scorci spettacolari della Valle dell’Indo, con la catena Himalayana che fa da cornice. Il paesaggio è di quelli che ti tolgono il fiato. In alcuni tratti ci sono lavori in corso, con uomini e donne dall’aspetto minuto, che fanno l’asfalto, senza macchinari, i volti sporchi e segnati dalla fatica, a volte coperti solo da un foulard. Alchi in sé anche se è un posto tranquillissimo non mi entusiasma più di tanto; visitiamo tre piccoli monasteri, poi lungo la strada del ritorno, ci fermiamo a pranzare in un ristorante a Nimmu, insieme al tassista. La vetrata sporca da proprio sulla fermata di quelli che dovrebbero essere degli autobus, e osservo la gente che sosta lungo la polverosa via centrale. Da mangiare solo carne di montone e acqua calda, qui di turisti non ne passano, e il tutto ci costa meno di un euro a testa. Poi di nuovo in auto, attraversando varie basi militari o lunghi convogli di camion militari. Non sembra proprio, ma a qualche centinaio di km da questi tranquilli posti, c’è il confine con il Pakistan, e la regione del Kashmir, da sempre zona di forti tensioni indo-pakistane. Oggi non è stata una gran giornata. A Leh riesco a rompere anche il filtro polarizzatore della mia macchina fotografica, non ne va una bene oggi, tra mille incomprensioni…Da casa non arrivano belle notizie: Morgana, la gatta di Graziana non sta bene da quando siam partiti…Sono un po’ preoccupato… 24 Settembre 2008 Cambio di programma: dovevamo partire per la Nubra Valley, invece il signor Jigmet, ci comunica che la strada è momentaneamente interrotta per la neve, quindi partiremo per lo Tso Morriri, che avremmo dovuto vedere più avanti, ma poco ci cambia. Tramite la Jigmet ci siam procurati i permessi necessari per visitare la zona e il fuoristrada 4×4 con autista, unico modo e mezzo per raggiungere sia la Nubra Valley che lo Tso Moriiri. Le autorità vietano agli stranieri di guidare in queste zone infatti, e inoltre la strada sarà lunga e impervia. Si parte di mattino presto, prima di uscire da Leh facciamo scorta di acqua. Si parte, l’autista ci dice che ci vorranno intorno alle 7 ore di strada. Subito lunghe file di convogli militari, che a poco a poco superiamo, incrociando pure una mandria di cavalli bradi. Il paesaggio cambia in continuazione, seguiamo il corso del fiume Indo, attraversando ampie vallate e poi strette gole, tra le alte vette Himalayane, che assumono di volta in volta colori incredibili, dal viola al verde, al marrone. Saliamo lungo una infinita serie di tornanti. L’autista è in gamba. Comincia la neve, e l’altitudine si fa sentire. Nonostante il freddo, ci fermiamo per una sosta, tra la neve, mangiando qualche crackers e qualche barretta energetica, non è sicuramente un pranzo adeguato, ma questo abbiamo…Risaliamo su in jeep, ancora poco e arriviamo a destinazione…Siamo allo Tso Moriiri…L’ho sempre visto nelle foto sul web, quando ancora questo viaggio era un sogno da programmare…E ora è qui davanti a me, proprio come me lo immaginavo: il lago è color turchese, intorno le vette appuntite ricoper6te di bianco, uno spettacolo unico. Siamo oltre i 4800 metri, la strada è stata lunga, difficile, ma siamo arrivati al piccolissimo villaggio di Korzok, fatto di poche case tibetane in calce, che si arrampicano su una collinetta dominata da tre grandi stupa anch’essi bianchi. Seminascosta tra le casette, una grande ruota di preghiera, accanto ad una grande tenda circolare dove ci rifugiamo, e dove una anziana donna, insieme alla figlia, ci offre un thè caldo col latte: a me e Graziana viene subito in mente la tenda al Campo base dell’Everest…La nostra mente e i nostri ricordi volano lì, in Tibet. E’ una sensazione bellissima, nonostante la fatica e il freddo, mi sento bene, a mio agio. Per Fra e Velcha è la prima volta in una situazione del genere. Korzok è piccolissima, come se fosse un’unica via, non c’è nulla da fare o da vedere, se non il piccolo monastero, pieno di affreschi. Poi tutto il pomeriggio, lo passiamo io e Gra a giocare coi piccoli abitanti di questo luogo dimenticato dal mondo. Siamo l’attrattiva del paese, i bambini non ci lasciano un solo istante, sono incuriositi, e subito cominciamo a familiarizzare con loro, giocando con le bolle di sapone. Una magia che li incanta, persino qualche adulto divertito si mescola a loro. Il tempo scorre lentamente, passeggiando tenendo per mano qualche divertito bambino, e giocando a tirarli su in braccio uno alla volta; si divertono e ridono come matti, io faccio una fatica infinita, a questa altitudine sembra di sollevare dei macigni, ma è troppo divertente ed emozionante per rinunciarvi! Graziana mi fa delle bellissime foto mentre gioco con loro. E loro stessi si divertono un sacco a farsi fotografare da me e a rivedersi nella macchina. Hanno i volti segnati dal sole, la pelle rovinata, vestiti sporchi e semirotti, un bambino è perfino scalzo. Non stiamo facendo nulla di speciale, ma nei loro occhi si legge una certa spensierata felicità nel giocare con noi. Un pomeriggio bellissimo e indimenticabile! Non comunichiamo in nessuna lingua, qua non sono certo abituati a vedere passare qualche straniero, e per loro è una gioia, le parole non servono. Anche i pochi adulti presenti sono incuriositi da noi, siamo così strani per loro. Nel paese non c’è acqua calda né tantomeno corrente, c’è solo una piccola fontana a pompa dalla quale esce acqua gelata! Quando si fa buio il freddo si fa sentire, i bambini rientrano richiamati dai genitori nelle loro case, torna qualche adulto col suo numeroso gregge di pecore lungo la strada, e noi ci rifugiamo tutti e 4 nella tenda dell’anziana signora, che fa da ristorante del posto, con tanto di insegna dipinta fuori! Cala il silenzio e il buio, non c’è illuminazione, ma il cielo terso e pieno di stelle è uno spettacolo difficile da dimenticare. Ceniamo in tenda seduti su piccoli divanetti, con riso e lenticchie e thè caldo. Ai piedi qualche stufetta dall’aspetto poco rassicurante. Nella tenda (che ho scoperto vende anche dei pacchetti di tik tak!!!) si rifugiano insieme a noi, gli altri unici ospiti della zona, un gruppo di simpatici ragazzi e ragazze spagnoli, che ci raccontano di Varanasi: hanno fatto il giro inverso rispetto a quello che faremo noi, sono rimasti affascinati dal Gange, ma sembra un mondo talmente lontano da qua…La notte la passiamo in una sorta di camera, non si capisce bene se è una guesthouse, ce la indica il nostro autista, ma probabilmente è una stanza di qualche casetta di qualcuno. Ma c’è solo la stanza, per terra due materassini molli, sopra una stuoia di plastica che copre il pavimento che…Non c’è! Terra battuta…Per coprirsi coperte che assomigliano più a dei tappeti di yak, pesantissime! Niente luce, solo la nostra piccola torcia, indispensabile, anche perché il bagno è fuori, lontano qualche decina di metri dalla camera, lo si raggiunge attraversando una salita e un piccolo recinto di asini, e altro non è che una piccola porta che da su una latrina stile tibetano: buco nel terreno e terra con pala per ricoprire il tutto…Sarà una lunga notte..Insonne, a caccia di insetti e con piccoli pezzi di terra che cadono dal soffitto, potrebbe essere il set di un film horror…Domani saremo ancora qui, e non vedo l’ora di giocare ancora… 25 Settembre 2008 Notte insonne e dura, forse la più difficile da quando viaggio…Tanto freddo. Facciamo colazione in tenda, poi ci dividiamo, Fra e Velcha fanno una passeggiata giù verso il lago, io e Graziana ciondoliamo nell’unica strada di Korzok, in compagnia dei bimbi di ieri che subito ci assalgono per giocare e stare in nostra compagnia. Regaliamo loro qualche piccolo gioco, una cosa inaspettata per loro, anche una semplice pallina li entusiasma, non credo conoscano il significato di un regalo, non ne hanno mai avuto uno forse. Regalo anche una mia giacca ad una signora, e Gra un po’ di creme alle signore e le ragazze del luogo. Ci si intende a gesti. Ma il regalo per tutti più emozionante, è la polaroid. Come in Mongolia e in Tibet, anche qui in questo sperduto angolo di mondo tra India e Tibet, nessuno ha mai visto la propria immagine in una fotografia, e la polaroid è il regalo più bello e unico che possano immaginare. Vedere gli sguardi prima titubanti, poi meravigliati, stupiti e poi felici mentre capiscono che la foto prende forma e che resterà a loro, è un’emozione troppo grande da descrivere. I bambini si divertono a riconoscersi nelle foto, i genitori ci chiedono la foto di famiglia coi loro piccoli, e poi se la riguardano entusiasti, come se fosse una magia. E un po’ lo è. Ma anche per noi. Una signora va perfino in casa dicendo di aspettare, ed esce poi con un bizzarro vestito che sembra più un tappeto sulle spalle, e il tipico cappello tradizionale laddako, per farsi fare la foto. Insomma, non più solo i bambini, ma ora anche gli adulti, tutti nel paese ci adottano! Raduniamo a gruppi (visto che le polaroid non sono illimitate) gli abitanti che si mettono in posa per la fotografia, compresi i piccoli monaci tutti col loro cappellino bordeaux. Sembra il set di un film. Il rapporto che si crea con queste persone è unico, vorrei rimanere qui ancora a lungo, ma ci tocca ritornare. E’ gente semplice, dalla vita monotona ma dura, dalle condizioni ambientali e di vita difficili. Ma gente che ancora sa sorridere e gioire per le cose più semplici, penso ai bambini che ci salutano come se fossimo stati per loro una sorta di regalo. Sono gli stessi sorrisi e gli stessi sguardi già visti e vissuti in Tibet, con Gra basta guardarsi per capire che entrambi siamo felici, perchè queste sono le emozioni più belle e pure che un viaggio può regalare. Il contatto con le persone, con la gente, dove non serve parlare la stessa lingua per capirsi, basta incrociare gli sguardi…Nel nostro piccolo abbiamo regalato qualche sorriso, non è abbastanza, ma fa stare bene loro e anche noi…Questi due giorni allo Tso Moriiri è impossibile dimenticarli, rimangono impressi, non solo nei primi piani dei volti dei nostri piccoli compagni di gioco, ma anche nei nostri cuori…Si riparte, è già tardi e la strada è lunga. Tempo delle ultime foto al volo ai bordi del lago e via, ad affrontare di nuovo la lunga serie di tornanti per tornare a Leh. Rischiamo anche un frontale con una jeep che sbuca da una curva in senso inverso, per fortuna il nostro autista ha dei buoni riflessi! La strada è sempre spettacolare, facciamo a gara per chi riesce a vedere più marmotte: sono bellissime col loro culone gigante! Ci sono anche diversi yak dal lungo pelo nero, alcuni bianchi. Torniamo a costeggiare da vicino l’Indo. Gra dopo una notte difficile si addormenta sulla mia spalla, anche Fra a cui tocca il turno a fianco all’autista, si addormenta con le mani attaccate alla maniglia del cruscotto davanti a lui, è buffissimo! Intanto l’autista ha la poco brillante idea di mettere su a metà tragitto un cd che fa ripartire a ripetizione, musica indiana ma troppo