Tra i monti della Georgia

Nel Caucaso tra alte montagne e antichi villaggi...
Scritto da: mapko64
tra i monti della georgia
Partenza il: 25/06/2011
Ritorno il: 10/07/2011
Viaggiatori: Uno
Spesa: 2000 €
Alcuni anni fa avevo visitato l’Armenia, approfittandone per una puntata a Tbilisi. In quell’occasione avevo ascoltato entusiastici commenti sulle montagne della Georgia e mi ero incuriosito per la sua turbolenta storia. La scorsa primavera, dopo aver letto sulla rivista “Internazionale” un interessante articolo dedicato alla selvaggia regione del Tusheti, ho deciso di riprendere l’esplorazione del paese con una visita più approfondita. La Georgia è una nazione piccola ma gli elementi interessanti sono molti; grazie alla Turkish Airways sono riuscito ad organizzare un itinerario lineare, arrivando a Batumi e ripartendo da Tbilisi.

Le montagne del Caucaso non hanno tradito le mie attese: nello Svaneti ho percorso spettacolari sentieri ammirando ghiacciai e maestose vette rocciose, nel Tusheti ho camminato tra monti boscosi e sterminati prati erbosi. Insieme alla natura, in queste regioni sono rimasto affascinato dalle tradizioni dei suoi abitanti con le caratteristiche architetture dei villaggi, costellati di torri medievali. Ushguli, il villaggio più alto in Europa, merita il titolo di patrimonio dell’umanità conferito dall’Unesco: l’immagine delle sue torri ai confini del mondo sembra tratta da una fiaba! Ad Omalo le torri arroccate sopra la collina evocano atmosfere di epoche passate. Anche il presente ha i suoi motivi d’interesse: l’incontro con gli svan e i tushi permette di conoscere due popoli orgogliosi e ospitali, sempre pronti a condividere un brindisi con il visitatore.

Le città della Georgia, con l’eccezione di Tbilisi, invece sono meno interessanti: Batumi è tutta un cantiere, Kutaisi appare un po’ provinciale. Le principali attrattive spesso si trovano nei loro dintorni: il giardino botanico di Capo Verde, vicino Batumi, è un rigoglio di vegetazione da tutto il mondo, il monastero di Gelati, vicino Kutaisi, è un capolavoro arricchito da affreschi e mosaici.

Per muovermi attraverso il paese ho sfruttato i marshrutka, gli onnipresenti minibus del mondo ex-sovietico. Le strade lungo le direttrici principali sono buone, mentre sono pessime per raggiungere le aree più sperdute. Nello Svaneti sono in corso molti lavori, in particolare proprio l’asfaltatura della strada di accesso. Quando saranno terminati, la regione potrà sfruttare il suo grande potenziale turistico, anche se trovo un po’ inquietante l’idea di trasformarla in una Svizzera del Caucaso! Le infrastrutture della Georgia sono sicuramente migliori di quelle delle altre due nazioni caucasiche, Armenia e Azerbaijan. Nonostante la guerra del 2008 con la Russia, il paese ha continuato la sua marcia verso la modernizzazione. A Tbilisi ho trovato diverse novità: un nuovo ponte pedonale conduce dal centro a un’area attrezzata con giardini, comparsa dal nulla dopo appena quattro anni! Il numero di mendicanti, sfollati dalle regioni separatiste di Abkazia e Ossezia, mi è parso diminuito. Come turista non sono riuscito ad avvertire le tensioni della situazione politica: il presidente Saakashvili, apertamente schierato con l’occidente, tiene sotto stretto controllo tutto il paese ma ha anche il merito di avere avviato importanti investimenti. A Kazbegi il confine chiuso con la Russia mi ha ricordato le tensioni con l’ingombrante vicino, il problema principale della Georgia di oggi. Ottimisticamente i georgiani si sono affidati ai “nuovi amici” americani ed europei, senza preoccuparsi della loro lontananza geografica mentre la Russia è proprio dietro l’angolo. Nel Kakheti, ad esempio, le esportazioni di vino verso la Russia sono cessate mettendo in crisi l’intero settore.

Una storia di occupazioni e guerre non sembra avere tuttavia intaccato lo spirito mediterraneo di un popolo gioviale e caciarone, al quale non si può che augurare un futuro più fortunato.

In Georgia ho seguito il seguente itinerario: Batumi – Zugdidi – Mestia – Kutaisi – Tbilisi – Telavi – Omalo – Tbilisi – Kazbegi – Tbilisi

Ed ora il diario di viaggio.

Sabato 25 giugno: Roma – Istanbul – Batumi

Per raggiungere la Georgia sfrutto i voli della Turkish Airways che via Istanbul mi conducono a Batumi sul mar Nero. All’aeroporto, a pochi chilometri dal confine turco, viene a prendermi il proprietario della guesthouse “Dzveli Batumi”, prenotata tramite internet. La strada che porta in città segue il lungomare; moderni edifici dalle varie architetture si alternano a casermoni sopravissuti al comunismo. In centro la guesthouse è senza insegna, come molte altre in Georgia: è una piacevole abitazione a più piani, adattata per ospitare i turisti.

Batumi è tutta un cantiere; passeggiando per la città vecchia, intuisco un passato interessante ma oggi le case sono ridotte veramente male. Nella moschea è in corso la preghiera e per evitare discussioni mi affaccio solo all’entrata. E’ strano iniziare la visita della cristianissima Georgia con la visione di un minareto ma mi trovo nell’Adjara, regione semiautonoma che in passato ha subito forti influssi turchi: la popolazione di etnia georgiana si è convertita all’islam, anche se in città la religiosità appare piuttosto blanda. In piazza Europa, al centro di un altissimo plinto si erge la statua bronzea di Medea che tiene in mano il vello d’oro, una pelle di pecora con testa e zampe. E’ stata inaugurata solo da qualche anno dal presidente Saakashvili. Nei paraggi la piazza del teatro è un piacevole condensato della storia georgiana. Al centro la fontana di Nettuno rappresenta il tentativo di riallacciarsi alle radici classiche dell’Europa: il dio dorato regge il tridente e si staglia sullo sfondo dell’hotel Radisson, un grattacielo di vetro che incombe sopra i bassi condomini sovietici, piacevolmente tinteggiati. Sull’altro lato il moderno casinò ricorda l’arrivo del capitalismo; nel frattempo nel teatro è terminato qualche spettacolo e dal colonnato escono comitive di allegri bambini che indossano costumi tradizionali.

Sul lungomare, attraversati i giardini del boulevard, raggiungo la grande spiaggia di ciottoli, proseguendo poi verso il promontorio. Un ristorante è ospitato in un grande veliero; poco oltre sono in corso i lavori per un luna park. Il faro, un tempo isolato, è quasi nascosto da un’alta struttura cilindrica di tralicci metallici. Sulla grande ruota, ancora a metà, sventola la bandiera italiana mentre sulla punta il monumento dedicato ad Alì e Nina è quasi finito. Le due statue sono formate da anelli metallici che delineano la siluette dei protagonisti del romanzo di Kurban Said, la storia dell’amore tra un azero e una georgiana. Mi fermo a guardarle e mi accorgo che si muovono lentamente girando una intorno all’altra. Le sorprese non sono finite: il movimento cambia, cominciano ad avvicinarsi fino a compenetrarsi in un abbraccio voluttuoso. Sotto il monumento, la gente prende il sole sdraiata sui ciottoli della spiaggia; i bambini più temerari fanno il bagno e anch’io cedo alla tentazione di rinfrescarmi nelle acque del mar Nero che ancora mancavano alla mia “collezione”.

La sera, ceno al “Sanapiro”; piacevolmente affacciato sul porto, il locale propone classiche architetture palladiane con le colonne ioniche che formano un’ampia rotonda. Tanto per gradire il kachapuri del’Adjara è “rinforzato” con un uovo sopra. Dopo cena raggiungo la Piazza, tutta illuminata; non è citata sulle guide, poiché è stata realizzata recentemente da un architetto italiano. Si tratta di una corte pedonale, circondata da porticati e dominata dalla torre dell’orologio che culmina con una cuspide dorata. Sono in corso i preparativi per il palco di un concerto (special guest, Sting). La passeggiata serale si concentra lungo il boulevard lungomare: il panorama è dominato da tre alberghi, l’Intourist, animato punto di incontro, la torre dello Sheraton e il Radisson con una lunga striscia luminosa. Oltre al piacere di camminare tra i giardini, la serata è rallegrata dai giochi d’acqua delle fontane che zampillano al ritmo della musica tra luci colorate.

Domenica 26 giugno: Batumi

La mattina inizio le mie esplorazioni con la chiesa armena, le cui semplici linee richiamano le architetture di quel paese. E’ domenica e qualcuno ha fatto un bucato di peluches: stesi ad asciugare, formano un curioso quadretto con il tamburo della chiesa sullo sfondo. Poco lontano ritrovo la Piazza; il grande campanile riprende, nell’alternanza di pietra e mattoni, lo stile della chiesa ortodossa di San Nicola, subito accanto. L’interno, tutto ricoperto di affreschi, è affollato di fedeli per la messa domenicale; le donne hanno il capo coperto da fazzoletti colorati.

Tbilisi Moedani, uno squallido piazzale, è il punto di partenza dei marshrutka. In mezzo a un giardino sorge l’imponente ex cattedrale cattolica, costruita a inizio novecento in stile gotico nordico. La giornata nuvolosa e i grigi delle sue guglie “baltiche” la rendono un po’ triste. Nel buio interno, il rito ortodosso riempie la chiesa. Rimango stupito che le chiese siano così affollate: l’Adjara non è una regione islamica? Una passeggiata mi porta alla casetta di legno, dove il giovane Stalin abitò nel 1910-12, organizzando scioperi e proteste. Ospita un museo ma è chiuso.

Con un marshrutka da Piazza Tbilisi raggiungo la fortezza di Gonio, verso il confine turco, chiamata anche Apsaros da Apsirtus, il fratellino di Medea vittima della sua perfidia. Secondo la leggenda Medea fuggendo con Giasone sopra la nave Argo, recando con sé il favoloso vello d’oro, fu inseguita dal padre Eete; Medea, senza pietà, uccise il fratellino e ne smembrò il corpo gettandone i pezzi tra le onde. Il padre si fermò a raccoglierli in modo da poter dare degna sepoltura al figlio, proprio qui a Gonio e ciò permise a Giasone e Medea di fuggire indisturbati. All’esterno della fortezza un cartello racconta la sua lunga storia, a partire dal cimitero risalente al periodo del regno colchide (VIII-VII sec. a.C.). La fortezza romana nel I sec. d.C. ospitava cinque coorti per un totale di 1.500 soldati a guardia del Ponto Eusino orientale. Era dotata di un teatro e un ippodromo; insomma era l’equivalente delle attuali basi militari americane nel mondo, necessarie a una potenza imperialista. Seguirono il periodo bizantino, il medioevo con i regni di Trapens (Trebisonda) e di Georgia, fino all’arrivo di turchi e russi. Oggi la fortezza, racchiusa da mura merlate in pietra scura, si presenta come una grande area, nella quale grazie al clima umido si è sviluppata una ricca vegetazione. Una semplice croce indica la sepoltura di Matteo, uno dei settanta apostoli minori scelti da Cristo per diffondere la fede, proprio quello che sostituì Giuda tra i dodici. L’edificio a fianco ospita un piccolo museo con foto e reperti di varie epoche trovati nella fortezza. Le citazioni storiche sono interessanti: nel 134 d.C. il governatore della Cappadocia Flavio Arianus ispezionò la fortezza trovandovi cinque coorti. Per la sua importanza, la fortezza di Apsaro fu riportata anche nella Tabula Peutingeriana, attribuita al geografo romano Castorio (si tratta di una mappa del mondo antico nel IV secolo dipinta su un rotolo di pergamena). Per completare l’esplorazione della fortezza raggiungo le mura: un camminamento corre tutto intorno ma la sua ristrettezza e l’assenza di qualsiasi barriera mi sconsigliano dal percorrerlo. Mi limito a salire le scale che portano a un paio di torri; le mura attorno ad alcune finestre sembrano reggersi in equilibrio molto precario, con le pietre una sopra l’altra.

Tornato in città, visito il museo archeologico, dedicato ai ritrovamenti dei siti dell’Adjara. S’inizia con il Paleolitico: i reperti più antichi vengono dal fiume Chorokhi con i teschi dei nostri antenati di quasi due milioni di anni, dalla fronte bassa. Molto più tardi nel Neolitico avvenne la trasformazione degli uomini da cacciatori ad agricoltori. Con l’età del bronzo compare la civiltà colchide, origine del successivo mito degli Argonauti. Gli oggetti si fanno più raffinati: un grande pugnale di bronzo reca l’impugnatura lavorata a puntini. Si passa poi all’età del ferro: il sito più ricco è Pichvnari, dove è stato scoperto un cimitero colchide del V secolo. Due braccialetti in argento presentano teste di ariete su entrambi i lati. Una vetrina espone monete di varie epoche, da quelle degli imperatori romani, tra cui si riconosce Adriano, a quelle bizantine, veneziane e addirittura polacche.

Dopo un’occhiata alla candida sinagoga, proseguo le mie visite con il museo di Stato dell’Adjara. Nella sezione dedicata ai ritrovamenti archeologici si distinguono un piccolo ariete di bronzo (III-II millennio a.C.) e tre piccoli personaggi con il fallo eretto (II-I millennio a.C.), due hanno alti copricapi a punta. La collezione è molto eterogenea: dopo le porte di legno lavorate (XVIII sec.), seguono alcuni abiti tradizionali. Il primo piano è dedicato alla storia più recente: il movimento di liberazione dai turchi, la guerra turco-russa del 1877 per il possesso dell’Adjara, lo sviluppo della città sotto i russi con la nascita delle prime industrie. Mi torna alla mente la descrizione di Batumi, allora porto franco, visitata da Marvin durante il suo viaggio in treno da Londra a Baku.

