Big in Japan di dieci giorni tra Tokyo, Kyoto, Nara, Nikko…

Diario semiserio di una breve vacanza nella Terra del Sol Levante
Scritto da: Corrado Benanzioli
big in japan di dieci giorni tra tokyo, kyoto, nara, nikko...
Partenza il: 01/01/2016
Ritorno il: 11/01/2016
Viaggiatori: 2
Spesa: 2000 €

Venerdì 1 Gennaio 2016

Buoni propositi per l’anno nuovo: viaggiare, viaggiare e ancora viaggiare.

Senza perdere tanto tempo, eccoci qui alla Malpensa il primo di gennaio pronti per volare verso la terra del Sol Levante!

Breve retroscena alla “Casa Vianello”, ma a casa mia, questa notte:

“Noooo!!! Mi sono scordata il piumino a casa, ma sarò scema?!?”

“Dai, stai scherzando, lo hai indosso…”

“Ma no, questo è quello corto che ho messo per la serata solo perché è rosso!!!”

“Non è rosso, è bordeaux.”

“Non è bordeaux, semmai è vinaccia!”

“…”

“Comunque non lo porto via, voglio quello blu con il cappuccio che ho a casa, perché ho solo quello nero in valigia!”

“…”

“Avevo già fatto tutti gli abbinamenti, mi serve assolutamente quello blu!”

“Assolutamente…”

“Uffaaaa…”

“Sono le una e mezzo del mattino, facciamo che ti fai bastare quello nero o che vai a letto ed io riattraverso la città per prenderti il piumino blu per gli abbinamenti perfetti e ci vediamo tra un’oretta?”

“Ma no dai…”

“Senti Linda, ma non saranno pochi due piumini per il Giappone? No, perché è vero che è grande, ma la gente mormora se ti vede per dieci giorni sempre con lo stesso piumino indosso…”

“Ecco, ora mi prendi pure in giro…”

“Non mi permetterei mai, lo sai…”

(certo, come no…)

Per farla breve e per evitare durante la notte scene tipo “Che barba, che noia, che noia, che barba!” il compromesso alla fine è stato quello di svegliarci un’oretta prima per tornare a casa di Linda a recuperare l’indispensabile piumino. Che è blu. E ha il cappuccio. E si abbina con parte dell’abbigliamento. Che sia chiaro per tutti.

“Buongiorno da Alitalia. Stiamo per imbarcare i passeggeri del volo AZ 0786, destinazione Tokyo. Vi invitiamo a restare seduti, imbarcheremo prima i signori della Business Class, quindi quelli della Priority List, poi quelli del Programma Élite, poi i signori titolari dell’Ulisse Card, poi le persone sulle carrozzine, poi le famiglie con bambini, poi le famiglie con bambini ed un cane a casa, poi le famiglie con bambini, un cane a casa ed uno zio all’ospizio, poi i single che puntano ad accasarsi in Giappone, quindi le coppie conviventi con gatti, poi le coppie omosessuali cristiane ortodosse, poi le coppie titolari dell’Esselunga Fidelity Card ed infine tutti gli altri pezzenti”.

Beh, dai, poteva andarci peggio: per fortuna che siamo clienti dell’Esselunga.

L’aereo non è tra i più nuovi ed i sedili probabilmente sono stati progettati con l’intento di vendere al termine del volo un pacchetto “visita dal chiropratico più dieci massaggi”, ma notiamo subito la cortesia del personale di bordo, discreto e disponibile anche quando facciamo presente ad una hostess che i nostri due piccoli monitor sembrerebbero gli unici a non funzionare, il che sarebbe un po’ fastidioso trattandosi di undici ore e mezza senza film né altro (ok, abbiamo l’iPad pieno zeppo, ma non volevamo che la cosa trapelasse…): “Non vi preoccupate, se continueranno a non funzionare faremo un reset totale di tutto”.

Guardo Linda e le spiego che con CTRL+ALT+CANC resetteranno pure la strumentazione di volo ai piloti. Mi è sembrata tranquilla.

Il volo è pieno di giapponesi, ma proprio pieno pieno pieno. La cosa carina è che molti di loro utilizzano la mascherina bianca tipica da chirurgo o da ciclista smog-fobico, ma non per paura di prendere chissà quale malattia, anzi, proprio per non contagiare nessuno quando hanno un raffreddore o altro. Dovrei solo avvisare la signorina qui di fianco che avrei preferito se si fosse messa la mascherina sulle ascelle.

Sabato 2 Gennaio 2016

9.760 chilometri dopo eccoci sbarcare all’aeroporto di Narita, Tokyo.

Il signore giapponese che al controllo mi prende le impronte e mi scatta una fotografia, con tanto di cornicetta colorata, bofonchia qualcosa sottovoce che sicuramente non era inglese, ma che altrettanto sicuramente neppure sua moglie avrebbe capito; ad ogni modo io ho annuito con la testa ricordando l’effetto tipico di quei cagnetti con la molla che venivano posizionati negli anni ’70 sul lunotto delle automobili e sono passato indenne.

Siamo in Giappone, incredibile! Sembra ieri che eravamo seduti in compagnia di amici a mangiare cotechino con lenticchie! Invece era l’altroieri.

Convalida del Japan Rail Pass a partire dal giorno 5 (dura sette giorni, bisogna acquistarlo dall’Italia e costa circa 230 euro), ovvero quando andremo con un treno proiettile a Kyoto. Quindi acquistiamo i biglietti di sola andata per il Limousine Bus (3.100 Yen cadauno) che ci porterà proprio davanti all’hotel, ma l’attesa sarà di circa un’oretta, tempo che occupiamo per scrivere queste poche righe o per connetterci al wifi dell’aeroporto.

Il Sunroute Hotel è una grossa struttura nella zona di Shinjuku, ma la stanza è per così dire “minimal”, con un letto alla francese appoggiato ad una parete che sembra fatto per francesi con dimensioni da giapponesi. Ma ci staremo, magari sgomitando un po’.

Un sake di benvenuto particolarmente alcolico mi regala la botta che dieci gocce di sonnifero non sono riuscite a darmi durante il volo (occhi sbarrati, tre film e mezzo visti), ma la voglia di esplorare i dintorni è tanta e decidiamo di salire in camera il tempo necessario per darci una rinfrescata, ovvero il solito modo raffinato per dire che bisogna assolutamente effettuare una seduta poco spiritica.

“Uuuuuuh… ooooooh…” è il suono che si emette la prima volta che si prova il loro rinomato wc dotato di spruzzini che spuntano dal nulla, con un tasto rosa per bidet per donna ed un altro azzurro per doccino per uomo, anche se dopo averli provati entrambi mi sto ponendo qualche nuova domanda sull’anatomia umana. Ad ogni modo è pratico e persino piacevole nella sua bizzarra realizzazione.