trash, Velcha non lo sopporta! Alla fine arriviamo sani e salvi ma distrutti dalla fatica alla Jigmet. Sono stati due giorni faticosi, ma emozionanti. Velcha non sta tanto bene, e rimane in guesthouse, così a giro tutti abbiamo avuto il nostro acciacco da viaggio. Io e Gra scendiamo fino all’internet point, finalmente buone notizie per Morgana, la sua gatta, che ha ricominciato a mangiare. Ora siamo tutti più sollevati! Cena da Gesmo in 3. L’abbaiare dei cani e il richiamo del Muezzin dalla moschea sono gli unici rumori che si sentono nella notte di Leh… 26 Settembre 2008 Risveglio faticoso, la camera della Jigmet è molto bella, ma il letto è duro, e dopo i due giorni allo Tso Moriiri…Sono ancora un provato. Per fortuna Velcha sta meglio. Ci separiamo, io e Gra chiamiamo il “nostro” tassista (non ricordo mai il nome) e ci facciamo portare appena fuori Leh, a Choglamasar. Andiamo a fare visita al Tibetan Children Village. Durante il breve tragitto scambio due chiacchere con lui: mi dice che ormai la stagione sta finendo, fra un po’ arriverà il grande freddo, e durante l’inverno lavorerà poco, a volte con un guadagno di un paio di rupie al giorno… Arriviamo: io e Gra da qualche mese sosteniamo il TCV di Dharamsala, che accoglie i piccoli tibetani orfani o esuli dal loro paese, quindi conosciamo le finalità e la serietà del progetto. Quando programmando questo viaggio abbiamo scoperto una sede del TCV anche a Leh, non potevamo non fare una visita. Cercando di farmi capire col mio incerto inglese, son riuscito a farci ricevere dal segretario della struttura che gentilmente ci ha offerto del thè con biscotti. Dall’Italia abbiamo portato dei doni da lasciare al Centro, che ospita 250 tra bambini e ragazzi. Il segretario ci ha parlato un po’ del progetto e poi ci ha lasciato liberi di girare per fare foto e documentare in Italia il tutto. E’ un vero e proprio villaggio, con piccole casette per chi ha anche i genitori ospitati, le scuole divise in 5 fasce, un enorme campo da calcio e uno da basket. Perfino un’aula con computers. Il tutto tra piccole vie immacolate,l un silenzio e un ordine impensabili considerando il caos che c’è a poche decine di metri. Il TCV non riceve sussidi dallo Stato, vive grazie alle donazioni e alle adozioni a distanza, e questa forma di accoglienza rimane l’unico modo per questi sfortunati bambini di crescere e studiare in un paese che non è il loro, e dal quale, ognuno con la sua storia personale, è fuggito. I ragazzi ci osservano curiosi mentre facciamo foto. Ci sentiamo piccoli rispetto ad un progetto così grande, provo tanta ammirazione e gratitudine nei confronti delle persone che rendono possibile tutto questo. E’ emozionante e al tempo stesso doveroso essere qui. Al nostro rientro ne parleremo con Rita e Paolo, i volontari italiani con i quali siamo in contatto a Dharamsala. Torniamo in taxi a Leh, e incrociamo casualmente Fra e Velcha che nel frattempo si erano fatti un giro per la città. Pranzo al piccolo Tedzin, ormai il nostro ristorante preferito! In un tavolo accanto al nostro c’è un’anziana signora francese, da sola, con la sua Loonely Planet sul tavolo, davvero ammirevole! Riusciamo a fare capire alla propietaria (che non parla una parola di inglese) che vorremmo acquistare delle scatole del Sorig Herbal Thè, al momento non ne ha abbastanza ma ce le procurerà! Evviva, ottimo acquisto da portare in Italia. Il resto della giornata lo passiamo a vagare per Leh, tra le bancarelle dei mercatini tibetani, o lungo la via principale tra un negozio e l’altro: Fra fa un affarone comprandosi una giacca invernale della North Face a soli 12 euro, io acquisto dei cd musicali, dello zafferano in pistilli, e l’immancabile balsamo di tigre, oltre alle bandierine di preghiera colorate e la toppa del Ladakh da cucire sulla giacca. Gra si compra un bellissimo maglione verde. In questi posti e con questi prezzi, impossibile non farsi prendere dalla malattia dello shopping. In più tornando dopo cena (in un ristorante nuovo stavolta) alla Jigmet, scopriamo parlando col figlio, che il costo delle due escursioni con jeep e dei relativi permessi non è a testa ma totale. Così per lo Tso Moriiri e la Nubra Valley per la quale partiremo domani, spendiamo a testa solo 51 euro! Chiedo due coperte in più per la notte, voglio dormire al caldo stavolta… 27 Settembre 2008 Non sono neanche le h.20, fuori è buio da un pezzo, e scrivo queste righe seduto per terra al lume di una candela, visto che è andata via la luce. Sono a Diskit , nella Nubra Valley, e mi sento bene… La giornata è cominciata presto a Leh: finalmente ho dormito come un sasso, grazie anche alle lanose coperte chieste ieri. C’è il sole, il tempo ci è ancora amico nonostante la fine della stagione bella. Si parte per la Nubra Valley, nuovo fuoristrada, e nuovo autista, magro e taciturno. Stavolta prendiamo la strada che da Leh in direzione nord, comincia subito a salire vertiginosamente. Una serie infinita di ripidi tornanti e un primo bizzarro posto di controllo fatto da un tizio accanto ad un cartello, in sella ad una vespa. Poco più su il vero posto di blocco per il controllo dei permessi, a South Pullu: e qui l’inaspettata sorpresa, l’autista non ha dietro i nostri permessi, convinto li avessimo noi. Non c’è verso, i militari non ci fanno passare senza, e così, si torna indietro verso la Jigmet per recuperarli, cazzo! Ci fermiamo più volte nel vano tentativo che il cellulare prenda, per chiamare in guesthouse, alla fine quasi ritornati a Leh, incrociamo un’altra jeep che stava salendo coi nostri permessi! Abbiam buttato via almeno un’ora, ma l’importante è che ora sia tutto a posto. Risaliamo e passiamo South Pullu, che altro non è che un accampamento militare. La strada continua a salire, e uno ad uno, superiamo una lunga fila di camion militari tra una curva e l’altra. Ormai Leh è un puntino lontano, sembra di essere davvero tra le nuvole, le montagne sembrano quasi più in basso rispetto a noi, e arriviamo al confine della neve, e la strada si fa brutta. Avvistiamo qualche marmotta che al nostro passaggio subito si getta nella tana. E infine arriviamo a quello che è un traguardo del nostro viaggio. Sono al passo del Khardung La, a 5620 metri sopra il livello del mare, il punto carrozzabile più alto al mondo! Ho superato anche il Campo base dell’Everest! Il passo è completamente ricoperto dalla neve, ci si affonda con l’intero scarponcino. Peccato solo che ci fermiamo in contemporanea ad un gruppo (un altro, basta!) di camion militari, fermi per montare le catene, quindi non c’è il silenzio che un posto del genere meriterebbe. Ma il panorama è superlativo, le vedute della catena Himalayana completamente ricoperta di neve vale la fatica, che, data l’altitudine, si fa sentire. Fa freddo, e tanto, l’ossigeno scarseggia. Io e Gra saliamo lentamente verso un piccolo Gompa posto su una collinetta in cima al passo, e qui leghiamo la nostra fila di bandierine colorate che si vanno ad unire alle altre migliaia già presenti: ce l’abbiamo fatta, un altro traguardo unico, e questo piccolo dono che facciamo è un po’ un ringraziamento, ma anche un modo di dire, che anche noi siamo passati di qua. E non è da tutti. Ripartiamo, anche perché Gra non si sente molto bene, forse la pressione. Dopo il passo però la strada comincia subito a scendere, e le cose vanno meglio, anche la mia testa la sento più leggera. Arriviamo a North Pullu, altro distretto militare con basi e l’immancabile fila di camion. Anche qui controllo permessi, e si riparte. Siamo scesi, non c’è più neve, e le montagne assumono colori diversi, ma appaiono sempre aspre e appuntite, oltrechè imponenti. La strada è bellissima, improvvisamente si apre davanti a noi un’ampia una vallata, con lo Shyok River di un blu intenso, che scorre tra le pietraie. E’ la Nubra Valley, favolosa. Qualche piccolo villaggio contornato da tanto verde, numerosi yak,e poi, inaspettata, una grande distesa sabbiosa, un deserto, sull’Himalaya! La Nubra è anche questo. La strada risale ancora un po’ fra alcuni tornanti, fino ad arrivare a Diskit, la nostra destinazione. E’ primo pomeriggio. Diskit, situata a 3144 metri, è un piccolissimo villaggio fatto da una via principale, piccole case tibetane con paglia e sterco sui tetti e qualche guesthouse. Noi scegliamo la Sunrise, un po’ nascosta, tanto che per arrivarci si passa a piedi sotto uno stupa. La guesthouse è proprio carina, c’è un bel giardino con un patio. Io e Velcha entriamo quasi furtivamente, nessuno ci risponde, sembra disabitata. Invece mi sa che il proprietario dormiva, ci riceve infatti tutto trafelato. Ci fermiamo qua. Le camere sono belle e ampie, con grandi finestroni che fanno entrare la luce e soprattutto il sole che le riscalda per la notte. Siamo gli unici ospiti, i padroni sono squisitamente gentili e sorridenti, gente semplice e cordiale. Anche qui a Diskit non c’è nulla di particolare da vedere, ma proprio questo rende particolare e genuino questo posto. E’ tranquillo, come la sua gente, non ci sono rumori, e il paesaggio è superlativo. Mi ricorda Tashi Dzom in Tibet. Rispetto allo Tso Moriiri fa molto meno freddo, e c’è tanto verde, la via è costeggiata da qualche piccolo stupa bianco e da un muretto alto un metro e mezzo, ricoperto sopra di pietra mani, ovvero incise con simboli religiosi o mantra. La gente che incrociamo saluta e sorride: “julet”; fermiamo un gruppo di signore anziane (anche se definire l’età qui è complicato) che trasportano sulle spalle enormi fasci di grano, ricurve e con la pelle segnata dal freddo e dal sole: Gra dà loro delle creme che a sua volta le aveva dato Sonia, la sorella che lavora in una profumeria. Le donne si fermano volentieri, sono stupite, poi ridono felici. Anche qui ci spieghiamo a gesti, ma senza particolari difficoltà. Ai bimbi che incrociamo, regaliamo caramelle, probabilmente tornano dalla scuola che qui rispetto a Korzok almeno c’è. Infatti il luogo sembra meno isolato, anche per via della localizzazione, in una valle, e ad una altitudine diversa. Verso sera, passeggiando, incrociamo anche una famiglia a cui regaliamo due polaroid: uno dei due anziani che la compone stenta a crederci, e continua a sventolare la foto, nel timore che svanisca l’immagine, è buffo ma tenerissimo. Asini, mucche, e tanta pace…Quella che cercavo. Davanti ad un ruscello ci sono due nonnine, piccole, sembra che lavorino a maglia. Gra regala loro qualche indumento, e anche un pacchettino con spazzolino e dentifricio. Una delle due nonnine ride come una pazza, non capiamo, loro ci parlano come se conoscessimo la loro lingua, alla fine ci mostra aprendo la bocca, l’unico dente che ha, che figura! Ma ridiamo tutti felici, chissà se nella loro lunga vita hanno mai ricevuto un dono…Rientriamo alla Sunrise, al patio per qualche chiacchera. Il sole si nasconde presto dietro alle montagne, Khardung La e la neve qui sembrano così lontane, invece questo viaggio è un