Miami… e vai di s!!!

Si tratta di un viaggio in auto di una settimana tra Miami, le everglades e le Florida Keys
Scritto da: motta d.
miami... e vai di s!!!
Partenza il: 12/02/2011
Ritorno il: 20/02/2011
Viaggiatori: 1
Spesa: 2000 €
Era un po’ di tempo che volevo andare a Miami, una città di cui ho letto e sentito parlare molto (Miami vice, C.S.I. Miami, Scarface ecc.), con un’anima protesa in parte verso la allegra e rilassata atmosfera caraibica e in parte verso il frenetico e ipertecnologico stile “made in U.S.A.”. E già che c’ero ne ho approfittato anche per fare un giro sulle Florida Keys. Il viaggio, prenotato tutto con internet (aereo, albergo e auto a noleggio per un totale di 1126 €) sul sito di expedia, comincia all’aeroporto di Milano Malpensa la sera del 12/02. Da qui parte alle 19:30 il volo che in 2 ore mi porterà a Madrid, la capitale spagnola, dove il mattino dopo parte l’aereo che in circa una decina di ore arriverà a destinazione. Prima di partire però un piccolo inconveniente: mi manca il modulo ESTA (Electronic System for Travel Authorization). Sarebbe l’equivalente di quel questionario che a volte ti fanno compilare a bordo prima di atterrare chiedendoti se sei un terrorista, se sei mai stato arrestato, se hai malattie infettive ecc. Per fortuna però riesco a farmelo fare in aeroporto pagando ben 45 € e 15 dollari americani. Cominciamo bene !!

PRIMO GIORNO (DOMENICA)

L’aereo atterra a Miami nel pomeriggio con circa un ora di ritardo e dopo le sfibranti formalità doganali (metal detector vari, impronte digitali, foto) riesco a prendere lo shuttle (gratuito) che mi porta dove si ritirano le auto a noleggio. Noto con stupore che la commessa non degna di uno sguardo la patente internazionale (costatami tra tutto circa 65 €) che invece dovrebbe essere obbligatoria, mentre si interessa solo a quella originale italiana, facendo commenti sarcastici sulla mia foto di 20 anni prima. L’auto non è certo la city car che mi aspettavo ma una stupenda chevrolet bianca, una berlina, dotata di tutti i confort. D’altronde questo è il tipo di vettura più comune da queste parti, oltre agli immancabili S.U.V. Tra cui troneggia l’HUMMER, il re dei fuoristrada. Il primo impatto con le “higway” americane è buono: il traffico non è caotico come me l’aspettavo, ma ordinato e scorrevole e il limite delle 55 miglia è piuttosto elastico in realtà. La segnaletica in compenso è alquanto scarsa e decisamente insufficiente, come avrò modo di sperimentare anche in futuro. Arrivo a South Beach verso le 18:30 e, dopo circa 20 minuti di ricerca, eccomi giunto in albergo: il princess Ann hotel, giusto sulla Collins avenue, una parallela della celeberrima Ocean Drive. L’hotel non è certo di lusso e non può competere con quelli extra moderni della vicina Miami Beach, ma ha un certo fascino “retrò” che mi colpisce; la camera è spaziosa e le lenzuola pulite. Non mi serve altro. Appena sistematomi in camera si presenta il problema del parcheggio: dove lasciare la macchina per la notte? In zona non esistono parcheggi liberi ma solo a pagamento o riservati ai residenti, mentre i garage vogliono dai 20 ai 25 dollari al giorno. Adesso capisco perché costa poco noleggiare un’auto: si rifanno sui parcheggi. Per fortuna dietro al mio hotel c’è un’area in cui ci sono dei lavori in corso che al tramonto vengono interrotti per poi riprendere il mattino dopo, consentendomi così di parcheggiare la macchina senza spendere un dollaro. Risolto il problema del posteggio per la prima sera a south beach mi limito a fare una lunga passeggiata lungo Ocean Drive, ammirandone il colpo d’occhio degli hotel tutti illuminati, fino a Lincoln Road, una via esclusivamente pedonale dove si trovano la maggior parte dei locali e dei ristoranti, in uno dei quali mi fermo a mangiare. Constato con piacere che, malgrado la mondanità del luogo, i prezzi sono alquanto contenuti e per una zuppa di pollo, un secondo piatto a base di pesce e un caffè me la cavo con poco più di 25 dollari. Sarà merito del cambio favorevole. Sulla strada dl ritorno entro in un negozio di souvenir, giusto per avere un idea di cosa regalare ai vari amici e parenti e soprattutto di quanto mi verrà a costare. La scelta è davvero vasta: magliette di tutti i generi e stili, cappellini, stampe, soprammobili, portaceneri e soprattutto bellissimi animaletti di ceramica (di cui vado matto) che in precedenza ho trovato solo in Spagna, il tutto a prezzi assolutamente abbordabili. Si, indubbiamente la scelta sarà difficile. Alla fine della passeggiata rientro in albergo per la mia prima notte di sonno in territorio americano.