Usciamo. Luci, neon, odori di cibo, persone in continuo movimento… Inutile dire che in certi momenti sembra di essere nel film “Blade Runner”, ma ormai l’ho detto.

Tanta gente sorridente, sarà anche perché è sabato sera, ma adeguarci non ci costa alcuna fatica.

La zona di Omoide Yococho è conosciuta per i localini molto (tanto) spartani che cucinano cose semplici; sono, più o meno, l’equivalente delle nostre osterie con i “cicchetti”.

Stretti stretti prendiamo posto anche noi tra gli indigeni pressati al bancone e, a quel punto, Linda mi stupisce rivolgendosi alla proprietaria con un “Sumimasen…” buttato lì, come se niente fosse.

“Cacchio, ma sai anche il giapponese?!? Cosa vuol dire?!?”

“Significa una cosa del tipo “mi scusi”, l’ho imparata prima di partire…”

“Ma non avrai preso una di quelle pillole del film “Limitless” che rendono superintelligenti e poliglotti?!?”

“Ma no, so solo quella parola e poco altro…”

“Allora mi sa che ti hanno rifilato una Zigulì.”

Mangiamo qualcosa di molliccio spacciatoci per pollo ed altre cosine sfiziose accompagnate da un paio di birre, paghiamo davvero una miseria e, quindi, di nuovo in giro ad esplorare i dintorni seppur stanchi morti.

Perché entrare in un negozio di giocattoli, in uno di tecnologia o nella hall di un cinema Imax 4D se non per farsi del male? Perché siamo in Giappone, la nazione che con queste cose renderebbe felice qualsiasi bambino di qualsiasi età. Sì, anche della nostra (ma non era certo un segreto, no?).

Per oggi è tutto, credo che ora finalmente dormirò, o almeno lo spero.

Domenica 3 Gennaio 2016

C’è chi gira con la Lonely Planet, chi con le Guide Mondadori, altri con quelle Touring, invece io ho la “Linda Travel” che le batte tutte.

In questi mesi che ci separavano dalla partenza, Linda ha raccolto materiale ovunque, fotocopiando, riducendo, cucendo o incollando le cose che riteneva più interessanti: guide prestate, comprate o regalate mixate con ciò che trovava in internet (a questo proposito da segnalare l’ottimo sito di Marco Togni o l’ormai imprescindibile “Turisti per caso”) fino a crearsene una propria. In pratica io non dovrò far altro che legarmi con uno spago a lei e limitarmi a scattare qualche foto…

La frase d’ordine all’uscita dall’hotel è “Confondiamoci, non facciamo vedere che siamo turisti!”, ma qualcosa mi dice che nessuno ci cascherà…

Dopo una veloce colazione presso un “Caffè Veloce” (se si fosse chiamato diversamente ci saremmo regolati di conseguenza), affrontiamo la prova più dura per un visitatore di Tokyo: entrare in una delle stazioni della metro/ferrovia più grandi della città, scegliere l’abbonamento giusto e non sbagliare linea.

Incredibile a dirsi, ma grazie alla preziosa “Linda Travel” ce l’abbiamo fatta ed ora ci troviamo in Piazza di Spagna, a Roma. No, non è vero, ma il casino in giro è lo stesso della nostra capitale, moltiplicato “enne” volte e sapete perché? Perché non solo è domenica e non solo sentono spiritualmente in modo particolare questi primi giorni dell’anno nuovo (i giapponesi per via di religione sono un po’ paraculi: pare che nascano shintoisti, che si sposino da cristiani per via della cerimonia che trovano particolarmente bella e che alla fine muoiano da buddisti), ma anche perché… sono iniziati i saldi!

Al tempio Meji-Jingu nel parco Yoyogi la folla è senza fine in quanto meta di pellegrinaggio all’inizio dell’anno, ma la curiosità ci spinge ad intrufolarci in questo mare di gente, mentre decine di omini in divisa dotati di megafono e cartelli danno il ritmo e regolano il flusso fino all’entrata. Viva la spiritualità: decine di bancarelle mettono in vendita quelli che a noi sembrano solo “simpatici gadget” di legno, di stoffa o di carta, ma che in realtà per loro sono oggetti votivi sui quali scrivere desideri o preghiere per poi appenderli su delle specie di rastrelliere fuori dal tempio. Ah, fanno pure loro il lancio della monetina, che non si sa mai.

Abbandoniamo questo luogo per un altro altrettanto di culto all’interno dello stesso parco: la sagra di paese! In questo posto di ristoro pare davvero di essere alla Festa dell’Unità, solo che si mangia meglio e c’è più organizzazione. Sushi e sashimi? Ma per carità, sfatiamo il luogo comune che vede i giapponesi cibarsi solo di pesce crudo dalla mattina alla sera: la loro alimentazione è molto variegata, gustosa e spesso anche originale e, dunque, chi siamo noi per non assaggiare lo street food locale?

Chi l’avrebbe mai detto che per godersi un po’ di caldo saremmo dovuti venire in Giappone? Baciati dal sole e da ben 15 gradi, passiamo dalla folla del tempio a quella dei già citati saldi nelle vie di Takeshita-dori, Omote-sando e Cat-street, dove con il mio metro e settantasette mi sono sentito alto per la prima volta in vita mia.

Sarà per il fatto che i giapponesi sono molto discreti e affatto caciaroni, ma in queste vie i dipendenti dei negozi che urlano con i megafoni, o semplicemente ad alta voce, le promozioni in corso si fanno davvero notare, quindi fuggiamo ed entriamo in un bellissimo negozio di giocattoli che, con le sue meraviglie che da noi possiamo solo sognare, mi ha reso un bambinetto frustrato ed infelice (sono partito con una valigia piccola e già piena, maledizione!),

Ventitré minuti di metropolitana ed arriviamo quasi dall’altra parte della città, per ammirare uno degli incroci più famosi al mondo (vabbè, già “incrocio famoso” fa abbastanza ridere, ma comunque…): il Shibuya crossing!

“Ideona -dice Linda- prendiamo qualcosa da Starbucks e saliamo al piano di sopra per fare le foto dell’incrocio!”. Quando si dice l’originalità: troviamo il mondo incollato alle finestre, pure in doppia e tripla fila mentre dei veri clienti (cioè quelli convinti, mica come noi che abbiamo preso da bere solo per documentare fotograficamente) tentavano di terminare la consumazione senza morire schiacciati.

“Click!” (con l’amato-odiato fisheye) e si esce per un’altra visita culturale: “Pop Life”, un sexy shop di ben sette piani situato ad Akihabara. Saranno anche sette piani, ma sono sette piani strettissimi, forse per invogliare la copula tra sconosciuti, circondati da falletti di gomma “Made in Japan” (che migliorano un pochino la mia autostima), da braccia mozzate, da bocche spalancate, da oggettini vibranti e non, da lubrificanti aromatizzati, da vestitini carnevaleschi, da divaricatori, da pompette e via delirando.