susseguirsi di emozioni tanto diverse tra loro ma altrettanto intense, che fai fatica a ordinarle, perdi letteralmente il concetto del tempo, dei giorni, eppure era qualche ora fa. Mi viene una voglia irrefrenabile di ascoltare il silenzio di questo luogo, così, da solo, me ne esco a rifare due passi, incrocio soltanto una signora: “julet”, un sorriso e via, a quest’ora la gente del posto starà cenando. E’ tutto tranquillo, il contorno scuro delle montagne e il chiaro del cielo ancora illuminato da un sole ormai nascosto, la pace, che sento, che vivo. C’è un silenzio quasi “assordante” che mi apre la mente a mille pensieri. Vorrei fermarmi qui, è un posto dove passerei più tempo, anche settimane. E’ un’oasi di pace. Rifletto su questa gente, povera, dignitosa, dalla vita dura…Ma povera poi di cosa? Soldi, certo, e poi di cos’altro? Troppo complesso come pensiero, troppo difficile capire chi è più povero tra noi e loro, e povero di cosa…Nell’aria, pura, e respirabilissima, solo lo schiamazzare giocoso di qualche bambino all’interno delle case e il ragliare di qualche asinello interrompono un surreale silenzio. Per strada, io, qualche mucca e qualche ombra…È una sensazione bella. Rientro solo perché il freddo mi costringe. Cena ben coperti al Patio (non ci sono altri posti dove mangiare se non la guesthouse), riso e lenticchie, verdure cotte dell’orto e un gigantesco piatto di momo che spazzoliamo via in pochi minuti, oltre ad un delizioso thè alla cannella. Va via la corrente, ma il premuroso signore della guesthouse (anche lui non parla inglese) ci fornisce subito di candele. Ora sono in camera, e la candela sta quasi per terminare…Già mi dispiace domani di lasciare Diskit… 28 Settembre 2008 Risvegliarsi al suono del canto degli uccellini è sempre qualcosa di fantastico. Dopo una tranquilla colazione all’ombra del patio, ci congediamo dai nostri cordiali e simpatici proprietari della Sunrise, regalando loro una polaroid di famiglia e un pupazzo per la piccola loro bambina, che ricambia con un sorriso difficile da dimenticare. Aspettiamo al punto concordato il nostro autista con la jeep, tarda di qualche minuto, ma non abbiamo fretta, anzi, ne approfitto per fare qualche foto. Siamo gli unici stranieri qua a Diskit. Ecco, arriva, e si riparte, percorrendo la tortuosa salita che porta al Dikit Gompa, ci arriviamo in pochi minuti. E’ un complesso monastico davvero grande, e talmente tranquillo che sembra disabitato, incontriamo solo un paio di monaci, tra cui uno che ci apre la porta della sala delle preghiere, che custodisce un grande tamburo e diversi belli affreschi di demoni protettori. Le sale sono buie, ma piene di affreschi coloratissimi e oggetti sacri. Il silenzioso panorama della valle che si gode da qui è spettacolare, le montagne sembrano perfette, e si vede anche non lontano da noi una enorme statua del Buddha in costruzione, finita la quale, attorno ad essa verrà costruito il Gompa. Riscendendo a Gra viene l’idea di fermarci per fare una sosta e qualche foto ad un gruppo di piccoli monaci che stavano giocando a cricket. Ottima trovata, loro molto stupiti, e anche da qui, stavolta ai piedi della grande statua in costruzione, la veduta verso l’alto del Diskit Gompa merita proprio. Si riparte, ma poco oltre di nuovo sosta per le foto alla piccola macchia di deserto, tra la sabbia, sennò quando ci ricapita? Tra l’altro il sole picchia oggi, e comincia a fare caldo. Prima di riprendere la strada per Leh, deviazione verso nord fino al piccolo villaggio di Sumur, simile a Diskit, poche case e poca gente. 1 Km più a nord sorge l’imponente complesso monastico di Samstemling Gompa. Ci fermiamo per qualche ora qua, curiosando tra le sale di preghiera, alcune delle quali sembrano nuove. E’ un continuo togliere e mettere scarpe. In una delle sale assistiamo alla preghiera dei monaci: silenziosamente entriamo e ci mettiamo in un angolo, accanto alle uniche persone presenti, tre donne che ci fanno appunto cenno di entrare. E’ la prima volta che mi capita di vedere i monaci in preghiera in un gompa, a me e Gra sembra di vivere e vedere qualcosa che per i noti e tristi motivi non abbiamo potuto vedere in Tibet; è emozionante, la sala sarà non più grande di 10 metri per 10, piuttosto buia, pavimento in legno, e una fila centrale con ai lati della stessa, due file di tappeti sui quali sono disposti frontalmente 5 monaci da una parte e 5 dall’altra, che pregano recitando diversi mantra, e creando dei suoni gutturali unici e suggestivi con le loro voci, interrotti solo dai suoni dei piatti e di campanelle, e accompagnati da gestualità continuamente diverse. Pregano ad occhi chiusi, seduti, e indossano oltre alla consueta veste arancione, un copricapo colorato a punta, con una terminazione posteriore che è simile ad una lunga coda di capelli. Le pareti attorno sono ricoperte di affreschi colorati del Buddha, mentre sulla parete frontale due enormi statue sempre del Buddha con al centro uno stupa bianco rivestito di drappi colorati. Restiamo suggestionati e in silenzio, appena dietro ad una delle due file di monaci, ad assistere alla funzione, davanti all’unica finestrella della struttura, dalla quale entra un raggio di luce. Ci sono delle ciotole con dentro dei fiori, qualcuna invece con un lumino che arde lentamente grazie all’olio di burro di yak. Davvero suggestivo, bello. Usciamo silenziosamente dopo aver sostato a lungo, e un monaco, mentre ci stiamo rimettendo le scarpe, ci apre la porta di un altro gompa, invitandoci ad entrare. Anche qui le pareti rivestite di affreschi, un grande tamburo sacro, e un enorme mandala che lo stesso monaco, che parla un po’ di inglese, ci dice provenire da Dharamsala, la residenza del Dalai Lama in esilio. Mi indica inoltre che posso fare le foto senza problemi, mentre io precauzionalmente, pensavo non si potesse e avevo già messo via la macchina. E’ gentilissimo, si capisce che ci tiene a farci conoscere la loro cultura, la loro condizione. Ringraziamo con un saluto e una mancia. Ora riprendiamo la strada verso sud. Sosta con pranzo a Khalasar lungo la strada, in un posto davvero solo di passaggio: 4 vecchie case da una parte e dall’altra, un ristorante che ha solo due tavolini di plastica fuori, e una calma surreale tutta intorno. Mangiamo con meno di un euro a testa momo, riso e lenticchie, lasciando pure qualche avanzo ai numerosi cani, alcuni anche bellissimi, che aspettano pazientemente accanto a noi. La strada per Leh è lunga, il paesaggio cambia in continuazione, e gli scorci della Nubra Valley sono proprio belli; Poi la strada comincia a salire, come guadrail qualche grosso bidone di latta mezzo arrugginito e a volte colorato, che viene usato anche come para frane. Da lontano qualche silometro prima si comincia ad intravedere il passo, e in breve siamo di nuovo fra le nuvole, al Khardung La. Stavolta nessun camion militare, ma il silenzio, solo qualche indiano di passaggio, e l’immancabile neve. Ne approfitto anche per fare le foto al mio puffo viaggiatore, anche lui ne ha fatta di strada…Temo per qualche secondo che Graziana si sia ibernata, in quanto non risponde ai miei richiami dopo essersi appartata per esigenze fisiologiche, ma niente paura, lo yeti non l’ha rapita. Curioso un po’ nel piccolo souvenir shop più alto del mondo, ma non c’è granchè, però è utile per scaldarsi un minimo, fuori persino le bandierine di preghiera colorate hanno lunghi steli di ghiaccio che pendono giù, chissà che temperatura fa qua la notte. E chissà se nella vita mi capiterà di essere ancora così in alto…E’ ora di riscendere prima che arrivi buio. Da qui la strada è tutta in discesa, dopo South Pullu torniamo anche sulla strada asfaltata, e la differenza di altitudine si sente. Arriviamo a Leh. Sono stanco fisicamente, ma felice. Dopo essere stati a Diskit, anche una cittadina come Leh mi appare caotica. Prima di cena, una doccia rigenerante alla Jigmet, coi secchi dell’acqua calda. Leggo casualmente su un giornale locale in inglese, la notizia di un altro attentato a Delhi, con un morto e diversi feriti. Già prima di partire la situazione nella capitale non era delle migliori, anche se l’obiettivo dei terroristi non sono certo gli stranieri qua. Sono le 21 quando usciamo dal ristorante non lontano dalla moschea (stavolta ho provato il calzone, pensavo peggio), e Leh è completamente deserta, siamo gli unici in giro per le stradine buie e polverose, con la nostra indispensabile torcia per vedere la strada ma soprattutto per evitare le gigantesche cacche di mucca, che qui sono l’unico vero pericolo. Anche questa lunga giornata è finita. Prima di salutarci, io e Velcha assistiamo gratuitamente allo show di Fra e Gra che fanno i conti dei soldi da cambiare e da dividere per la gestione della cassa comune…Uno spasso! 29 Settembre 2008 E’ l’ultimo giorno qua nel Ladakh. Chiamiamo il nostro amico tassista, e ci facciamo portare poco fuori Leh a Shey. 15 km a sud est. Qui prima di salire a vedere il Royal Palace, un tempo antica residenza dei sovrani del Ladakh, regaliamo una polaroid al tassista a fianco al suo mezzo, lui contentissimo la mette subito orgoglioso sul parabrezza. Dopo Shey tappa al poco distante Thiksey Gompa, praticamente una città all’interno di un monastero! Dal basso è imponente, assomiglia molto al Potala di Lhasa, col palazzo centrale rosso. Passato l’ingresso (20 Rp), le scalinate portano alle varie sale di preghiera, in una c’è la più grande statua del Buddha che abbia mai visto, in posizione del loto, si entra nella sala all’altezza della testa, è imponente. Oggi fa caldo, il sole picchia nonostante l’inverno sia ormai alle porte. Ci facciamo riportare indietro verso Leh, facendo una deviazione fin su la collina dove c’è lo Shanti Stupa, costruito dai monaci giapponesi. L’interno del piccolo tempietto accanto infatti è molto diverso da quelli visti fino ad ora, meno dipinti e più oggetti un po’ chic tipo della frutta finta o delle luminarie natalizie. Lo Stupa invece è molto bello, forma circolare, bianco accecante con tutto attorno piccoli bassorilievi colorati che rappresentano la vita del Buddha. Da qui la veduta di Leh e della sua valle sono molto suggestive. Viene fino su a pregare anche il nostro tassista, e insieme ci facciamo delle foto, regalandogli anche le ultime polaroid che ho, lui è molto felice di questo, dice che le porterà a fare vedere alla moglie. Stamattina qualche tensione con Gra, ma ora va meglio, e la cosa mi fa stare più sereno. Torniamo a Leh per l’ultimo pomeriggio in città. Ci separiamo, Graziana non sta molto bene, Fra e Velcha vanno a fare shopping, io prima mi faccio la mia prima coda al bancomat per prelevare, e poi anche io in giro per mercatini a contrattare. E’ un’occasione unica, quella di trovare oggetti rari e tipici tibetani, a prezzi ottimi! Trattando un po’ mi prendo un bellissimo oggetto da parete in legno colorato e fatto a mano, raffigurante Ganesh, una ciotola di