Trascorremmo una giornata piacevole esplorando Batoum. Fui colpito dalla notevole attività in tutta la città. Case e negozi erano stati costruiti a centinaia, ed era chiaro che in pochi anni nulla sarebbe rimasto della vecchia città turca ceduta nel 1878. Prima che sia passato un altro decennio, Batoum sarà diventata un grande porto commerciale, la Sebastopoli dell’Eusino meridionale. Così rapida è stata la sua trasformazione sotto il dominio russo, e così rapidamente i cambiamenti si stanno succedendo, che un viaggiatore che visitò il luogo prima della guerra del 1877-78, probabilmente non riuscirebbe a riconoscerlo. (“The Region of the Eternal Fire” – Charles Marvin 1883)

Un cinese esperto nella coltivazione del te arrivò a Batumi nel 1893, invitato da un mercante russo, per impiantare la coltivazione delle piantagioni. Una foto mostra la cattedrale con le cupole a cipolla, oggi scomparsa. Seguono la rivoluzione del 1905-7, la prima guerra mondiale, l’occupazione britannica, la repubblica democratica. Prima di lasciare il museo raggiungo un cortile tipicamente sovietico, nel quale si conserva un grande scheletro di balena, regalato al museo nel 1922 dal capitano della flotta delle baleniere, un ucraino eroe del lavoro socialista. La balena, lunga diciotto metri, fu uccisa nell’Artico.

Il pomeriggio faccio un’escursione in marshrutka ai giardini botanici di Capo Verde (Mtsvane Kontski), un’oasi di pace a una decina di chilometri da Batumi, su una collina affacciata sul mare. Grazie al clima subtropicale raccolgono un’incredibile varietà di vegetazione, proveniente da tutto il mondo. Si comincia tra alberi magnifici: un alto pino dell’Himalaya, un imponente eucalipto dall’Australia, una sequoia dalla California, un acero giapponese, una grandiflora dall’America con belle foglie lucide, un carpinus caucasico nodoso e tentacolare. Un acero palmato forma un cespuglietto color ruggine, a fianco sempre dal Giappone un rododendro. Dopo un belvedere sul mare, ritrovo i fiori bianchi con pistilli rossi che avevo visto a Gonio; si tratta dell’acca sellowiana dal Sud America. Una passiflora ha grandi fiori che sembrano delle bomboniere! Proseguendo il percorso in discesa, dopo avere attraversato un gruppo di magnolie grandiflora, sbuco all’uscita verso il mare, davanti alla ferrovia. Non mi resta che chiudere in bellezza raggiungendo la spiaggia di ciottoli per un altro bagno nel mar Nero. Mentre in spiaggia i bambini si divertono a giocare con i sassolini, i ragazzi più grandi si tuffano dall’alto di ciò che resta di un pontile in cemento; dietro, sullo sfondo la siluette del promontorio di Batumi. Per la mia escursione ai giardini botanici ho preso il marshrutka #150 scendendo all’ingresso superiore e il marshrutka #31 per tornare in città da quello inferiore. In questo modo, senza volerlo, la passeggiata è stata tutta in discesa e ho potuto fare il bagno alla fine. Al contrario sarebbe stata una faticaccia!

A Batumi la sera, raggiungo in bus un’area sul mare, attrezzata per lo svago del XXI secolo. Intorno a un laghetto sono stati costruiti vari edifici, creando un’ambientazione californiana, anche se la grande spiaggia è di ciottoli e non di sabbia. Per la maggior parte ospitano ristoranti; spiccano una pagoda cinese, un grande tempio greco e un mulino olandese. Un grattacielo a forma di sigaro sorveglia il tutto, mente un molo è stato attrezzato con una discoteca all’aperto. Sono le otto e mezzo e il sole deve ancora tramontare; ogni tanto cerca di fare capolino tra le nuvole. Il mare è una tavola ma la temperatura si è fatta fresca dopo l’afa del giorno. Le nuvole si chiudono non lasciando speranza per il tramonto e così mi butto sulla cena, scegliendo l’”Adjran House”: l’architettura è locale e anche il cibo all’altezza!

Lunedì 27 giugno: Batumi – Zugdidi

La giornata è uggiosa, ha piovuto per tutta la notte. Raggiungo il lungomare, dominato dalla mole dell’Hotel Sheraton. Il boulevard è deserto per il maltempo; i giardini immacolati, rallegrati da palme, appaiono perfetti in una città in cui tutto è in lavorazione. L’effetto è piacevole, un luogo delizioso per passeggiare insieme agli amici. Il mare è in tempesta e le onde si frangono violente contro la spiaggia. I pescatori gettano le loro esche nel tranquillo laghetto del parco Sei Maggio. In fondo si trova il delfinario, ma il lunedì è giorno di chiusura; avrei comunque rinunciato ad assistere ancora una volta al triste spettacolo che gli amici acquatici dell’uomo danno per il divertimento della specie dominante. Un curioso monumento raffigura un’aviatrice che gioca insieme a un bambino con un modellino di aeroplano.

Il tragitto dall’albergo la stazione dei bus non è lungo ma piove e tutte le buche di Batumi sono diventate pozzanghere. Acquistato il biglietto all’apposito sportello, trovo facilmente il marshrutka per Zugdidi chiedendo a un paio di persone. Due kachapuri e sono pronto per la partenza che arriva puntuale a mezzogiorno. Lasciamo la città seguendo la costa verso nord ma, anziché raggiungere i giardini botanici, prendiamo la nuova strada che attraversa la montagna con un tunnel. Saliamo poi, perdendo di vista il mare, in un paesaggio verdissimo, spesso caratterizzato dalle opere dell’uomo e intristito dalla giornata piovosa. Il traffico di TIR è intenso. Tornati sulla costa, raggiungiamo Kobuleti, amata dai georgiani come località balneare. Alla stazione ferroviaria di Ureki abbiamo lasciato l’Adjara e siamo passati nel Guria ma non me ne sono nemmeno accorto. Dopo un’ora e mezzo dalla partenza siamo a Poti, principale porto del paese. Breve sosta in una grande piazza. Al centro si trova il monumento equestre a Tsotne Dadiani, che pagò molto cara la rivolta contro i mongoli: cosparso di miele, fu fatto divorare dagli insetti. Attraversato l’ampio fiume Rioni, pieghiamo definitivamente verso l’interno. A Khobi siamo già in Mingrelia; le case monofamiliari hanno piacevoli giardini fioriti. Nella piazza il teatro presenta un grande fregio scolpito.

Alle due e mezzo arriviamo a Zugdidi; il confine con l’Abkazia è vicino e in giro si vedono molti soldati a passeggio. La piazza centrale della città è intitolata a Gamshakurdia, originario della Mingrelia, presidente della Georgia post-sovietica ma uscito perdente dalla successiva guerra civile. La lunga piazza ha nel mezzo un piacevole giardino ombreggiato da alti alberi. Una specie di obelisco in pietra rossa è sormontato da una croce; insieme a San Giorgio che uccide il drago, vi sono scolpite scene care alla fede ortodossa: riconosco la Natività e Gesù che solleva Adamo ed Eva dalle tombe. A nord della piazza si apre un parco; in fondo al prato all’inglese sorge il palazzo neogotico della famiglia Dadiani, governatori della Mingrelia fino all’avvento dei russi. La sensazione di trovarsi in Inghilterra è subito interrotta dalla chiesa intitolata all’Icona della Madre di Dio. Alla classica struttura ortodossa sono stati aggiunti quattro ambienti curvilinei tra le braccia della croce, tanto che il nudo interno, privo di affreschi, sembra a pianta circolare. Un ragazzo si fa più volte il segno della croce e bacia la grande icona della Madonna con il Bambino, coperta di oro e argento; prima di uscire dalla chiesa, bacia anche lo stipite della porta. Il palazzo purtroppo è chiuso; non posso così vedere una delle tre maschere mortuarie di Napoleone, finita qui poiché una principessa Dadiani andò in sposa a un nipote di Murat e Carolina, sorella di Napoleone. Dopo la pioggia del mattino è tornato il sole; mi siedo su una panchina, apprezzando la tranquillità del luogo, anche se gradirei un po’ di ombra. La principessa forse stanca dei prati erbosi fece creare una grande area a bosco. Oggi il giardino botanico è un luogo incantevole, con finte rovine in mezzo alla vegetazione e alberi imponenti. Sulle acque di un romantico laghetto galleggiano le ninfee, mentre da un piccolo promontorio un albero allunga i rami tentacolari coperti di muschio. Il pomeriggio rilassante per contrasto mi richiama alla mente che qualche anno fa a pochi chilometri c’è stata la guerra; Zugdidi ancora oggi è piena di georgiani sfollati dall’Abkazia. Tornato verso l’ingresso, un gigantesco albero sembra la diramazione di un acquedotto: dal tronco possente partono “condotti” orizzontali che poi piegano di novanta gradi e salgono dritti verso il cielo.

La sera, al ristorante provo il sulguni, il formaggio locale simile alla nostra mozzarella ma più compatto, e il pollo in salsa di prugne, uno dei piatti più costosi. Mi arriva un pollo intero cotto in umido con molto aglio. Mi aspettavo Zugdidi invasa dagli sfollati, invece per lo meno in centro, è una cittadina piacevole. I soldati a passeggio sono scomparsi, forse il mio arrivo ha coinciso con l’ora della libera uscita. Un gruppo di bambini gioca tra gli zampilli della bandiera georgiana al centro della piazza, cercando di non farsi la doccia; passa persino un mezzo per la pulizia delle strade. Domani mi aspetta una levataccia e alle nove sono già in albergo.

Martedì 28 giugno: Zugdidi – Mestia

Sveglia alle cinque e venti. I marshrutka per Mestia partono vicino alla torre svan, costruita ai tempi del comunismo, ma a quest’ora in giro non c’è nessuno. Mi rifugio nell’unico locale aperto per un chai. Compaiono le prime persone tra cui un coreano arrivato direttamente da Tbilisi con un bus notturno. Verso le sette ecco finalmente il minibus: mi siedo all’interno ma l’attesa si prospetta lunga. Non abbiamo notizie finché arriva un norvegese che ha aperto un albergo nello Svaneti e ci informa che la partenza è fissata per le dieci! Non ci resta che dare un’altra occhiata alla torre, anche se la scala traballante mi sconsiglia dal salire ai piani superiori come fanno il coreano e il norvegese. Nell’attesa chiacchiero con i miei compagni di viaggio: Kim, il coreano, è sposato con una giapponese ed è diventato papà da appena due mesi (batte anche me, Fabio ha sedici mesi!). La mamma è in Giappone e lui è partito per un tour attraverso Caucaso e Iran; fa il fotografo free-lance ed è alla ricerca di scatti interessanti. Il norvegese, Richard, lavora nel turismo; ha un’agenzia a Riga, dove vive da venti anni. Ci racconta che due anni fa visitò lo Svaneti innamorandosi di un posto vicino a Mazeri; una famiglia voleva aprire una guesthouse ma non aveva i soldi per i lavori necessari: la stratosferica cifra di 150 euro! Così ha messo lui il capitale e l’anno scorso ha inaugurato la struttura. Per passare il tempo facciamo una passeggiata fino al parco con il palazzo Dadiani.

Tornati alla “bus station”, facciamo colazione con uno spezzatino al sugo. Alle dieci c’è molta più animazione ma il minibus non è ancora pieno e l’autista cerca altri passeggeri per partire. L’attesa si prolunga! Alle undici e mezzo finalmente partiamo; in tutto siamo una decina di passeggeri, ammassati poiché molti sedili sono occupati da scatoloni. Le perdite di tempo tuttavia non sono finite; il driver si ferma per qualche commissione e per fare una puntata a un market. Poi torna al bus recupera il cellulare e scompare di nuovo; un passeggero scende per fumare una sigaretta. Al mio fianco Richard scrive utilizzando l’alfabeto georgiano, anche se mi precisa che parla svan non georgiano, spiegandomi che sono due lingue diverse come italiano e tedesco. In realtà si tratta di una sorta di georgiano antico, incomprensibile a chi vive a Tbilisi, nel quale non mancano parole simili al sumero! Finalmente poco prima di mezzogiorno è la volta buona: partiamo lasciando la città.