No, l’ho già scritto: nella mia valigia non ci sta nulla. Nella mia…

“Questa sera mangeremo il sushi più buono della zona, evvai!”. Macché, dopo mezz’ora di inutili ricerche ci dicono che il ristorante è stato chiuso da poche settimane, ma per scoprirlo abbiamo dovuto importunare un ragazzo fermandolo per strada e sebbene fosse un turista (giapponese di Osaka), ci ha accompagnati nella ricerca e ha chiesto informazioni ad una guardia di un centro commerciale. Sì, sono proprio gentili e disponibili questi giapponesi, è proprio vero.

Chiudo qui questa bella giornata da turisti un po’ cazzari riproponendomi di non fare nei prossimi giorni l’errore di oggi: star fuori dalla mattina fino alla sera tardi senza una pausa-doccia-relax-ecc. non è una cosa furba, soprattutto se le nostre chiappe hanno potuto vedere la seduta di una sedia per una mezzoretta in tutto. Ok, va bene che camminare fa bene, ma ho anche una certa età…

Lunedì 4 Gennaio 2016

Mentre consumiamo un’occidentale colazione allo Starbucks adiacente al nostro hotel (tra l’altro apparentemente meno caro rispetto a quelli che ricordavamo), attorno a noi ci sono persone che parlano tra loro sottovoce, altre con le solite mascherine bianche e lo smartphone perennemente in mano, altre ancora che studiano scroccando il Wi-Fi gratuito e la lunga sosta a buon mercato per la gioia dei gestori, ma anche alcune da sole in giacca e cravatta che leggono o meditano (o dormono fingendosi meditabondi per darsi un tono? Cioè, io farei così..!). Questo Starbucks ha molte poltrone una in fila all’altra, disposte per restarsene da soli, con il sottofondo di una musica occidentale molto soft e gradevole. Dove c’è Barilla c’è casa, ma siccome qui gli appartamenti sono di norma piuttosto piccoli, dove c’è Starbucks c’è tranquillità.

È lunedì anche per loro e lo si nota anche per il proliferare di cravatte che strozzano teste dai volti più seriosi rispetto a quelli visti ieri. Chissà se anche i giapponesi hanno l’abitudine di esternare su Facebook la sensazione di fastidio per l’inizio della settimana…

Cominciamo la giornata da bravi turisti e, con venti minuti di una camminata tra freddi quanto fotogenici grattacieli che ricordano tanto New York, giungiamo al Tokyo Metropolitan Government Building; al quarantacinquesimo piano (torre nord o sud è indifferente) si può accedere gratuitamente per ammirare la città dall’alto: non che sia un granché, ma almeno ci si rende conto della sua vastità e, in lontananza tra la foschia, si scorge pure il Monte Fuji, quindi è una cosa che consiglierei comunque di fare.

Se tanti giapponesi sono tornati al lavoro, altrettanti evidentemente sono ancora in vacanza ed affollano le stradine di Asakusa fino al grande portale Kaminarimon che segna l’ingresso al tempio buddista Senso-ji. I “mercanti del tempio”, soprattutto quelli fuori, si sprecano e gli innumerevoli negozi uno incollato all’altro creano ingorghi umani, ma le cose da assaggiare sono tante e, con il solito spirito di sacrificio che ci contraddistingue, ci adeguiamo alle tradizioni locali anche solo per evitare che si possano offendere, andando poi a dire in giro che abbiamo fatto gli snobbini. Sia mai!

La dimensione più “umana” di questa zona ci piace: è meno tecnologica, le case sono più basse, non ci sono negozi solo per turisti e l’atmosfera è piacevolmente serena, quindi visto che ormai l’ora di pranzo è passata da un po’, decidiamo di pranzare tardivamente in un posto molto caratteristico (no, dico, non avrete mica pensato che potessimo digiunare, vero?); Linda ha scovato un posticino per degustare l’Okonomiyaki, una specie di “frittata fai da te” con i più svariati ingredienti (ma voi sapevate dell’esistenza dello zenzero rosso, più dolce e meno invasivo di quello che si è diffuso sulle nostre tavole? Noi proprio no ed è buonissimo!). Il ristorante si chiama Asakusa Okonomiyaki Sometero (ma col cavolo che troverete la scritta occidentale sull’insegna), si entra togliendosi le scarpe (occhio quindi ad avere indossato i calzini buoni) e ci si siede a terra davanti ad un tavolino dotato di una piastra bollente incrociando le gambe fino a non sentirle più; pare che in questo modo siano rarissimi i casi di clienti che sono fuggiti senza pagare il conto…

Non sapendo come fare a cucinare le cose, il “fai da te” si trasforma presto in un “ghe pensi mi” da parte di una delle gentili cameriere… Insomma, i soliti gaijin buoni a nulla, se non a mangiare.

Per scongiurare l’implacabile abbiocco postprandiale, ci mettiamo in moto tra le tranquille stradine del quartiere per raggiungere il parco di Ueno, dove visiteremo un paio di templi shintoisti. Alla fine, però, devo ammettere di essermi adeguato alle usanze locali riuscendo a chiudere gli occhi mentre mi trovavo seduto su un murettino del parco: è stato più forte di me, non sono riuscito a resistere ed ora giuro che non riderò più quando vedrò i giapponesi dormire nelle situazioni più strane (ma quando lo fanno sulla metro come cavolo riescono a capire a quale fermata scendere?!? Se le sognano?!?).

Con buona pace del nostro stomachino questa sera a letto senza cena: direi che per via di cibo oggi abbiamo dato abbastanza e domani ci attende una giornata bella tosta, con tanto di trasferimento a Kyoto nel pomeriggio.

A domani!

Martedì 5 Gennaio 2016

“O andate al mercato del pesce alle 6 del mattino oppure potete anche farne a meno!”; questa frase ce la siamo sentita ripetere più di una volta, ma visto che la giornata sarebbe stata lunga, molto lunga, abbiamo deciso di rinunciare all’asta del tonno per recarci al mercato all’apertura del pubblico, alle ore 9.

Che dire? Bello, bellissimo e vi sembrerà di essere dei grandi fotografi nel documentare certe scene per noi inconsuete, ma un luogo così farebbe passare per Steve McCurry anche un amatore alle prime armi Ph dotato.

Schivare i carrelli elettrici che sfrecciano tra gli stretti passaggi del mercato diventa quasi divertente (ho detto quasi…), mentre i rassegnati lavoratori si fanno immortalare dai turisti, per lo più italiani (ma non è che in questo periodo ce ne siano poi così tanti di occidentali a Tokyo).

