Gibilterra, al di là dei confini

Arrivo in automobile, visita alla Rocca e poi oltre le Colonne d'Ercole a bordo di Adriatica
Patrizio Roversi, 29 Mar 2012
gibilterra, al di là dei confini
Io sono arrivato a Gibilterra… in automobile. Sì, lo so, è poco onorevole, eppure è stato un viaggio eroico: eravamo in partenza per il Giro del mondo, correva l’anno 2002, del mese di febbraio… La partenza ufficiale di Adriatica era stata da Marina di Ravenna, ai primi dell’anno. L’equipaggio (Marco, Vanni e Marianna) aveva fatto “il lavoro sporco”, cioè aveva avuto il coraggio di attraversare il Mediterraneo in inverno (non lo consiglio a nessuno) e noi (cioè io, Cino Ricci e gli altri) avremmo dovuto partire gloriosamente per la circumnavigazione del globo, varcando le famose Colonne d’Ercole, dopo esserci imbarcati appunto a Gibilterra. Cino sarebbe arrivato in aereo, noi a bordo di un furgone, per risparmiare e anche per portare a bordo le “ultime cosette”. Ci siamo fatti tutta la costa ligure, francese e spagnola su un furgoncino stracarico: avevo le canne da pesca infilate nella schiena e un secchio tra i piedi. Il bello è che dopo ore e ore di viaggio Gibilterra… non si trovava. Infatti, gli spagnoli sono ancora incazzatissimi per lo smacco di aver dovuto cedere agli inglesi la Rocca, per cui non c’è nessun cartello che indichi la strada. Gli spagnoli sono fermi al Trattato di Utrecht (1713) che recita: “Nessun rapporto e commercio ci deve essere tra Spagna e Gibilterra inglese”. Dopodiché, trovata a naso la meta, c’è una vera frontiera, come ormai non te l’aspetti in Europa. Appena arrivati, siamo incappati in una manifestazione di gibilterrestri, che protestavano contro qualunque ipotesi di passare sotto la Spagna: ci tenevano ai privilegi di britannici d’oltremare, coccolati dalla madrepatria in “territorio nemico”. Adriatica ci aspettava, ormeggiata dietro un condominio, in una banchina defilata. A Gibilterra – che, a occhio, mi ha ricordato un po’ l’atmosfera da paradiso artificiale turistico/fiscale di San Marino – abbiamo visitato naturalmente la Rocca, costruita da un italiano (Calvi). Cino a momenti ci fa arrestare, perché si è messo a giocare con le palle dei finti cannoni. In India ci sono le vacche sacre, qui sono sacri i macachi, perché la leggenda vuole che finché ne resta uno vivo Gibilterra resterà inglese. Fatto sta che queste scimmie sono dispettose e mi hanno fatto diventare filo-iberico. Il numero magico-storico di Gibilterra è il 7: nel 700 era araba, nel 1700 è diventata inglese. Altro mistero: dicono che il nome derivi da un arabo, un certo Tariq Ibn Ziad, ma suona in tutt’altro modo. Gibilterra è stata ovviamente anche spagnola, conquistata dal Duca di Medina-Sidonia (lo sponsor del viaggio di Colombo), ma agli spagnoli ha sempre portato un po’ sfiga: il re Alfonso XI, nel tentativo di riconquistarla, c’è morto di peste nera. Quando siamo salpati per attraversare le Colonne d’Ercole, alias lo stretto omonimo, ero ben felice di partire, col mio amico Cristoforo (non Colombo) che recitava a voce alta “fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”. Peccato che non fossi un Ulisse: varcato lo stretto, alla prima onda oceanica, ho iniziato a vomitare…

Patrizio