SECONDO GIORNO (LUNEDI’)

Sarà per colpa del fuso orario (6 ore indietro), il letto nuovo o l’eccitazione ma mi sveglio molto presto, ma non troppo per la colazione, per fortuna. Quest’ultima si rivela piuttosto deludente e composta solo da un buffet con corn flakes, pane tostato, burro, marmellata, succo di arancia e naturalmente tè e caffè senza limiti. Speravo in qualche cosa di più “americano” come uova al bacon ma pazienza, qui non mancano certo i posti dove integrare a metà mattina. Per prima cosa decido di fare una passeggiata sulla spiaggia, South Beach o sobe , come la chiamano qui, che poi non è altro che la parte sud di Miami Beach, famosa in tutto il mondo. Scopro così che tutti i luoghi comuni su questo posto sono … assolutamente veri. Malgrado l’ora ci sono già parecchie persone che fanno footing, che portano a passeggio 5 o 6 cani alla volta, che fanno flessioni alla sbarra per tonificare i muscoli o che setacciano la sabbia col metal detector per cercare quello che hanno dimenticato o perso i turisti. Tutto molto pittoresco. La spiaggia è davvero molto grande, tanto che non riesco a coglierne i limiti, ed è anche molto pulita grazie alle varie squadre che già di buon mattino sono al lavoro per riportarla in condizioni ottimali. Poi, come mia abitudine, scelgo di girare a piedi tutto il quartiere e ripercorro quindi Ocean drive, soffermandomi a osservare tutti i vari hotel nel caratteristico stile art decò, in particolare la casa di Versace (ora hotel di lusso), dove lo stilista fu assassinato il 15 luglio 1997, davanti al famoso Lummus Park. Arrivo di nuovo fino a Lincoln road e poi indietro lungo la Washington Avenue fino alla 5th street. Certo la zona di sera, con tutti i giochi di luce degli alberghi, acquista tutto un altro fascino, ma anche di giorno, in un’atmosfera piacevolmente “rilassata”, è comunque un bello spettacolo. Il giro mi prende tutta la mattina e, dopo uno spuntino veloce in uno dei numerosi locali della zona, per il pomeriggio decido di recarmi a Little Havana, il quartiere cubano. Arrivarci in auto è più facile a dirsi che farsi. Le strade infatti sono si in ordine numerico (1st, 2nd ecc.) ma bisogna stare attenti a non confondere le street con le avenue, che le tagliano perpendicolarmente. Inoltre bisogna sapere il distretto in cui si vuole andare, dato che le strade hanno anche il suffisso della zona che attraversano. Ad esempio esiste la 2nd street NW (nord west), che diventa 2nd street SW (south west) andando verso sud e così via. Ad ogni modo riesco alla fine ad arrivare a destinazione e parcheggio la macchina proprio in una traversa della celebre Calle Ocho (SW 8th street, perché qui le strade hanno anche il secondo nome), nel cuore del quartiere. Appare subito evidente il fatto che un quarto della popolazione di Miami sia di origine cubana. Le strade, le insegne, l’architettura, i negozi, tutto richiama alla mente Cuba, o per lo meno un paese dell’America latina. Sembra che molta gente da queste parti non parla neppure inglese ma solo lo spagnolo. Mi imbatto subito in uno dei simboli del quartiere: il monumento dedicato alla brigata 2506, che 17 aprile 1961 fu sterminata nell’invasione della baia dei porci, a Cuba. Proseguendo su calle ocho trovo molte fabbriche dei famosi sigari cubani, tra cui El Credito, la più rinomata. Dopo una sosta in uno dei numerosi locali per un caffè (cubano), più avanti trovo il più famoso negozio di souvenir di little havana, da cui non esco a mani vuote. Subito dopo un altro simbolo del quartiere: il parco del domino, dedicato a Maximo Gomez, generale dell’esercito cubano. Qui, persone di tutte le età si sfidano in continuazione in agguerrite partite di domino o a scacchi, in un atmosfera a volte rilassata e a volte molto concitata, scambiandosi spesso anche epiteti piuttosto coloriti. Più avanti ci sarebbe Versailles, uno dei più famosi ristoranti cubani, ma l’ora di cena è ancora lontana e quindi decido di tornare sui miei passi. Anche in questa “oasi” latina però c’è un tocco Hollywoodiano: una sorta di “walk of fame” locale sul marciapiede di calle ocho in cui compaiono le stelle con i nomi di alcune celebrità cubane tra le quali, l’unica che conosco, è quella della cantante Gloria Estefan. Little havana è tutto sommato un bel quartiere, che merita di essere visitato e che esprime molto dell’anima di Miami, anche se mi aspettavo un atmosfera un po’ più festosa; più cubana insomma. Forse perché sono arrivato nell’ora della siesta. Una volta ritornato a South Beach faccio ancora in tempo a godermi un paio di ore di sole sulla spiaggia e a fare un bagno prima di rientrare in albergo. La stanchezza però mi piomba addosso all’improvviso e il pisolino che mi ero concesso prima di cena si protrae fino alle 23:00. A questo punto, visto che la fame è passata, cerco di riaddormentarmi e di recuperare così le forze con qualche ora di sonno supplementare.