Lungi da me voler fare lo “sborone”, ma il mercato del pesce di Tokyo in confronto al mercato che vidi a Phnom Penh (in Cambogia) sembra la sala operatoria dell’Ospedale di Bolzano; chiaramente sto esagerando, ma qui si preoccupano di rimuovere le carcasse degli animali già sezionati evitando, per quanto possibile, cattivi odori e sporcizia (ricordiamoci la passione nazionale per il crudo che dev’essere perfetto!), inoltre la maestria che hanno nel tagliarli li fanno sembrare dei chirurghi. Tranquilli, che comunque c’è di che divertirsi, anche se siete già stati a quello famoso di Catania (questo è un “tantinello” più grande…).

Poche fermate di metro e giungiamo nella tranquilla zona di Hamacho solo per constatare che siamo arrivati un pelino tardi per poter osservare dalle vetrine della palestra Arashio-beya dei sumo in azione, ma a dircelo è proprio uno di loro che, incurante dei 16 gradi odierni, se ne gira tranquillo svestito come da tradizione. Foto di rito, “arigato” e via verso la vera sorpresa di oggi, scovata dalla solita infallibile “Linda Travel”: un grande palazzetto, il Nippon Budokan, nel quale il 5 gennaio di ogni anno centinaia di bambini (e qualche adulto) di varie scuole da ogni parte del Giappone arrivano per gareggiare in una sorta di “contest di bella calligrafia” (Kakizome) con i pennelloni che i più sozzoni di noi hanno imparato a conoscere fin dai tempi dell’indimenticato film “Sex and Zen”, solo che in questo caso l’utilizzo è decisamente più ortodosso. Bello spettacolo molto scenografico, con tutti i partecipanti che indossano la divisa della propria scuola. A parte noi non c’è alcun occidentale, ma nessuno ci guarda strano o, se lo fa, lo maschera piuttosto bene.

Un salto ai giardini del Palazzo Imperiale, nei quali si trova un ciliegio incredibilmente in fiore (a gennaio!) e dei corvi casinisti grandi come galline, un pranzo interculturale al volo (non vi sto neanche a dire che cosa abbiamo acquistato e poi divorato, è meglio…) e quindi rientro all’hotel per recuperare le valigie: Kyoto ci aspetta. Si fa per dire…

Torneremo a Tokyo al termine del viaggio, come base d’appoggio per un paio di escursioni e, lasciando la città, facciamo un paio di argutissime considerazioni: non abbiamo mai pestato alcuna cacca di cane ed in giro non ci sono cani. Che le due cose siano in qualche modo collegate..? A dirla tutta da quando siamo arrivati abbiamo contato ben cinque cani di piccola taglia rigorosamente al guinzaglio, ma nulla più, neppure dei gatti per strada. Siccome i giapponesi non sono come i cinesi che “se magnano de tutto”, se ne deduce che ci sia sempre il solito problema degli appartamenti piccoli e che la storia delle camere a gas per i randagi a causa della politica “zero randagismo” sia purtroppo vera. C’è sempre un altro risvolto della medaglia e spesso è a dir poco terribile, come in questo caso.

Al di là di ciò le strade sono veramente pulitissime, neanche una carta a terra malgrado la quasi totale assenza di cestini e ci siamo stupiti pure dei bagni pubblici, neanche fosse passata la mamma ad igienizzare prima dell’utilizzo!

Avete presente la puntualità dei nostri treni? Bene, quando smetterete di ridere pensate che qualche anno fa il ministro dei trasporti giapponese fece pubblica ammenda per aver accumulato in un anno sull’intera rete ferroviaria ben 3 minuti di ritardo. Burla o leggenda metropolitana poco importa, intanto qui la precisione pare davvero che sia nel loro DNA, un po’ come da noi, insomma…

Il treno proiettile ha una forma bellissima con quel muso affusolato pronto a fendere l’aria ed il tempo, è comodo e spazioso anche nei corridoi, seppur senza tanti fronzoli e, soprattutto, è anch’esso molto pulito.

In poco più di due ore ci ritroviamo nella stazione di Kyoto e poi sulla metro, imprecando in giapponese per l’anomala assenza di scale mobili e di ascensori, che con le valigie appresso ci avrebbero fatto anche comodo; ma il buonumore sopperisce alla mancanza di muscoli (a proposito, che fine avranno fatto? L’ultima volta che li ho visti avrò avuto sedici anni e mi dissero che si sarebbero fatti vivi loro…) e in un attimo stiamo già parlando con la sorridente receptionist del Vessel Hotel Campana, una nuova struttura con stanze in offerta su Booking (140 euro per due notti di una matrimoniale, sempre con ‘sto letto alla francese, però) e secondo piano dedicato al benessere. Se lo proveremo? Può darsi, non sarà sicuramente peggio del mancato massaggio cinese di qualche anno fa, ma questa è un’altra storia…

Camera abbastanza spaziosa per i loro standard (mi fido di ciò che ho letto), molto pulita (ciabatte per entrare in camera, ciabatte per recarsi al centro di cui sopra), ma da “sputino” quale sono mi ha fatto un po’ di schifo trovare il wc sporco, forse la prima volta in questa vacanza che ne vedo uno in queste condizioni. Vabbè: Amuchina, ottantadue passate e via, come nuovo! Ha pure l’asse riscaldabile, non si sa mai che uno voglia farsi una seduta con le finestre aperte mangiandosi un ghiacciolo…

Fortuna vuole che proprio di fronte all’hotel si trovi un valutatissimo ristorante specializzato in udon (noodle fatti a mano, uno ad uno, davanti ai clienti) e con venti euro a testa riusciamo a provare anche altre leccornie, tra le quali sashimi e tempura annaffiati dalla solita birretta d’ordinanza. Ah, siccome non sono MasterChef, nel caso c’è sempre Google che può aiutare a scoprire ingredienti, ricette e via sbavando.

Ed ora nanne, che domani per noi arriva prima che da voi…

Mercoledì 6 Gennaio 2016

Mentre in occidente si consuma una dura battaglia di marketing a colpi di doppio, triplo e quadruplo velo, qui nel Paese del Sol Levante se ne sbattono allegramente le chiappe e producono rotoli di carta igienica ad un solo trasparente, fragile velo. A cosa servono i rotoli ad un velo? Solo a consumarne di più, facendoci sembrare degli elettricisti quando vogliono raccogliere bobine di fili attorno al braccio, non so se avete presente…

Qui non sanno cosa sia l’esubero di personale: ci sono omini per qualsiasi cosa, anche quattro solo per indicare la deviazione di un percorso pedonale, ma non manca neppure quello all’ingresso della Metropolitana che incessantemente augura il buongiorno ai passeggeri e, anche se per lui è probabilmente solo un lavoro un tantinello ripetitivo ed affatto appagante, trovo che sia una cosa piacevole: i sorrisi e l’educazione non bastano mai e ben dispongono chiunque. O quasi.

