In Pelopnneso con Omero e mia figlia

“Dalle Muse, da Apollo, da Zeus, io voglio cominciare. Grazie alla Muse infatti e ad Apollo che colpisce lontano vivono sulla terra i poeti, che ci accompagnano con la lira e grazie a Zeus i re. Felice colui che le Muse hanno caro; dolce dalla sua bocca fluisce la voce.. Io vi saluto figlie di Zeus, e voi date gloria al mio canto, io mi...
Scritto da: steber
in pelopnneso con omero e mia figlia
Partenza il: 05/10/2006
Ritorno il: 12/10/2006
Viaggiatori: in coppia
Spesa: 1000 €
“Dalle Muse, da Apollo, da Zeus, io voglio cominciare. Grazie alla Muse infatti e ad Apollo che colpisce lontano vivono sulla terra i poeti, che ci accompagnano con la lira e grazie a Zeus i re. Felice colui che le Muse hanno caro; dolce dalla sua bocca fluisce la voce.. Io vi saluto figlie di Zeus, e voi date gloria al mio canto, io mi ricorderò di voi , in un altro canto ancora” Omero

Mi ha svegliato non so se il gallo, i cani, o il ragliare dell’asino, comunque sono qui seduto allo stesso tavolino dove ieri sera gustammo la nostra prima cena greca (se si eccettua quella sul traghetto) ed il mio sguardo domina dapprima il rapido degradare del declivio e successivamente la vasta piana, racchiusa dai colli, che porta gli ulivi fino al mare. Bisogna fare attenzione, parlar piano, perché il luogo è sacro, dietro le mie spalle, a 4 chilometri c’è Delfi. Andrèe è ancora a letto ma è già sveglia, tra poco mi raggiunge. E’ il primo viaggio che facciamo completamente soli io e lei. Questo viaggio è tante cose insieme, apparentemente è un regalo per il compleanno, ma soprattutto è un modo per riavvicinarsi dopo anni di reciproche lontananze; riavvicinamento già avvenuto, a dire il vero, ma che questo viaggio tra mare, letture e dei può suggellare. Un viaggio tra i suoni anche. Mi soffermo un attimo ad ascoltare la valle, il gracchiare del corvo ora vicinissimo e sgradevole, subito dopo lontano quasi svanito, un accenno prematuro di frinire di cicala, un rimbalzato abbaiare, un prolungato cinguettio e per portare tutto alla realtà il suono del clacson d’un pullman che arranca sui tornanti, carico di turisti. E turisti siamo anche noi, turisti stani però carichi soprattutto di libri. Il difficile di questo viaggio sarà abbinare le letture ai luoghi. Tra poco saremo a Delfi, cosa leggeremo? Penso “gli inni omerici” ma lascio fare ad Andrèe. Turisti dunque, partiti di Milano ieri mattina alle dieci, arrivati ad Ancona alle 14. Cosa ricordare di Ancona, città abbandonata tra il mare ed il colle? La strada che dal Duomo porta al porto, passando tra ruderi e resti, la gentilezza degli abitanti che abbiamo fermato per chiedere indicazioni. Forse è proprio questa gentilezza che ci è rimasta dentro e che, a paragone, ci fa sembrare antipatici e scortesi tutti gli inservienti del traghetto. Un traghetto enorme, bello, moderno, ma che proprio per questo non piace ad Andrèe. Passiamo il tempo giocando a scacchi e leggendo; Patrasso ci accoglie con il sole, anche Ancona ci aveva accolto con il sole. Ritrovare la macchina è stato un incubo. I vari piani del parcheggio del traghetto mi sono sembrati i nuovi gironi danteschi, puzzolenti, strapieni di giganteschi camion appiccicati l’uno all’altro da non far passare neppure uno spillo, che ti mettevano addosso un sentimento di paura. Ti sentivi perso, solo, dimenticato. Alle 16 sbarchiamo, nessun controllo doganale. Prendiamo subito in direzione Atene. A pochi chilometri da Patrasso, arriviamo a Rion e li prendiamo il traghetto per attraversare il mare di Corinto. Qui domina la vecchia fortezza veneziana posta a guardia dello stretto. Sbarchiamo a Antirion dopo una mezz’oretta e da lì via sulla strada per Delfi. Nauraktos, coi bei tavolini sparsi tra i resti delle mura veneziane del vecchio forte. A Clovino Beach Andrèe fa il suo primo bagno. La spiaggia è molto carina, piena di ulivi ma soprattutto, per questo piace ad Andrèe, deserta. La strada è tutta un susseguirsi di panorami che spaziano dal mare, (ogni tanto lì accanto, alle volte lontano ed in basso), al monte con i suoi tornanti e le sue salite e discese. Splendido il tratto di via da Eraton a Galaxidion. Ancora qualche chilometro ed eccoci ad Itea, da qui la strada abbandona la costa per salire verso Delfi. Attraversiamo la vasta piana d’ulivi che ora è sotto il mio sguardo. Sostiamo in una caratteristica taverna. Mi addormento subito. Andrèe vorrebbe leggermi un pezzo del libro “Gli dei della Grecia” ma stasera gli dei mi accontento di vederli in sogno. Buonanotte piccola Lunedi “Ma se vuoi darmi ascolto – tu sei molto più potente e più grande di me, signore, e unica è la tua forza – edifica il tuo tempio a Cresa, sotto la gola del Parnaso (Omero, inno ad Apollo vv. 267-269) “di la pieno d’ira, procedesti rapidamente verso la montagna e giungesti a Cresa, collina rivolta ad Occidente, ai piedi del Parnaso coperto di neve. Su di essa incombe una rupe, e sotto si estende una valle profonda e scoscesa. Là Febo Apollo, il signore, decise d’innalzare l’amabile tempio” (vv281-286) “Così disse Apollo, il dio arciere e sulla fonte gettò una rupe con una frana di macigni, e sprofondò la corrente ed elevò un’ara nel bosco sacro fatto di alberi, proprio vicino alla fonte dalle belle acque, e là tutti al dio rivolgono le loro preghiere chiamandolo Telfusio, perché ha umiliato la corrente della