preghiera e un porta incensi in metallo con dei mantra su, oltre ad un Om sempre in legno da appendere…Voglio un po’ di Tibet anche a casetta…Prima di tornare in guesthouse lascio un paio di guanti e un pile di Graziana ad una signora indiana, dai tratti non tibetani, che elemosina, e ad una bambina lustrascarpe, che rimane stupita dalla cosa. Un commerciante vedendo la scena mi dice che sono un buon uomo e che dio mi proteggerà…Io spero che il dio a cui si riferisce, si accorga prima di questa povera gente…Però mi fa piacere, gli sorrido. Qui a Leh sono le uniche mendicanti viste in tutti questi giorni, sarà diverso sicuramente nella parte calda. E’ l’ultimo giorno qui, un ultimo provvidenziale massaggio in camera col nostro amico, che fra qualche giorno partirà verso sud, a Goa, visto che qua col freddo non cin saranno più stranieri. E’ ora di fare gli zaini, domani mattina all’alba si riparte per Delhi, provo una strana sensazione, il viaggio non sta per finire, siamo solo a metà, ma è come se si voltasse una pagina, e un po’ mi intristisce lasciare il Ladakh dove mi sono trovato proprio bene, a mio agio, come a casa, tra i silenzi e i sorrisi di questa gente, tra le montagne alte Himalayane e questo cielo blu intenso che sembra dipinto…Ultima cena al piccolo Tedzin tra i poster “save Tibet”, ritiriamo anche il thè Sorig che porteremo a casa, sarà un problema non farlo schiacciare negli zaini, svuotati si dai tanti vestiti regalati in questi giorni, ma anche riempito degli acquisti fatti. E’ l’ultimo cielo stellato… 30 Settembre 2008 E’ buio, quando il nostro tassista viene a prenderci alla Jigmet per portarci in aeroporto col suo piccolo minivan. Carichiamo alla meglio gli zaini sopra e partiamo, ma la sistemazione non è un granchè, tanto che quello di Fra cade mentre siamo ad un incrocio! Leh ancora dorme, è buia, gli asini dormono ai lati della deserta Main Bazar, c’è solo qualche cane che rovista tra i rifiuti. In aeroporto mi viene un po’ di magone mentre abbraccio e saluto l’amico tassista, gli regalo un pile, è un abbraccio sentito e sincero ilo suo…Come quello che mi ha regalato il Ladakh, la sua terra…Siamo di nuovo al piccolo aeroporto di Leh, ci sono solo due voli in partenza, entrambi per Delhi, uno della Daccan e il nostro della Jet. I controlli al check in sono però ultra metiucolosi e confusionari, mi fanno inserire le batterie nella macchina fotografica, sennò non le posso imbarcare, mentre a Gra sequestrano le caramelle gelèè (mi chiedo come caspita si faccia a dirottare un aereo con delle caramelle!). Poi la lunga attesa e finalmente, con un’ora di ritardo, il decollo mentre fuori c’è ormai luce e la catena Himalayana mi appare in tutta la sua maestosità. Volo breve, un’ora, ma con ottima colazione. Le fasi dell’atterraggio a Delhi sono lunghissime, e una volta scesi e caricati sul pulmino, già troviamo traffico lungo la pista che porta dall’aereomobile all’hangar! E fa caldo, l’umidità ci fa attaccare i vestiti addosso. Ritiriamo gli zaini, e appena fuori ci aspetta Michele, arrivato qualche ora prima dall’Italia, che si unirà a noi in questa seconda parte del viaggio. Ci facciamo largo fra le auto disordinatamente parcheggiate fino a raggiungere l’autista e la jeep prenotata tempo fa tramite la Wonghden House. E così dalla tranquillità del Ladakh, ci ritroviamo catapultati nel caotico traffico di Delhi, tra auto, tuk tuk, bus e mucche, ma soprattutto un caldo incredibile. Ogni volta che l’auto si ferma in coda, dai guadrail spuntano uomini, donne e bambini che mendicano soldi o cibo, è un pugno nello stomaco vedere in che stato siano, le poche cose da mangiare che riusciamo a passargli sono solo dei pagliativi, tutto questo mi lascia un senso di impotenza. Da un lato della strada osservo tanti disperati, vestiti di stracci, e bambini, anche piccolissimi, nudi e sporchi, mentre dall’altro lato il mega hotel di lusso con la polizia privata a sorvegliare l’ingresso, in mezzo solo una strada, solo qualche metro di asfalto… Arriviamo nel quartiere tibetano a nord della città, alla Wonghden House. Dopo una capillare registrazione nella piccola hall, tra ilo televisore e l’immancabile grande quadro del Potala, finalmente in camera, dotata di un chiassoso ventilatore: qui il silenzio del Ladakh è un lontano ricordo, bhè almeno non fa freddo e avremo acqua calda per la doccia. Michele dopo il lungo volo da Milano è stanco e preferisce riposare, noi 4 reduci del Ladakh dopo un veloce pranzo, ci facciamo a piedi un piccolo giro tra gli stretti, e pieni di mosche vicoli del quartiere tibetano, tra bancarelle e piccole botteghe che vendono qualsiasi cosa, ma poco artigianato o abbigliamento tipico. Tante magliette e berretti con la scritta Free Tibet. Fra i vicoli si apre una piccola piazzetta con un monastero tibetano, il monaco seduto fuori ci fa cenno di entrare, dentro non è un granchè. Incrociamo piccoli bambini dai tratti somatici indiani (nel quartiere invece sono quasi tutti tibetani) che scalzi elemosinano qualsiasi cosa per sopravvivere: compriamo loro due pacchi di biscotti, sono piccolissimi, ci sorridono, non mi arrivano neanche alla vita, avranno forse 3 o 4 anni, e non credo abbiano mai ricevuto una carezza o un giocattolo; fa tanta tristezza, sembrano trasparenti per tutti, piccoli fantasmi che si aggirano fra l’indifferenza della gente. E dire che in questo quartiere se ne vedono pochi, ma anche uno solo di loro è tanto, è troppo…Rispetto al Ladakh, qui il telefono è tornato a funzionare, mentre sono in attesa della cena qui al ristorante interno della Wonghden House, ne approfitto per mandare sms alle persone più care. Domani prenderemo il treno per Agra prestissimo. Ci accordiamo con la ragazza della hall, per lasciare parte dei bagagli qua, da riprendere al nostro rientro fra qualche giorno, almeno ci liberiamo della roba invernale e di tutti gli oggetti comprati fino ad ora. Sarebbe stato complicato muoverci con tutta quella roba e sotto questo caldo; il tutto ci costa a zaino 2 Rp al giorno…Praticamente nulla. In camera fa caldo, si suda, proverò a dormire… 1 Ottobre 2008 Sono le 06.15 am, puntuale sta partendo il treno per Agra dalla stazione di New Delhi. Siam partiti in taxi ancora col buio, come il primo giorno, con già il caldo umido che mi si appiccica addosso. Battiamo il record di passaggio col semaforo rosso, ci sono già tante auto e tanti tuk tuk in giro, e i soliti tanti disperati che dormono lungo i marciapiedi. Alle 5.30 la stazione è già piena di gente, tantissime, come formiche, e noi, coi nostri zaini in spalla, che camminiamo alla ricerca del nostro binario; appena si rallenta inevitabilmente che è dietro ti viene addosso. Per fortuna il nostro binario è meno affollato di altri, e dopo pochi minuti arriva il treno: temevo il treno dei disperati, invece, almeno per questa prima tratta di 2 ore verso Agra, il treno è più che dignitoso, molto meglio di tanti nostri treni italiani. Mi sembra anche più ampio, una fila a 3 e una a due posti, con tavolino e perfino omino con strano turbante che distribuisce gratis giornale, acqua e colazione, tutto sponsorizzato Vodafone. Ho sonno ma credo di non stare sognando, proprio non me lo aspettavo. E il treno parte, attraversa vegetazione, qualche fabbrica e qualche baraccopoli.

H. 08.15am, arrivati alla stazione di Agra, appena usciti, siamo assaliti da autisti di tuk tuk e taxi, sotto gli occhi vigili di qualche poliziotto armato di bastone. Contrattiamo con un tassista e ci facciamo portare all’Hotel Sheela Inn, In Taj Gangj, la zona turistica attorno al Taj Mahal. L’hotel è poco tipico, ma le camere sono spaziose e pulite, e c’è un ampia terrazza con ristorante. Nella hall il proprietario, hindù, ha il suo piccolo altarino con la statuetta di Ganesh. A prima vista Agra mi sembra meno opprimente di Delhi. Dopo il pranzo in terrazza, appena usciti ci facciamo portare da due tuk tuk (diversi ne stazionano fuori dagli hotel) all’Agra Fort. L’interno del forte racchiude diversi giardini Mogul, perfettamente tenuti e abitati, oltre che dai babbuini che saltano da una parte all’altra, anche da tanti scoiattoli, abituati alla presenza umana. Ne vedo anche uno che è un incrocio, corpo di topo e coda da scoiattolo! Il forte, tutto in arenaria rossa, è bello, da alcune balconate si vede in lontananza anche il Taj Mahal. Però il sole picchia troppo e fa davvero molto caldo. Rientriamo in hotel per un po’ di relax e di fresco, e nel pomeriggio, a piedi visto che non dista tanto, ci rechiamo ad ammirare una delle 7 meraviglie del Mondo, un’altra importante tappa di questo viaggio: il Taj Mashal! Per entrare bisogna passare dei severissimi controlli, tanto che mi viene sequestrato il puffo viaggiatore! Hai voglia a spiegargli in inglese che è innocuo, ma non entro prima di essermi rassicurato di trovarlo all’uscita. Entriamo, e lentamente da dietro un grande porticato, appare come finta la sagoma bianca del Taj Mahal. È impressionante, nonostante ci siano tantissime persone e una certa confusione. La posizione da classica foto con la lunga vasca di acqua e in lontananza il Taj Mahal è gettonatissima, sono tutti lì a scattare. Man mano ci si avvicina la gente si disperde un po’, e il Taj appare in tutta la sua maestosità! Poco prima di salire sul basamento rialzato dove si erge, bisogna togliersi le scarpe. Un grande pavimento in marmo, i 4 minareti agli angoli, e il mausoleo che riluce in tutto il suo splendore, con in cima le 4 piccole cupole che circondano la cupola centrale. Non sono in genere un fanatico dei monumenti quando viaggio, ma il Taj Mahal ha qualcosa di particolare, mi affascina. E’ un mausoleo fatto erigere fra il 1631 e il 1648 dal sovrano Shah Jahan per perpetuare il ricordo dell’amata moglie Mumtaz Mahal. È’ un capolavoro architettonico unico al mondo, e di gran lunga il monumento più conosciuto dell’India. Tutta la bellezza è ammirabile da fuori, dentro il mausoleo è molto buio e piccolo, e la folla si accalca per di più. Ad entrambi i lati del Taj Mahal ci sono due moschee in tufo rosso, ciascuna con tre bianche cupole, e dietro a tutta questa bellezza, solo il cielo, nessuna costruzione neanche in lontananza a guastare il panorama. Una manna per un fotografo. Tutto il Taj è costruito in marmo bianco, con effetti rosa e marroni e decorazioni che richiamano alla cultura araba. E’ bellissimo e imponente. Il sole inizia lentamente a tramontare dietro alla moschea e i giochi di luce creano degli scenari fiabeschi, e degli effetti incredibili, scatto tantissime foto. Geometricamente è perfetto, da qualsiasi punto lo si ammiri. Un po’ di gente è andata via, e ce lo si gode di più. Ma prima che arrivi buio tocca anche a noi uscire. Non vedo l’ora di tornarci domani all’alba. Recupero il mio puffo, e lentamente facciamo il breve tratto di strada, chiusa al traffico, che porta allo Sheela Inn. Cena in terrazza, tra i vasi fioriti e tanti geki sui muri bianchi.