Viaggiamo su una strada pianeggiante in un paesaggio di vasti prati erbosi. Scendendo in una valle popolosa si avverte l’opera dell’uomo; nel frattempo compaiono le prime montagne e una torre isolata. Scavalcato il fiume Magana, entriamo nello Svaneti cominciando a salire lungo la valle dell’Inguri, ora più stretta e ricoperta di alberi. Passiamo sotto una bella torre svan culminante nella tipica “merlatura”; una mucca sdraiata in mezzo alla strada non si scompone al nostro passaggio. Per un attimo da una laterale s’intravede una diga: costruita in epoca sovietica, è una tra le più alte al mondo. La valle si è fatta ancora più stretta, profonda e boscosa; le cime dei monti sono nascoste dalle nuvole. La strada peggiora, rallentiamo. Siamo alti e la vista spazia su boschi sterminati. In basso le acque del lago artificiale formato dalla diga, illuminate dal sole, hanno il colore chiaro del latte con appena un accenno di verde. Costeggiamo il lago per vari chilometri; lungo la strada, gruppi di arnie colorate. Alle tredici ci fermiamo per il pranzo (se la prendono comoda!); ne approfitto per un matsoni (yogurt). Ripartiti, attraversiamo una serie di tunnel. Scesi a livello del fiume, passiamo sull’altra sponda con un ponte. Il letto del fiume è secco, l’acqua canalizzata ritorna poco dopo. Attraversato il brutto paese di Khaishi, le acque grigie del fiume formano delle rapide. La strada peggiora ancora: si balla, solleviamo una gran polvere; il paesaggio invece è molto bello. Raggiungiamo il bivio per Chuberi in Abkazia ma naturalmente la strada è chiusa. Dopo un paio di tunnel rocciosi la valle si fa stretta con rocce e alberi. Fervono i lavori di asfaltatura, incluso un tunnel che ora la strada aggira. Gli operai lavorano con turni H24 – sostiene Richard – e l’asfalto è prodotto in due “fabbriche” nella valle; è alto una ventina di centimetri per essere più resistente. Sembra un lavoro ben fatto. In fondo alla valle compaiono vette innevate, un grande picco appuntito di roccia e neve. I lavori in corso bloccano il passaggio e giungono graditi per una sosta. Dal marshrutka, infatti, non si vede molto; mi accorgo così che ormai viaggiamo tra alte montagne, quasi a picco, dall’aspetto magnifico. Kim riesce a prendere un passaggio per Ipari da un gruppo di ucraini che viaggia con il proprio mezzo, spera così di arrivare oggi stesso a Ushguli. Gli operai hanno asfaltato metà carreggiata; il camion che occupa l’altra metà finalmente si sposta e ci lascia passare. Le soste però non sono finite: poco dopo un mezzo meccanico cingolato sta trivellando la montagna. Al nostro arrivo si fa di lato ma poi si tratta di levare i macigni dalla strada e dobbiamo aspettare che una ruspa completi l’opera. Quando la strada sarà completata, lo Svaneti potrà diventare una meta molto popolare, oggi invece è dura: polvere, caldo, sobbalzi, soste continue. I passeggeri hanno bisogno di birra e così facciamo un’altra sosta per il “rifornimento”; ripartiti, devo declinare le ripetute offerte di birra che mi fanno.

Riprendiamo a salire inesorabilmente. I picchi innevati, prima isolati, ora formano una lunga striscia. La valle si fa più ampia con prati erbosi fioriti sul fondovalle, boschi più in alto e poi roccia e neve. Compare il monte Ushba che da quest’angolazione ricorda il nostro Cervino, con un picco altissimo. Poco dopo, ecco Latale, il primo villaggio con le caratteristiche torri svan. Raggiungiamo una casa, dove il driver fa rifornimento con una tanica di benzina. Nel paese successivo, Lenjeri, le torri in mezzo agli alberi, sembrano grandi camini.

Alle cinque e mezzo a sinistra appaiono gruppi di torri nel verde, a destra case moderne; finalmente siamo arrivati a Mestia. Il driver mi lascia davanti alla “Ninio Ratiani Guesthouse”. La mia stanza è piccola ma graziosa con una credenza piena di libri. In paese i lavori continuano a perseguitarmi, la via principale è tutta un cantiere. All’ufficio turistico nella piazza centrale m’informano che il museo etnografico è chiuso per restauro; è un peccato perché conserva molti tesori preziosi da tutta la regione, spesso messi in salvo nello Svaneti durante le invasioni subite dalla Georgia. Il colpo d’occhio del paese è incantevole con le alte torri che si stagliano sullo sfondo delle montagne. Raggiungo il quartiere di Lakrami pieno di torri. La loro architettura è particolare: la porta si trova in alto per ragioni di sicurezza e le uniche aperture sono strette feritoie. In cima, una specie di “cappello” con beccatelli e un tetto poco spiovente. Così alte sulle case, sembrano dei giganti immobili che si guardano l’un l’altro. La gente che incontro è molto cordiale: un operaio interrompe le sue faccende per indicarmi il cancello da aprire per raggiungere una bianca cappella. L’esterno è terminato, come anche l’iconostasi scolpita di pietra, ma mancano ancora molti dettagli. Una vecchia rimane stupefatta dal fatto che vengo dal’Italia.

A cena scopro che Nino è una donna. Sono in compagnia di altri ospiti della guesthouse: tre americani, un’australiana e due georgiani. La tavola è stracolma di piatti. Finalmente dopo tanta carne faccio una scorpacciata di verdure, formaggi, uova, zuppa e kachapuri, terminando in bellezza con un matsoni.

Mercoledì 29 giugno: Mestia (trekking al lago Koruldi)

Nel quartiere delle torri una machub, un’abitazione tradizionale, è stata trasformata in museo. La vita della famiglia si svolgeva in un unico ambiente che ospitava anche gli animali. Tutto è in legno, con belle lavorazioni. Lungo le pareti sono allineate le stalle con le mangiatoie, più piccole per le pecore, più grandi per le mucche, in mezzo il focolare. Il seggio di legno decorato con un “motivo dell’eternità”, una specie di arancia con gli spicchi racchiusa da una stella, era destinato al “vecchio” della famiglia. Le credenze erano utilizzate per conservare il cibo e quella in un angolo per il chacha, il superalcolico locale. L’ambiente trasmette il fascino di un’epoca passata, con le pareti di pietra annerite dal fumo. In questo spazio potevano vivere fino a venti persone, dormendo vicino agli animali per trarne calore. Il museo comprende anche la visita di una torre; una scala esterna di legno consente l’accesso al primo piano. Per salire ai livelli successivi si utilizzano scale a pioli, passando attraverso strette aperture. La luce viene dalle feritoie; all’ultimo piano le aperture sono più ampie con arcatelle tra i merli, ma dall’esterno non si notano perché una parte è protetta da un parapetto. Il tetto a due spioventi di legno è retto da pali su cui poggiano le travi.

Terminata la visita, dedico il resto della giornata al trekking al lago Koruldi, verso il monte Ushba. Sono da poco passate le dieci e il ripido sentiero inizia proprio nei paraggi del museo. La salita sotto il sole mette a dura prova il mio fiato. In alto, sopra la montagna, scorgo la croce verso cui sono diretto; sembra lontanissima e scoraggiante. Le mucche, unica presenza, brucano l’erba. Dopo un’ora il sentiero si fa meno ripido, attraversando un paio di torrenti dove approfitto per rinfrescarmi. Mestia in basso è lontana con le torri che svettano in mezzo alle case; picchi innevati si levano sullo sfondo in tutte le direzioni. Sbuco all’aperto tra vasti prati erbosi, allietati da fiori bianche e gialli. Subito dopo m’immetto in una strada sterrata che prendo a seguire in salita. A questa quota gli unici alberi sono aghiformi. Le montagne appaiono immense, ogni tanto fa capolino il monte Ushba. Salendo, i fiori si arricchiscono di molti colori, azzurro, viola, giallo; grandi cespugli presentano una bella fioritura gialla.

Dopo due ore di camminata raggiungo finalmente la croce, collocata su un prato erboso a picco su Mestia. Sul lato opposto la visione delle montagne è magnifica, con i giganti di roccia e neve dominati dai due picchi del monte Ushba. Da questo lato il monte svela i due corni che lo rendono così caratteristico, una montagna piena di leggende. Sotto la croce incontro due turisti tedeschi; mentre mi faccio scattare una foto, una mucca divora gran parte del mio pranzo. Avevo mangiato solo un uovo e del formaggio, ora dovrò stare a stecchetto per il resto della passeggiata. Salvo solo un pezzo di kachapuri!

Molti escursionisti terminano la loro passeggiata alla croce ma il sentiero prosegue verso il lago Koruldi ed io decido di continuare l’ascesa. Dopo mezzora raggiungo alcune pozze d’acqua. Gli alberi sono scomparsi e cammino in mezzo a vasti prati; il silenzio è rotto solo dalle mosche e dal canto degli uccelli, anche le mucche sono scomparse; i ricoveri per gli animali sono vuoti. Cammino puntando verso l’Ushba che sembra ammonirmi; con il binocolo scruto il ghiacciaio tra i due picchi. La salita si fa più erta; sopra un cucuzzolo due mucche brucano l’erba. L’Ushba scompare dietro altre montagne; il sole è a picco ma un venticello rinfresca l’aria.

Alle due e un quarto, dopo un’ultima arrampicata, raggiungo un pianoro erboso a 2700 metri di quota. La neve in molti avvallamenti non si è ancora sciolta ma in quello più grande le acque formano un laghetto: è il lago Koruldi. Il posto è incantevole. Dietro il lago, una montagna a chiazze verdi e bianche (per la neve) si riflette nell’acqua; sulla destra una striscia lunga di picchi montuosi dalle vette aguzze. Alle mie spalle un’altra catena montuosa che chiude la valle dello Svaneti verso nord. Divoro il pezzo di kachapuri sopravissuto alla mucca e mi sdraio per un meritato riposo. Il silenzio è rotto solo dal fischiare del vento, da acque che scorrono lontane e da qualche uccello. Arrivano tre ragazzi a cavallo; non usano selle. Fanno abbeverare i cavalli e uno si lancia in acqua tra le risate degli altri. Dopo i saluti e qualche “what is your name?”, ripartono al galoppo.

Alle tre devo abbandonare questo paradiso per intraprendere la via del ritorno. Dopo un’ora proseguo dritto per la sterrata aggirando la croce. Lasciata la sterrata e imboccato il sentiero per Mestia, incappo in una brutta sorpresa. In un passaggio strettissimo, sotto una parete da cui è caduta una valanga, un gruppo di bovini blocca il passaggio. Un maschio molto nervoso cerca di montare una femmina; un altro si guarda intorno sfoggiando lunghe corna. Aspetto un po’ per vedere se si spostano, ma non ne hanno la minima intenzione. Così mi tocca tornare indietro e proseguire lungo la sterrata. Il percorso, molto più lungo, procede lungo la valle del fiume Mestia e mi porta a nord oltre l’aeroporto. Raggiunto il fiume, devo tornare indietro; alla fine arrivo in paese esausto alle sei e mezzo.

La sera, ceno di nuovo nella guesthouse, questa volta in compagnia di due belgi, anche loro affezionati visitatori del Caucaso. Per non andare a letto alle nove faccio due passi. La piazza centrale è tutta sfondata e fangosa per i lavori; il giardino al centro è sbarrato e in giro non c’è quasi nessuno. Qualche torre in lontananza è illuminata ma non ho certo voglia di raggiungerle attraversando vicoli bui.

Giovedì 30 giugno: Mestia (trekking al ghiacciaio Chalaadi)

La mattina percorro la strada intitolata a Vittorio Sella, alpinista italiano autore di magnifiche foto del Caucaso tra ottocento e novecento, raggiungendo un paio di torri e la chiesa di Lamaria. L’edificio è aperto ma la porta che dal vestibolo introduce nell’ambiente principale è sbarrata. Da fuori intravedo l’iconostasi, formata da tre archi poggiati sopra due colonne centrali con capitelli trapezoidali. Sugli archi scorgo tracce di affreschi con disegni geometrici. La cappella è piccola ma affascinante, dall’aspetto antico. Dietro le tende dell’iconostasi s’intravedono un altare in pietra e altri semplici affreschi.

Vicino alla piazza centrale, la chiesa di San Giorgio è stata rifatta nel novecento. Il semplice esterno è circondato dalle tombe di un cimitero, tra cui ci dovrebbe essere quella del celebre alpinista georgiano Khergiani, morto in un incidente sulle Dolomiti, ma non riesco a individuarla. Anche l’interno è semplice con la solita iconostasi di pietra. Il gruppo di giovani donne in preghiera mi segnala con un sorriso che indosso pantaloni corti; così esco per riattaccarmi i prolungamenti. Rientrato nell’unico ambiente coperto da una volta a botte, ascolto gli inni intonati dalle donne. Un’icona dorata raffigura San Giorgio che uccide l’imperatore Diocleziano con tanto di corona in testa, invece del solito drago. Una croce è coperta da bassorilievi sbalzati in oro con scene della passione. Il sacerdote “nascosto” pronuncia qualche preghiera, alla quale le donne rispondono con lunghi canti. Poi si apre una porticina e, mentre le donne continuano a cantare, il sacerdote esce levando in alto un vangelo con la copertina di argento che poi ripone per baciare le icone.

Passate le dieci inizio il trekking verso il ghiacciaio Chalaadi che m’impegnerà per il resto della giornata. Superato il fiume su un ponte, procedo lungo la sponda sinistra del Mestiachala percorrendo la strada asfaltata che porta all’aeroporto. Il sole picchia e apro l’ombrello per ripararmi. Dopo un’ora raggiungo un cascinale di pietra che reca il segno del sentiero e la quota, 1490 metri. La strada si trasforma in una pista mentre la valle va restringendosi, tra montagne boscose di lato e alti picchi rocciosi di fronte. Ogni tanto devo guadare qualche ruscello saltellando sui sassi. Un paio di jeep mi sorpassano, offrendomi un passaggio, ma io preferisco proseguire a piedi. Prima dell’una raggiungo la confluenza dei fiumi Chalaadi e Mestia. Le acque del Chalaadi provenienti dal ghiacciaio sono bianche, quelle del Mestia marroni. La vista si apre sul monte Chaaladi con la morena del ghiacciaio. Dopo poche decine di metri un ponte sospeso scavalca il Mestia; sotto le acque si scatenano in rapide violentissime. Il ponte risale all’epoca sovietica ed è un po’ inquietante: tutto arrugginito con una passerella sopra un tubo.

Dopo un rapido spuntino, alle due imbocco il sentiero verso il ghiacciaio. Dal ponte inizia la salita in mezzo a un bosco di abeti, avvolto in un profumo di resina. Raggiunte le acque spumeggianti del Chalaadi, in un’area di massi e alberi caduti, penserei di essermi perso se non fosse per i segni del sentiero, invece, dopo un tratto tra i sassi, ritrovo il tracciato che si allontana dal fiume attraversando un bosco di betulle. Finalmente appare il ghiacciaio che scende dalla montagna; per avvicinarmi però devo ancora percorrere una lunga pietraia, camminando in equilibrio su grandi sassi. Da sotto il ghiacciaio, quasi a quota 1900 metri, sbucano le acque del fiume. La sua mole è impressionante, anche se si vedono i segni del ritiro e il ghiaccio è sporco per i detriti che lo ricoprono. Nell’ultimo tratto mi accorgo di camminare sopra il ghiaccio che s’intravede sotto i sassi da alcune spaccature.