sacra Telfusa” Quale introduzione migliore alle meraviglie di Delfi che ripercorrerne il mito attraverso Omero? Eccoci nel cuore della religiosità greca, davanti alla roccia dove profetava la Sibilla, davanti al tempio dove Apollo, l’arciere, purificava e malediva; ecco i templi dove s’adunavano i tesori dei Messeni, degli Ateniesi, dei re di Argo e di Micene. In questo stesso luogo, da tutta la Grecia, da tutta l’Europa e da tutta l’Asia venivano umili e re, a sapere del loro futuro, a chiedere consiglio prima d’intraprendere una guerra o un affare. E a tutti donava una parola l’astuta Pitia, invasata dal Dio. C’inoltriamo tra le rovine in silenzio, saliamo fino al teatro, e da li su fino allo stadio, dove è facile immaginare gare e combattimenti. E poi scendiamo alla Fonte Castalia la dove Apollo lasciò imputridire la funesta Dracena, e poi al tempio di Era, giù sotto, ai piedi del ginnasio. Il sole picchia del resto questo è il regno di Febo. Dalla sacralità di Delfi partiamo per raggiungere l’altra città sacra per eccellenza, Eleusi, sacra a Demetra, ai cui misteri era possibile arrivare solo attraverso speciali riti d’iniziazione. Come dice Sofocle: “O tre volte felcici / quelli tra i mortali, che vanno nell’Ade dopo aver contemplato / questi misteri: difatti solo ad essi laggiù / spetta la vita, mentre agli altri tutto va male laggiù” o come ci ricorda Pindaro: “Felice chi entra sotto terra dopo aver visto quelle cose: conosce la fine della vita, conosce anche il principio dato da Zeus”. Invece a noi sono stati preclusi i misteri. Infatti non solo l’area archeologica era chiusa, ma non abbiamo trovato neppure un cartello, nell’orribile Eleusi di oggi, che indicasse la località. Incredibile come un luogo che ha esaltato scrittori, pensatori, filosofi e poeti oggi sia così abbandonato nella tristezza. Andreè, che già di suo non ama il mondo moderno, trova in tutto ciò un’altra certezza del potere distruttivo della civiltà. Eravamo giunti ad Eleusi dopo un paio d’ore di viaggio che ci avevano visto costeggiare il Parnaso ed inoltrarci tra valli brulle ed assolate. Come al solito il panorama varia ma qui troviamo per larghi tatti anche pezzi realmente brutti, durante questi tratti Andrèe mi legge per prepararmi ad Eleusi frammenti di brani dedicati al luogo e soprattutto a Demetra e a suo figlia Persefone. Viaggiare con Andrèe è splendido, per molti aspetti mi pare di viaggiare con me stesso. Ama prepararsi ai luoghi, non si lamenta, non vuole fermarsi ogni momento etc. Ora la vedo laggiù, illuminata dal sole e circondata dai gatti, che legge, in questo luogo che definire meraviglioso è poco. E’ seduta sui resti del tempio di Era, lambita dal mare. Intorno c’è solo silenzio, l’unico rumore che ogni tanto giunge è quello dell’onda sulla battigia e qua e la un miagolare triste di gatto affamato. Il dispiacere è che si è rotta la macchina fotografica. Da Eleusi abbiamo preso l’autostrada per Corinto. Siamo usciti all’istmo. Il canale ad Andrèe non piace perché lo vede come un taglio fato dall’uomo alla natura, a me invece emoziona, e mi ricorda tanti anni fa (avevo più o meno l’età di Andrèe) quando son passato di qui, per andare poi a Tessalonica, e attraversare la Iugoslavia. Avevamo noleggiato un pulmino, con me c’erano la Rossana Casè , suo marito etc.. A Istmo visitiamo il vecchio ponte sul canale (è in legno) il museo e gli scavi. Siamo nel Peloponneso. Procediamo verso Sud. Ci fermiamo a fare il bagno a Kechries tra le rovine del vecchio molo romano, dove sorgeva un tempio, ora in gran parte ricoperto dal mare. Facciamo veramente il bagno nella storia, dico facciamo perché Andrèe riesce a convincermi ad entrare in acqua, ed Andreè riesce altresì a convincermi (perché proprio non volevo) a ritornare in Attica per andare a Limmi Voulengeris dove i resti del tempio di Era si adagiano solitari nella baia. Dice che la porta là l’istinto, ed ha ragione, il posto è, come ho già scritto, unico. L’acqua della baia illuminata da un sole via via più alto (siamo venuti qui che non erano ancora le sette del mattino) prende sempre più il colore del turchese, chiazzato di verde chiarissimo. Ma già ieri sera, al tramonto, eravamo venuti qui ad assaporare silenzio e colori. Abbiamo cenato poi in una piccolissima taverna in riva al mare. Eravamo solo io ed Andrèe e sul tavolo in fondo i padroni. Più tardi sono arrivati una coppia di italiani. Il mare qui è completamente circondato dalla terra e sembra quasi un lago, le luci che lo circondano lo fanno scintillare proprio come un lago. L’acqua ci porta l’onda o meglio l’onda ci porta l’acqua fino a pochi centimetri dal tavolo dove Andrèe gusta un polpo ed io un piatto d’acciughe fritte. Orribile l’albergo ma dobbiamo solo dormire. Andrèe legge e punta l’inutile sveglia. Io mi addormento subito. martedì Che pace! Mi godo Andrèe che fa il bagno. Mi godo il vento, i colori, mi godo i lirici greci. Chiacchiero con il rabbioso Archiloco, la struggente Saffo, e con Ibico consunto nell’amore. Vorrei leggere l’inno ad Afrodite, ma continuo a giocare con Apollo. Segno tutti i nomi con cui lo chiama Omero: arciere, possente, armato d’arco, sovrano, violento, nobile e forte, luminoso, dalla spada d’oro, dalla chioma intonsa, che colpisce lontano, signore dall’arco d’argento, delfino. Eschilo invece lo chiama “l’incoronato d’edera”. Euripide: ”esperto