In stazione abbiamo giusto il tempo di bere un cappuccio e mangiare una brioche (“È la globalizzazione, baby”) in un locale giapponese “alla Starbucks” pieno di gente del posto e di qualche caffeinomane italiano e siamo già su un treno diretti a Nara. Ci vorrà un’oretta in tutto.

Nara si può visitare tranquillamente in giornata: resterete colpiti dai maestosi templi shintoisti e buddisti, ma nulla vi resterà negli occhi (e nel cuore, se non penserete solo allo spezzatino) come le centinaia e centinaia di cerbiatti liberi di aggirarsi tra i visitatori della città. Occhio che non appena vi vedranno acquistare dei biscottini, fatti apposta per loro, vi inseguiranno finché non li avrete terminati e, nel farlo, cercheranno di attirare la vostra attenzione morsicandovi il giaccone o dandovi qualche testata. Sono furbi, curiosi e abituati alla gente perciò, se si accorgeranno che in mano non avete che una macchina fotografica, vi snobberanno immediatamente. Cerbiatti viziati, ma bellissimi e queste ore in loro compagnia vi faranno sentire come Biancaneve nel bosco. O come il cacciatore, a seconda.

Pare di essere su un altro pianeta, rispetto alla caotica Tokyo: camminare per queste stradine è rigenerante e ci voleva proprio una giornata così, perché anche respirare senza l’affanno di chi vorrebbe vedere tutto significa essere in vacanza. Con questo non vuol certo dire che lasceremo perdere qualche irrinunciabile tappa.

Al tempio buddista Linda vede del fumo davanti all’ingresso, si avvicina e poi, un po’ titubante, accende un incenso. Credo che il momento d’indecisione fosse più che altro per la delusione di non aver trovato degli arrosticini.

Il Buddha all’interno è la statua di bronzo più grande al mondo e non si fa fatica a crederci: ‘na panza enorme che mi risolleva un po’ il morale provato dalle cene natalizie e non solo.

E, a proposito di cibo, oggi abbiamo fatto i “tedeschi sul Lago di Garda”: cena alle 16,30.

Potevamo forse restare a digiuno? Tralasciando di raccontarvi della seconda colazione una volta scesi dal treno, Linda tra le altre cose si era segnata un posticino rinomato per il tonno crudo, incensato su TripAdvisor come neanche un tre stelle Michelin: Maguro Koya. L’entusiasmo per il posto “caratteristico” (quattro tavolini in tutto), per la cordialità del titolare e per l’ottimo cibo, ci fa sorvolare su tutte le norme igieniche infrante, con tanto di patina arancione di unto ovunque, persino sul quadro elettrico e sull’agonizzante condizionatore. Tonno veramente insuperabile, sia crudo che in tempura (gentilmente consigliatoci da una coppia di italiani mentre stava lasciando il locale).

Usciamo portando con noi come souvenir l’odore di unto sui nostri vestiti (vi rammento che di gatti randagi nemmeno l’ombra, altrimenti non sarei qui a scrivere il diario, probabilmente inseguito e sbranato da orde di felini famelici), ma a quell’ingorda di Linda non dispiacerebbe assaggiare un dolcetto che abbiamo visto preparare la mattina in uno dei negozietti del centro e quindi…

Ma vogliamo parlare dei dolci giapponesi? A parte il fatto che i loro dolci sono poco dolci, ma questa è gente che come ripieno non utilizza creme o cioccolati vari, ma fagioli rossi! Ma che problemi hanno? Sorvolando elegantemente sul discorso degli effetti collaterali, ma loro hanno mai visto un film di Trinità e delle sue fagiolate?!? Ma come si fa a pensare di usare dei fagioli in questo modo? Pensavo che l’episodio che mi accadde anni fa in Cina (un gelato Algida che pensavo fosse al cioccolato era invece fatto di fagioli neri e pure a pezzettoni!) fosse un episodio isolato o, comunque, esclusivo del mercato cinese. Macché, non se ne viene proprio fuori, perciò addento questa sorta di Grisbì molliccio di pasta di riso ripieno di fagioli e… però, non è così malaccio! Alla fine io me lo mangio tutto, mentre Linda il suo lo butta. Certa gente non sa proprio cosa vuol dire “fame”, mica ha fatto la guerra, tzé!

A questo punto vi devo fare una confessione… Ho un problema con Linda: vorrebbe portarsi a casa dal Giappone un cerbiatto ed un bambino giapponese. Ma non ho ancora capito se per attaccarli al frigo o che. Temo “che”.

Oggi sono riuscito a convincerla che la sua gatta non sarebbe contenta di un altro animale in casa e che anche i bambini giapponesi alla lunga crescono, sbattono le porte, fanno gli irriconoscenti e poi si drogano o, peggio, diventano ingegneri, ma non so quanto ancora riuscirò a tenerla a bada.

Ed ora buonanotte, tutta questa spiritualità oggi mi ha proprio spossato!

Giovedì 7 Gennaio 2016

Solita sveglia alle 7. Mi alzo, barcollo fino al bagno, mi spoglio per entrare in doccia e… NO, MA COSA È SUCCESSO?!? Non vedo più il mio pube, ma solo tanti cubetti digitalizzati!

Ora, non è tanto una questione di pisello o di pixello o di come i giapponesi censurino ridicolmente i loro film porno, ma al di là dei soliti aneddoti su una società sessualmente repressa che poi si sfoga in perversioni che neanche noi occidentali (una su tutte la compravendita di mutandine usate), balza subito alla nostra attenzione una mancanza assoluta di gesti in pubblico per così dire “affettivi” che per noi sono la normalità, come scambiarsi un bacio sulla guancia, tenersi per mano o abbracciarsi mentre si cammina per la città.

Due fermate con il solito treno JR (alla fine inserirò qualche info a tal proposito, anche se il web ne è pieno) per ammirare uno dei templi shintoisti più fotografati, quello con le gallerie di “torii” arancioni: il Fushimi Inari.

Questa è la giornata più fresca da quando abbiamo lasciato l’Italia, ma i circa dieci gradi non possono certo infastidire chi è partito vestito come Totò e Peppino quando andarono a Milano, quindi visitiamo la zona del colorato tempio con una sciarpetta al collo e rientriamo in città.

Deviare dalle strade principali uguali a quelle di qualsiasi altra città del mondo è una cosa assolutamente da fare: basta solo una stradina parallela per venire catapultati in una realtà fatta di casette piccole, anche di legno, sovrastate da ragnatele di cavi elettrici. I paesi asiatici in questo tendono a somigliarsi tutti, per la felicità dei volatili che hanno solo l’imbarazzo della scelta su dove posarsi per prendere bene la mira prima di bombardare.