2 Ottobre 2008 E’ buio, mentre con Graziana percorro con la luce della torcia, il tratto di strada che conduce al Taj Mahal. Gli altri ci raggiungono. Siamo i primi ad arrivare, ma un poliziotto sik ci spiega che i cancelli aprono alle 7am, per oggi in via eccezionale gratuitamente in quanto è la fine del Ramadan, però sono appena le 5am, e io voglio vedere l’alba: gentilmente ci dà una dritta, consigliandoci di proseguire lungo il perimetro fino al fiume Yumana, lungo un piccolo sentiero sterrato. Aspettiamo gli altri e ci incamminiamo. In effetti si arriva al fiume e a lato si ammira da vicino la parte sud del Taj Mahal, ancora avvolta nell’oscurità. C’è un piccolo spiazzo, noi, e qualche poliziotto semi addormentato. Lentamente il cielo inizia a schiarirsi, e il bianco del Taj Mahal appare sempre più visibile. Certo, non ci sono gli stessi effetti ammirati all’alba in Cambogia ad Angkor, però è comunque suggestivo, anche se nettamente più bello il tramonto. Ormai c’è luce, un po’ soffocata dalla foschia, ci ha raggiunto un gruppetto di ragazzini con cui ci facciamo delle foto, e qualche cane curioso. Ripercorriamo insieme ai ragazzini il tratto di strada fino all’entrata del Taj Mahal, uno di questi ci fa capire nel suo incerto inglese che Fra con quei capelli lunghi è molto strano da queste parti, viene visto come una donna, mah! Prima di entrare andiamo a fare colazione da un tetto di un piccolo ristorante (con vista sul Taj), ma troppi moscerini! Stavolta furtivamente Gra mi ha custodito il puffo nel suo marsupio, e riusciamo ad introdurlo! Siamo di nuovo di fronte al Taj Mahal, con la luce viva del giorno; altre foto (anche al puffo clandestino), poi comincia ad entrare una folla immensa, tutti vestiti di bianco, tutti musulmani. Fa impressione vederli dirigere verso la moschea, intere famiglie soprattutto uomini, qualcuno orgoglioso perfino mi chiede di fare la foto al suo bambino semplicemente per vederla poi dalla mia macchina. La vasca di fronte alla moschea è presa d’ assalto per la purificazione prima della preghiera sui tappeti rivolti verso la Mecca; rispetto a ieri quando la gente era variegata, tra musulmani e indù coi loro caratteristici segni distintivi (penso ai coloratissimi saari delle donne), oggi sono solo loro, i musulmani, è la loro festa. Sono tantissimi e continuano ad entrare, noi facciamo qualche foto dalla parte opposta della moschea, dove non c’è quasi nessuno. Qualche ragazzino chiede di farsi fotografare, poi me ne resto seduto ad ammirare per l’ultima volta questa meraviglia. Abbiamo avuto modo e tempo per vedercelo bene e ne è valsa la pena. Riattraversiamo i giardini moghul sempre ben tenuti, e torniamo in hotel per riposarci, visto che stanotte la passeremo in treno. Nel tardo pomeriggio e Gra ci facciamo portare da un ciclorisciò ad un negozio di thè che avevamo adocchiato ieri, e qui contrattiamo qualche acquisto. Alle 23, dopo l’ultima cena sulla terrazza, siamo in stazione ad aspettare il treno che ci porterà a Varanasi. Qualche topino corre tra i binari, noi vigili vista l’ora, con lo zaino ben legato in spalla. Siamo gli unici stranieri in attesa del treno. Che puntuale arriva…E non è quello di ieri: dentro le cuccette fatte di 6 letti, e una fila sempre a tre letti perpendicolare lungo il corridoio, spazi minimi, e tanta gente, prendiamo posto nei nostri letti, col nostro zaino ben in vista e legato. Ci sono le coperte, muoversi è un’impresa…Sarà una lunga notte… 3 Ottobre 2008 Dormito poco e col bagaglio legato a me stanotte, ma era inevitabile. Il treno è lento, si ferma spesso, quasi tutti sono scesi a Lucknow, quindi si è parecchio svuotato. Arrivo a Varanasi con più di un’ora di ritardo, c’è un caos di gente alla stazione, ci “rifugiamo” all’ufficio informazioni dove aspettiamo il tizio della guesthouse con cui abbiamo preso accordi via internet dall’Italia, e intanto osservo la varietà di persone che affollano la stazione, seduti, sdraiati, senza o con mille bagagli al seguito, c’è perfino una mucca che quasi entra. Poi il tizio arriva a prenderci, ma anziché in taxi, con due tuk tuk! Nooo, siamo distrutti dalla notte in treno e ora, carichi di zainoni, ci schiacciamo come sardine nei tuk tuk ed ci buttiamo nel traffico caotico della città. Dopo un lungo tratto e col caldo che ormai ci divora, arriviamo in un punto dal quale il tuk tuk non può più proseguire, iniziano degli stretti vicoli da fare a piedi fino alla guesthouse. E’ un labirinto, il tizio che ci precede va a passo spedito, facciamo fatica a stargli dietro, siamo anche abbastanza carichi, e lo zaino sembra pesare un macigno con questa umidità, non ne posso più, sto odiando quest’uomo che corre! Prima di arrivare alla Shindia Guesthouse c’è pure una ripida scalinata, penso di non farcela. Alla fine, sudatissimi e stremati, arriviamo e ci facciamo dare le camere! Non ce la facevo davvero più, stavo sclerando dal caldo e dalla fatica. La camera è grande, ha il bagno e c ‘è un ventilatore da parete e qualche geko ottimo contro le zanzare. Ma soprattutto il balcone con vista Gange, finalmente. Mi riprendo un attimo poi la tentazione di affacciarmi è troppo forte: il primo impatto con Varanasi è questo, surreale, sotto di me l’ampio letto marroncino del fiume sacro, qualche anziano che si immerge, qualcuno prega, ci sono dei bufali, sulla destra sale invece alto il fumo della legna che arde dei crematori, e in quel mentre mi sento toccare la spalla. D’istinto mi volto e…È un babbuino sulla balaustra che chiedeva permesso! Faccio un balzo istintivo all’indietro, non me l’aspettavo, mi viene da ridere! Sembra un set cinematografico, e invece è tutto reale, sono a Varanasi, la città sacra, sul Gange. Sembra tutto così strano, ma la stanchezza del lungo viaggio in treno e il tratto a piedi carico come un mulo sotto il sole ancora non me ne fanno rendere conto forse appieno. La doccia è una liberazione, rigorosamente gelata! Poi ci buttiamo verso sera nei vicoli, seguendo le indicazioni dipinte sui muri fino ad arrivare alla German Bakery, consigliata dalla Loonely, nella città vecchia. E’ un locale giovane, un po’ alternativo per il luogo, e sovvenziona anche un ente benefico, la vicina scuola per bambini Learn for Life: ci si entra senza le scarpe che si lasciano all’ingresso, come un po’ dappertutto qua, e ci affossiamo sui bassi cuscini attorno al tavolino al piano superiore ordinando dapprima una lauta merenda, e poi tra una chiacchera e l’altra tiriamo cena. Ci voleva un po’ di relax qua, con sottofondo di musica new age indiana. Sembra tutto così strano… 4 Ottobre 2008 La più antica e misteriosa città del mondo, sulle riva sinistra del sacro fiume, Varanasi ti rapisce, la odi ma non riesci a liberartene, la ami per il fascino unico che emana, Varanasi è tutto e il contrario di tutto…E’ la prima volta in vita mia che mi capita di non sapere da dove iniziare a descrivere un luogo così strano, così assurdo e al tempo stesso affascinante. Varanasi non è ospitale, nel senso che qui, per la prima volta da quando viaggio, non mi sento a casa, mi sento ospite rapito…E’ impossibile da raccontare come città, è solo da vivere, ma non sei tu a decidere come, è lei. Con i suoi stretti e malandati vicoli, alcuni bui, alcuni pieni di piccole botteghe che straripano di roba, piccoli templi incastonati tra le case e pochi tronchi che sembrano uscire dal cemento delle stesse. Non riesci a guardare in alto, verso il cielo, perché gli stretti vicoli è come se ti inghiottissero, ti costringono a guardare avanti, non in alto. E poi la gente…Tanta, i pochi turisti, quasi tutti giovani, si confondono tra gli Hindu, alcuni anziani pregano davanti al loro altarino improvvisato sul gradino di un qualcosa di simile ad un marciapiede. E poi gli asceti, dalle lunghe barbe bianche e grigie, il volto pitturato, lo sguardo fisso… E’ un labirinto, confuso, nel quale l’unico modo per orientarsi è grazie ai murales dei vari locali, guesthouse o negozi, che sono dipinti sui muri, uno accanto all’altro con tanto di freccia per guidarti nella direzione giusta. Scendendo la scalinata che da sul Gange, dalla Shindia si passa accanto ad una piattaforma dove vengono cremati i morti, il fumo sale nel cielo, e le ceneri vengono poi gettate nel fiume sacro. Poi le botteghe, che vendono di tutto, dall’acqua alla carta igienica, dalle offerte per la Puja (la preghiera del tramonto) alla legna con cui ardere i propri cari defunti, dai meravigliosi batik coloratissimi, ai braccialetti e ai cd…Non decidi tu dove andare…E’ Varanasi che ti trasporta nei suoi vicoli, tra mucche e odore di incenso, ma anche di letame. E’ facile perdersi, è facile farsi rapire da tanta stranezza. Poi improvvisamente i vicoli si riaprono sul Gange che continua a scorrere tranquillo, oppure dalla parte opposta ti portano all’altra faccia della città, con le strade, e il traffico di gente, animali, e tuk tuk…Ha tre facce Varanasi. Abbiamo scelto come nostro rifugio culinario e di relax, la German Bakery, dove si mangia bene e con poco, e soprattutto con la sua musica new age indiana, ti concede una pausa dai soffocanti vicoli pedonali. Il servizio è lentissimo, ma qui nessuno ha fretta…E poi di nuovo a camminare per i vicoli, quasi in fila indiana da quanto sono stretti, a fatica se si incrocia una mucca, si riesce a passare senza scostarla… Mentre cala la sera e torniamo alla Guesthouse, passando davanti alle numerose barche di legno che galleggiano sul Gange, decidiamo di prenotarne una per l’alba seguente. Il più scaltro dei vbarcaioli che intuisce il nostro pensiero ci si avvicina e si offre per l’indomani. Chiede solo una cauzione: 1 rupia (credo la più bassa cauzione mai versata…), e poi una stretta di mano ricordandoci bene l’ora, le 5 del mattino come concordato; domani scopriremo un’altra faccia di Varanasi, osservo intanto il lento scorrere del fiume, e il sole che vi si va ad addormentare dentro…Sembra tutto così assurdo qua, ma al tempo stesso magico. 