nella cetra”. Ma ripensando a Delfi mi viene in mente come si definisce: “Siano miei privilegi la cetra e l’arco ricurvo, inoltre, io rivelerò agli uomini l’immutabile volere di Zeus” e quel che di lui dice Platone: “scopri l’arte del tiro con l’arco, la medicina e la divinazione.” Prima di lasciare Geriaon facciamo una passeggiata sul sentiero che ci porta fino al faro a strapiombo sul promontorio, poi ritorniamo verso Corinto. A Loutrafi, città da dove viene l’acqua minerale che beviamo, ci fermiamo per un panino. E’ una città dii mare, carina a mio avviso, ma essendo un posto dove vivono degli esseri chiamati uomini, che costruiscono, aprono botteghe e ristoranti ad Andrèe non piace. Ripassiamo l’istmo di Corinto e cerchiamo di raggiungere l’Acrocorinto. Prendiamo l’autostrada ma la cartina si dimentica di dirci che l’uscita per Acrocorinto è chiusa. Siamo obbligati a fare molti chilometri in più e soprattutto un’inversione in autostrada da ritiro di patente, ma alla fine eccoci sulla strada, assolata e silenziosa che porta al monte dove domina, stupendamente alta, la fortezza. Saliamo nel calore del primo pomeriggio, Andrèe boccheggia. Lo spettacolo è unico, io concordo con la guida nel dare alla località il doppio asterisco ovvero il simbolo che dice che da sola la località merita un viaggio. Ci fermiamo alla porta a metà della salita, approfittando dell’ombra, per leggere Eraclito. Cerco di strumentalizzare una citazione, “ La strada all’insù e all’ingiù è una sola e la medesima”, per convincere Andrèe a salire più in alto, ma la citazione non funziona. Abbandono Andrèe sotto il portico e proseguo da solo la salita. In cima cima non ci arrivo però neppure io. Non per caldo o stanchezza, ma mi scoccia lasciare Andrèe lì sola. So che è in buone mani, ha con se il suo libro preferito, ma non vedo comunque l’ora di raggiungerla. Partiamo verso Epidauro; con noi, bene in vista, Sofocle ed Aristofane. La strada e panoramicissima, all’inizio lascia scorgere in fondo il mare, poi si inoltra tra monti e colli alternativamente verdi, brulli rocciosi, appuntiti, levigati dal vento; a un certo punto, improvviso, dopo una curva, incontriamo un prato, proprio come quelli che si incontrano da noi con tanto di erbetta, ci sorprende talmente da segnarlo. Ritorna il mare, ritornano i colli. Eccoci ad Epidauro. Il sito archeologico è molto vasto ed è come piace ad Andrèe, sperduto nella natura, senza nessuna casa nelle vicinanze. Davanti a noi l’antico teatro, grande, splendido, perfettamente conservato. La sua acustica appare ancor oggi straordinaria e da ad Andrèe la possibilità di discutere intorno all superiorità degli antichi rispetto a noi ormai rovinati da telefoni e telefonini. E straordinaria l’acustica di questo posto lo è veramente, in qualsiasi posto del teatro ti metti, senti allo stesso modo, e ti arriva, anche quando sei in cima sull’ultimo gradone come siamo noi ora, riconoscibilissimo il lieve battimani. Molti si mettono al centro del teatro a cantare, a parlare, a battere le mani appunto, e tu senti sempre a meraviglia. Io volevo andar al centro e cantare “eri piccola” ma Andrèe ha detto che se l’avessi fatto mi avrebbe diseredato. Ho cercato di convincerla ad andare lei, al centro, e recitare qualche verso in greco. Si è sottratta, per questioni di metrica ha detto. Ma quanti avrebbero riconosciuto la differenza tra i dattili e gli spondei? Non certo la maggioranza di quella turba che gira per il teatro armata di macchine fotografiche e guide rapide della Grecia. Turbe che Andrè disdegnata sbobba; ma cara figlia mia, guardaci, come andiamo in giro noi? Con macchina fotografica e guida turistica! Prima di scendere dal teatro leggiamo, io “il Prometeo incatenato”, Andrèe “le nuvole”. Era bello aver Andrèe al fianco e sentirla ridere di gusto. Lei adora Aristofane, lo trova straordinariamente profondo, ricco di raffinatezze, attenzione ai particolari, e poi appunto divertente, ironico, di un’ironia non fine a se stessa, ma capace di farti capire meglio la società. Io invece con Eschilo e Prometeo mi sono messo in contatto con i primordi, con le forze del potere e del fato, che ogni cosa vogliono condurre e decidere. Ho pensato alla religione cattolica che ha fatto di Cristo un personaggio straordinario che pur essendo dio si è fatto uomo per salvare tutti gli uomini, ma non dobbiamo essere più debitori ancora con Prometeo che, per amore degli uomini, contravviene al volere di Zeus, pagando così a caro prezzo il suo donare agli uomini, “ai viventi di un giorno” il fuoco? Per quale ragione non so mi è venuto in mente un ignobile discorso sentito in nave sui figli illegittimi e la famiglia, ma guardiamo la storia e il ruolo straordinario che in essa hanno avuto figli illegittimi ed abbandonati primo fra tutti Mosè, salvato dalle acque, e poi Romolo figlio di Rea Silvia. Fa il paio con coloro che deridono il sogno, dimenticando che non solo esso ha cambiato la storia, ma soprattutto l’allucinazione, dimenticandosi di Paolo di tarso, Clodoveo e Costantino. Scesi dal teatro ci aggiriamo tra i resti del tempio di Asclepio il dio che curava con i serpenti. E visibili sono, o almeno abbiamo immaginato che fossero, i buchi dai quali uscivano i serpenti per sdraiarsi sul corpo nudo del paziente, a centinaia per succhiargli il sangue e con esso i mali. E’ bello camminare tra queste