Ritrovo i turisti che mi avevano sorpassato con i pulmini. Non ho voglia di rifarmi la scarpinata fino a Mestia per cui chiedo se qualcuno è disposto a darmi un passaggio. Al secondo tentativo ho successo. Tre georgiani mi offrono un passaggio: un ragazzo, suo padre e un terzo che parla molto bene inglese poiché vive in America e ha sposato un’americana che lo sta aspettando al ponte. Durante la via del ritorno mi accorgo che il fiume ha sfondato un “argine” e invaso il sentiero formando un ramo secondario. Ecco spiegato il tratto del sentiero in cui mi sembrava di avere smarrito la strada. Al ponte ci aspetta la jeep che alle cinque mi lascia alla piazza centrale di Mestia.

Questa sera ceno in compagnia di un giapponese, due serbi e una coppia israeliana. Ottime le melanzane piccanti e l’agnello nel sugo speziato.

Venerdì 1 luglio: Mestia (gita a Ushguli)

La notte ha piovuto ma, come gli altri giorni, la mattina è tornato il sole. Oggi voglio visitare Ushguli, il villaggio più alto d’Europa, patrimonio dell’umanità per le sue torri. Per raggiungerlo da Mestia non ci sono trasporti pubblici e i giorni passati ho chiesto a Nino di trovare altri turisti con i quali dividere il costo della jeep. Nino però non è riuscita nell’impresa e così alla fine mi sono rivolto all’ufficio turistico che mi ha procurato una jeep al prezzo di 150 lari. Sarò da solo. Alle nove davanti alla guesthouse trovo ad attendermi Zauri con la sua Mitsubishi.

Lasciamo Mestia seguendo verso est la valle del fiume Mulkhura; in fondo il Tetnuldi, un gigante di 4974 metri, è avvolto dalle nuvole. Nel fondovalle vari gruppi di case con torri formano il villaggio di Mulakhi. Guadiamo un ruscello turbolento, procedendo su una pista sassosa ma grazie alla jeep il viaggio è più confortevole rispetto a quello da Zugdidi a Mestia, anche per l’assenza di lavori. Iniziamo a salire, attraverso un bosco di abeti profumati, fino a raggiungere un passo a quota 1900 metri, per poi scendere di nuovo nella valle dell’Inguri. In fondo alla discesa attraversiamo il villaggio di Ipari; molte case sono in rovina ma la scuola è nuova. Proseguiamo poi a fianco del fiume in una stretta valle, circondata da bassi monti boscosi. Una torre sorge isolata su una grande roccia a fianco del fiume. Il posto è incantevole, con prati fioriti. Zauri mi accompagna nella visita: entrati nella torre, saliamo fino all’ultimo piano utilizzando scale a pioli. I pavimenti sono formati da tronchi di legno; all’ultimo piano non ci sono beccatelli. Dopo le undici passiamo sotto la chiesa di Kala, collocata sopra un monte a picco sul paese; passata un’altra ora, la vallata si è trasformata in una gola con la parte bassa rocciosa e sopra gli alberi. La strada corre sotto un costone verticale.

Improvvisamente deviamo a destra in salita; il bosco cede il passo a prati erbosi. Appare Ushguli, una visione di torri nel verde dei prati! Scorgo due gruppi di torri ma dopo un po’ ne appare anche un terzo. Ci fermiamo al secondo; alcune bambine dagli occhi azzurri e i capelli chiari cercano di vendermi modellini di legno. Le torri, addossate una all’altra, formano un magnifico scenario sullo sfondo delle montagne verdi; una di esse ospita un interessante museo, con il quale mi consolo per la chiusura di quello di Mestia. Al piano terra mi colpisce una grande croce di argento con raffigurazioni di angeli, santi e Cristo in trono. Al primo piano un’icona della Vergine ha una cornice dorata tutta lavorata; una croce di legno è tutta rivestita d’oro con la raffigurazione di San Giorgio che uccide il drago. In un’icona dorata le ali dell’arcangelo Michele sono tutte lavorate con una bella resa delle piume. Un Salvatore in argento ha un testone naif; un antico calice siriano in argento reca le scene del battesimo e della natività; un grande Pantocratore ha un volto molto moderno.

Risaliti in jeep, ci dirigiamo verso la chiesa di Lamaria sopra la collina del terzo insediamento; sullo sfondo oltre una sterminata distesa di prati versi, il monte Shkara con i suoi 5068 metri è la cima più alta della Georgia. Il complesso recintato comprende una cappella in pietra chiara, una torre campanile e un’altra chiesa più grande. L’interno di quest’ultima è solo un grande spazio vuoto; in una rientranza del muro, una specie di altare, qualcuno ha lasciato una bottiglia di alcool vuota e un bicchiere. La cappella invece purtroppo è chiusa. All’esterno posso osservare la croce scolpita sotto il timpano e, nel retro, l’abside con tre lati separati da semipilastri con semplici capitelli. Dalla finestrella s’intravedono gli affreschi sulla volta.

In jeep torniamo indietro per un tratto; la guida di un gruppo di turisti parla inglese e mi aiuta a spiegare a Zauri il mio desiderio di fare una passeggiata. Raggiungo quindi a piedi la torre della regina Tamara in pietra scura, isolata su una collina. La vista è meravigliosa: davanti a me il terzo borgo di Ushguli, nel quale tra le torri si nota anche qualche casa con il tetto di lamiera, dietro la chiesa di Lamaria e sullo sfondo il monte Shkara con le sue alte vette nascoste tra le nuvole. Una lapide con la foto di quattro uomini reca una scritta per me incomprensibile ma gli anni citati, 1941-45, mi fanno pensare alla guerra. Un tavolo e delle panche sono ideali per il mio pranzo al sacco; un mazzo di carte è a disposizione in una fessura del muro. Più in alto sopra la montagna, un’altra torre, secondo la leggenda era la residenza estiva della regina Tamara. Una capra si riposa all’ombra di una torre diroccata; sotto lo strapiombo, il secondo borgo di Ushguli. I tetti sono coperti da lastre di pietra e non da volgari lamiere; le torri hanno proporzioni diverse, alcune più slanciate, altre più tozze, alcune hanno i caratteristici beccatelli, altre ne sono prive. Le case tra le torri sono quasi tutte in rovina, senza il tetto. Scendo al borgo; dal basso la torre della regina Tamara appare con le pareti curiosamente arcuate. Ritorno poi verso il terzo borgo per esplorarlo. Anche qui le torri sono in buono stato mentre le case in pietra sono ridotte male. In giro non si vede quasi nessuno. Tre ragazzi giocano a pallone; il più grande mi accompagna a visitare il museo etnografico, illustrandomi in inglese i vari oggetti. Sono quasi tutti in legno, alcuni antichi. Una porta è interamente scolpita: due uomini con la barba lunga recano rispettivamente il modellino di una chiesa e una croce. Gli oggetti esposti comprendono una culla, un telaio, una macina di pietra, una barchetta per bere il chacha, una balestra, una sedia tutta lavorata.

Sono le tre e ormai è tempo di tornare alla jeep per intraprendere il viaggio di ritorno. Dopo un’ora siamo a Khala; incrociamo un gregge nel quale un solo capo ha lunghe corna intrecciate, probabilmente è il maschio, mentre tutti gli altri hanno corna parallele. Un’altra ora e raggiungiamo Ipari, il villaggio prima della salita al passo. Sul ponte si è apposta una macchina della polizia che ci ferma. Controllano il tasso alcolico di Zauri, facendolo alitare in un moderno apparecchio. Poiché non abbiamo la cintura allacciata, ci fanno la multa, con tanto di verbale, che naturalmente devo pagare io (quaranta lari). Approfitto della sosta successiva per chiedere a Zauri se è georgiano o svan. E’ svan; infatti, è un tipo molto tranquillo e preciso, non caciarone come i georgiani. Guida con grande prudenza. Le origini di questo popolo si perdono nella notte dei tempi; sono stati individuati legami con gli antichi sumeri, anche se molti svan sono biondi. Quello che è certo è che con il nome di Soanes sono citati già da Strabone come un popolo bellicoso (Geografia, XI.II.19). La stessa leggenda di Giasone e degli argonauti alla ricerca del vello d’oro, trova la sua origine storica nel fatto che gli svan utilizzavano una pelle di pecora per filtrare l’acqua nei fiumi alla ricerca di particelle d’oro. Poco prima di Mestia ci fermiamo a una fonte lungo il fiume; l’acqua, dal forte sapore di ferro, ha lasciato un alone rosso tutto intorno. Passate le sette siamo di ritorno a Mestia.

Cena internazionale con una coppia polacca, due israeliane e un giapponese. Buono il polpettone con il sugo. Ancora una volta la tavola è stracolma di piatti: il principio è che non ci deve essere un centimetro libero!

Sabato 2 luglio: Mestia – Kutaisi

Ieri sera Nino ha organizzato il trasporto per me e il giapponese: alle quattro e mezzo del mattino il minibus per Tbilisi viene a prenderci direttamente alla guesthouse. Nonostante l’ora, si alza anche lei per prepararci una tazza di te e salutarci. Il marshrutka raggiunge poi la piazza e parcheggia in attesa degli altri passeggeri. Speriamo bene, vista l’esperienza dell’andata!

Mentre dormicchio nel minibus, ripenso alle splendide giornate trascorse nello Svaneti. La regione ha un grande potenziale turistico: i paesaggi montani sono incantevoli, i paesi con le pittoresche torri offrono visioni di un’epoca passata. Tuttavia le infrastrutture, in particolare le strade, sono ancora molto primitive e questo riduce il flusso ai più “intrepidi” (anche se ora esiste anche la possibilità di volare su Mestia direttamente da Tbilisi). I lavori di ristrutturazione fervono e nel giro di qualche anno potrebbe esserci un boom di presenze. Per ora mi sono goduto i paesaggi senza le orde dei visitatori e ciò li ha resi ancora più affascinanti.

Il minibus parte puntuale prima delle sei. Una chiesa in pietra mi appare come una visione nella pioggia; il villaggio di Lenjeri è un plotone di torri nella valle piena di nuvole. Sale un anziano con un bastone e prima di lasciare il suo paese si fa tre volte il segno della croce (o forse è per il viaggio in bus). Piove a dirotto, l’autista si ferma e suona il clacson; dalla casa esce una signora che deve prendere il bus (servizio ad personam!). E’ tutta vestita di nero con un fazzoletto in testa e una spilla con la foto del caro defunto. Poco dopo una piccola valanga ha invaso la strada e i passeggeri maschi sono chiamati a spostare un grosso macigno che blocca il passaggio. Viaggiamo in un pulmino di lusso: l’autista apre lo schermo piatto e inizia una sequenza di show comici. Lungo la strada, i cantieri non sono ancora attivi e procediamo più veloci; poi, però riprendono i lavori e le soste si sprecano. Alle otto siamo scesi a livello del fiume. Una galleria è in costruzione ma per ora si passa sospesi sopra un costone a precipizio sulle acque. Approfitto della sosta allo stesso posto dell’andata, per un saporito kachapuri ripieno di carne piccante. Quando ripartiamo, riprende a piovere a dirotto. Chissà se starà piovendo anche a Mestia; durante il mio soggiorno il tempo è stato magnifico, sono stato proprio fortunato! Raggiunta la pianura, mi rendo conto solo ora come in questa regione la popolazione sia più ricca rispetto ai montanari, con dignitose casette monofamiliari allineate lungo la strada, dietro giardini. Alle undici siamo già a Zugdidi ma, dopo una breve sosta alla fermata dei bus, ci spostiamo da un gommista; l’autista fa smontare le ruote anteriori per qualche verifica. La lunghezza di questi viaggi è determinata, oltre che dalle strade disastrate, anche dalle continue perdite di tempo! Infatti, non è finita: ci aspetta una lunga attesa, tornati alla fermata dei bus. I passeggeri si disperdono e quando viene il momento di partire il driver deve recuperarne alcuni a pranzo in una bettola. La sosta a Zugdidi è durata un’ora.

La strada per Kutaisi corre dritta attraverso una verde pianura con alcune popolose cittadine. Dopo un’ora, attraversiamo una città con un grande obelisco di bronzo decorato da bassorilievi dell’epoca sovietica (almeno così mi sembra di intravedere dal minibus). Poco prima delle due siamo a Kutaisi ma, invece di raggiungere la stazione dei bus, ci fermiamo in periferia a un’officina. Il minibus ha bisogno di una riparazione. Il turista giapponese inizia un’inutile polemica con l’autista sulle continue fermate, mentre io saluto tutti e mi faccio portare alla guesthouse da un taxi adocchiato su un viale. Tramite internet ho prenotato una camera nella “Giorgi Homestay”, sulla collina vicino alla cattedrale di Bagrati. Mi assegnano una squallida camera nel retro con brande stile ospedale. Il giorno dopo a colazione, scoprirò che le stanze al primo piano invece sono immense con alti soffitti.

Senza perdere altro tempo, raggiungo subito la cattedrale di Bagrati. Dalla collina si domina tutta la città ma la chiesa è ridotta a una rovina da quando nel seicento fu distrutta dai turchi. La cupola e il tetto non ci sono più; il campanile isolato è l’unico ambiente accessibile, pieno d’icone. Alle pareti antiche della chiesa sono state aggiunte le ricostruzioni dei portali. Le impalcature e la giornata nuvolosa non favoriscono certo il colpo d’occhio e fanno sembrare un po’ generoso il titolo di patrimonio dell’umanità concesso dall’Unesco al monumento. Nella cittadella oltre a vari muri isolati sopravvive una “mezza cappella” con le finestre tagliate a metà che creano un curioso effetto.