Il Nijo-jo è un castello che sicuramente non somiglia ai nostri castelli: le manie di grandezza orientali sono diverse dalle nostre tant’è che, pur essendo grandissimo, ha solo un piano e lo shogun dell’epoca lo aveva fatto costruire con assi di legno “anti ninja” che scricchiolavano rumorosamente; in pratica, se uno di notte si alzava per andare a bere un bicchiere d’acqua, svegliava tutti e poi veniva ucciso, ma per sbaglio.

Un boccone al volo, l’abbonamento al Keifuku Randen (un trenino, 500 yen “One Day Pass”) e si va alla fantastica foresta di bambù verde smeraldo, che scopriamo essere gratis solamente dopo aver pagato l’ingresso di un altro castello (Tenryu-ji), somigliante al precedente (non è che da ‘ste parti gli architetti del tempo avessero tutta questa gran fantasia, eh!).

Ah, qui in Giappone qualsiasi biglietto d’ingresso di qualsiasi cosa voi vogliate visitare costa 500 yen, cioè all’incirca 3 euro e mezzo.

La visita successiva rappresenta il primo passo falso della vacanza: arriviamo all’ingresso del Kinkaku-ji proprio alle 17, orario di chiusura. Il suo Golden Pavilion avrebbe meritato qualche scatto, ma non c’è stato modo di entrare.

È a questo punto che ci rendiamo conto che non ci basterebbero due settimane per visitare Kyoto, figuriamoci due giorni! Le cose da vedere sono tante e non sempre una vicina all’altra e a questo va aggiunta una certa difficoltà nell’individuare i corretti mezzi di trasporto per gli spostamenti. A occhio tutti questi giapponesi per le strade stanno cercando da giorni come rientrare a casa, altro che Google Maps (che qui funziona così così.)…

Mentre fantastichiamo sul tornare in questo grande Paese in un futuro remoto, scopriamo che i tanto vituperati taxi non sono poi così costosi come pensavamo: dall’hotel, dove siamo passati a ritirare i bagagli, alla nostra prossima tappa per la notte, l’anziano conducente ci chiede il corrispettivo di circa cinque euro (ok, erano solo pochi minuti di strada, però se facciamo i soliti confronti…).

Sosta notturna di gran lusso, questo giro non abbiamo badato a spese al grido di “si vive una volta sola e poi, semmai, harakiri!”: il Tamahan è un tipico ryokan (che non è un bestemmione in veneto), ovvero un’abitazione tradizionale con tanto di pareti scorrevoli in carta di riso, un po’ come quelle che si vedevano nei film con Toshiro Mifune o con un improbabile Tom Cruise vestito da samurai. Viene servita in stanza la tipica cena kaiseki da una signora con il kimono, si indossa il yukata, si cammina scalzi sul tatami, c’è la tinozza in legno per il bagnetto, si dorme sui futon e, special guest stars, ci stanno pure un paio di zanzare.

“Ciao a tutti. Mi chiamo Corrado e ho appena ammazzato due zanzare giapponesi in gennaio…”.

Questa sera ho visto Linda mangiare del pesce non ben identificato che faceva paura pure a me; non avrei mai pensato di vederla affrontare una tal prova d’amore. O, magari, era solo fame.

Che resti tra noi, ma della roba molliccia e disgustosa è andata a finire dritta dritta nel wc tecnologico, con buona pace della tradizione e dei nostri stomachini. Scusate, ma a tutto c’è un limite e le papille non hanno apprezzato fino in fondo la cena semiviva.

Ed ora buonanotte, sempre che non mi addormenti nella tinozza…

Venerdì 8 Gennaio 2016

Suona la sveglia fregandosene della nostre ferie.

Siamo ancora sdraiati sul futon; mi giro verso Linda, la bacio sulla guancia dandole il buongiorno con un…

“Je t’aime…”

E lei: “Ich liebe dich! Ma dimmelo in giapponese, dai…”

“Bukkake!”.

La colazione viene servita in camera: ne scegliamo una giapponese ed una “non si sa mai” occidentale. Vince quella giapponese senza dubbio alcuno, grazie anche a della tenerissima carne spadellata con cipolle e funghi.

Il loro tè resta abbastanza imbevibile con quel retrogusto di barricato/bruciacchiato al quale noi ignorantoni gaijin non siamo abituati. Se sperate che venga servito con zucchero e limone scordatevelo.

La giornata prevede una rilassante passeggiatona esplorativa nel quartiere antico di Kyoto (Gion), senza farci mancare altri templi (e daje…), negozietti “tipicamente turistici” che vendono in prevalenza dolcetti da regalare con scadenza da lì a sette ore (ma tanto chi vuoi che se li magni, sono più che altro bellissimi da vedere…) e le solite ottocentoventisette fotografie quotidiane, questa volta indirizzate per lo più a geishe, maiko e, in generale, a ragazze con coloratissimi costumi tradizionali che, a guardare l’abbondanza di “selfie”, deduciamo che fosse la prima volta che li indossavano.

Alle volte mi domando (e qualche volta mi domandano) perché fotografo così tanto: lasciando perdere le solite risposte fighette del tipo “per esprimere ciò che ho dentro” (che il più delle volte è solo la cena della sera precedente), sento realmente la necessità di fermare in uno scatto ciò che mi circonda perché, se solo fosse possibile, vorrei memorizzare ogni istante della mia vita, ogni cosa che i miei occhi inquadrano; mi piacerebbe disporre di un enorme “cloud” da infiniti terabyte al quale poter accedere a mio piacimento quando più ne ho voglia e non lasciare che sia il mio cervello a decidere cosa cancellare e cosa no.

Lo so, è una risposta da minchioni pure questa…

Ma vi pare possibile che mentre stiamo fotografando un airone nei pressi dell’ennesimo tempio ci si avvicini un anziano giapponese cantandoci “Non ho l’età” della nostra concittadina Gigliola Cinquetti e “Da una lacrima sul viso” di Bobby Solo?!? Con un inglese un po’ stentato, almeno quanto il nostro, ci dice entusiasta e sorridente di essere stato in Italia, da Milano a Venezia, da Firenze a San Gimignano, ma non a Napoli (e nel dircelo incrocia gli avambracci manco fosse a X-Factor): un giapponese canterino e leghista, ci mancava.

In Giappone non esiste il “no”, ma varie sfumature di “sì”, però vorrei proprio vedere se chiedessi ad una ragazza “me la dai?” cosa risponderebbe; hai voglia a parlare di sfumature!