rovine e sintonizzarsi con la storia, con le epoche che passate, mantengono qui profonde nel terreno le radici e per chi sa ascoltarle persino parole. Risaliamo in macchina per raggiungere Nauplia. Da mare a mare. Dal Saronico, al mare dell’Argolide, attraversando di netto il dito pollice del Peloponneso. Arriviamo, come al solito, prossimi al tramonto. Il mio primo pensiero è stato di cercare l’alloggio. Come al solito ci fermiamo al primo che troviamo libero. Non confrontiamo prezzi o posizioni. L’albergo, è modesto ma collocato in un stradina alla quale, fiori sui balconi e gelsomini alle porte danno profumo, calore e bellezza. E Nauplia è un po’ tutto questo, locali caratteristici, negozi illuminati fino a sera tardi, mare, fiori alle finestre, stradine stile carrugi, e davanti a te, nel mare, il vecchio forte illuminato dai fari, e sopra l’altura la fortezza veneziana. Facciamo in piccolo giro per la città, ceniamo e nonostante i nostri propositi di vita notturna, dovuti al fatto di essere per la prima volta a dormire in una vera e propria città alle 22 siamo già a letto. Io felice e dormiente. La sveglia di Andrèe suona all’alba, ma noi anche questa volta non usciamo prima delle otto. Oggi ci aspettano Agamennone e Clitennestra, oggi è di turno Micene. Siamo sul luogo alle nove ma il sole picchia. Forte. Provo un’emozione grandissima già al vedere dal finestrino della macchina comparire adagiate sulla colilna le mura. Ma l’emozione si fa tale da toglierti il fiato mentre saliamo ed esplode davanti alla “porta dei leoni”. Davvero sotto questa porta passarono gli Atridi, quante volte Egisto mandò messaggeri per aver notizie sul ritorno di Agamennone. Colpisce l’enormità delle pietre, non fatichi certo ad immaginarle fabbricate dai Ciclopi. Direi che il sentimento che domina in questa città non è come a Delfi il mistero, a Epidauro l’arte e la scienza, qui è la forza. La forza di guerrieri, dei vincitori di Troia. Mi colpisce anche il fatto, e interpreto tutto ciò utilizzando sempre la categoria della forza, che la città non è in cima al colle più alto. Certo anche qui c’è da salire (e Andrèe che oggi non sta benissimo ne sa qualcosa) ma è pur sempre in una vale tra due monti assai più alti e comunque il cole sulla quale poggia non è, salvo che a est, inaccessibile. Probabilmente queste mura erano tali da spaventare chiunque. La prima cosa che incontriamo è il circolo funerario dove sono state trovate le tombe reali. Micene “ricca d’oro” così la citavano gli antichi ed infatti molto fu l’oro trovato nelle tombe, basti pensare alla mitica maschera funeraria di Agamennone. Saliamo fino all’abitazione del re. Cerchiamo di immaginarci la vita del tempo. Leggiamo il brano dell’Odissea di Telemaco che va a trovare Menelao e che viene ospitato nel palazzo reale. La siamo a Sparta a dire il vero, ma Agamennone era pur sempre suo fratello. Micene la giriamo proprio tutta, anche la dove la frotta di turisti non si avventura. Arriviamo alla porta nord. Mi meraviglia soprattutto l’acceso alle cisterne. In questo caso mi rincresce di non fumare e di non aver dietro neppure un accendino per scendere sotto. Mi devo fermare dopo 25 dei 99 gradini. Appena fuori Micene visitiamola tomba di Atreo, grande, con la volta a cono, costruita con macigni enormi. Misuro a braccia lo spessore del muro, è tre volte il mio allungare le braccia. Ripartiamo. Per una decina di chilometri siamo costretti a fare la stessa strada è la prima volta che non possiamo evitarlo. Ad Argo, (la città meriterebbe sicuramente una visita, ma la città nuova è così brutta che ci toglie tutta la poesia) prendiamo la strada che porta alla costa per far un meritato bagno. E il bagno lo facciamo a Palo Astros. La spiaggia è un grande golfo a mezzaluna classica con sabbia e mare pulitissimo. Sei o sette persone nel giro di un paio di chilometri di spiaggia. Convinco Andrèe a fare il bagno e faccio bene, forse il suo malessere era dovuto al calore. Infatti fa un caldo come se a dominare non fosse il segno della Vergine ma ancora il feroce Leone. Ci rimettiamo per via, passando tra panorami mozzafiato, ogni spiaggia che incontriamo meriterebbe un bagno, una sosta. Ci fermiamo a mangiare a Kroney bay. Mentre io scrivo seduto al tavolo che domina il mare Andrèe fa un altro bagno ed ora credo che riposi sotto un ulivo. Non so. Vado a vedere. Scrivo come ieri seduto ad un tavolino dove abbiamo pranzato. Guardo Andrèe che scende alla spiaggia, per cercare di dormire nell’unico posto dove c’è un po’ d’ombra, al fianco di una barca rovesciata e tirata a secco. Ci sono 30 centimetri d’ombra sufficienti a riparare la testa. Dove siamo? Se posso usare un temine un po’ volgare direi nel buco del culo del Peloponneso, sulla punta estrema del dito medio, al confine tra il golfo laconio a est ed il golfo messenico a ovest. Ed infatti un paio d’ore fa camminavamo su un sentiero tra gli scogli di Porto Kagio nel mare di Laconia, dieci minuti dopo eravamo a fare il bagno qui a Marmari su questa spiaggia stavolta più affollata del solito, infatti sono con noi nei trenta metri di spiaggia ben 3 bagnanti. Ma riprendiamo il racconto da dove l’avevo interrotto ieri, ovvero alla ricerca di Andrèe dormiente sotto l’ulivo. In realtà l’ho trovata dormiente sotto lo scoglio, sdraiata sui ciottoli della piccola spiaggia. Il posto preciso si chiamava Krionei