TERZO GIORNO (MARTEDI’)

Per il mio terzo giorno in Florida decido di andare verso nord con la macchina lungo la 1A, la gold coast, una strada panoramica che costeggia l’oceano e che tocca alcune tra le più belle spiagge dello stato. Già nella parte superiore di Miami beach lo stile del quartiere cambia: gli alberghi art decò lasciano il posto agli hotel extra lusso dal numero infinito di piani. Sulle isole alle loro spalle si intravedono dimore da favola appartenenti a cantanti e divi hollywoodiani, e yatch degni di uno sceicco arabo. Insomma, lusso allo stato puro. Tanto per rimanere in tema la prima spiaggia in cui mi fermo è proprio quella di Hollywood, una cittadina appena fuori Miami con un bellissimo lungomare, pieni di ristoranti e di negozietti, chiamato appunto Hollywood Boulevard. Il tono non è certo quello di Miami Beach e i turisti sono anche un po’ più “stagionati”, il lungomare però è davvero molto bello, soprattutto perché è esclusivamente pedonale, e la spiaggia molto pulita e ben tenuta, anche meglio di quella di Miami. Mi fermo giusto un’oretta, il tempo per un bagno e per mangiare qualcosa, e poi rimonto in macchina in direzione nord. Proseguendo sulla Gold Coast la Florida assume sempre più l’aspetto di una specie di Svizzera … ma con l’oceano a fianco. Le case diventano sempre più lussuose anche se quasi mai sfarzose, con aiuole ben curate ed erba perfettamente tagliata tipo prato inglese. Dovunque si notano campi da golf e barche da sogno, il tutto immerso in una vegetazione tropicale rigogliosissima. L’unico inconveniente di questa gita è che bisogna tenere una velocità veramente bassa, 35 miglia all’ora (poco più di 50 Km/h), e se non fosse per il cambio automatico (di cui ora comprendo l’utilità) avrei i crampi al braccio a furia di cambiare marcia. Dopo poco più di un’ora finalmente giungo alla tappa successiva, Fort Lauderdale, altra nota località turistica. Anche qui il lusso la fa da padrone; lo intuisco subito dal tono delle macchine ferme nel parcheggio dove sistemo la mia. Bisogna dire però che, malgrado l’ambiente sia anche più lussuoso rispetto a South Beach, i parcheggi costano comunque meno e sono meno affollati. Dopo avere sistemato la vettura mi dirigo sul lungomare, che è veramente spettacolare, con tutti i negozi delle grandi firme e i ristoranti, e conferma le mie precedenti aspettative sulla cittadina. La spiaggia bianchissima e l’oceano color turchese sono troppo invitanti per non fermarmi a fare un altro bagno supplementare e a prendere ancora un po’ di sole. Dopotutto sono venuto in Florida anche per questo. A metà pomeriggio, un po’ a malincuore, decido di ripartire verso la prossima meta: Palm Beach, che raggiungo dopo circa un ora e mezza. Qui però mi fermo poco, giusto il tempo per sgranchirmi le gambe, visto che la cittadina non è poi molto diversa dalle altre visitate oggi. Decido quindi di invertire la rotta e tornare verso Miami, ma stavolta prendendo la Highway 95, cioè una delle loro autostrade (che qui non sono a pagamento), per fare più in fretta. La scelta non si rivela molto fortunata visto il traffico serale, peggiorato oltretutto da alcuni lavori in corso, e arrivo a Miami verso le 19:30, quando il sole è ormai tramontato. Per fortuna il colpo d’occhio di Miami Beach di sera vista da uno dei ponti che la separano dalla terraferma mi ripaga del tempo perso. Parcheggiata la macchina al mio solito posto decido per la cena di provare uno dei locali che si affacciano su Ocean Drive, dove una simpatica cameriera di Napoli praticamente mi sequestra dalla strada e mi pilota verso uno dei tavoli all’aperto del locale dove lavora. Ordino un piatto a base di salmone, con contorno di patatine fritte e insalata, una bottiglia di acqua gasata (italiana), la torta di limone tipica di Miami e un caffè espresso, il tutto per la NON modica cifra di 52 dollari, compresa la mancia che viene aggiunta sempre in automatico. Se la fanno pagare bene la vista su Ocean Drive. Stanco, sazio e soddisfatto per la giornata (a parte il conto del ristorante) mi dirigo in hotel dove il sonno non si fa certo attendere.