Sceso in città e attraversato il fiume, raggiungo la piazza centrale con il monumento equestre a David il Costruttore. Su un lato si trova il museo storico. L’esposizione inizia con fossili del paleolitico, risalenti a quasi 600 milioni di anni fa. Tra i reperti dell’età del bronzo mi colpisce una statuetta itifallica: l’uomo ha le spalle larghe, la vita sottile, le gambe corte, il fallo eretto ma dal petto spunta il seno. Il volto allungato mi ricorda l’arte delle Cicladi; si tratta di un dio della fertilità. Un bicchiere di bronzo reca la raffigurazione di un duello tra due personaggi, armati uno di scudo l’altro di balestra; risale all’epoca del regno Colchide. Una vetrina espone belle fibbie di bronzo con animali fantastici, alcuni dalle lunghe corna. Una chimera di bronzo sembra come nuova ma risale all’epoca ellenistica. Salendo al primo piano si passa al medioevo; il plastico della cattedrale di Bagrati permette di farsi un’idea dell’imponenza della chiesa che aveva tre navate, un alto tamburo e due portali di accesso. Si prosegue con la divisione della Georgia in più principati regionali nel XV secolo; seguono armi, costumi tradizionali, foto di Kutaisi nell’ottocento, il primo telefono della città (con manovella). Una sala contiene il Tesoro, la “gemma preziosa” del museo. Sono esposte icone e croci di legno, rivestite da lamine dorate o argentate lavorate a bassorilievo. S’inizia dal X secolo con oggetti dallo Svaneti, proseguendo fino all’ottocento. Purtroppo non ci sono didascalie ma s’intuisce che la successione è in ordine cronologico.

Terminata la visita, passeggio per Kutaisi. La città ha origini antichissime ed è stata la capitale del regno colchide. Oggi appare un po’ decaduta e per rivitalizzarla nei prossimi anni vi sarà trasferito il Parlamento; un grande cartello riporta il moderno edificio che dovrà ospitarlo. Il mercato coperto ha un’intera parete coperta da raffigurazioni in terracotta, legate alle tradizioni e alla storia della città. Nel vecchio quartiere ebraico visito una sinagoga ancora attiva, in compagnia di un gruppo di turisti ebrei. L’interno, tutto affrescato, reca sulla parete di fondo una raffigurazione delle tavole della legge tra due monti; a fianco due tende blu e due candelabri a cinque (!) braccia Al centro del grande ambiente si trova l’arca coperta da un arazzo colorato, mentre dal soffitto pende un lampadario a gocce che ha solo un’accecante lampadina accesa in bella vista nel mezzo.

Domenica 3 luglio: Kutaisi – Tblisi

La mattina, con il sole le rovine della cattedrale di Bagrati sono molto più piacevoli. Sceso in città, nella piazza centrale, allietata dal City Garden, mi accordo con un tassista per una gita ai monasteri di Motsameta e Gelati.

Per primo raggiungiamo il monastero di Motsameta, costruito sopra uno sperone roccioso a picco su un fiume, in mezzo a montagne coperte di boschi. Il piccolo complesso è incentrato intorno alla chiesa in pietra chiara, con il classico tamburo coperto da un tetto a punta di tegole. Davanti, la torre campanaria è isolata. La messa domenicale riempie di fedeli la piccola chiesa; riesco comunque ad intravedere il semplice interno con l’iconostasi in pietra scolpita. La chiesa risale al secolo XI ma sicuramente è stata restaurata molto più recentemente; purtroppo i bolscevichi hanno distrutto gli affreschi. Arriva un ragazzo con una gallina e insieme a una signora (la madre?) compie una serie di giri intorno alla chiesa; lei si fa il segno della croce ogni volta che passa davanti alla porta. Avevo assistito a un rito simile in Macedonia. Dalla finestrella dell’abside sbircio il sacerdote alle spalle finché sono invitato gentilmente ad andarmene. Faccio in tempo, però, a scorgere l’altare dorato con la raffigurazione dei martiri titolari della chiesa, uno nelle vesti di soldato, l’altro con la croce; si tratta dei due fratelli Davide e Costantino, che gli arabi uccisero, gettandoli dalla rupe, per non essersi convertiti all’Islam. Una donna stranamente continua a pregare stando fuori dalla chiesa, vicino alla porta; mi viene il sospetto che non si ritenga degna di entrare ma poi scopro che ha una gallina in mano. Affacciandomi scorgo il fiume che serpeggia in basso intorno allo sperone di roccia, ma la visione più bella si ha da lontano, lungo il cammino di accesso al monastero, con i tetti di tegole dei vari edifici circondati dal verde del bosco.

Un altro tratto in taxi mi porta al monastero di Gelati, giustamente considerato una delle meraviglie della Georgia. Sorge sul fianco di una collina e comprende oltre alla chiesa principale una serie di edifici minori. Arrivando colpisce subito l’abside curvilinea della chiesa, nello stile dell’Abkazia. L’esterno appare mosso per le cappelle, i tetti e i vari ambienti in cui si articola la chiesa. Raggiungo per primo l’ingresso sud del complesso, dove è sepolto David il Costruttore. La semplice lapide reca solo un’iscrizione, segno di umiltà ma anche desiderio di essere ricordato perché tutti dovevano passarci sopra per entrare nel monastero. Ironicamente io sono sgridato per averlo fatto! Le donne s’inginocchiano, toccano la lapide e si fanno il segno della croce. Di fianco, il grande portale di bronzo con iscrizioni in arabo fu preso dal figlio di David durante una campagna contro i persiani nell’attuale Azerbaijan. Davanti alla chiesa principale, la cappella di San Nicola è curiosamente sospesa sopra un quadriportico. Dietro è stato ricostruito l’edificio della scuola neoplatonica; il portico d’ingresso reca nel soffitto un bel rondone scolpito.

Finalmente entro in chiesa; è in corso una cerimonia. I bambini, in braccio a papà o mamma, sono portati davanti a tre sacerdoti che gli porgono qualcosa da mangiare con un cucchiaio di legno. I bambini poi mangiano un pezzetto di pane e bevono un sorso di vino rosso da un calice (iniziano presto da buoni georgiani a familiarizzare con il vino!). Deve trattarsi dell’equivalente della nostra Prima Comunione. Mi soffermo ad ammirare il luminoso interno: le pareti altissime esprimono un grande slancio, la cupola sembra sorgere direttamente in cielo, tanto sono alti i pilastri che la sorreggono. Affreschi coprono tutte le pareti; alcuni sono rovinati ma altri hanno colori vivi. I transetti sono poco profondi. In quello destro la Dormitio Verginis si articola in due scene: Maria prima si siede sul letto (in basso), poi si addormenta (sopra). Nel transetto sinistro si trovano gli affreschi più belli con una processione di re, tra i quali si distingue David il Costruttore con l’aureola, una corona tonda e in mano il modellino della chiesa. Due personaggi alla sua destra hanno lunghi baffi dritti, mentre una donna ha la testa coperta da un fazzoletto; tutti indossano belle vesti. Sulla parete di fianco Costantino ed Elena reggono la Croce. L’abside altissima reca un magnifico mosaico bizantino: Maria in trono con il Bambino tra due angeli. Il Bambino sembra salutare con la mano alzata mentre Maria slanciata ha il volto più umano e meno ieratico; gli angeli indossano ricche vesti. La parte bassa, andata persa, è stata sostituita da un affresco durante il comunismo. Maria è altissima accrescendo la sensazione che tutto nella chiesa punti verso il cielo.

A Kutaisi il marshrutka per Tbilisi parte all’una e mezza. L’autista corre come un indemoniato, rallentato solo dalle mucche che ogni tanto invadono la strada in ottime condizioni. Dopo un po’ la pianura comincia ad ondularsi con qualche collina. Attraversiamo la città industriale di Zestaponi, annunciata da una serie di ciminiere. Lungo la ferrovia si scorgono interminabili file di vagoni cisterna. Prendiamo a seguire un fiume tra colline boscose; bancarelle allineate sulla strada vendono ceramiche prodotte in zona. Pian piano cominciamo a salire. Ci dirigiamo verso una catena di monti, non così alti ma importanti poiché tagliano in due il paese e spesso hanno segnato un confine politico culturale, separando le regioni della Georgia proiettate rispettivamente verso Occidente e Oriente. Alle tre raggiungiamo il tunnel che attraversa la montagna, ma è chiuso per la recente alluvione. Prendiamo quindi la vecchia strada tutta tornanti che sale al passo Rikoti, quasi a mille metri di quota. Scesi sull’altro versante, tutti i passeggeri si voltano verso l’imbocco del tunnel: si vedono alcuni edifici distrutti dall’alluvione. Ho letto che qualcuno ci ha rimesso la vita; oggi invece è una bellissima giornata di sole. La natura è come una donna bizzosa che da o prende, secondo l’occasione! A Khashuri c’è il bivio per Borjomi, che dista solo una trentina di chilometri, e il confine turco. Per mancanza di tempo ho rinunciato a visitare il parco e più oltre il sito rupestre di Vardzia. Proseguiamo superando la deviazione per l’Ossezia del sud. Una stazione di servizio reca la scritta “Turk Petrol”: questa strada, infatti, è percorsa da camionisti turchi. Passiamo a nord di Gori; la strada si trasforma in un’autostrada a doppia carreggiata. La mente corre al 2008 quando i carri armati russi arrivarono fino a Gori. Alle cinque siamo a Mtseketa; alcuni passeggeri si fanno tre segni della croce appena vedono la chiesa sopra la collina. Poco dopo arriviamo a destinazione, alla stazione Didube di Tblisi.

La sera, dopo quattro anni sono seduto di nuovo sotto la statua di Rustaveli; quattro anni non sono nulla per le pietra di una città, se non interviene la mano dell’uomo. Qualcosa è cambiato a Tbilisi. La stazione Didube è molto più ordinata, nella metro gli “antichi” gettoni sono stati sostituiti da una scheda ricaricabile, in Piazza della Libertà c’è persino un ufficio turistico.

La passeggiata che mi ha portato fin qui da Avlabari, sono alloggiato di nuovo nella “Georgian House”, mi ha riproposto sul calar della sera i monumenti di una città che nel centro appare sempre più proiettata verso l’Europa. Una differenza abissale con Batumi, tutta un cantiere, e Kutaisi, molto provinciale. Il sole calante sembrava cercare tutte le punte degli edifici: cupole, statue, campanili, stelle comuniste erano accese dai suoi ultimi raggi.

Il ragazzo seduto al mio fianco sotto la statua ha un portatile con il quale ascolta la musica e naviga su Facebook. Fa sentire di un’altra epoca anche il McDonald sulla piazza, oltre alla stella comunista dell’accademia delle scienze che è ancora al suo posto. Proseguendo nel tour nostalgico, torno al ristorante “Sherekilebi” ordinando il chanaki, agnello al sugo con patate e melanzane, cotto in un vaso di terracotta, che accompagno con un bicchiere di vino bianco di Tsinidali, preparandomi al soggiorno di domani nella regione vinicola del Kakheti. L’arredo del locale a tema cinematografico non è cambiato. Anche questa volta è semivuoto; sono le nove, forse è un posto per nottambuli. La cena è squisita. Quando esco, è notte; la torre della TV e la ruota sopra la collina sono tutte illuminate, anche l’accademia delle scienze, per effetto delle luci, sembra meno retorica.

Lunedì 4 luglio: Tblisi – Telavi

Ancora una volta sono arrivato troppo presto: alle sei nella stazione Ortachala non c’è quasi nessuno. I bus per l’Armenia e la Turchia partono dalle banchine, i marshrutka all’esterno ma tutto è ancora fermo. Nell’attesa faccio colazione a un ristorante turco.

Il marshrutka per Telavi parte puntuale alle sette e mezzo, come aveva dichiarato l’autista, nonostante siamo solo quattro passeggeri. Usciamo da Tbilisi puntando verso est, lungo la strada per l’aeroporto. Dopo qualche decina di chilometri siamo già nel Kakheti, la regione vinicola della Georgia. Superata la deviazione per David Gareja, la strada prosegue dritta circondata da colline. Nella piana, vaste distese di vigneti. Il minibus si è riempito e molta gente rimane per strada, senza poter salire. A Bakurtsikhe la strada prosegue per Lagodekhi e il confine azero ma noi pieghiamo verso nord ovest, in direzione di Telavi. Poco prima attraversiamo Tsinandali, dove sorge un’antica azienda vinicola. Nell’ottocento i lesghi, provenienti dalle montagne del Dagestan, saccheggiarono la tenuta della nobile famiglia Chavchavadze, rapendo donne e bambini.

Quando giungiamo a destinazione a Telavi non sono ancora le dieci. Alla “Tushishivili Guesthouse”, l’efficiente e cordiale padrona di casa parla un ottimo inglese. La casa ha un bel giardino; sono sistemato in una camera vuota, dove sarà portato un letto. La signora promette anche di organizzarmi il trasporto verso il Tusheti per domani. L’attrattiva di Telavi è la cittadella ma oggi è lunedì ed è chiusa. Dopo un’occhiata alla grande statua equestre di Irakli II che regge uno spadone per la lama e indossa un fez, devo quindi limitarmi alle mura esterne. In basso la vista spazia sull’ampia valle dell’Alazani, chiusa da montagne avvolte nella foschia per il caldo. Il regno del Kakheti fu a lungo sotto la minaccia dei persiani ma il re sembra volerlo proteggere dai pericolosi montanari, ceceni e lesghi, che potevano calare di lassù.

