In un villaggio del Guatemala

Santa Cruz la Laguna è un centro abitato dai cakchiqueles, uno dei tanti gruppi etnici maya. Spesso salgo in paese per comprare da mangiare: banane, quesitos, pomodori, riso, pasta, bustine d’acqua da 500 cl, caffè, birre, gallette, uova. Gli alimentari qui non si può certo dire che siano forniti. Ma comprare scatena enormemente la fantasia....
Scritto da: vinci
in un villaggio del guatemala
Partenza il: 20/01/2005
Ritorno il: 21/02/2005
Viaggiatori: da solo
Spesa: 1000 €
Santa Cruz la Laguna è un centro abitato dai cakchiqueles, uno dei tanti gruppi etnici maya. Spesso salgo in paese per comprare da mangiare: banane, quesitos, pomodori, riso, pasta, bustine d’acqua da 500 cl, caffè, birre, gallette, uova. Gli alimentari qui non si può certo dire che siano forniti. Ma comprare scatena enormemente la fantasia. Inoltre, a volte passano i venditori a domicilio. Chiedono se sei interessata a comprare, entrano e ti mostrano la loro mercanzia. Queste piccole persone sono formidabili. Vivono a 1.665 metri di altitudine, a 200 metri sul Lago Atitlàn, raggruppati in una comunità di duemila anime delle quali buona parte sono bambini desiderosi di giocare, e passano la loro vita a salire e scendere dal villaggio. La cosa, per una borghesuccia made in Italy come me, non è delle più semplici, né delle più appetibili. A parte qualche piccolo pianerottolo dei quali il più grande è un campetto da calcio davanti alla chiesa principale, non ci sono pianure a Santa Cruz la Laguna, il paesino più ripido che abbia mai visto. La gente, dicevo, passa porta a porta per vendere. Spesso viene da paesini vicini, o da Panajachel, il centro più grande. Scendono dalla lancia e iniziano la dolorosa ascesa.

Io, ogni volta che dalla lancia salgo fino al mio alloggio ho la lingua a terra per buoni dieci minuti. Ma loro, carichi fino all’inverosimile, resistono (e per un tragitto parecchio più lungo del mio). Spesso sono carichi di legna, che scende su tutta la loro schiena, legata da alcune corde e appuntata in cima alla testa, a volte portano i frutti dei faticosi raccolti, anche questi sostenuti con enorme maestria e dignità sulla testa. Sono uomini o donne, non di rado bambini. Tutti indistintamente carichi a un punto che un italiano non sopporterebbe per più di cinque minuti, e in pianura. Ma questa è la loro vita. Non possono scegliere, loro. Salgono lentamente, a passo di tartaruga. Nessuna premura, c’è tutto il tempo. La testa china a terra i portatori di legna, alta e rigida i venditori di cibo coi loro grossi cesti di vimini.

La quasi totalità delle donne porta il traje tipico, l’abito tradizionale imposto loro anticamente dagli spagnoli all’epoca della conquista, ma che oggi è motivo di orgoglio nazionale. Questo abito si compone di due parti: il guipil e il corte, cioè la camicia di tela grossa, tessuta e ricamata a mano con le fantasie e i colori locali e la gonna, una tela lunghissima attorcigliata e stretta forte attorno alla vita per mezzo di una cintura anch’essa tessuta e ricamata a mano con grande fatica. Il tutto è acquistabile a un prezzo alto, a causa della rudimentale mano d’opera che affatica le tessitrici. Ogni zona, paese o città, rione o borgata che sia si distingue dal tipo di ricamo disegnato sul guipil. I temi di solito sono floreali, naturalistici, o anche astratti, e infinita la gamma dei colori. Sono grandi i sorrisi che elargiscono nel salutare chiunque incontrino sul loro cammino. Ti lasciano senza fiato. I mulatti, i garifuna e le altre varietà umane che popolano il Guatemala hanno abiti più “europei” e sono meno tradizionalisti rispetto ai maya.

In una delle mie passeggiate santacruziane conosco Dani, un pagliaccio che nei suoi spettacoli spiega come si previene l’aids. Lui è spagnolo, ma vive qua da quattro anni, e ci sta molto bene, poiché ama sentirsi lontano da automobili, telefoni, computer e quant’altro possa facilitare – da un lato – ma complicare – a suo dire – l’esistenza. Nel cammino incontriamo Rosalia, una quindicenne locale che ci invita a trascorrere un momento a casa sua. “Vivi molto in alto?” – le chiedo un po’ preoccupata. “Si” – risponde, senza mezzi termini. Così ci apprestiamo a salire. Aveva ragione Rosalia: casa sua è molto vicina alla sommità della montagna. Ma il cammino non mi ha distrutta come pensavo. Probabilmente perché per una volta ho abbandonato il mio tipico passo affrettato e ho ceduto alla placidità del tempo di qui.