QUARTO GIORNO (MERCOLEDI’)

La giornata di oggi prevede la visita a 2 quartieri simbolo di Miami: Coral Gable e Coconut Grove, che per fortuna sono l’uno vicino all’altro. Il primo fu creato negli anni 20 dall’eccentrico miliardario George Merrick che sognava di creare una Beautiful City, cioè una città bellissima, cosa che gli è in gran parte riuscita. Più che di un quartiere si tratta di una vera e propria cittadina, con oltre 40000 abitanti, immersa in una rigogliosa vegetazione subtropicale. Arrivo il mattino abbastanza presto e parcheggio la macchina proprio davanti a uno dei simboli di questo posto: il lussuoso hotel Biltmore, che oggi può vantarsi di essere uno dei pochi resort in Florida ad essere edificio storico. L’albergo è in stile moresco, con la caratteristica torre di 96 metri costruita su modello della torre Girarda della cattedrale di Siviglia, e tra i suoi ospiti più illustri possiamo citare Judy Garland, Bing Crosby, la famiglia Roosevelts, Ginger Rogers, i duchi di Windsor e perfino Al Capone. A poca distanza la chiesa metodista e Piazza De Soto, altri simboli del quartiere. Poco più avanti quella che forse è la piscina pubblica più bella del mondo dichiarata monumento storico: la piscina veneziana. Con una capacità di oltre tre milioni di litri d’acqua, fu costruita nel 1924 in stile veneziano e ogni anno viene visitata da oltre 100000 persone. Davvero spettacolare. Qui si allenavano Johnny Weissmuller, il famoso Tarzan del bianco e nero e campione di nuoto, e Esther Wiliam per i suoi balletti acquatici. Ma la cosa che mi colpisce di più questa parte del quartiere è soprattutto la sua tranquillità e la quasi totale assenza di traffico, escludendo le arterie principali. Non esistono parcheggi o quasi, non ci sono marciapiedi, non ci sono automobili parcheggiate in strada, non ci sono negozi o centri commerciali. Ci sono solo villette, appartenenti certamente ad un ceto medio alto, separate le une dalle altre non da mura o steccati, ma semplicemente da alberi, siepi o al massimo da palme. Si può arrivare a bussare all’uscio di ciascuna di queste ville semplicemente attraversando il praticello che le separa dalla strada, senza trovare recinzioni o citofoni. La maggior parte non ha neanche le sbarre alle finestre e questo, per uno nato e cresciuto in Italia, è veramente una cosa eccezionale. O si fidano molto del prossimo o la polizia di Coral Gable è veramente efficiente. Un’altra curiosità di questo posto sono gli isolati costruiti nei diversi stili architettonici, quello cinese, francese, scandinavo ecc. Che conferiscono al luogo un ulteriore nota di colore. Purtroppo il tempo è tiranno e quindi riesco a vedere solo quello scandinavo prima di ripartire per Coconat Grove. La mancanza di indicazioni chiare si fa subito sentire e in capo a un quarto d’ora mi sono già perduto in un intrico di viuzze immerse in una vegetazione incredibile tanto che ad un certo punto credo di avere addirittura cambiato continente senza accorgermene. Ad un tratto fortunatamente, quasi per magia, la strada si allarga, la vegetazione si dirada … ed eccomi arrivato a Coconut Grove, come confermano tutti i cartelli e le insegne dei negozi. E’ questo un quartiere molto diverso dal precedente, più vivace e spumeggiante, pieno di gente, ristoranti, negozi e gallerie d’arte. Dopo avere parcheggiato l’auto (a pagamento naturalmente) mi dirigo verso Coco Walk, il centro commerciale più famoso della zona, che però a parte qualche bancarella di souvenirs, non offre niente di particolarmente interessante. Visto che l’ora di pranzo è passata da un pezzo, ne approfitto per fermarmi a mangiare qualcosa in uno dei ristoranti situati ai piani superiori, dove una stupenda cameriera di colore mi serve un delizioso cheeseburger in perfetto american style. Dopo un’oretta circa, riposato e rifocillato, mi rimetto in cammino per un giretto di esplorazione a piedi del quartiere. Lo stile delle sue costruzioni, le case in legno con i balconi in ferro battuto e i tetti in tegola rossa, i mosaici, i murales e il porto pieno di yatch creano un atmosfera tutta particolare che da alla zona una certa area trandy e vagamente snob. Molto simpatica una galleria d’arte con numerosi quadri dedicati ai super eroi in costume come Batman, l’Uomo Ragno ecc. Verso le ore 15:30 mi rimetto in macchina direzione south beach per passare un po’ di tempo a prendere il sole sulla spiaggia, dove arrivo per le 16:30 circa. Dopo un paio d’ore di dolce far niente rientro in albergo per concedermi una doccia e un po’ di riposo. La serata mi vede in Lincoln Road, in uno dei tanti ristorantini all’aperto, dove mi concedo una zuppa di granchi davvero ottima, che pare sia una specialità del posto. Più tardi mi reco in Ocean Drive, in uno dei tanti locali dove suonano dal vivo, per gustarmi un paio di cocktail coll’ombrellino e ascoltare un po’ di musica. Il frastuono però è davvero assordante, peggio di una discoteca romagnola, la gente è troppa e i cocktail cari e neanche tanto buoni. Ragion per cui decido di rientrare in albergo per l’appuntamento con Morfeo (il dio del sonno).