Dopo una puntata al mercato, raggiungo con un marshrutka la cattedrale di Alaverdi. In mezzo al nulla, nella piana infuocata, sorge una chiesa, la più alta della Georgia fino alla costruzione della nuova cattedrale a Tbilisi. Attraversata la torre d’ingresso al complesso circondato da mura, mi trovo davanti alla chiesa di San Giorgio, imponente per l’altissimo tamburo della cupola. E’ costruita con un candido tufo, anche se alcune riparazioni sono state fatte utilizzando mattoni. Il colpo d’occhio è magnifico; gli uccelli accompagnano la mia visita con un vero concerto. L’ingresso della chiesa è preceduto da un portico; sopra la porta un affresco raffigura San Giorgio che uccide il drago. L’interno è affascinante per la sua nudità, con la pietra grezza che è rispuntata fuori in vari punti. Le finestre strette e lunghe del tamburo riescono a dare luminosità a tutto l’ambiente. Gli affreschi furono coperti dai russi nell’ottocento ma sono stati in parte recuperati (i più antichi risalgono al secolo XI). Nell’abside una grande Madonna con Bambino ha tratti rinascimentali. La chiesa deve averne passate tante: nella navata centrale, che culmina in una volta a botte, su un lato il matroneo è stato sostituito da un muro di mattoni. Mi colpisce il contrasto tra le basse colonne della navata e i pilastri altissimi del transetto che sorreggono la cupola a un’altezza incredibile. Uscito all’esterno, mentre scatto qualche foto arriva il marshrutka che riesco a prendere al volo. Il Kakheti è una regione agricola e queste corriere tra i paesi mi danno l’occasione per osservare la campagna, coltivata a vite, mais e girasoli. Mi viene in mente il mio giro attraverso i paesi della penisola Apsheron in Azerbaijan, in un paesaggio desertico e polveroso; oggi mi trovo sempre nel Caucaso ma il miracolo dell’acqua ha trasformato il deserto in una fertile vallata!

Per visitare il monastero di Ikalto, sceso dal marshrutka, mi tocca una scarpinata di due chilometri sotto il sole. Il piccolo complesso recintato è incantevole per gli edifici, restaurati lo scorso anno, in mezzo a cipressi. La chiesa principale in pietra e mattoni, questa volta rossastri, è dedicata alla Trasfigurazione ed è la più antica nel Kakheti dotata di cupola. Il tamburo presenta decorazioni in mattoni, tra cui tempietti con due colonne che reggono un timpano. Sopra il portico d’ingresso sorge un piccolo campanile, aggiunto nell’ottocento. L’interno è stato imbiancato dai russi; di antico rimane solo la tomba di San Zenone, monaco siriano. Le profonde crepe appaiono preoccupanti agli occhi del profano. Nel complesso si trovano altre due cappelle e le rovine dell’accademia, dove studiò Rustaveli, distrutta nel seicento dallo scià Abbas.

Tornato a Telavi, per raggiungere Shuamta ricorro a un taxi. Le tre chiese di Dzveli (Vecchia) Shuamta, addossate una all’altra in mezzo al bosco, in qualche modo mi danno la sensazione di tre templi di Angkor nella foresta. La prima ha tre navate con volte a botte ma l’interno imbiancato, con le mura sporche di cera, dice poco. Le candele devono essere state messe sopra ogni ripiano per aver ridotto in questo stato le pareti. Appena uscito con un paio di passi entro nella seconda chiesa, a croce greca dalle braccia cortissime e quattro absidi; l’ambiente è più interessante per le pareti in pietra rozza. Al centro la cupola su un basso tamburo circolare. La terza chiesa, più recente, ripete in piccolo le forme della seconda. Terminata la visita, torniamo indietro per qualche chilometro, raggiungendo Akhali (Nuovo) Shuamta, dove da qualche anno sono tornate le monache. La chiesa in mattoni ha un tamburo così alto da sembrare un silos. All’interno una monaca tutta vestita di nero sta pregando. Nella chiesa sono sopravissuti alcuni frammenti di affreschi cinquecenteschi; in un angolo, la monaca mi segnala la raffigurazione del re Levan del Kakheti, con la regina Tinatin e il loro figlio Alessandro. Tinatin si fece monaca ed è sepolta in questa chiesa.

Tornato a Telavi, mi riposo nell’amaca appesa nel giardino della guesthouse, ombreggiato da un pergolato d’uva. La sera ceno alle sei, in compagnia di un gruppo di polacchi che partecipa a un tour organizzato. Finalmente assaggio i tipici khinkhali, ravioli ripieni di carne, oltre alla zuppa di matsoni e a una profusione di verdure.

Martedì 5 luglio: Telavi – Omalo

La sera David, che parla un ottimo inglese, ha organizzato il mio passaggio per Omalo nel Tusheti. Mi unirò a una jeep con altri passeggeri, pagando cinquanta lari. La mattina mi accompagna verso Alvani, dove i montanari tushi si trasferiscono durante l’inverno, nella valle del Kakheti. La jeep mi aspetta davanti alla cattedrale di Alaverdi. Sono le sette, a bordo c’è una famiglia: nonno, ragazzo e mamma che tiene in braccio un piccolino. Per rompere il ghiaccio, mostro una foto di Fabio, il mio pupo, e sono tutti contenti. Poi porgo al piccolo una torcia, con la quale si diverte a giocare. In pianura ci fermiamo in un paese per raccogliere un altro passeggero. Partiamo poi verso montagne coperte di boschi, sorpassando due ciclisti carichi di borse. La strada diventa sterrata; ci infiliamo nella stretta vallata di un fiume. Arnie per le api sono collocate su rimorchi di camion. La strada è stata costruita nel 1978: il percorso in tutto è di soli settantadue chilometri ma dobbiamo scalare il passo più alto della Georgia. Lungo il tragitto ci accompagnano tralicci elettrici senza fili: durante il comunismo la linea elettrica era stata portata nel Tusheti ma è durata poco. La gola si fa stretta, giusto lo spazio per il fiume e la strada; i boschi diventano fittissimi. Continuiamo a salire; la strada è tagliata nella roccia. Il fiume in basso scompare tra la vegetazione e quando riappare è diventato un torrente burrascoso che scorre tra le rocce. Passiamo tra i due salti di una cascata; subito dopo uno scroscio d’acqua forma una sorta di autolavaggio naturale. Il bosco si dirada e comincia a comparire la roccia. Sullo sfondo monti erbosi, ancora più dietro rocciosi; la vista si apre e il driver m’indica la strada più in alto che risale verso il passo. Si fa chiamare Leo ed ha vissuto quattro anni in Spagna; riesco quindi a comunicare con lui in spagnolo. Mentre il bimbo beve Coca Cola, alle nove iniziamo la scalata verso il passo; i boschi lasciano il posto a prati verdi. In un angolo riparato, la neve non si è ancora sciolta. Più avanti un ruscello ha scavato un arco in un blocco di ghiaccio; fiori violetti spuntano dalle rocce. Incrociamo un camion di soldati; il confine con la Cecenia è vicino. Finalmente raggiungiamo il passo Abano, a quota 2926 metri. Sull’altro versante la strada serpeggia scendendo verso una gola; il verde dei prati è interrotto dalle macchie bianche della neve. Un tornante è circondato da muri di neve alti due metri. Deve essere stato un grande lavoro installare i tralicci metallici della linea elettrica; oggi senza fili, simboleggiano la vittoria della natura sulla “civiltà” dell’uomo. La strada prende a seguire un torrente; le sue acque finiranno nel mar Caspio non più nel mar Nero. Questo lato sembra più soggetto a frane; il fiume in certi tratti scorre sotto il ghiaccio. Superata la stazione dei ranger, alla confluenza di due torrenti la gola si allarga e addolcisce con prati. Alle dieci e mezzo raggiungiamo un paese formato da due gruppi di case: Chala, in basso sul fiume, e Khiso, in alto. Improvvisamente lasciamo il fiume, salendo con decisione; raggiunta una grande conca erbosa compare Omalo; siamo arrivati! Sopra una collina si vede in lontananza un gruppo di torri. A Kvemo Omalo, la parte bassa di Omalo, lasciamo la famiglia alla casa vicino alla caserma e l’altro passeggero poco oltre. Saliamo poi su una collina e, superata la centrale elettrica, raggiungiamo la “Keselo Guesthouse”, un piacevole edificio con parti di legno. Sono le undici.

Il pomeriggio una passeggiata in salita a duemila metri mi porta a Zemo (Alta) Omalo, una manciata di case sotto uno sperone roccioso con sette torri che formano la fortezza di Keselo. Il loro aspetto è antico, in pietra scura con tetti poco spioventi e senza i beccatelli dello Svaneti. I pannelli solari della guesthouse servono per il confort degli ospiti ma le case del villaggio sono ancora in pietra, anzi in lastre di pietra, coperte da tetti con lastre disposte sopra teli; alcune recano verande di legno. Mi arrampico sullo sperone raggiungendo le torri. La prima è “panciuta” con un “balconcino senza pavimento” su due lati e strette feritoie verso il villaggio. Si trova isolata rispetto alle altre, collocate direttamente sulla roccia. Sopra il tetto alcuni sassi più grandi sono stati disposti per non far volare via le “rustiche tegole”. L’accesso avviene tramite una porticina raggiunta da qualche gradino. Dietro, un baratro profondo e una gola boscosa, lontano una manciata di case in mezzo a un prato. Le montagne intorno sono più gentili rispetto allo Svaneti, senza picchi aguzzi; il verde dei boschi e dei prati è l’elemento dominante. Solo qualche monte più alto mostra neve e roccia. Raggiungo la cima; vi sorge una specie di fortezza con altre due torri. Una è stata restaurata grazie a finanziamenti olandesi e ospita un piccolo museo ma è chiusa e non ho certo voglia di tornare giù in paese a chiedere la chiave. Una bandiera georgiana, strappata dal vento, sventola sullo sfondo delle montagne e il colpo d’occhio verso il paese è fantastico, con le torri più in basso che da questa prospettiva mostrano le “squame” dei loro tetti. Più in basso in un prato è all’opera una squadra di operai con strani apparecchi e visiere di plastica; sembrano sminatori! Piantano paletti e sondano il terreno; forse non sono sminatori ma cercano qualcosa! Inatteso giunge un ragazzo che apre il museo; ne approfitto per visitarlo, anche se mi spilla cinque lari. Il primo piano presenta la ricostruzione dell’ambiente nel quale si svolgeva la vita di una famiglia. Il soffitto è basso e molti oggetti sono appesi; al centro il focolare. Al secondo piano sono esposte foto, una croce con stelle e puntali; in assenza di spiegazioni in inglese, mi è difficile comprendere i cartelli che recano figurine stilizzate di uomini e cavalli. Terminata la visita, il ragazzo richiude tutto e prima di andarsene strappa la bandiera della Georgia e la porta via! Mi fermo ad ammirare il panorama. Dall’alto la verde conca di Omalo appare il centro del Tusheti: in essa confluiscono dalle varie direzioni i profondi solchi delle vallate scavate dai fiumi, tra montagne coperte di boschi. Cerco di orientarmi con una mappa; a nord dietro i monti c’è la Cecenia.

La sera, dopo una lunga passeggiata attraverso la conca di Omalo bassa, mi rilasso nell’amaca della guesthouse. Dal giardino si dominano il villaggio e la ridente conca con le montagne boscose intorno. In paese s’intravede qualche segno di modernità: pannelli solari, parabole, acqua diretta nella guesthouse (che sfrutto per il bucato), ma siamo lontani anni luce da Mestia nello Svaneti. Lì tutto era un cantiere; l’impressione era di trovarsi in una cittadina mentre Omalo non è che un villaggio di campagna, dove la gente torna solo l’estate. La strada d’accesso, percorsa in jeep, non è poi così male; molto meglio di quella per Mestia con le ruspe al lavoro. Nel Tusheti si ha la sensazione di cosa sia la vita in campagna anche se poi ad Omalo la vita non è così “primitiva” come viene descritta nelle guide. Anche qui in una regione sperduta continuo a comunicare con il resto del mondo tramite il cellulare. Nel XXI secolo la vita solitaria sta scomparendo ma ciò può rappresentare uno stimolo per tornare a popolare posti come il Tusheti, senza sentirsi troppo isolati. La pista per gli elicotteri, il cellulare, i pannelli solari, in questo caso sono apprezzati elementi di modernità al servizio di una vita nella natura.

Faccio conoscenza con la famiglia che gestisce la guesthouse: in particolare con Nino, la padrona casa, da poco nonna di un bel bambino di tre mesi. Anche questa volta le mie foto di Fabio e Stefania riscuotono successo. Nino mi mostra il libro degli ospiti; i messaggi iniziano dal 2001 e sono scritti nelle lingue di tutto il mondo, inclusi ideogrammi orientali. Negli anni passati non sono mancati gli ospiti italiani.