5 Ottobre 2008 Il Gange…Il fiume sacro, la sacra madre…E’ buio, con la nostra piccola torcia ricaricabile scendiamo le ripide le scale della Guesthouse, il titolare dorme su una panca in legno all’ingresso, sbarrato, dobbiamo svegliarlo per farci aprire. Poi ancora le scale per arrivare a livello del fiume, nell’oscurità più completa. Varanasi sembra ancora dormire, non ci sono rumori. Il nostro barcaiolo ci aspetta e ci riconosce dalle ombre, ci dice che non ci porterà lui ma suo fratello più piccolo, un giovane ragazzo del posto che ci avvicina la semplice barca di legno che non sarà lunga neanche 3 metri. Gli altri barcaioli ancora dormono sulle loro barche, con le loro coperto a ripararli dal freddo della notte. Le muscolose braccia del ragazzo cominciano a remare, mentre spostano qualche barca parcheggiata, e ci dirigiamo in direzione sud. Avvolti ancora dall’oscurità, per ora l’unico rumore è quello dei remi che muovono l’acqua. Lentamente però comincio a distinguere le sagome delle persone che si immergono nelle acque sacre, il sole, non ancora sorto, comincia però a fare avvertire la sua presenza, e la città lentamente si sveglia: i ghat si popolano di persone,di tutte le età, che entrano nel Gange per lavarsi, per pregare, per purificarsi. E i colori cominciano a distinguersi, mentre il silenzio viene sostituito dalle campane dei templi già affollati dai fedeli. Dalla barca assistiamo alla vita che si affaccia sul Gange, lungo i ghat, tra animali che timidamente si affacciano sui lunghi gradoni, le facciate di vecchi edifici che ancora mantengono il loro antico fascino, vista da qui la città è bellissima, pittoresca per quanto confusa, con i suoi tanti ghat che scendono sul fiume, le cupole tipiche dei templi Hindu, e le case quasi ammassate le une sulle altre, e poi la gente, santoni che pregano, c’è pure una scuola di pratiche yoga coi suoi piccoli allievi concentrati che sembrano danzare verso il sole, mentre l’insegnante con altoparlante diffonde la musica e suoi insegnamenti. Una signora si affianca con la sua piccola imbarcazione alla nostra per venderci un piccolo lume avvolto nella carta, da offrire al fiume sacro. Il sole ormai è sorto, dall’altra sponda del fiume, e ora illumina la città dopo aver offerto i suoi giochi di luce e riflessi nell’acqua che in penombra ancora sembrava dorata, mentre ora appare nel suo tipico colore marrone poco rassicurante. Ma per gli abitanti il fiume è sacro, poco importa quanto sia putrido, ci si immergono per la purificazione, si lavano col sapone il corpo, la testa e perfino i denti, mentre donne dai coloratissimo saari, dopo essersi immerse vestite, raccolgono l’acqua nelle bottiglie di plastica, e alcuni ragazzi si tuffano da piccole piattaforme. C’è perfino un mangia fuoco che offre le sue evoluzioni al sole, e a qualche curioso viaggiatore che lo fotografa. Per qualcuno questo può essere benissimo uno spettacolo quasi surreale e cinematografico offerto al turismo…Ma non lo è, è la vita di Varanasi e di questa gente, che ruota tutta attorno a lui, al fiume sacro, alla Ganga…Sono appena le 8 del mattino, e c’è già afa…Dopo una ricca colazione alla bakery, ci mescoliamo nella vita di Varanasi tra i vicoli e lo shopping nelle piccole botteghe di tessuti, tutte munite di ventilatore…Prima di sera, vista l’irrisoria cifra dell’escursione (totale 40 rupie!), decidiamo di lasciarci di nuovo trasportare dalle correnti del Gange sulla barchetta in legno, aspettando il calare del sole e riammirando la vita che scorre lungo i ghat.

6 ottobre 2008 Sono ancora le 5 del mattino, stavolta solo io e Gra decidiamo di rifare un salto in barca, in fondo quando ci ricapita? E poi l’alba sul Gange è qualcosa di speciale…Così, nel buio, cerchiamo tra le barche il ragazzo del giorno prima, ma probabilmente dorme avvolto tra le coperte, così saliamo sulla barchetta di legno di un signore, contrattiamo il prezzo e partiamo facendoci largo tra le altre barche ancora ormeggiate. Siamo anche oggi gli unici stranieri che partono dallo Shindia Ghat. Ci facciamo coccolare dalle acque del Gange, mentre di nuovo la vita di Varanasi si affaccia a noi, tra i suoni delle campane dei templi e le preghiere. L’atmosfera è ancora più magica, siamo solo in tre sulla barca, molto più facile lasciarsi catturare senza distrazioni. Il sole sorge lentamente, per poche rupie in più il nostro barcaiolo si offre di spingersi ancora oltre allungando il percorso, così vediamo altri ghat, altra gente che si purifica, che si lava, che stende lunghissimi sari colorati, e le facciate bellissime degli antichi palazzi dei maraja. Le braccia dell’esile barcaiolo sono meno possenti del ragazzo giovane di ieri, la fatica si fa sentire, e così lascia che la barca derivi un po’ verso il centro del fiume, mentre stavolta nell’aria riecheggia il suono di una bella canzone indiana diffusa dagli altoparlanti della scuola di yoga all’aperto che avevamo già visto ieri. Ora che il sole è alto all’orizzonte e bacia Varanasi, i ghat sono pieni di gente e colori, anche le barche ora che non è più buio, sono aumentate, e noi, in senso inverso, lasciamo che la corrente ci riporti verso lo Schindia Ghat. Ci sono tantissimi uccelli oggi nel cielo, ma anche tanti aquiloni manovrati dai bambini che si rincorrono sui gradoni dei ghat trascinando i lunghi fili, mi ricorda il film “il cacciatore di aquiloni”, spero che questi bimbi siano un po’ più fortunati dei loro coetanei afgani… Impossibile non dedicare l’inizio della giornata al Gange…Ragalo una maglia da calcio al nostro barcaiolo, il quale, nel suo inglese stentato, ci fa capire di abitare in un’altra città, ma di vivere per mesi sulla sua barchetta qua a Varanasi, per portare qualche rupia a casa, dai suoi figli, che non vede quasi mai. E ci dice che lui prende solo una percentuale degli incassi, visto che la maggiorparte va via per l’affitto della barca stessa da pagare al padrone del Ghat…Ritorniamo sulla terra ferma, fa già caldo; arriviamo fino al Dasaswamedh Ghat, uno dei più grandi e affollati visto che da poi sulla strada carrozzabile principale di Varanasi, ma qui veniamo assaltati da ragazzini che ci chiedono doni, a stento riusciamo dopo aver finito le caramelle che avevamo, a tornare nei più tranquilli stretti vicoli della città. Ci facciamo convincere da due bambine incontrate già ieri a portarci nella bottega del loro zio, all’interno di una casa: un tipo bizzarro, basso e grasso. Entriamo togliendoci come sempre la scarpe, ci sediamo, e ci rovescia di tutto per terra, coperte, magliette, sciarpine, copriletto…È divertente la contrattazione, soprattutto con le due bambine che ci sanno proprio fare! Ne usciamo coi sacchetti pieni, non potevo non regalare a Graziana uno splendido Saari giallo e bordeaux, tutto lavorato…La giornata scorre così, passando da una bottega all’altra, è un continuo togliere e mettere le scarpe, sedersi per terra e contattare…Copri cuscini, magliette con Ganesh, tovaglie…Di tutto! E poi il solito slalom, gomito a gomito, tra gli escrementi di mucche per i vicoli. Quando si passa davanti all’ingresso dei templi, la confusione è totale, tra venditori di offerte (fiori, candele) seduti sui marciapiedi e polizziotti armati di lunghi bastoni…Una mucca ha perfino spinto Graziana per passare! Si questa è Varanasi…Alcuni vicoli invece sono assolutamente tranquilli, anche se è facile perdersi talmente sono stretti e simili. Incrociamo una ragazzina che raccoglie immondizia col suo sacco di liuta, fa tenerezza, deve essere di una casta povera indubbiamente: la fermiamo e le regaliamo qualche caramella e una maglietta, lei stupita non se l’aspettava, ci regala un enorme sorriso… 7 Ottobre 2008 Anche oggi sveglia presto, e i soliti due passi per arrivare alla Bakery a fare colazione. Poi ci dirigiamo fuori dai vicoli, sulla strada per cercare un tuk tuk che ci porti alla non lontana Sarnath (che dista solo 10km), la nostra meta odierna. Trovarne uno e contrattare un prezzo però è un’odissea, io mi defilo e lascio fare agli altri, anche perché fosse per me, per risparmiare 20 centesimi evitavo di starmene qui sotto il sole che picchia…Comunque tra una discussione e l’altra finalmente si parte, in due tuk tuk diversi: arriviamo in meno di mezz’ora a destinazione, e di nuovo discussione (non io) con l’autista del tuk tuk che si inventa il costo di un parcheggio, roba da 20 rupie, ah… Sarnath un po’ mi delude, la loonely la racconta forse più bella di quella che è in realtà, sarà anche perché di templi buddisti ne abbiamo già visti e di gran lunga più belli e meno ricostruiti, sia in Tibet che in Ladakh. Sarnath è famosa perché qua il Buddha pronunciò il suo primo sermone dopo avere raggiunto l’illuminazione. Il luogo, attorno ad un albero di banano piantato nel 1931, è pieno di bandierine di preghiera e messaggi dei fedeli, e cicondato da piccole statue del Buddha nelle diverse sue rappresentazioni. Tutti i luoghi si raggiungono facilmente a piedi, anche se il caldo mette a dura prova la mia resistenza. Visitiamo il grande stupa, assaliti da piccoli e pressanti venditori di reperti del luogo (spero falsi…), e l’improbabile Deer Park, con alcune specie animali tristemente in cattività. E poi un piccolo tempio cinese, uno giapponese (molto singolare rispetto agli altri) e…Basta…Troppo sole! Scorta di acqua e bibite zuccherate e via di nuovo in tuk tuk verso Varanasi. Un viaggio in tuk tuk credo sia un’esperienza che qualsiasi viaggiatore deve prima o poi provare, una sorta di vaccinazione obbligatoria! E’ una roulette russa, gli autisti non credo sappiano minimamente cosa voglia dire dare la precedenza, e sfrecciano con la musica (spesso allucinante!) a palla dribblando altri tuk tuk, biciclette, mucche, pedoni e auto. E’ come essere in un videogioco, sperando di non vedere mai la scritta game over…La mia incoscienza mi porta addirittura a divertirmi, tanto è paradossale la cosa: riprendo con la mia piccola videocamera, mentre altri risciò e biciclette mi sfiorano a qualche millimetro in continuazione, tutti suonano, un caos totale, a volte anche si toccano e si incastrano quando il traffico li costringe a fermarsi, qualche imprecazione, una occhiataccia, un paio di manovre per scastrarsi, e via, riprende la folle corsa…Che spettacolo! Altro che montagne russe qui…E poi, radio a parte, hanno sempre il parabrezza ricoperto al limite della visibilità da grandi adesivi di figure sacre, miste a dive del cinema e improbabili modelle occidentali, il tutto molto chic! Però un ottimo nodo per vivere a pieno la vita quotidiana locale! Andando, tra i vicoli, una piccola donna