QUINTO GIORNO (GIOVEDI’)

L’ultimo giorno a Miami è dedicato al parco nazionale delle Everglades, la zona paludosa nella parte centro meridionale della Florida dichiarata patrimonio dell’umanità dall’UNESCO. Il parco ha una superficie di oltre 6000 km quadrati e vanta una flora e una fauna uniche al mondo, tra cui vale la pena di citare aironi, pellicani, fenicotteri, lamantini, alligatori, coccodrilli (è l’unico posto al mondo dove le due specie convivono) e la rarissima pantera della florida. Mi metto in cammino di buon ora, visto che le ore mattutine sono le migliori per l’avvistamento degli animali, e percorrendo la famosa Tamiami Trail, che taglia in due il parco, in capo a poco più di un oretta arrivo in uno dei numerosi ingressi da cui partono le visite nell’interno delle everglades. Il tempo non è dei migliori e nel tragitto infatti ha piovuto un po’, ma pazienza! In fondo il fresco tiene lontane le zanzare. Sono il primo cliente della giornata e quindi decido di aspettare qualche altro avventore curiosando un po’ in giro. Il negozio di souvenir attiguo è davvero molto bello e ben tenuto, anche se un po’ più caro della media come è prevedibile. La maggior parte degli oggetti esposti sono a “base di alligatore”: statuine, oggetti in pelle, collane di denti, teste imbalsamate (vere? Boh!), cappelli stile Mr Crocodile Dundee, tutto fatto a immagine o con materiale proveniente da questi splendidi rettili, che evidentemente sono tutt’altro che in pericolo di estinzione. Sul retro ci sono delle gabbie dove si possono osservare dei cuccioli di alligatore di varie lunghezze, dall’aspetto poco rassicurante malgrado la tenera età. Nel giro di mezz’ora si è già radunato un discreto gruppo di clienti, per cui decido di fare il biglietto. Per 24 dollari ho prenotato un giro nel parco a bordo di una airboat, le famose barche spinte da una gigantesca elica che scivolano sull’acqua viste in tanti film, e un posto per lo show dei rettili, alla fine del tour. E’ impressionante la velocità e il rumore assordante (i tappi per le orecchie sono compresi nel prezzo) con cui si muovono le barche in quel dedalo di canali e acquitrini, e soprattutto il fatto che riescano a galleggiare praticamente in 20 cm di acqua per il fatto che non hanno pescaggio. Il giro purtroppo si rivela abbastanza deludente e, a parte qualche airone e numerosi alligatori, non riusciamo a scorgere niente di veramente interessante. La parte più divertente sono state senz’altro le evoluzioni acrobatiche dell’airboat, su cui il pilota non si è risparmiato. Anche lo show dei rettili non mi entusiasma particolarmente: in pratica si tratta di alcune prove di coraggio che una delle guide compie con un alligatore mezzo addormentato. Assolutamente dozzinale. Rimonto in macchina alquanto deluso e mi dirigo verso uno degli ingressi del parco accessibile con le autovetture. Dopo qualche giro a vuoto all’interno arrivo in un parcheggio deserto, da cui parte un sentiero che si inoltra nella intricata vegetazione fino ad arrivare, dopo una decina di minuti, ad uno stagno chiamato “la buca degli alligatori”. Qui si apre un area da picnic perfettamente attrezzata, con tavolini, toilettes e fontanelle di acqua potabile, il tutto a pochi metri dallo stagno dove sonnecchiano due alligatori molto più grossi di quelli che ho visto oggi. Incuriosito dalla loro immobilità gli tiro un bastone e … scopro che non sono affatto imbalsamati come credevo. Accidenti che zanne. Conquistato dalla tranquillità del posto (non ho incontrato anima viva) mi concedo un po’ di riposo sul prato perfettamente tagliato, a pochi metri dai due re dello stagno. Sulla via del ritorno scorgo un gruppo di uccelli scuri in mezzo alla strada: scopro con un certo disgusto che sono avvoltoi intenti a divorare la carcassa di un cane. Appena fuori dal parco, visto che ormai è pomeriggio, mi fermo in uno dei numerosi fast food per mangiare qualcosa, per poi dirigermi verso South Beach a godermi qualche ora di quel caldo sole che si è deciso a spuntare finalmente. Arrivo in spiaggia verso le 16:45, dove mi concedo subito un bagno ristoratore. Alle 18:00 però, un forte vento abbastanza freddo che soffia dall’oceano mi costringe ad anticipare il mio rientro in hotel, ma ne approfitto per comprare gli ultimi souvenir in un negozietto nelle vicinanze. Una doccia e un po’ di riposo mi rimettono in sesto e per la sera mi dirigo a Espanola Way, una stretta via pedonale perpendicolare a Collins Avenue piena di ristorantini e locali caratteristici. Dopo una sostanziosa cena a base di pesce per mi dirigo sul lato ovest di south beach, dove su un lungomare lungo più di 2 km sono allineati dozzine di yatch e panfili degni di un emiro arabo che andranno a inaugurare la fiera che si terrà a Miami di lì a pochi giorni. Pur non essendo un appassionato rimango una buona mezz’ora a fantasticare a bocca aperta davanti a tutto quel lusso. Non oso neanche immaginare il valore complessivo di tutte quelle imbarcazioni: in confronto il salone della nautica di Genova sembrerebbe un porticciolo di barche da pesca. A questo punto si sono fatte le 23:00 e decido di rientrare in hotel per la mia ultima notte a Miami. E devo ancora fare il bagaglio.