bay. Dopo pochi chilometri abbiamo dovuto tornare indietro perché Andrèe aveva dimenticato sulla sedia del ristorante il costume. Per ora abbiamo dimenticato solo: un libro, lo sciampo, il bagnoschiuma, 2 elastici per i capelli. La strada costeggia il mare con i soliti paesaggi mozzafiato nei pressi di Lakxos però la via abbandona il mare e s’immette all’interno dell’Arcadia per raggiungere, lasciato il golfo dell’Argolide, quello della Laconia. Mi sorprende per prima cosa la città Leonidio; E’ separata dal mare da una verde pianura rettangolare (ad occhio 5 chilometri per tre) tutta, ma proprio tutta ricoperta di coltivazioni e serre, le sue case invece sono appoggiate ridosso di una imponentissima parete di roccia rossa. Non so se il nome la città lo prende da Leonida, se fosse così però capisco perché per lui, fermare Serse fu un gioco da ragazzi. Da Leonidio in avanti la strada costeggia il corso di un fiume e diventa nel giro di qualche chilometro vera e propria strada di montagna. Spettacolare, difficile, impegnativa; si passa da zone brulle come il Vallone, a veri e propri boschi di pini, faggi e castagni. All’improvviso poi, quello che ti appare una magia, incastonato nella roccia rossa, abbagliantemente bianco, come una maiolica, ecco che ti appare un monastero che dal basso ti sembra sporgere dalla roccia non più di un quadro sulla parete di casa. E’ alto, irraggiungibile, un nido d’uccello, un sogno. Ma anche i sogni hanno le loro strade, ed infatti dopo qualche chilometro, troviamo l’indicazione “Monastero Econas”. Ci andiamo. In realtà in quello che dal basso sembrava un piccolo sporgere ci stanno una chiesa, le celle dei monaci, delle stanze per l’ospitalità, un refettorio etc etc. E’ un incanto, io starei qui volentieri un paio di giorni, a guardare la valle, a godere la bellezza dei fiori che illuminano il bianco, a leggere qualche mistico o qualche filosofo, a scrivere, a tentare qualche poesia, che poi è la cosa più bella che posso fare, e forse la sola alla quale in realtà avrei voluto dedicarmi. No, forse avrei voluto anche studiare. Con metodo, con assiduità, imparare a sapere, a dialogare a tu per tu con i giganti. La strada come ho già detto è strada di montagna, ce lo dice anche l’aria che si è fatta più frizzante e pungente, di sicuro siamo oltre i mille metri. Vorrei fermare l’auto, abbandonare i sandali, mettere ai piedi gli scarponi ed inoltrarmi per qualcuno dei tanti sentieri laterali che incontriamo. Arriviamo a Kosmas, piccola cittadina di montagna. Siamo incerti se fermarci o proseguire, in teoria siamo un po’ indietro sulla tabella di marcia e non è ancora tardi. Ma vista la strada non sono in grado di capire se arrivo alla prossima città prima del buio ed allora decidiamo di fermarci. La città è carina, tipicamente montana anche nei volti della gente. Affittiamo una camera proprio in piazza. La chiesa, il ristorante, due bar, tavolini coi fiori, due alberi centenari, questo è il centro: peccato che siano in corso dei lavori per cui la strada è tutto un via vai di camion, betoniere scavatrici che almeno per un’ora ci assordano ci loro rumori non propriamente arcadici. Facciamo un giro per la città: Andrèe è un continuo fermarsi ad accarezzare tutti i cani ed i gatti che incontra. Alla mattina prima di partire mi fa fermare per almeno cinque minuti per salutare il suo cane preferito, quello alla catena nella casa abbandonata in fondo alla città. Ci fermiamo a guardare le stelle. C’è sempre da restare impressionati quando il cielo ti sciorina davanti tutto il suo misterioso luminare. Per la prima volta non dormo bene, mi ero appena adornamento che Era mi è apparsa in sogno per preannunciarmi che mi avrebbe fatto rubare la macchina per punirci della nostra pigrizia per colpa della quale non abbiamo scaricato i bagagli Penso di alzarmi e scaricarli , ma è notte fonda, mi limito ad andare alla finestra e guardare se c’è ancora la macchina. Mi rimetto a letto, ma Era continua a rimproverarmi. Inoltre siamo proprio a fianco del campanile che batte non solo le ore ma anche le mezz’ore. Ed è un battito forte, bronzeo ed ha persino un effetto di trascinamento. Sento così battito, dopo battito la notte che passa e sento come al solito la sveglia di Andrèe che suona alle 6,58. Stavolta facciamo subito colazione. La strada all’inizio è ancora di montagna. Siamo in Arcadia ed Andrèe legge ad alta voce l’inno a Pan, il dio che in questi boschi è di casa. Andrèe ieri sera credeva addirittura d’aver sentito il suo flauto. Oggi ci aspetta una tappa tosta, dobbiamo arrivare all’estremità del Peloponneso. Dopo circa un’ora da Losams, dopo qualche tratto di strada non particolarmente bella, ecco di nuovo, luccicante e blu il mare: siamo a Githio, bella cittadina. Ci allontaniamo di nuovo dal mare, per rivederlo ad Aeroploi. Qui comincia l’avventura per arrivare a Palo Kajo, sulla cartina quelle strade sono segnate in giallo, alcune addirittura in bianco, il che vuol dire, legenda alla mano, probabilmente sterrate. Siamo nella terra di Mani, là dove domina la pietra, grigia e nuda, la terra arida. Dove ogni ulivo combatte una sua guerra personale per sopravvivere. Siamo tra gente dura, isolata, chiusa, proprio come le torri che usano come abitazione. Alte, chiuse, inaccessibili, con poche finestre e niente feritoie, architettura assolutamente strana per la Grecia. Una