anziana molto magra, dorme sui gradini di cemento..Gra le lascia accanto senza svegliarla, una borsa con dei vestiti… Siamo ancora in tempo per il pranzo, e scegliamo un ristorante che affaccia sul Gange, esattamente sul Man Mandir Ghat, il Dolphin, nonostante sia dura farsi le scale di tutti i piani dell’hotel fino alla terrazza però si mangia bene. Finito il pranzo, di nuovo tra i vicoli per gli ultimi acquisti e i saluti ai bottegai ormai diventati nostri amici, come la signora e suoi due bimbi, sommersa in un metro quadro per tre tra i coloratissimi braccialetti che vende. La vecchia che dorme è ancora là, e fa tenerezza vedere che nel frattempo ha messo un piede tra i manici della borsa, per tenersela stretta a se mentre dorme, chissà cosa avrà pensato trovandosela lì…Son le ultime ore qua a Varanasi, l’unica città dove mi sono sentito un ospite, un ospite curioso, disorientato ma affascinato e rapito da questa magia, unica davvero nel suo genere, qui non mi sento a casa, qui sono a Varanasi…Decidiamo, dopo la traumatica esperienza dell’arrivo, di non farci tutti i vicoli della città vecchia con questo caldo e gli zaini carichi in spalla, ma di adottare la soluzione della barca almeno fino alla strada, quindi al Dasaswamedh Ghat. Ritroviamo il ragazzo del primo viaggio sul Gange, indossa la maglietta che gli abbiamo regalato: carichiamo gli zaini sulla barca (affonderà?) e noi…L’ultima breve navigazione sul fiume Sacro, attorno al quale ruota la vita e la morta…Osservo per l’ultima volta le enormi cataste di legno, il rumore delle accette e dei grossi chiodi e il fumo dei cadaveri che bruciano a cielo aperto, l’incessante attività dei crematori che non si interrompe mai…E poi gli aquiloni in cielo…I bambini che corrono sui gradoni dei ghat…La vita e la morte che si mescolano, e il Gange che veglia…Questa è Varanasi…L’ho odiata, ma non vorrei andarmene, non per capirla, impossibile, ma per lasciarmi trasportare da lei…Invece la barca attracca, salutiamo il ragazzo, e troviamo i tuk tuk che ci porteranno nel caotico traffico fino alla stazione. Qui c’è un ufficio apposta per gli stranieri, dove attendere il proprio treno, almeno c’è un minimo di aria condizionata, un bagno e un sonnolente impiegato. A turno, lasciando i bagagli in questa sala, usciamo a fare due passi e comprare qualcosa lungo la banchina, c’è gente ovunque, anche se non come a Delhi, alcuni poverissimi e mutilati che mendicano in condizioni pietose, fa stringere il cuore il loro risicato sorriso appena gli diamo qualche rupia. C’è anche una mucca, entrata chissà da dove, che passeggia placida vicino ai binari. Per entrare e uscire dalla banchina dei binari c’è un vecchio metaldetector, incustodito, e ovviamente tutti passano a fianco e non sotto. L’attesa è lunga, nella sala altri stranieri come noi, copio l’idea di coprire lo zaino col sacco interno per la pioggia, almeno è più inaccessibile nonostante i lucchetti, durante la lunga notte che ci aspetta. Alla fine il nostro treno, lo Shiva Ganga Express, proveniente da Calcutta, delle 19.15, arriva: siamo in terza classe e per di più con posti tutti divisi. Ma l’incubo della nottata saranno gli insetti, è pieno…Serve tanto zen…Arrivo previsto le 07.25am di domani… 8 Ottobre 2008 Un incubo questa notte…Gra sclera per gli insetti, il venditore di chai passa urlando “chai chai” ogni 30 secondi, e in più c’è Francesco che sta proprio male, mi sa che si è preso qualche virus intestinale. Gra mi ha svegliato di soprassalto per sorreggerlo in bagno, non riesce nemmeno a stare in piedi, fa impressione. Il treno è arrivato col suo puntuale ritardo di due ore in stazione, sorreggo Fra e lentamente ci avviamo fin fuori il marasma di gente, dove trattiamo con due taxi (visto il costo e con Fra in queste condizioni, inutile pigiarsi tutti su una sola auto) per farci portare alla Wonghden House, dove arriviamo in tarda mattinata. C’è il sole e fa caldo, stavolta la camera assegnata è più luminosa, fatta eccezione per il bagno, senza finestra e in piastrelle marroni! Recuperiamo anche i bagagli lasciati qui giorni fa, i ragazzi della guesthouse sono sempre gentili ad aiutarci a portarli nelle camere. Siamo tutti stanchi, il viaggio in treno ci ha provato…Fra e Velcha rimangono in camera a riprendersi, noi altri dopo aver mangiato qualcosa, ci facciamo portare dai soliti risciò a pedali fino alla fermata della metropolitana, e da qui fino a Main Bazar, la zona dove è più facile fare shopping: una lunga via colma di negozi che vendono qualsiasi merce, ad ottimi prezzi, e così passiamo il pomeriggio tra qualche mucca (non può mancare) e qualche affare anche qua a Delhi.

9 Ottobre 2008 Francesco sta un po’ meglio rispetto a ieri, ma è ancora troppo debole per uscire. Noi altri decidiamo di farci un vero e proprio tour delle zone da visitare di Delhi, e così, fatta colazione, troviamo i primi risciò disponibili a portarci fino alla stazione della metropolitana. Da qui andiamo fino alla centrale fermata di Central Secretariat, la zona cosiddetta presidenziale. Non sembra di essere in India qua, il viale Janpath che arriva fino al palazzo presidenziale è praticamente privo di traffico, e soprattutto di mucche! E in più è contornato da giardini in perfetto stile inglese, con l’erbetta tagliata e le fontane, oltre a qualche gruppo di turisti intenti a fotografare questa finta perfezione! Ci facciamo portare in tuk tuk all’estremità opposta di Janpath, fino all’India Gate, l’arco che ricorda le vittime indiane della prima guerra mondiale. Anche qui delusione, classico monumento per turisti, giusto la foto di rito e via, non fa per me. Anche oggi il caldo è soffocante, muoversi a piedi sotto il sole è dura. Ci ferma un signore distinto, chiedendoci gentilmente di dove siamo e intavolando una chiacchierata…Ci presenta la famiglia, i due figli e la moglie, dicendoci che lui fa il poliziotto, e che è in vacanza. Il tutto per…Farsi fare una foto tutti insieme! E’ bizzarro ma tenero! Son proprio strani questi indiani! Anche all’India Gate un gruppo di ragazzi giovani ci aveva chiesto una foto ricordo insieme! Ci avranno scambiato per qualche personaggio famoso? Tuk tuk (qui si fan pagare decisamente di più) e via verso il Gandhi Smriti, il luogo dove lo stesso Gandhi il 30 gennaio del 1948 venne ucciso da un fanatico hindu, prima di celebrare un discorso. Purtroppo sfiga vuole che oggi sia il giorno di chiusura. Una gentile guardia ci apre giusto il cancello per permettermi di fotografare almeno la statua del Mahatma. Ci basta però essere qui, in questo luogo triste, ma importante, per ricordare quello che è stato un grande uomo, che ha segnato la storia di questo Paese…A fatica ci liberiamo dei nostri autisti di tuk tuk che ci vogliono a tutti i costi portare in mercatini di loro conoscenza, per prendersi la provvigione; ci facciamo lasciare di nuovo alla prima stazione della metropolitana: qualche fermata, poi, chiedendo informazioni ai passanti, arriviamo al Gurdwara Bangla Sahib, un imponente tempio Sik, situato nei pressi di Ashoka Rd. Il tempio, di colore bianco, dalle cupole dorate, sembra quasi seminascosto in una via, preceduto da qualche bancarella che vende cd musicali e oggetti sacri rigorosamente Sik, e qualche mendicante. Poi dietro l’angolo, la lunga passerella, un tappeto verde con una ampia e bassa vasca di acqua. All’interno di tutta l’area del tempio, si entra rigorosamente scalzi, insieme alle scarpe è obbligatorio lasciare anche le calze, ed è richiesta in segno di rispetto, la copertura del capo, sia uomini che donne, anche una bandana è sufficiente, anche perché difficile procurarsi il loro tipico turbante. C’è un via vai continuo di gente, di tutte le età, che entrano e pregano, seduti sui tappeti in ordine sparso nell’ampia e luminosa sala dove tre sik suonano e cantano delle preghiere. Non ci sono sedie né panche, ci sediamo anche noi, è molto suggestivo, chi entra si avvicina ad una piccola cripta dorata al centro della grande sala, e poi esce o si siede a pregare in qualche angolo della stessa. I Sik rappresentano una minoranza religiosa qua in India; essi credono in un solo dio, ma rifiutano l’idolatria. Alla base della loro religione c’è l’uguaglianza tra tutti gli uomini, l’esatto contrario del concetto di casta. Ce ne accorgiamo all’uscita del tempio quando degli uomi distribuiscono gratuitamente a tutti del cibo. A lato del tempio c’è una grande vasca di acqua, passiamo un po’ di tempo qua, all’ombra dei portici che la circondano, anche perche’ camminare a piedi nudi sul marmo che scotta non è proprio cosa! Fino ad ora questa al Gurdwara è la tappa più interessante di Delhi, un luogo da visitare anche se poco approfondito perfino dalla Loonely Planet. Recuperiamo le nostre scarpe, compriamo più per curiosità due cd di musica Sik, e a piedi ci dirigiamo di nuovo alla metropolitana. Prossima tappa il quartiere arabo. Poche fermate e ci siamo. A seconda della zona, quando si sale dal sottosuolo in superficie, sembra sempre di entrare in un Paese diverso, completamente diverso: come gente e tratti somatici, come caos, come strade e urbanistica…Un mix talmente assurdo che ti manda in confusione. Prima mi sembrava di essere a Londra, poi nell’India che immaginavo, e ora in un paese del Maghreb! Qui le strade dissestate si fondono col marciapiede, le case sono fatiscenti, i cavi della corrente elettrica fanno impressione da quanto sono numerosi e aggrovigliati. E tantissime botteghe che vendono qualsiasi cianfrusaglia, soprattutto attorno alla Jama Masjid, la moschea più grande di tutta l’India. Prima di entrarvi, ci fermiamo in un ristorante (con tanto di cucina all’aperto in perfetto stile arabo, e sala interna), il Karim’s, raccomandato dalla Loonely, anche se nascosto in fondo ad uno stretto vicolo (fa degli ottimi cheese momo!). La moschea, costruita in arenaria rossa, sembra quasi inghiottita nel quartiere, pienissimo di gente. Si erge però imponente dall’alto di una ampia scalinata che porta al suo ingresso: pensavo di cavarmela con i pinocchietti sotto il ginocchio, invece per entrare devo indossare a mò di gonna un a specie di tovaglia blu che mi danno, e che mi rende al quanto ridicolo agli occhi di tutti, per l’ilarità di Graziana e Velcha! Michele invece si rifiuta di entrare, e