SESTO GIORNO (VENERDI’)

Mi sveglio di buon mattino col bagaglio pronto e alle 08:30 sto già viaggiando in direzione sud, verso le Florida Keys, lungo la mitica U.S. 1 highway, la south dixie highway. Le Keys sono un gruppo di circa 1700 isole, molte delle quali sono unite da ponti, che si estendono partendo quasi da Miami fino a Key West, che rappresenta il punto più a sud degli Stati Uniti. Dopo un paio d’ore raggiungo la prima tappa della giornata: il parco marino di John Pennekamp, a Key Largo, meta ambita per gli amanti delle immersioni e degli sport acquatici, resa famosa dal film di John Huston “l’isola di corallo”, con Humphrey Bogart e Lauren Bacall . Si tratta del primo parco marino della nazione, creato nel 1960, e che si affaccia sull’unica barriera corallina vivente degli stati uniti. L’ingresso al parco costa 4 dollari e, dopo aver parcheggiato, mi dirigo verso l’edificio da dove si prenotano le varie escursioni. Ce n’è per tutti i gusti: escursioni in canoa in mezzo alle mangrovie (allettante), sulla barca col fondo di vetro, immersioni con le bombole o senza per gli appassionati di snorkeling. Scelgo appunto di fare dello snorkeling e per circa 35 dollari prenoto l’escursione in barca alla barriera con noleggio di pinne e maschera. Constato con disappunto che il boccaglio non si può affittare ma si deve comprare; per fortuna mi sono portato il mio. La barca salpa alle ore 12:00 e quindi ho ancora un’ora buona per esplorare il posto. Decido di trascorrerla prendendo il sole nella spiaggia attigua e mi concedo anche una nuotata ristoratrice come aperitivo per quella che mi farò tra poco. L’acqua però non è cristallina come me la ero immaginata, al contrario è torbida e limacciosa, con una visibilità molto scarsa, probabilmente a causa dell’intrico di mangrovie tutto intorno. Un’ora comunque passa in fretta e a mezzogiorno la barca leva le ancore per recarsi alla barriera corallina, dove arriviamo dopo circa mezz’ora di tranquilla navigazione sotto un bel sole caldo. Prima di raggiungere il mare aperto la nave attraversa un intricato labirinto di canali che ricordano molto le everglades, con una vegetazione composta quasi esclusivamente di mangrovie che si estendono a perdita d’occhio. Giunti a destinazione il posto non delude le mie aspettative: l’acqua e di un colore turchese intenso e il mare calmo e invitante. Dopo un breve breefing del capitano sul comportamento da tenere in acqua e sui pesci che vedremo siamo pronti a immergerci. Pur non essendo certo la prima volta che mi immergo in una barriera corallina, ne resto sempre affascinato e ogni volta scopro qualcosa di nuovo che non avevo mai visto. Davanti a me sfilano come in parata pesci pappagallo arcobaleno, pesci chirurgo, pesci farfalla, pesci balestra, pesci scatola, coralli dai colori più vari e anche dei temibili barracuda, alcuni dei quali sfiorano i 2 metri di lunghezza. Ad un tratto ecco apparire dagli abissi l’elegante sagoma di uno squalo nutrice, lungo circa 1 metro e mezzo ma innocuo per l’uomo. Lo inseguo scattandogli anche qualche foto per poi vederlo sparire nell’azzurro dell’acqua. Dopo circa un’ora in quell’angolo di paradiso la sirena della nave ci richiama sul pianeta Terra: è ora di tornare a bordo, “cotto” da sole, dall’acqua e dalla nuotata ma soddisfatto. Una volta giunto a terra e restituita l’attrezzatura mi fermo sui tavolini del parco per un picnic con le vettovaglie comprate stamattina prima di lasciare Miami: yogurt, frutta, e dell’affettato. Un po’ calde ma buone, tutto sommato. Al termine del sontuoso pranzo rimonto in machina e mi dirigo a Marathon, la località in cui ho prenotato l’albergo dove arrivo per le 17:00 circa. L’hotel ha più l’aspetto di un campeggio che di un albergo, e le camere sono delle specie di bungalow dai colori vivaci. L’unico peccato è che la mia stanza da proprio sulla strada principale che è abbastanza trafficata, ma pazienza. In fondo si tratta solo di una notte. Dopo una doccia veloce mi rimetto subito in strada verso Key West, che dista circa un’ora di automobile. Il parcheggio è una vera “mazzata economica”: 25 centesimi per 10 minuti. Meno male che mi ero fatto una scorta di quarti di dollaro. Al mio arrivo noto subito una certa agitazione in giro, un atmosfera quasi “elettrica”, e vedo che tutti si dirigono verso il lungomare come se si fossero dati un preciso appuntamento mentale. Pare che da queste parti sia consuetudine infatti gustarsi