Mercoledì 6 luglio: Omalo (trekking a Shenako e Diklo)

La mattina il silenzio è totale anche per l’assenza di animali nella guesthouse. La notte ha piovuto e la mattina il cielo è coperto, con le nuvole bloccate nelle valli; il tempo però va migliorando. Oggi ho in programma un trekking attraverso alcuni villaggi più vicini ad Omalo. Prima delle nove lascio la guesthouse alla volta di Shenako. L’inizio del sentiero si trova vicino alla stazione della funicolare che i sovietici non completarono mai. Dopo un centinaio di metri sbuco nella sterrata per le jeep, ma questa per raggiungere Shenako guada un fiume che non è passabile a piedi. Dopo un tratto in discesa ritrovo, infatti, il sentiero che s’infila in un bosco di abeti. Molti alberi sono caduti e sbarrano il passaggio costringendomi ad acrobatiche deviazioni. Rischio di perdere la strada ma alla fine ritrovo il sentiero sgombero e proseguo la discesa. Finalmente raggiungo il ponte sospeso in legno che scavalca il fiume, costruito nel 1965. Sembra solido, anche se qualche asse non è più al suo posto e sotto si vedono le acque; per approdare all’altra sponda devo fare un salto. Il fiume scorre con le sue acque limacciose tra pareti di roccia coperte da alberi. Nel frattempo è spuntato il sole. Salendo sull’altro versante perdo il sentiero e mi ritrovo davanti a un tratto molto scosceso. Devo così tornare indietro fino al ponte; mi guardo intorno senza scorgere altri percorsi per cui riprendo lo stesso procedendo lentamente per non perdere la via. Un albero caduto mi ha ingannato: superato il tronco, il sentiero prosegue salendo dolcemente in mezzo al bosco, fino a sbucare in una sterrata. Dopo un po’ la vista si apre sulla conca di Omalo: un elicottero sta levandosi in volo vicino alla caserma, la stazione della funivia abbandonata è di fronte a me, più lontana scorgo la guesthouse sopra la collinetta, più bassa rispetto a dove mi trovo. A destra fanno capolino le due torri più alte di Zemo Omalo. Ripresa la marcia e aggirata una collina, improvvisamente appare Shenako. Il villaggio è formato da belle case in pietra, con verande di legno dalle balconate lavorate. Il piccolo museo è chiuso ma posso ammirarne il tetto: sopra una travatura di legno è collocato un telo impermeabile sul quale sono poste le pietre piatte, fermate da sassi. Nel punto più alto del paese sorge una chiesetta del XVI secolo, tutta in pietra, con la classica struttura ortodossa e tre portici. In mezzo il tamburo ottagonale, dietro sporge l’abside anch’essa ottagonale. Per entrare sciolgo il laccio con cui è bloccata la porta; il semplice interno con cupola, imbiancato a calce, riporta alle atmosfere della Grecia. A poche decine di metri si trova un khati, testimonianza che gli antichi riti animisti non sono stati cancellati dal cristianesimo. Si tratta di un altare formato da piatte pietre scure. Sopra sono collocate rocce bianche; intorno, corna e teschi di capre e arieti. Nella rientranza che funge da tabernacolo, è posta una grossa pietra bianca coperta dalla cera delle candele. Si tratta di un altare “maschile”, al quale le donne non possono avvicinarsi. Sicuramente Shenako è il più bello tra i villaggi che ho visitato, grazie alle sue case pittoresche che tuttavia in molti casi sembrano abbandonate o quanto meno disabitate. Consumato un frugale pasto all’ombra della chiesa, raggiungo le rovine del villaggio abbandonato di Agiurta, a picco su un fiume. La torre è crollata; in piedi rimangono solo alcuni resti delle mura. Tornando indietro, su consiglio di un locale, aggiro Shenako per prendere direttamente la sterrata verso Diklo, raggiunta la quale, sono sorpassato da un gruppo di turisti a cavallo. Un elicottero volteggia per controllare la presenza di eventuali ceceni infiltrati in Georgia. Sono le due del pomeriggio e il sole picchia forte; i cavalli deviano sulla destra seguendo un sentiero attraverso il bosco ma io non ne ho il tempo. Proseguo quindi sulla sterrata; davanti a me una ridente valletta con un ruscello. Quando arrivo a Diklo, la vallata si è ampliata. Due elicotteri militari sono parcheggiati davanti al paese, formato anche in questo caso da belle case in pietra scura con verande di legno. Il fondo al paese un sentiero prosegue fino alle rovine del vecchio villaggio, dove nel XIX secolo sedici eroi resistettero a diecimila invasori per diciotto giorni; uno di loro uccise la moglie e la sorella per non farle cadere in mano nemica (così recita il cartello turistico che mi segnala un’anziana signora). Le rovine si trovano in una posizione scenografica sopra un precipizio. Il percorso per raggiungerle si dipana lungo i fianchi di alcune colline, scavalcando una serie di ruscelli. Un turista tedesco, ospitato nella guesthouse, mi ha segnalato la presenza di aggressivi cani pastore, confermando quanto riportato nella guida “Walking in the Caucasus” datata 2008, sostenendo però che non c’è pericolo. In lontananza intravedo una “fattoria” e immagino che i cani siano quelli che sorvegliano i suoi animali. Dopo averla superata indenne, penso di avercela fatta, quando, percorso un bel tratto, sento abbaiare in lontananza. Non mi preoccupo perché mi sto allontanando, invece i latrati si fanno sempre più forti, si stanno avvicinando. Facendo mente locale ai consigli letti prima della partenza, mi ricordo che i cani pastore sono animali territoriali; intanto mi preparo a brandire l’ombrello in assenza di un bastone. I cani mi raggiungono ma riesco a mantenere il sangue freddo, in fondo continuo a pensare che mi sto allontanando dalla loro casa. Con l’ombrello, senza voltarmi, cerco di tenerli a bada; sono in due. Continuo a camminare con passo deciso ma mi seguono a pochi centimetri abbaiandomi addosso, finché a un certo punto si fermano. Sono salvo! Ancora un tratto e raggiungo la fortezza, a quota 2200 metri, un ammasso di rovine a precipizio sulla gola. Il panorama è bello, il Dagestan si trova appena dietro le montagne ma il pensiero dei cani mi assilla. Non me la sento di tornare indietro per la stessa strada, puntando verso il loro territorio. La guida “Walking in the Caucasus” segnala un percorso alternativo: scendere fino al torrente in basso e risalire a Diklo. Non ho assolutamente voglia di ripetere l’esperienza con i cani, pertanto scelgo la strada alternativa, anche perché il paese è ben visibile sull’altro versante. Nel primo tratto scendo il crinale cercando di evitare le parti più ripide, finché dopo un po’ incrocio un vero sentiero. Arrivato al ruscello, lo scavalco ma poi mi tocca la faticosa risalita; almeno, passando dietro una collina, sbuco direttamente alla pista degli elicotteri risparmiando un tratto di strada. Sono le quattro e mezzo e devo sbrigarmi perché il percorso di ritorno è ancora lungo. La strada verso Shenako per fortuna è tutta in discesa, salvo il tratto finale per entrare in paese. Ancora una ventina di minuti e sono già all’imboccatura del sentiero per Omalo; la discesa fila tranquilla, conosco la strada. Attraversato il ponte, l’ascesa è faticosa ma spedita fino al tratto invaso dagli alberi caduti. Anche questa volta mi tocca fare una serie di acrobazie ma alla fine raggiungo la sterrata. Quando arrivo alla guesthouse, sono le sette di sera e Nino mi guarda con l’aria interrogativa di chi si chiede che fine avessi fatto! Il trekking è stato bello, movimentato da qualche imprevisto, ma alla fine tutto è andato bene. Se avessi conosciuto prima la reazione dei cani, mai e poi mai sarei andato alla fortezza!

A cena siedo in compagnia del marito di Nino e altri tre georgiani. Il vino è molto importante per questo popolo e così riempiono sempre il mio bicchiere, invitandomi a vari brindisi. L’invenzione del vino sarebbe avvenuta proprio in Georgia e la parola stessa ha origini georgiane. Più tardi la famiglia georgiana ospite delle guesthouse organizza una cena davanti al fuoco. Il ragazzo tedesco ha sposato una georgiana del Tusheti, emigrata nel suo paese, ed ora è qui in vacanza. M’invita a sedermi al suo fianco e conversiamo in inglese. Mi spiega che in Germania c’è una discreta comunità georgiana; ho già cenato ma non posso certo rifiutare qualche bicchiere di vino che mi offre il suocero del tedesco, professore universitario a Telavi.

Giovedì 7 luglio: Omalo – Tblisi

La mattina faccio colazione con un kothori, il “kachapuri del Tusheti”, fritto con il burro e ripieno di formaggio. Oggi ho in programma di lasciare il Tusheti ma l’idea di partire presto svanisce; mi spiegano che le jeep durante la giornata compiono un percorso di andata e ritorno da Alvani e così devo aspettare il loro arrivo, non prima delle undici/mezzogiorno. Leo aveva risposto “Ok” quando gli avevo espresso il desiderio di partire alle sette ma probabilmente c’è stata un’incomprensione con lo spagnolo! Dopo varie false segnalazioni, si presenta alle dieci e mezzo; sembra quindi che non partirò così tardi. La jeep è piena di altri passeggeri; salutata Nino e la sua famiglia, partiamo nella direzione opposta ad Alvani. Leo deve accompagnare i passeggeri da qualche parte ma non immagino cosa mi aspetta! Il ragazzo seduto al mio fianco ha gli occhi chiari e una macchinetta fotografica digitale. Ci infiliamo in una valle di boschi e prati; dopo mezzora siamo a Bochorma, una manciata di case sorvegliate da una torre. In lontananza le torri di Omalo Alto appollaiate sulla roccia. In cielo volteggiano aquile marroni con una striscia bianca sulle ali. Lungo la strada incrociamo tre asini, i primi che vedo nel Tusheti. Ci fermiamo a una misera capanna nel nulla, scaricando una grossa tanica di latta per i suoi occupanti. Superato un altro paese con torre, scendiamo verso il fiume diventato ampio e, dopo averlo guadato, raggiungiamo un vero angolo di paradiso: i tre villaggi gemelli di Jvaraboseli, Alisgori e Verkovani, ciascuno con la sua torre, formano un quadretto pittoresco. E’ mezzogiorno e siamo arrivati a destinazione: alcuni ragazzi ci vengono incontro a cavallo. Ci fermiamo davanti a una casa con pannelli solari che reca un cartello con la scritta “hotel”. La famiglia ha traslocato in montagna per l’estate e deve scaricare una grande quantità di bagagli, inclusa una bombola del gas. Tutti hanno gli occhi chiari. E’ tempo di tornare indietro; sono rimasto da solo con Leo. Durante il percorso di ritorno la jeep ha qualche problema; Leo apre il cofano, toglie il tappo del radiatore e ne esce un getto di acqua bollente. Rabboccata l’acqua, ripartiamo ma raggiunta la capanna dei pastori ci fermiamo di nuovo per aggiungere altra acqua, prendendola da una cascata. Speriamo bene! Sale un passeggero. All’una e mezzo siamo di nuovo ad Omalo; sono passate tre ore dalla partenza ma la gita imprevista è stata molto gradita! Ripassiamo dalla guesthouse e, visto che è l’ora di pranzo, devo cedere all’invito di mangiare qualcosa, in realtà un pretesto per qualche brindisi! I tushi sono veramente ospitali; anche questa volta seduti a tavola siamo solo uomini mentre le donne stanno in piedi nella stanza, pronte a servirci.

Dopo un’altra serie di saluti, alle due partiamo veramente per il viaggio di ritorno verso la pianura. Passata un’ora, attacchiamo la salita verso il passo; in alcuni tratti il torrente è ricoperto da lastroni di ghiaccio. Il paesaggio alterna roccia, sassi, erba e neve. Al passo in un attimo cambiamo lato, lasciando il Tusheti e vedendo comparire la vallata del Kakheti. Nel primo tratto la discesa mozzafiato mette paura, specie quando il precipizio è dal mio lato. Durante il tragitto Leo chiacchiera tutto il tempo con un passeggero senza mai fermarsi! Chissà cosa avranno da raccontarsi così a lungo? Incrociamo un gregge molto numeroso; i pastori stanno portando le pecore in montagna per l’estate. Arrivati ad Alvani, Leo scarica gli altri passeggeri. L’origine di questo paese è legata a una leggenda. I tushi erano valorosi guerrieri. Molti di loro combatterono a fianco di Irakli II, re del Kakheti, contro i persiani. Dopo la vittoria in battaglia, chiesero come ricompensa una terra fertile, dove potersi stabilire. Il re acconsentì a concedere il terreno che Zezva Gaprindauli, il loro eroe, avrebbe coperto cavalcando senza fermarsi. Zezva cavalcò finché il suo cavallo cadde morto. Il re concesse ai tushi la piccola regione dove oggi sorgono i paesi di Kvemo Alvani e Zemo Alvani.

Leo mi accompagna fino a Telavi. Sono le sei e mezzo e non ci sono più marshrutka per Tbilisi ma mi procura uno shared taxi. E’ veramente solerte e gentile. Lo saluto con affetto, augurandogli “buena suerte!”. In taxi viaggio in compagnia di altri due georgiani; prima di partire comprano una birra e un gelato anche per me. Anziché seguire la strada dell’andata, tagliamo per un passo accorciando notevolmente il percorso verso la capitale. In salita ogni tanto la macchina si spegne e il radiatore entra in crisi ma ormai ci sono abituato! I due passeggeri, scolate le birre, buttano le bottiglie di vetro dai finestrini, rimanendo interdetti perché io non finisco la mia. Poco dopo le otto siamo già a Tbilisi; questa volta la “Georgian House” è al completo e devo ripiegare sull’”Hotel Lile”, meno piacevole ma sempre nei paraggi.