Approfittando ignobilmente di questa loro accondiscendente caratteristica culturale, al perentorio “Va bene, potete lasciare qui i bagagli, ma solo fino alle ore 15!” della titolare del ryokan nel quale abbiamo prenotato, riusciamo a strappare senza fatica un’altra ora, per poi recarci in stazione con un taxi per prendere il treno diretto a Tokyo.

All’epoca della prenotazione l’hotel non era neppure stato inaugurato e ci ha fatto piacere non trovare in camera i carpentieri ancora al lavoro.

La stanza è, al solito, piccola e ben curata con una doccia a vista. E pure con un wc a vista. E non è neppure un “Love hotel”, meno male..!

Le prossime tre notti le passeremo qui, nel quartiere di Akasaka che scopriamo essere poco nottambulo se non addirittura poco “serale”, con i ristoranti che chiudono anche alle nove (in punto, ovviamente!). Troviamo lo stesso di che sfamarci, con un altro piatto locale, una sorta di cotoletta che si chiama Tonkatsu: molto buona, non c’è che dire.

E con questa cenetta leggera ci congediamo in vista della giornata di domani, in quel di Nikko.

Sabato 9 Gennaio 2016

Colazione, metro, treno JR, treno locale, autobus e dopo poco più di due ore… altri templi con la solita milionata di turisti giapponesi?!?

Adesso venga fuori chi ha detto “visto un tempio, visti tutti”, avanti, vediamo se ha il coraggio! Ehm… Per fortuna la zona dei templi di Nikko è molto particolare e vale il viaggio (fino a ‘sto paesino, mica “tutto” il viaggio!); pur essendocene alcuni in ristrutturazione (addirittura ad uno hanno costruito un edificio attorno, termine dei lavori previsto per il 2020) c’è di che restare ammirati innanzi a cotanta bellezza architettonica situata all’interno di un bosco.

L’atmosfera viene un po’ compromessa dalla troppa gente (e vabbè, in fondo pure noi abbiamo contribuito alla massa…) e da una subito gradevole nenia in loop diffusa dagli altoparlanti, trasformatasi dopo due ore di ascolto in un suono che avrebbe reso gradevole persino quello delle unghie di un gatto rabbioso su una lavagna sgrassata con del pompelmo. Abbiamo cercato il cd, ma non era in vendita.

Che voi siate in pieno centro città o nei pressi di un periferico tempio shintoista, troverete sempre dei variopinti distributori di bibite e sono tanti, proprio tantissimi! Ma questi quanto bevono?! Caffè in lattine bollenti o tè senza zucchero piacevoli al palato come un caco acerbo, qualsiasi cosa purché non sia cibo. Ma io dico, che cosa ci vorrebbe a mettere qualche distributore di patatine o di biscottini?!? Poi per forza che qui sono tutti magri, mica mangiano le nostre merendine confezionate o bevande contenenti più zucchero che acqua! Per carità, noi zuccheriamo pure lo zucchero e sicuramente esageriamo, ma i giapponesi sono ancora convinti che la patata ed il fagiolo siano dei dessert!

A Nikko non l’ho notato, ma altrove (soprattutto a Kyoto) vicino ai luoghi da visitare c’è sempre un cartello che vieta l’utilizzo dei treppiedi per le macchine fotografiche. Cioè, potete scattare quanto volete, ma visto che vi siete portati fino in Giappone tre chili di cavalletto ora non lo potete usare! Per fortuna la cosa non mi sfiora, però è l’ennesima ghignata che mi ha strappato questo favoloso popolo. “La fobia del treppiede”, brrrr! Amici fotoamatori dalla mano tremolante, siete avvisati.

Un’altra cosa assurda, visto che siamo in tema, è che è consentito fumare negli esercizi pubblici come i ristoranti, ma non per le strade se non in ristrettissime e delimitate zone che fanno sembrare i fumatori degli ansiosi animali in gabbia avvolti dalla nebbia. E pensare che ci stupivamo quando guardavamo “Mai dire Banzai”, invece qui le stranezze sono proprio la norma.

Dal momento che rientriamo a Tokyo ad un’ora decente, decidiamo di fare una passeggiata per le scintillanti vie di Ginza, quartiere dello shopping di lusso; nulla di caratteristico, perché tutte le grandi città hanno zone simili, ma due passi dribblando negozi di Tiffany, Bulgari e via tremando si possono anche fare.

Ah beh, grande soddisfazione questa sera: seppur stanco morto scendo in strada da solo a prendere una bottiglietta d’acqua perché in questo hotel non esiste alcun distributore (sono giovani, si faranno…) e mentre sto per rientrare una ragazza per strada mi sorride e mi fa “Do you want something?” ed io, sorpreso: “Eh bela, i have no fia’!”. Si è subito allontanata. Strano.

E poi dicono che sia difficile rimorchiare in Giappone, tzé!

Data la stanchezza decidiamo di rinunciare alle oltre sei ore di treno A/R per vedere e fotografare in mezzo alla bolgia i macachi che si fanno il bagno nelle pozze artificiali di acque termali a Yudanaka; un po’ ci dispiace, ma trascorrere l’ultima giornata senza l’affanno di vedere proprio tutto tutto tutto ci voleva e poi non siamo Syusy Blady e Patrizio Roversi o fotografi del National Geographic, ma una coppietta in vacanza. Ecco.

Eventualmente torneremo, prima o poi.

Domenica 10 Gennaio 2016

Ma avete presente cosa significhi girare per una città senza avere paura della microcriminalità, senza temere di aver lasciato aperta la borsa mentre siete in metropolitana o che vi infilino una mano nelle tasche o, ancora, percorrere una vietta deserta la sera tardi? No, immagino non più.

Personalmente nei viaggi/vacanze che ho fatto non ho mai avuto il terrore che mi potessero derubare, anche se cerco sempre di stare attento con i soliti accorgimenti e quel po’ di buon senso che ogni turista dovrebbe avere, ma qui la situazione è pazzesca ed è l’ennesima conferma che ci troviamo in un altro mondo, solo apparentemente simile al nostro. Nessuno è qui per fregarvi, nessuno sbaglierà mai un resto (a proposito, i soldi non si danno mai in mano, ma vanno posati in un piccolo vassoio) e vedrete scene come quella alla quale abbiamo assistito noi oggi al parco Yoyogi: un ribelle rockabilly di pelle vestito ha interrotto il suo ballo perché a trenta metri da lui ha visto una ragazza alla quale era caduta una cosa dalla borsetta e l’ha richiamata avvicinandosi, ma un altro giapponese nel frattempo aveva raccolto l’oggetto e di corsa stava riconsegnandolo alla proprietaria.