un cocktail in uno dei tanti locali, il più famoso dei quali è sicuramente Sloppy Joe, godendosi lo spettacolo del sole che tramonta a ovest, magari ascoltando anche della musica suonata dal vivo. Un po’ come succede a Negril, in Giamaica, al Rick’s cafè, guardando i tuffatori che si gettano in acqua dalla scogliera. E chi sono io per rompere la tradizione? Una volta terminato il mio drink (una cahipirinha) e avere applaudito anch’io allo spettacolo offerto dal nostro astro, torno sui miei passi per fare un giro a piedi della cittadina. Key West è davvero un posto particolare, direi unico. Il centro storico si sviluppa attorno a Mallory Square, la piazza principale che si affaccia sul mare, e brulica di vita, soprattutto ragazzi, che affollano i numerosissimi locali, in molti dei quali si suona anche dal vivo. Questo regala al tutto una specie di “colonna sonora” che crea un atmosfera festosa piacevole e indimenticabile. Dovunque si notano negozi di souvenirs davvero molto originali e con ottimi prezzi. Anticamente Key West era un covo di pirati, quindi si possono trovare bandiere e magliette con il jolly roger (il teschio e le tibie simbolo della pirateria), statue di famosi corsari, copie di antichi dobloni, bauli del tesoro, cappelli e costumi da pirata e via discorrendo. Sembra di essere sul set del film “pirati dei Caraibi” e mi aspetto di vedere da un momento all’altro il capitano Jack Sparrow uscire barcollando da qualche taverna. Mi colpisce molto un trenino elettrico tutto nero che reclamizza una specie di tour del cimitero e di alcune case infestate da fantasmi, presentato da animatori mascherati da vampiri o da streghe. Davvero divertente. Il lungomare, molto ampio e pulitissimo, è un tripudio di bancarelle e di chioschi che vendono le merci più diverse: dai collane alle calamite, dai panini allo zucchero filato. Da Mallory Square giro in Greene street, e passo davanti al Captain Tony’s Saloon, uno dei locali preferiti da Ernest Hemingway. Lo scrittore premio nobel infatti trascorse a Key West alcuni anni della sua vita, dedicandosi soprattutto a scrivere, al bere e alla pesca d’altura. Giro quindi a destra in Duvall street, una delle vie principali, dove mi imbatto in un simpatico cinema la cui insegna è una statua di Marilyn Monroe in grandezza naturale, mentre si tiene giù la gonna con le mani come nella famosa scena del film “quando la moglie è in vacanza”. La strada è una distesa ininterrotta di bar, ristoranti, pub, locali di vario genere, bancarelle e negozi di souvenirs, alcuni anche un po’ “piccanti”. Visto che è ormai l’ora di cena mi fermo a mangiare in un ristorante che al posto delle classiche tavole ha delle tavole da surf, dove ordino una omelette coi gamberi con patatine di contorno e una bibita alla spina, il tutto per poco più di una ventina di dollari. Mentre aspetto le vivande mi diverto ad osservare uno stralcio della bizzarra popolazione locale che mi sfila davanti: improvvisati fotografi che a richiesta fanno fotografie con pappagalli o con scimmie, taxisti che scarrozzano in giro i clienti in curiosi risciò a pedali, e altro ancora. Curiosamente il bicchiere mi viene rabboccato ogni volta che finisco la bibita ma senza che io lo abbia chiesto e senza variazioni sul prezzo. Al termine ripercorro la via in senso contrario e mi spingo verso il lungomare, in una zona più tranquilla. Qui il chiasso delle arterie principali, quella simpatica aria carnevalesca che si respira poco più in là si avvertono appena e c’è un silenzio quasi innaturale. La maggior parte delle case sono nel tipico stile coloniale, costruite in legno su due piani e dipinte con colori pastello molto vivaci. Ed eccomi giunto in Whitehead street, dove si trova la casa di Hemingway in cui abitò per alcuni anni e dove si dice vivano ancora i discendenti del suo famoso gatto con 6 dita nelle zampe anteriori. Scatto qualche foto di rito. A questo punto vista l’ora decido di tornare alla macchina, dove mi aspetta l’ultimo ricordo di Key West, anche se il meno ambito: una multa di 25 dollari per parcheggio scaduto. Dannati parchimetri! Rimontato in macchina però mi accorgo che, malgrado siano solo le 23:00 di venerdì sera, c’è molta meno gente in giro rispetto all’ora del mio arrivo; si vede che la città non è poi così mondana come la descrivono. Il viaggio di ritorno a Marathon si svolge regolarmente e alle 24:00 circa sono nuovamente in albergo per la mia ultima notte in America.