La casa è tra le migliori che abbia visto. Da fuori, per prima cosa, vedo quello che loro chiamano letrina, cioè una latrina dentro una capanna fatta di stecche di canna sottili. Sembra che debba caderti addosso da un momento all’altro. In terrazza svolazzano i panni stesi. Dani rimane fuori a chiacchierare amabilmente con gli abitanti della casa mentre io, dopo le presentazioni, rimango alcuni momenti in camera da letto a chiacchierare con Rosalia. Quella stanza mi ha subito suggerito un collegamento mentale con l’epoca dei miei nonni, vissuti in povertà durante la guerra. Ma nel collegarmi ho dovuto tener presente una cosa: mi trovavo a casa di una delle famiglie meno povere di Santa Cruz (di ricche non ce ne sono).

Entrando a destra, due piccoli letti a due piazze nei quali dorme tutta la famiglia – composta da madre divorziata trentenne, due figlie di quindici e sedici anni e un figlio di dodici. Ai piedi del letto di sinistra c’è un piccolo armadio con specchio, molto simile a quello dei tempi dei miei nonni, seguito da un tavolo strapieno di roba; tanti disegni affollano la parete; di fronte ai letti è un altro piccolo armadio che più tardi scoprirò stipato di ogni cosa; varie mensole con pentole, coperchi e altri utensili per la cucina, infine alcune sedie di legno, come quelle dove Rosalia e io ci appoggiamo. Qui le case non hanno mattonelle sul pavimento, solo cemento spianato, e lo stesso vale per le pareti. Il soffitto, poi, è per la maggior parte dei casi fatto di lamine d’alluminio a forma di tegole e sorrette da travi di legno. Rosalia mi fa una breve presentazione della famiglia. Mi dice che sua sorella, la sedicenne Manuela, quando sta in casa, lontana da occhi indiscreti, ama indossare abiti europei molto sexy e dedicarsi al ballo. Dice che la madre e la vecchia nonna che vive nella casa accanto, amano sedersi a guardarla mentre si dimena come fosse Britney Spears.

La mamma di Rosalia mi si avvicina. Mi chiede di presentarmi e di dirle da dove vengo. Mi domanda: “Quant’è distante l’Italia? Più degli Stati Uniti?”. “Si”, le rispondo, “molto di più”, ma non credo che lei abbia mai visto un mappamondo. Vuol sapere cosa mangiano gli italiani, cosa si prova a stare in aereo, che lavoro faccio, un po’ di tutto, insomma. Ma la domanda più interessante e per me più toccante è stata: “ Perché gli stranieri vengono in Guatemala?”. Poi aggiunge, a voler chiarire: “Perché la gente di un posto si sposta per andare in un altro posto?”. Io, mezzo scioccata, le rispondo usando un po’ le parole del mio manuale di geografia dell’università: “L’uomo, da che il mondo è mondo, ha un innato desiderio di viaggiare, una specie di istinto. Questi sa che il mondo è grande e si estende per innumerevoli piedi al di là del proprio territorio, il che fa nascere in lui il desiderio di vedere cosa c’è al di là dell’orizzonte”. Lei, allora: “Io morirò senza aver visto nient’altro che questo posto!”. E io, quasi a volerla consolare: “Che sappia, però, che questo è uno dei posti più incantevoli del mondo”. Non ho mentito. Dalla sua veranda infatti, si staglia uno dei panorami più suggestivi ed emozionanti che questa palla girevole possa offrire: si vedono le case – piccole e simili a capanne preistoriche –seminascoste dalla abbondante vegetazione che ne anima i giardini, case che accompagnano lo sguardo fino a lasciarlo stecchito e attonito sul lago, grande, rotondo e circondato dalle luci tentennanti dei lontani paesini; incorniciato da tre vulcani come bassorilievi sulla natura tropicale, e coperto da un cielo nel quale le stelle non c’è sera che non indossino i migliori paramenti per manifestarsi, numerose e ansimanti come donne in erba in cerca di marito. Che incanto! Che miracolo della natura! Penso che sono sensazioni come questa a far sì che valga la pena di vivere, anche se si presentassero un’unica volta nella vita. La signora m’invita a prendere un caffè. Io all’inizio dico di no, ma subito aggiungo che è per non disturbare, però in realtà sono compiaciuta da un invito così speciale. Vado in cucina con lei. E’ una stanza di quattro metri quadrati, con i fornelli appoggiati su un mobile, un piccolo tavolo quadrato appoggiato alla parete e degli utensili, addossati al muro o pendenti dal soffitto. E’ bello stare qui.



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