ci aspetta fuori. Il cortile interno è grandissimo, con al centro la vasca per la purificazione. Anche qui senza scarpe, decidiamo di salire sulla stretta e buia scala a chiocciola di uno dei quattro minareti, alto 40 metri. In due non ci si passa! Arriviamo fino su in cima, dove, pigiati con altra gente, si può vedere un ampio panorama a 360 gradi di Delhi. Anche la Jama Masjid indubbiamente è tappa obbligata. Uscendo, ci ricongiungiamo con Michele e a piedi ci dirigiamo verso Chandni Chowk. Siamo prima assaliti da un gruppo fin troppo insistente di bambini che non si accontentano delle caramelle che diamo loro, ci serve stavolta molta più decisione per placare la loro insistenza fisica, aiutati anche dal rimprovero deciso di qualche passante. Camminando ci imbattiamo in un’altra bizzarria ancora diversa da quanto visto e vissuto oggi: una sfilata alquanto chic di carri, alcuni trainati da mucche, altri da finti cavalli bianchi, con su uomini travestiti e truccati in modo davvero stucchevole! Alcuni di loro sparano con dei finti archi, delle frecce fatte di caramelle, che entusiasmano i bambini. C’è tanta polizia a fare da cordone. Oggi è la festa Diwali, una importante ricorrenza Hinduista: per cinque giorni gli Hindù celebrano la festa delle luci, scambiandosi doni e sparando fuochi di artificio! E così, dopo la fine del Ramadan ad Agra, capitiamo ancora per caso in un’altra festività religiosa di forte richiamo. E oltre ai carri ce ne accorgiamo spingendoci oltre la zona araba, a Chandni Chowk, l’importante arteria, chiusa al traffico in un senso di marcia, per permettere alle tante persone di dirigersi a piedi verso i luoghi dei festeggiamenti. C’è tanta gente a piedi, siamo davanti al Red Fort (che decidiamo di tralasciare, dopo aver visto quello di Agra molto più bello), prima di tornare alla metropolitana, vorremmo visitare da dentro anche il tempio Pianista, ma è chiuso, quindi ci concediamo una tappa in un piccolo bar “occidentale”, stavolta la sete e la fame hanno la meglio sulle nostre scelte, e ci concediamo una squisita fetta di torta al cioccolato e un succo in bottiglia, pagando all’occidentale (l’equivalente di quattro pasti completi!). Stanchi, torniamo in metropolitana verso il quartiere tibetano. Riemersi in superficie (girare Delhi in metro è comodissimo), prendiamo due risciò a pedali che attraversano una via nel bel mezzo dei festeggiamenti, tanto che siamo circondati da gente che urla e agita bastoni, pitturata di rosso in volto: sembra una scena da aggressione violenta, in effetti così mentre circondano e spingono il nostro risciò con noi sopra, fanno un po’ impressione, ma in fondo stanno solo festeggiando, e preparando enormi pupazzi di cartapesta per la notte che sta per arrivare. Usciamo dalla folla a fatica, e arriviamo (non prima di aver imboccato contromano e con il semaforo rosso il violone che ci porta a casa!) al quartiere tibetano. Qui dei festeggiamenti del Diwali, neanche l’ombra, il quartiere è l’ennesima faccia di Delhi che abbiamo visto in questa lunga giornata. Delhi dai mille volti, dalle mille etnie e religioni che sembrano non incontrarsi mai. Eppure, in qualche modo, convivono. Abbiamo visto un po’ tutto quello che, con il tempo a nostra disposizione, ci sarebbe da vedere, così domani potremo girare la città senza metà. Per fortuna Francesco un po’ migliora, e domani spero possa essere dei nostri.

10 Ottobre 2008 Chi l’avrebbe mai detto: ho guidato io un risciò per le strade di Delhi, e ho pure rischiato un frontale! Eh si…Fra sta meglio, viene anche lui oggi dopo la forzata convalescenza alla Wonghden House. Prendiamo i soliti risciò, io sono su con Graziana. Poco dopo la partenza, ci fermiamo, dietro ad una jeep della polizia, ferma. Improvvisamente però inizia a fare la retro senza minimamente guardare dietro, e venendoci addosso lentamente, ma senza fermarsi: inutili i colpi che diamo sulla carrozzeria e gli insulti! Il fragile risciò si schiaccia da un lato, per fortuna scendiamo in tempo e nessuno si fa male, però col senno di poi…Il poliziotto, con la solita aria di sufficienza, scende come se nulla fosse successo, il povero ragazzo proprietario del risciò ci fa comunque cenno di salire su un altro risciò, Graziana e Michele su un altro, io su quello che stava portando Francesco e Velcha. Mi siedo sulla canna, scomodissimo anche per il guidatore che ad un certo punto scende per spingerlo a mano. Al chè mi offro di pedalare! L’avessi mai fatto…L’indiano è divertito, si attacca al risciò mentre io ci prendo gusto e pedalo, pedalo…Finche visto il peso non riesco più a girare e mi ritrovo in contromano! In qualche modo freno, il ragazzo indiano se la ride e l’ultimo pezzo guida lui con me schiacciato tra lui, la canna, e Fra e Velcha dietro! Arriviamo sani e salvi tutti alla metro in qualche modo, che avventura. Mi spiace per il risciò distrutto, ma ci dicono di non preoccuparci che li riparano. Oggi di nuovo tappa a Main Bazar, la zona dello shopping per viaggiatori. Ci dividiamo perché girare in 5 diventa complicato, e così io e Gra passiamo l’intera giornata entrando e uscendo dalle piccole e a volte enormi botteghe che vendono di tutto: i prezzi sono incredibilmente bassi, da non crederci a volte. Mi porto a casa due bellissimi batik colorati, una scorta di ottimi incensi, saponi, creme, balsami di tigre, le immancabili magliette e souvenir vari da regalare. Gra fa la solita scorta di abbigliamento fra gonne e maglie dai tagli e i colori stupendi, introvabili in Italia se non a prezzi esagerati, e trova anche delle belle scarpette indiane per l’estate. E’ divertente e piacevole girare fra tanta mercanzia, senza fretta, tra mucche e cani che passeggiano, e i soliti autisti di risciò che appena esci da un negozio ti chiedono se vuoi un passaggio. Ci ritroviamo per caso con Fra e Velcha in un locale a prendere da bere, visto che anche oggi fa un gran caldo. Talmente tanta la roba comprata che addirittura compriamo per comodità delle grandi borse da spesa per mettercela dentro. Oggi ho regalato ad una vecchietta anche le mie mitiche scarpe da ginnastica che mi hanno accompagnato in tanti viaggi, ma che ormai erano arrivate alla frutta. Prima che venga buio, torniamo in metro e poi in risciò fino alla Wonghden House e al quartiere tibetano…Sono le ultime ora di questo lungo viaggio. Ancora qualche passeggio qua giusto per finire le ultime rupie. Una bimba indiana ci chiede l’elemosina, è scalza e ci indica un paio di scarpette in vendita su una bancarella, glie le compriamo, quasi non ci crede, per qualche istante può sorridere…Abbiamo finito ormai anche le ultime caramelle da regalare, e anche i pochi negozi tibetani da vedere nella zona. L’ultimo acquisto è una coperta in lana di yak, che servirà anche per contenere bene nei bagagli le tante cose comprate…Già, i bagagli, riuscirà Gra (perché io sono una frana in questo) a farci stare tutto? Si, come sempre. E’ l’ultima notte indiana…Sembra quasi surreale, si inseguono come sempre prima della partenza, mille pensieri e mille ricordi, mi torna in mente il Ladakh, i suoi silenzi, la gente, la calma interiore che ti emana, i sorrisi dei bimbi di Korzokh, la maestosità della catena Himalayana, la neve e il ghiaccio, Diskit e la Nubra Valley…Sembra passato un secolo, e proprio da qui, dalla Wonghden House, solo tre settimane fa stavamo partendo per Leh. Come poi abbiamo fatto ad arrivare al Taj Mahal, a vivere l’alba sul Gange e alla magia di Varanasi…Viaggiando…Viaggiando…Non so definire il mio stato d’animo attuale, potrei definirlo triste per la partenza, orgoglioso per quanto fatto, felice per le tante emozioni vissute, preoccupato per il futuro di questa gente…Non so, è difficile, l’India davvero non ti lascia indifferente, ti entra dentro e un po’ si appropria di te. E l’impatto non è solo con le condizioni di estrema povertà come si potrebbe immaginare. Si, quelle ci sono purtroppo, e ti colpiscono il cuore…Ma è tutta l’India che ti colpisce, col suo modo di vivere, di essere, talmente lontano e incomprensibile dal nostro, e talmente diverso a seconda di dove ti trovi…Chissà, forse un giorno ci tornerò, a troppe domande non so ancora darmi una risposta…Solo il sonno e la stanchezza mi vincono in questa, per ora, ultima notte indiana.

11 Ottobre 2008 E’ buio, per i vicoli del quartiere tibetano di Delhi non c’è ancora nessuno. Sembriamo degli zombie, i bagagli sono pronti, aspettiamo solamente il tassista che ci porterà in aeroporto. La macchina qui non arriva, troppo stretti i vicoli, così svegliamo un signore che dorme sul suo risciò, per farci portare col risciò gli zaini fino alla strada. Non abbiamo quasi più rupie, e così gli lasciamo una mancia di 100 Rp, per i pochi metri fatti. Per noi non è praticamente nulla, per lui tantissimo, quasi non ci crede e, commosso, ci ringrazia. Un po’ mi si stringe il cuore, son contento per lui. Mentre carichiamo sull’auto gli zaini, c’è un gruppo di cani attorno a noi, insolitamente vogliosi di coccole, uno si struscia sulle gambe, impossibile non accontentarli un po’, sembrano venuti quasi a darci il saluto e il buon viaggio, che bello! Via si parte, l’ultima folle corsa verso l’aereoporto, sorpassando come in un videogame gli ancora pochi camion colorati con la scritta “Horn Please”, mentre Delhi ancora dorme, con le sue tante anime disperate sui marciapiedi. Mi viene in mente che tutto questo, è nato da un progetto cominciato quasi per caso ad un colanzo (brunch) al Tempio d’Oro di Milano…Ho realizzato un altro sogno, ne sono felice, e sono felice di averlo condiviso ancora una volta con Graziana…E che lo abbiano condiviso con noi anche Fra, Velcha e Michele.

L’aereoporto al suo interno è una gran delusione, pochi negozi, e i prezzi sono tornati quelli occidentali. Perfino la colazione è scadente! Ci tocca la lunga attesa…Il nostro volo 256 della British Airways per Londra è in ritardo…Ma stavolta non ho nessuna fretta… “…Nel cuore dell’essenza, l’essenza della vita Battito di cuore vivo primordiale Battito di cuore ritmo naturale Sempre in cammino come un lungo viaggio Passo dopo passo, come transumando Back to basic ritorno alle radici Ancora in cammino, anime in passaggio…” (Cisco – “Anime di passaggio”)



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