Venerdì 8 luglio: Tblisi – Kazbegi (trekking al ghiacciaio Gergeti)

La mattina raggiungo in metro la stazione Didube; i marshrutka sono parcheggiati in un grande piazzale. Partiamo alle nove prendendo la strada per Kutaisi ma superata Mtseka pieghiamo a nord, viaggiando tra colline boscose. Dopo mezzora dalla partenza raggiungiamo la diga di Zhinvali che forma un vasto lago artificiale; la fortezza di Ananauri con le due chiese ha rischiato di essere sommerse dalle acque. Risalendo la valle dell’Aragvi, superiamo la stazione climatica di Pasanauri. Lungo il percorso si scorgono varie torri di avvistamento. La valle ancora ampia è racchiusa da monti erbosi, la strada è in buone condizioni. Alle dieci la valle comincia a stringersi e la salita si fa più decisa; le montagne sono coperte di prati. Compare in lontananza una bella montagna di roccia rossa. Superati i duemila metri, attraversiamo Gudauri, con il tipico aspetto di una stazione sciistica: gli alberghi dai tetti spioventi sono sparsi tra i prati. Il fiume in basso è lontanissimo; la montagna rossa si è avvicinata. Una piattaforma panoramica in cemento reca colorati murali sovietici. La strada è diventata sterrata, quando scolliniamo al passo delle Croce a quota 2379, il punto più alto del percorso. Proseguiamo in piano tra prati erbosi per poi prendere a seguire un torrente: è il Tergi, il Terek che attraversa il Caucaso russo, legato a tante storie di battaglie tra cosacchi e montanari. La valle si allarga tra monti erbosi, raggiungendo il primo paese. La strada torna asfaltata, compare per un attimo il monte Kazbeg, coperto di neve. Il suo picco, alto più di 5000 metri, oggi avvolto dalle nuvole, è riportato sull’omonima birra. Il villaggio di Sioni è dominato da una torre e una chiesa, sopra uno sperone di roccia. La torre assomiglia a un pedone degli scacchi.

A Kazbegi mi sistemo nella “Nunu Guesthouse”, dribblando le offerte delle signore che attendono l’arrivo del marshrutka da Tbilisi. La padrona di casa ha riempito di letti il salotto e ogni stanza. Dalla veranda si gode la spettacolare vista sulla chiesa della Trinità, appollaiata sopra la verde montagna che domina il paese, con lo sfondo del monte Kazbeg. L’altezza della chiesa sopra il paese è impressionante. Fatta una scorta di kachapuri, per risparmiare tempo prendo un taxi fino alla chiesa. Mi aggancia Vassili; aprendo un quaderno con frasi in tutte le lingue mi mostra una pagina che decanta in italiano la sua guesthouse. Gli spiego che sono già alloggiato da Nunu; allora mi mostra le tariffe di tutte le possibili escursioni nei dintorni. Il percorso di andata e ritorno alla chiesa costa sessanta lari. Alla fine mi accordo per la metà poiché per ora non sono interessato al ritorno. La strada è tremenda, la peggiore del viaggio; ciò nonostante Vassilli corre come un indemoniato superando con la sua piccola Lada persino le jeep. Gli escursionisti arrancano per la ripida salita, percorrendo il sentiero che taglia i tornanti. Vassili mi lascia in un vasto pianoro erboso che precipita su un lato verso il paese; proprio qui i georgiani hanno collocato scenograficamente la Tsaminda Sameba, mentre sul lato opposto incombe la mole del monte Kazbeg. Accedo al recinto della chiesa attraverso la torre, un cubo sormontato da una loggia con tetto a punta. Tutto è in pietra. La chiesa ha la classica struttura georgiana con la parete di fondo piatta. Alcuni rosoni in pietra presentano fitti intrecci geometrici. L’interno è semplice con la pietra nuda e la cupola in mattoni. L’iconostasi in pietra ha tre pinnacoli; in un’icona, ricoperta di argento, la Madonna e il Bambino hanno la pelle scura.

Dal lato opposto del pianoro, dove sbuca la strada, inizia il sentiero verso il ghiacciaio Gergeti, alle pendici del monte Kazbeg. All’una e mezzo sono pronto per iniziare l’ultimo trekking del viaggio. La quota di partenza è 2200 metri. Esistono due percorsi alternativi, uno che segue in alto il crinale, uno più riparato in basso; cerco di seguire il primo, più consigliato. A un bivio prendo quindi la traccia che punta in alto. Raggiunta la cima del crinale, riappare il monte Kazbeg; davanti a me sterminate distese erbose. Gli uccelli cinguettano e soffia un vento leggero. La punta del monte è sempre nascosta da qualche nuvoletta di passaggio; la roccia scura e la candida neve formano un bel contrasto. La chiesa della Trinità appare lontana. Alle tre ho raggiunto quota 2700 metri; senza volerlo sono confluito nel sentiero più basso che risale un canalone. Incontro vari escursionisti, spesso carichi di pesanti zaini; la chiesa è sempre più lontana. Arrivato in cima al canalone d’improvviso riappare il monte Kazbeg. Superata una pietraia, un’ultima ascesa mi porta a destinazione alle tre e mezzo (quasi a tremila metri di quota). Un salotsave, un altare di pietra sormontato da una croce, segnala l’incrocio con il sentiero più alto (che comunque non percorre nessuno!). Il Kazbeg conferma nel suo aspetto di essere un antico vulcano ed è un vero gigante. Un celebre mito greco racconta che Prometeo, dopo aver donato agli uomini il fuoco rubato nell’Olimpo, vi fu incatenato per punizione da Zeus: un’aquila gli divorava il fegato che la notte gli ricresceva. Le nuvole sembrano il fumo prodotto da un’eruzione, ma ogni tanto il vento sgombra la cima. Sotto si estende il ghiacciaio Gergeti; una lingua s’infila tra due costoni rocciosi, un tempo occupati dal ghiaccio. Un getto rombante di acqua esce dal ghiacciaio; da lontano sembra come se fosse scoppiata una tubatura ad alta pressione! Mi godo lo spettacolo della natura scrutando la montagna con il binocolo. I monti della Georgia sono fantastici, il Kazbeg è un titano ma l’Ushba con i suoi due corni rimane il mio preferito. Durante il percorso di ritorno in discesa procedo spedito. Alle cinque e mezzo raggiungo di nuovo la radura davanti alla chiesa. A quest’ora in giro non ci sono auto ma solo qualche gruppetto che bivacca sull’erba. Il luogo è così restituito alla sua quiete naturale. Il sole del pomeriggio, alle spalle del Kazbeg, punta dritto sulla chiesa, accendendola ancora di più di magia.

La sera alla guesthouse devo rinunciare alla doccia poiché da dodici giorni in città manca l’acqua. Dopocena non c’è molto da fare; le strade di Kazbegi sono asfaltate ma il paese è insignificante. Le montagne intorno sono bellissime ma mi mancano la natura incontaminata del Tusheti e la cordialità della gente, anche se Nunu, la padrona della guesthouse, è simpatica. La vicinanza a Tbilisi ha prodotto un “boom turistico” il cui emblema negativo è la mafia dei tassisti (Vassili ha estratto dalla tasca una cospicua mazzetta di soldi in varie valute). Raggiungo la chiesa del paese che sulla facciata reca scolpiti due leoni al guinzaglio, secondo un’iconografia già osservata in Armenia.

Sabato/Domenica 9/10 luglio: Kazbegi – Tbilisi – Istanbul – Roma

Nella guesthouse sono alloggiato insieme a Chartan, un norvegese che parla perfettamente italiano poiché è laureato in letteratura italiana ed è vissuto un anno a Padova. La mattina Nunu si occupa di procurarci un taxi per un’escursione al confine russo; riesco così ad evitare l’invadente Vassili. La giornata è nuvolosa; risaliamo il Tergi che scorre turbolento tra alte montagne rocciose, dirigendoci verso la gola del Darial (Porta degli Alani), il passaggio naturale dal quale le popolazioni nomadi delle steppe calarono tante volte verso il mondo delle civiltà mediorientali (nel punto più stretto è largo appena otto metri). Pompeo nella sua avanzata attraverso il Caucaso arrivò fin qui; Strabone parlando degli accessi all’Iberia cita questo passaggio:

A partire dalle terre dei nomadi, verso settentrione, vi è una salita difficile della durata di tre giorni. Segue poi la stretta vallata del fiume Aragos [attuale Aragvi], costeggiato da una via singola che richiede quattro giorni di cammino: un baluardo inespugnabile ne sorveglia la fine. (Geografia, XI.III.5).

Oggi oltre il confine c’è la Russia, più esattamente l’Ossezia del nord: la strada porta direttamente alla sua capitale, Vladikavkaz. Procediamo in discesa lungo una gola sempre più stretta dal fondovalle sassoso, finché le montagne sembrano chiudersi. Dietro uno sperone di roccia compare una chiesa; abbiamo raggiunto il posto di confine. La grande chiesa è ancora in costruzione; sull’altro lato gli scarsi resti del castello di Tamara (omonima della celebre regina). Ironicamente il confine è chiuso per i georgiani, a causa dei pessimi rapporti con la Russia, ed è utilizzato invece dai camionisti armeni. Sulla strada del ritorno, a Gvleti c’infiliamo in un canyon laterale. Una breve passeggiata consente di risalire la gola fino a un’alta cascata, che supera il giudizio esigente persino di un norvegese. Il cielo comincia ad aprirsi e compare un pallido sole. Sembra proprio di essere ai confini del mondo; mi turba il pensiero che tra sole ventiquattro ore sarò a Roma, in mezzo al traffico della città. Tornati a Kazbeg e salutata Nunu, insieme a Chartan prendo il marshrutka delle undici per Tbilisi. Per la maggior parte del viaggio siamo gli unici passeggeri; chiacchieriamo dei nostri paesi, di viaggi passati e futuri.

A Tbilisi, depositato lo zaino all’”Hotel Lile”, mi reco al museo nazionale che ha riaperto da poco. Non voglio perdermi il suo meraviglioso tesoro. Una frase di Strabone introduce alla raccolta: “La ricchezza della Colchide, che è derivata da miniere d’oro, argento, ferro e rame, suggerisce un ragionevole motivo per la spedizione di Giasone”. L’esposizione spazia dal 3000 a.C. al 400 d.C., coprendo tre fasi: la cultura delle grandi sepolture a tumulo (III-II millennio a.C.), il regno della Colchide (VIII-III sec. a.C.) e il regno di Kartli-Iberia (III sec. a.C. – IV sec. d.C.). Alcuni pezzi sono meravigliosi. S’inizia con un’incredibile statuetta d’oro di un leone, tutta lavorata nel muso e nelle zampe anteriori, ritrovata in una sepoltura a Tsnori (3000 a.C.). Molti oggetti sono stati ritrovati a Vani tra cui una magnifica collana con trentuno tartarughe a filigrana (V sec. a.C.), simbolo di longevità. Su una coppa di argento è raffigurata una curiosa processione di uomini mascherati che si dirigono verso un altare e un dio/sacerdote, dietro il quale è rappresentato l’albero della vita (Trialeti, 2000 a.C.). Una corona presenta due placche a rombo; in una due leoni lottano contro un toro, nell’altra contro un cinghiale (Vani, IV sec. a.C.).

Al primo piano la sezione medievale è chiusa, passo quindi direttamente al Museo dell’Occupazione Sovietica (1921/91). Nella grande sala un filmato ricorda anche la guerra di cinque giorni con la Russia del 1998. La fila di carri armati russi che percorrono le strade di montagna è impressionante. Ampio spazio è dedicato alle manifestazioni che si tennero in tutta la Georgia; un cartello protesta contro lo “zar Putin”. L’esposizione dedicata alle vicende dell’occupazione sovietica procede in ordine cronologico. Nel 1918 con il crollo dell’impero zarista vi fu la dichiarazione d’indipendenza della Georgia, guidata dal leader Zhormania, ma già nel 1921 avvenne l’occupazione bolscevica. Seguirono ribellioni e rappresaglie, con lo sterminio dell’elite culturale georgiana. Tra il 1921 e il 1941 vi furono 7.200 uccisioni e 200.000 deportati. Passati molti anni, nel 1978 la proposta di sostituire il georgiano come lingua ufficiale del paese suscitò manifestazioni di protesta.

Il museo nazionale è pieno di gruppi organizzati italiani, accompagnati da guida. Davanti al filmato della guerra del 1998 mi rendo conto di come sia manipolabile l’umanità ignara. Un italiano non sapeva neppure che c’era stata la guerra e ne da la colpa al fatto che in Italia non se ne parlò. Forse era in vacanza! La visione delle vicende raccontata dalla guida georgiana non può naturalmente che essere di parte, ma ciò che più mi colpisce è come un popolo a lungo soggetto al dominio di un altro più forte, i russi, non si chieda se anche gli osseti e gli abkazi possano avere avuto qualche motivo d’insoddisfazione. Ancora una volta mi sembra che le masse siano completamente manipolabili con una “giusta dose d’informazione unilaterale” oppure siano distratte del tutto, come accade spesso agli italiani.

Terminata la visita e sbrigate una serie d’incombenze pratiche, più tardi mi siedo al “Caffè Kala” per un momento di relax. La strada piena di caffè e ristoranti finisce contro una barriera, che recinta una parte della città vecchia in corso di ristrutturazione. Verso il fiume invece è stato da poco completato un imponente ponte pedonale, con una bella copertura in vetro che forma una specie di onda. Il ritorno in città non è stato facile; il caldo umido si fa sentire ancora di più dopo il fresco delle montagne. La via pedonale è carina, invasa dai tavolini dei locali. La clientela è internazionale ma le case a un piano con verande di legno sono georgiane. Percorrendo il ponte pedonale raggiungo l’altra sponda in un’area che al tempo della mia precedente visita era completamente vuota e abbandonata. Ora invece è stata sistemata con prati, vialetti, giochi d’acqua, panchine di svariate forme, un piccolo anfiteatro nel quale è in corso una performance di danze acrobatiche. Le famiglie sono numerose, i bambini si divertono a camminare tra i getti delle fontane. Dal palazzo presidenziale con la cupola di vetro, sopra la collina, immagino Saakashvili che sorveglia soddisfatto tutto ciò. Alcuni cartelli annunciano che sono previste altre opere; dietro una palizzata, gli operai sono al lavoro anche adesso che è sabato sera. Tbilisi mi è parsa più viva rispetto a quattro anni fa e in poco tempo ha fatto molti progressi, nonostante che in mezzo ci sia stata una guerra, anche se di pochi giorni. Improvvisamente da una fontana si levano altissimi getti d’acqua, come a salutare la mia prossima partenza.



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