Gente sempre sorridente e onesta, il massimo per un turista che vuole visitare un Paese in tranquillità. Poi ci saranno pure qui i serial killer, non lo metto in dubbio, ma qualcosa mi dice che l’educazione civica sia alla base di questa società. Insomma, “ti ammazzo, ma con educazione”. Yakuza a parte.

Rinunciando ai macachi abbiamo dovuto rivedere il programma per la nostra ultima giornata in Giappone e “Linda Travel” ha scovato la notizia di questo evento in un qualche sito: il Kanchu Suiyoku è un rituale di purificazione shintoista per celebrare il nuovo anno e si tiene in un solo determinato giorno, proprio oggi.

Usciamo dalla metro in un quartiere deserto e udiamo poco lontano dei cori d’incitamento che neanche i maori; facciamo una corsa giusto in tempo per vedere e fotografare decine e decine di uomini nudi (coperti solo da quei loro “mutandoni” bianchi) e di donne in kimono correre per la strada, fino a raggiungere una vasca di plastica approntata in un giardinetto; il maestro di cerimonia comincia il rito e tutti rispondono in coro prima di entrare nell’acqua nella quale sono stati posizionati degli enormi blocchi di ghiaccio. A gennaio.

Tutto attorno decine e decine di persone armate di macchine fotografiche, ma neppure un occidentale, infatti pure una giornalista radiofonica alla fine si è avvicinata per chiederci come mai fossimo lì.

L’impostazione “raffica” sulla macchina fotografica, mentre ero letteralmente abbracciato ad un albero sul quale mi ero atleticamente arrampicato (più o meno…), ha contribuito ad esaurire la seconda scheda da 16GB ed il pensiero è andato alle serate che dovrò trascorrere per “sbobinare” le fotografie fatte, ma la felicità di essere lì in quel momento per fortuna ha avuto la meglio. È stato davvero un momento interessante e divertente che mi sento di consigliare senza riserva alcuna a chi si troverà a Tokyo in questo periodo nei prossimi anni.

“Ma Pif non aveva incontrato della gente strana che ballava, durante il suo viaggio a Tokyo?”; troviamo il parco Yoyogi e le due “bande” di duri che si sfideranno a suon di rock’n’roll una e di rockabilly l’altra. Ciuffi impomatati, giubbini di pelle o di jeans, sguardi minacciosi, chi con la cicca alla bocca sfidando impavidamente la legge locale, chi con occhiali da sole per perpetrare il sintomatico mistero; sembrava di assistere ad una versione parodistica di “Grease”. Parte la musica, diversa per ogni banda che si trova a pochissimi metri l’una dall’altra e i duri cominciano a ballare. Oddio, “ballare”, diciamo che fanno quello che possono e quello che fanno fa veramente ridere, ma proprio tanto tanto. Soffochiamo le risate con un sorriso di convenienza mentre immortaliamo con i nostri scatti questi istanti indimenticabili domandandoci che cosa mai faranno questi “personaggi” nella vita di tutti i giorni: lavoreranno in una banca o in un qualche serioso ufficio? E come mai proprio questa valvola di sfogo tutte le domeniche? Ma, soprattutto, ci sono o ci fanno? A intuito la prima. A ognuno i propri passatempi, anche perché quello di accoltellare vecchiette nei vicoli bui qui non è molto gettonato.

Vi sembrerà incredibile, ma su dieci giorni di permanenza in questo Paese non abbiamo ancora mangiato sushi, pur avendo provato solo cibo giapponese con pasti sempre diversi l’uno dall’altro (colazioni a parte); visto che camminare mette appetito (notoriamente chi sta sempre seduto invece non mangia mai…), chi siamo noi per rinunciare al cibo che simboleggia il Giappone, almeno nell’idea che ne ha di esso l’occidente?

Il “Genki Sushi” è una catena di ristoranti che definire singolare è poco: l’ottima qualità del cibo viene per noi gaijin quasi messa in secondo piano dal servizio high tech: ci si siede uno di fianco all’altro, si ordinano le pietanze tramite un tablet e, poco dopo, arrivano davanti trasportati da una monorotaia, pronte per essere degustate. Ci siamo fatti prendere un po’ la mano, lo ammetto, ma vedere Linda (che fino ad un anno fa guardava schifata persino “Nemo”) mangiare così di gusto è stato entusiasmante. I piattini si sono accumulati uno sopra l’altro, ma il conto alla fine è stato ridicolo: l’equivalente di nove euro a testa, bevande incluse!

L’ennesima passeggiata, qualche negozio della serie “tanto non abbiamo posto in valigia”, un caffè e poi si “rincasa” ad Akasaka, il quartiere sardo di Tokyo dove passeremo l’ultima notte in questa disarmante quanto elettrizzante nazione.

Lunedì 11 Gennaio 2016: Il rientro

JR Express, tre ore in aeroporto nell’inutile ricerca di una maglietta con la scritta “I love Totoro and Torototela” e siamo pronti per le dodici ore e mezza di volo (“vento contrario”, dicono) sulle solite poltrone Alitalia progettate dall’Ing. Quasimodo, ma almeno troviamo ancora una volta un equipaggio gentilissimo e sempre disponibile.

Mi piacerebbe concludere con qualche considerazione sulla vacanza, ma credo di aver già scritto più o meno tutto, a parte le info tecniche che però vi consiglierei di recuperare in Rete per averle sempre aggiornate. L’unica cosa che posso aggiungere è che visitare il Giappone non è più così proibitivo come si pensava un tempo (forse quando c’era la Lira?): dormire costa all’incirca come da noi e mangiare anche meno, ma è chiaro che organizzarsi per tempo è fondamentale per contenere i costi obbligati come quello del volo (si possono trovare voli A/R sui 500 euro).

Ogni volta che si ritorna da una vacanza c’è sempre quella sensazione di malinconico piacere tra il “che bene che si sta in ferie” ed il “però in fondo è anche bello tornare a casa”; della seconda affermazione questa volta nessuna traccia, zero.

Fosse stato per noi avremmo continuato a girare per altri tre mesi almeno. Ma non si può. Proprio no (seguono imprecazioni varie e variegate).

Banalità per banalità, già che ci siamo, sarebbe fantastico poter fare un lavoro dove si è pagati per viaggiare senza avere chissà quale competenza specifica, ma al di là di trasmissioni alla “Turisti per Caso” o diventare corrieri della droga non mi viene in mente altro. Se per caso avete qualche suggerimento non fatevi problemi a scrivermi, tanto per un po’ mi sa che non mi muoverò.

Entro in casa, mi spoglio, mi lavo le mani, mi siedo sulla tazza. Mi giro e… niente, nessun pulsantino da schiacciare, nessuno spruzzino dalla mira infallibile, nulla di nulla.

Mi sa che sono proprio tornato in Italia…

Corrado Benanzioli,

Gennaio 2016.

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