terra che non si sottomise mai neppure ai turchi, che ancora oggi ha come legge d’onore “la fiada”, ovvero la vendetta. Uomini intonati al paesaggio che è fatto solo di sole, di pietre e di rovi. Qui incontri le prefiche, vestite di nero, che ai funerali si battono il petto, piangono e cantano alto il loro dolore. Qui, oggi, c’eravamo solo noi, ed ovviamente le pietre ed il sole. Quando ha visto la strada farsi sterrata, ho composto, in cuor mio, un peana per la macchina, che comunque ci ha portato in questo luogo stupendo dove ora, sorseggiando la seconda birra, scrivo. In spiaggia io ho proseguito con l’Iliade ed ho dato un’occhiata ad Esiodo, ho letto i primi duecento versi della Teogonia. Andrèe si è preparata con l’Odissea per l’arrivo “alla sabbiosa Pilo”, la patria del saggio Nestore. Ho sbagliato a non mettere i pantaloni lunghi, l’arietta è fresca, ed anche se non è prestissimo, sono le 7,15 ho un po’ di freddo. Il bar dove sto scrivendo è ancora chiuso ed io sono l’unico proprietario dei tavolini. La coreana che ha passato anche lei la notte in questo brutto albergo (è la camera più brutta tra quelle finora utilizzate) mi scambia per il padrone e mi chiede il Breakfast, le ho spiegato che io sto scrivendo i miei appunti e che ero l’uomo della stanza accanto. Non so se ha capito so solo che si aggira inquieta su e giù per la via. Ora è rientrata in albergo. Non ha ancora detto che sono nella sacra Olimpia., tappa non prevista ma che siamo ben felici di essere riusciti a fare. Ma prima di parlar di lei mi tocca riannodare i fili del raccontare. L’altro ieri pomeriggio abbiamo abbandonato la bella spiaggia di Porta Kajo e abbiamo risalito tutto il Mani laconio dal lato ovest. Del Mani ho già parlato ma non si può rimanere indifferenti quando si vede stagliarsi le case in mezzo a desolate pietraie che vanno dall’alto della montagna a rotolare sino a la mare. Spettacolo suggestivo ma inquietante insieme che fa riflettere sulla capacità di adattamento dell’uomo. Io credo che il luogo influenzi i caratteri delle persone, è chiaro che qui siamo davanti a gente tutta d’un pezzo; come a suggellare il pensiero Andrèe ascolta De Andrèè: “mastica e sputa”. Ecco, “mastica e spuita” si adatta al carattere dei luoghi che incontriamo. Via via che andiamo verso nord anche il Mani si fa più dolce. Mentre andiamo Andrèe legge la guida per scoprire che cosa vale la pena di vedere lungo il tragitto o facendo piccole deviazioni. Devo dire che il suo istinto per i luoghi funziona perché per ora tutti i luoghi sui quali si è “incaponita” (devo ammettere che quando una cosa le interessa veramente Andrèe sa essere volitiva o come direbbe sua mamma “capa tosta”). La coreana stufa di aspettare che il bar apra ha preso il suo zainetto ed è andata a cercare un alto luogo dove far colazione. Basandosi sul suo istinto Andrèe ha voluto andare a visitare le grotte di Pyrgos Dyros. Devo dire che ne valeva proprio la pena. Io di grotte ne ho viste tante e tutto sommato le grotte non mi piacciono. Ma queste sono le più grandi grotte lacustri del mondo. Il giro in barca tra stalattiti e stalagmiti è durato un buon tre quarti d’ora. Ci mancava lo Stige in questo viaggio. La barca entrava ed usciva da cunicoli che spesso davano in slarghi dove il gioco delle pietre si faceva come quello di un caleidoscopio. Il silenzio totale era interrotto dal cadenzato remo del barcaiolo e da qualche goccia che cadeva nell’acqua. La temperatura 18 gradi è stata un utile refrigerio per le nostre spalle che il sole oggi ha arrossato anche se in maniera, fortunatamente non seria. Usciamo dalle grotte che sono le 18, comincia ad avvicinarsi l’ora per decidere dove fermarsi a dormire. Anche qui il fiuto di Andrèe ha funzionato. Kardamili è un luogo è veramente carino. Pieno di turisti e di locali, ma simpatici. Simpatica è anche la locanda dove dormiamo, un gruppo di inglesi quando ci vede entrare con la nostra ventina di libri in mano si mette a sorridere e cerca di intavolare un minimo di discussione. Ma con me cercare di parlare inglese è impossibile, con Andrèe appena appena meglio. Giriamo per il paese. Andiamo in riva al mare a guardare le stelle e poi andiamo a mangiare un gelato in un locale alternativo dove come sottofondo canta Manu Chao. La mattina presto decidiamo di andare in montagna, siamo infatti ai piedi del monte Taigeto, dietro il quale si adagia Sparta e soprattutto da Kardamili prende il via la gola di Belo, si dice la più bella e selvaggia di Grecia dopo quella di Creta. Dopo aver fatto qualche paio di chilometri lasciamo la macchina nel seno di una curva e ci avviamo per un sentiero che porta al monastero di Panagias; la strada costeggia praticamente la gola ed infatti arriviamo lì proprio dove le rocce si fanno strette da permettere il passaggio di non più di un uomo alla volta. Ci ritorna in mente di nuovo Leonida, lo immaginiamo alle Trermopli a fronteggiare praticamente da solo, l’intero esercito persiano. Del resto allora la guerra era così. In questa gola può esserci anche un esercito di 10.0000 persone ma da quel buco devono passare per forza uno alla volta, camminiamo finche in fondo, sulla riva opposta ci appare il monastero. A vederlo da qui però è brutto oltreché lontano, decidiamo quindi di tornare indietro. Ci meritiamo una bella colazione, e una bella colazione merita un bel posto. Lascio