SETTIMO GIORNO (SABATO)

Il mattino di sabato mi vede sveglio di buon ora per una abbondante colazione nei pressi di Marathon. Dato che l’aereo decolla alle 17:30 ho ancora tutta la mattina da trascorrere sotto il sole della Florida. Il bar dove mi fermo è proprio carino e anche il cappuccino (incredibile a dirsi) è davvero delizioso. Ne approfitto per curiosare all’interno di questi paesini sulle Keys, cosa che ieri, per la fretta di arrivare a Key West, non ho potuto fare. Si tratta di paesini molto piccoli e assai tranquilli, costruiti attorno alla U.S.1 higway che attraversa l’arcipelago. Le case sono per la maggior parte villette monofamiliari a un piano (pochi gli edifici più alti), costruite alcune in legno e altre in muratura. Molte si trovano in riva al mare o su un canale che si inoltra all’interno, e si può notare una massiccia presenza di imbarcazioni con a bordo l’attrezzatura per la pesca d’altura, che da queste parti è forse lo sport più praticato. Un particolare curioso che non avevo notato all’andata sono i ponti che uniscono le varie isolette, costruiti con la corsia per le auto e la corsia pedonale separata, che la gente utilizza per fare jogging, andare in bicicletta e soprattutto per pescare. Sulla strada del ritorno, quando credevo ormai di avere acquistato tutti i souvenirs che mi servivano, mi imbatto in un “villaggio di artisti” come lo definisce il cartello: the Rain Barrel, la cui insegna è la gigantesca statua di un aragosta alta almeno 3 metri. Si tratta certamente del negozio più fornito che ho visto fino ad ora (e ne ho visti tanti) da cui è impossibile uscire a mani vuote. Ci si trovano statue, sculture, quadri, maschere, soprammobili vari, ceramiche, campane a vento, e decine di altri oggetti con prezzi che vanno da pochi centesimi ad alcune centinaia di dollari per gli articoli di un certo spessore artistico, come i quadri di artisti contemporanei o gli svarowsky. Ce n’è davvero per tutti i gusti e per tutte le tasche. Quindi, mano al portafogli per spendere anche gli ultimi dollari e poi si riparte. Verso le ore 11:00 mi fermo un oretta circa in una spiaggetta tranquilla dalle parti di Key Largo per fare l’ultimo bagno e prendere l’ultimo sole e poi via senza sosta verso l’aeroporto di Miami, dove arrivo per le 14:45. Restituita la macchina (col pieno di benzina) mi dirigo verso i cancelli di imbarco per il disbrigo delle formalità doganali e quindi aspettare il volo che mi riporterà a Madrid e poi in Italia. Arrivederci Florida … a presto !!

RIASSUMENDO … QUALCHE BUON CONSIGLIO !

Io credo che in qualsiasi posto uno vada, dovrebbe tornare una seconda volta, sfruttando le esperienze e anche gli sbagli della prima. Purtroppo questo non è sempre possibile e quindi è meglio ascoltare i consigli di chi ci è già stato facendone tesoro da subito. Una settimana è effettivamente un po’ pochino per un itinerario del genere, specialmente se si vuole concedere del tempo anche ai bagni e alla tintarella, come è giusto. L’ideale sarebbero 10 giorni, dedicandone almeno 3 o 4 alle Florida Keys per le immersioni, lo snorkeling, e la pesca d’altura. Per coloro i quali avessero problemi di tempi ristretti o di budget limitato, consiglio di fare magari un “tour de force” per vedere Miami in 4 giorni, per poi rilassarsi 2 o 3 giorni alle Keys. La cittadina di Key West merita sicuramente almeno una giornata completa. Anche il giro alle everglades va programmato meglio di come ho fatto io, magari prenotando qualche tour specializzato direttamente dall’Italia, su un percorso un po’ meno turistico anche se forse più costoso. Necessita anch’esso senz’altro di un giorno intero. In ogni caso consiglio a tutti di prenotare l’automobile, possibilmente dall’Italia, risparmiando così ancora qualcosa. Prima di tutto per avere più libertà di movimento, e poi perché le strade americane sono in ottime condizioni (d’altronde sono americane), non sono a pagamento come le nostre e la benzina costa veramente poco. Se siete in 3 o 4 persone poi spenderete ancora meno. Certamente è meglio portarsi una cartina dettagliata dello stato o prendere un navigatore satellitare magari. Oltretutto, almeno al momento in cui scrivo, il cambio del dollaro è ancora favorevole rispetto all’euro. Non prendete tutti i souvenirs a Miami ma avanzate del tempo e dei soldi per fare dello shopping alle Florida Keys: c’è molta più scelta e anche i prezzi sono leggermente migliori. Le spiagge sulle Keys, almeno quelle che ho visto io, non sono eccezionali, e anche l’acqua è piuttosto torbida a causa dell’intrico di mangrovie che ricopre l’arcipelago. Per trovare la barriera bisogna prendere una barca e andare al largo. Questo potrebbe influenzare il vostro budget. In sostanza però si tratta di un viaggio per tutti i gusti, per tutte le tasche e per tutte le età vista la varietà dei luoghi, dei panorami, dei costi e delle esperienze a disposizione. Gli alberghi vanno dalle classiche “bettole” a una stella, agli ostelli, ai megaresort di Miami Beach. Anche per quanto riguarda i ristoranti si può spaziare dai picnic sulla spiaggia con le vivande comprate al supermercato, ai fast food, ai ristoranti da 100 dollari a persona in Ocean Drive. Ed è proprio qui che potete costruire la vostra vacanza, magari tramite internet, risparmiando parecchio o comunque spendendo quello che riterrete opportuno. Quindi che altro dire?

Buona vacanza !



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