far ad Andrèe che mi conduce a Kores, una spiaggetta che domina il golfo Messenico. Anche qui scegliamo il tavolino proprio a ridosso del mare, ma oggi Poseidone si fa accarezzare da Noto e le onde arrivano spesso a bagnarci i piedi. Ci spostiamo di un paio di tavoli. Colazione ricca, fette di pane burro e marmellata (ma già spalmate quindi la mia pigrizia esulta) cappuccino, iogurt con miele e …vespe. Ripartiamo, attraversiamo Kalamata senza fermarci; approfittiamo di qualche semaforo rosso per mandare un pensiero a Diocle che di questa città era re nel periodo della guerra di Troia. Allora la città si chiamava Fare e fu promessa da Agamennone ad Achille per indurlo a ritornare in battaglia. Da Micene in avanti leggo spesso l’Iliade, alto libro che pensavo di conoscere a memoria e che invece ho scoperto che gli anni me l’hanno trasformato in un libro nuovo, più avvincente di qualsiasi avventura di Stephen King o altri del genere. Ha ragione Carducci a definire questo libro “sonante”. Le lance conto gli scudi, l’incrociarsi di spade, i carri, i corpo a corpo. Da Kalamata abbiamo due scelte o costeggiare tutto il promontorio messenico o tagliare nel mezzo. Scegliamo la seconda ipotesi e a Pilo arriviamo attraverso una bella e dolce strada, ricca di verde. Dopo l’aridità del Mani è come assaporare acqua dopo la traversata del deserto. A proposito di acqua, accidenti quanto beve Andrèe! Alle fermate “turistiche” ogni giorno dobbiamo aggiungere fermate per acquisto di acqua, scarico bottiglie vuote (l’altro giorno la macchina sembrava il sacco viola della nostra cascina) e pipì. Ci fermiamo dapprima al porto e nella piazza principale per acquistare acqua appunto e crema solare. Poi ci mettiamo alla ricerca di Voidokilia quella spiaggia che tutte le cartoline riproducono. E’ un cerchio sabbioso quasi perfetto a cui sia stato tagliato un piccolo pezzo per permettere all’acqua del mare di entrare. Ed il mare ci entra bello ed oggi anche selvaggio. A questa spiaggia comunque con la machina non arrivi. Arrivi ad una speculare egualmente bella e sabbiosa dove io volevo fermarmi ma Andrèe, capatosta, mi ha convinto: ”dai papà prendiamo il sentiero” Io mi sono lasciato convincere perché ho visto il cartello giallo che i diceva “grotta di Nestore” e poi anche perché in questi giorni è così bello andare dietro ad Andrèe. Passiamo uno scassatissimo ponticello in legno su un piccolo fiumiciattolo di acqua stagnante. Immaginiamo le sabbie mobili, ne parliamo con tale convinzione che il passaggio del ponte da un qualche brivido perché il fatto che il ponte potesse crollare sotto il nostro peso non era un’ipotesi così assurda. Andiamo per un sentiero che ha a destra il mare a sinistra la palude. Il fatto che ogni tanto incontriamo qualche persona che viene dalla parte opposta ci convince ad andare avanti. Dopo circa un quarto d’ora la strada passa attraverso un luogo che ricorda vagamente il deserto perché pieno di dune e pieno altresì di maledettissimi cardi selvatici che se ci metti i piedi sopra sono guai. Nel frattempo due ragazzi con il cane ci hanno sorpassato. Arrivati in cima ad una duna si voltano verso di noi e ci fanno ok con le dita. Ed infatti in cima alla duna scorgiamo la baia di Voidokilia. Mi verrebbe voglia di gridare “talassa, talassa” ma sarebbe esagerato perché il mare noi l’abbiamo lasciato solo un quarto d’ora fa. Facciamo uno splendido bagno. Io leggo, com’è ovvio il terzo canto dell’Odissea che si intitola “A PILO”. Poi approfitto dell’indice ragionato per leggere tutti i versi dove è citata Pilo, ma non trovo nulla se non la ripetizione de “la sabbiosa Pilo”. Prendiamo il sole, stavolta con la protezione otto. Cosa saggia. Ripariamo verso le 16. Voglio portarmi il più possibile a nord. Domani purtroppo è la partenza, Filtra, Kiparissia, Zacharo. E qui decidiamo di fare una sosta non prevista. Deviamo ad est per visitare le grotte termali di Anididres, sulla sponda orientale del piccolo lago di Kaiafas. Nella grotta sgorga acqua tiepida che contiene solfidrato adatto per la terapia di malattie dermatologiche. Più avanti c’è anche la grotta Antro Geranio, anch’essa dimora di ninfe. Il puzzo è quello delle acque termali, ma la legenda narra che questo cattivo odore esiste perché fu qui che il centauro Nesso pulì la piaga procuratagli dalla freccia avvelenata di Eracle. A proposito di Eracle voglio ricordare, dal momento che siamo già in Elide che una delle sue fatiche fu quella di ripulire tutta l’Elide, ricca di bestiame, dal letame lasciato dappertutto dalle migliaia e migliaia di vacche del re Augia. Elide, siamo nella terra di Alfeo, l’amante di Artemide, nella terra dell’arrogante Salmoneo ucciso da Zeus, dell’indovino Melampo e soprattutto di Pelope, che diede il nome a tutto il territorio che abbiamo scelto come meta del nostro viaggio, il Peloponneso appunto. Prima di Pyrgos, capoluogo verdeggiante della regione, deviamo verso la mitica e sacra Olimpia dove ci fermiamo a dormire. Mi sono alzato presto. Guardo il mare Mediterraneo che si stende davanti a me senza interruzione. Sono al tavolino del traghetto, Andrèe dorme ancora. Spero che come all’andata dorma il più possibile. Ieri sera non è stata molto bene e poi i ritorni hanno sempre quel misto di rammarico per la fine della vacanza e al contempo voglia di casa che danno a tutte le cose, quando si è decisamente sulla via del ritorno, una patina di tristezza. L’adrenalina delle emozioni a poco a poco ti abbandona. Ed infatti il nostro ultimo viaggiare, salvo l’esperienza mattutina di Olimpia, è stato invero, meno gioioso, meno intrepido ed i luoghi hanno risposto a questo nostro modo di presentarci, nascondendosi o mostrandoci la parte di loro meno bella. Meno Olimpia dicevo, perché ad Olimpia non ci si può non emozionare. Il paesaggio, idilliaco per eccellenza, da favola, sembra emanare una tranquillità, una serenità veramente divine. Qui infatti c’è il bosco sacro a Zeus, e qui vicino al tempio di Zeus c’era l’alloro con i rami del quale si incoronavano gli atleti che vincevano le gare. Nessun onore era maggiore di questo. Ripenso agli “inni” di Teocrito e di Pindaro dedicati ai vincitori dei giochi, giochi aboliti dall’imperatore Teodosio nel 393 dc. Di Olimpia mi ha emozionato anche il passare sotto il portico che porta allo stadio, c’è solo un grande prato verde, senza i sedili come a Delfi, ma sono ben visibili le linee di partenza per la corsa, in pietra. Basta questo particolare, più di ogni possibile ricostruzione al computer, per metterti in sintonia con luogo. Giriamo tra le rovine cercando di capire: la palestra dove si allenavano gli atleti, il Leonidarium dove venivano ospitasti gli atleti, la bottega di Fidia dove ora puoi osservare i resti di una basilica paleocristiana. E poi il Gimnasium, le botteghe, in ninfeo di Erode, il ricovero per i cavalli, l’Heraion e quasi al centro il tempio di Giove. Peccato ce non sia un servizio di viste guidate, non avrei badato a spese per aver, come a Paestum, un archeologo tutto per noi. Visitiamo anche il museo, se si eccettua il piccolo museo di Istmia, è il primo museo che visitiamo. E’ stata una scelta che abbiamo fatto per ragioni di tempo, ma questa volta il tempo l’abbiamo e quindi non ci facciamo scappare l’occasione. Dico ciò che più mi ha colpito: innanzitutto le piccole statuette in bronzo, sono di una modernità impressionante, tutta la scultura moderna in realtà sembra ispirarsi a questa essenzialità. Di solito non abbiamo gli stessi gusti ma questa volta, sia io che andrèe rimaniamo colpiti dalla bellezza del toro che stava al centro del ninfeo di Erode. Mi emoziona anche l’elmo di Milziade. Non posso non notare la bellezza delle gambe delle statue di Ermes opera di Prassitele. Vedere in ordine le statue del frontone del tempio di Zeus, ti fa capire meglio la grandiosità e la bellezza di quel tempio. Bellissimi poi i tripodi e soprattutto gli scudi. In questi giorni poi di lettura di Iliade, vedere scudi, elmi, lance, schinieri, mi fa vivere meglio l’emozione dei duelli e delle battaglie. Salutiamo questa terra ricca di verde, sole, profumi e monti e ci accingiamo a raggiungere Patrasso in Acaia,, l’antica Enghialos come viene chiamata nel catalogo delle navi dell’Iliade. Ma come ho detto ormai quello che ci guida è la voglia di essere sul traghetto, di ritornare “all’usato mondo”. Martedì Andrèe sarà alle 7.30 del mattino al suo pre-scuola a Lambrate ed io in viale Famagosta a ripensare ad assemblee, mostre, iniziative, riunioni di direzione etc. Prima di raggiungere Patrasso ci fermiamo a fare l’ultimo bagno a Kalamaia, la spiaggia è ampia e sabbiosa ma è mal tenuta, ricorda, come pure i paesi che attraversiamo, il nostro sud, bello ma trasandato. Per alcuni aspetti ci sembra di essere a Leporano, Talsano e via dicendo. Molte città della Grecia a dir il vero ricordano il nostro sud soprattutto per il senso di provvisorio e di abbandono che hanno molti lavori, costruzioni non finite, oppure già abitate ma con ancora macerie e calcinaci a fianco. Una scelta anarchica nel costruire, fatta di piani regolatori inesistenti o sottoposti alla legge del piccolo proprietario che costruisce come vuole, e quando vuole. Alle 14 siamo a Patrasso; Andrèe si è messa in testa che la città è brutta e quindi si aggira per le vie svogliata. Nemmeno il castro antico con il meraviglioso panorama sul golfo la attrae. Oltretutto è domenica, sono le due, tutto è chiuso e quindi l’immagine della città sicuramente non ci guadagna. Come una bambina piccola e capricciosa si rifiuta di visitare la città. Come una bambina piccola si siede sull’altalena cigolante del piccolo parco sotto il castro. Scopriamo però una bella via sugli scalini che scendono alla città nuova. Piena di bei localini a loro volta pieni di giovani. Andrèe si spara un panino che se lo sanno le dietiste di Pandora la sua collaborazione finisce prima ancora di iniziare: wusterl, patate fritte, pomodori, insalata verde, capricciosa, peperoni, salsa rubra. Ci imbarchiamo. Comincia davvero il viaggio di ritorno. Giochiamo a scacchi, alle macchinette. Parliamo di noi e ripensiamo al viaggio davanti ad un’orata ed un insalata finalmente non più “greca”. Programmiamo altri viaggi. Una piccola promessa. Una volta all’anno passare una settimana insieme solo io e lei. Con le nostre diversità ma altresì le nostre cose eguali che ci permettono di passare una settimana con il sedile posteriore della Punto trasformato in una valigia a cielo aperto, dove tutto era a portata di mano, dove libri, cartine, bottiglie, asciugamani, vestiti, si mischiavano e dialogavamo tra loro come abitanti di una pacifica e tollerante società multietnica.



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