Yucatan-Chiapas e ritorno
Inizia la lunga staffetta che ci porterà a destinazione ed io, particolarmente insofferente agli aerei, cerco di farmene una ragione. In ogni caso, a causa dei posti proprio sul motore, già dalla tappa Bologna-Milano mi scoppia un mal di testa che non potrà fare altro che peggiorare. Il tempo passa, lento ma passa. Ad un certo punto guardo l’orologio e faccio alcune riflessioni. Sono le sette e dopo circa otto ore di volo sull’oceano Atlantico all’altezza, circa, della Carolina del Nord, posso affermare con certezza poche cose. Tra queste, la più certa è che il mal di testa imperversa. Un’altra cosa meno certa, ma a questo punto auspicabile, è che mancano più di tre ore all’arrivo a Miami. Lì dovremo fare un altro ceck-in e, a quanto pare, riconoscere i bagagli. Non so cosa diavolo questo significhi comunque l’importante, almeno per il momento, è mettere i piedi un pochino a terra. Arriviamo a Miami. Ci lasciamo Miami alle spalle e alla fine, come sospinte da un meccanismo che funziona da sé, arriviamo a Cancun alle 23.55, le 6.55 di domenica ora italiana. E’ stato il viaggio più lungo della storia. Non ne posso più di volare e dopo ventotto ore filate di veglia non so più chi sono. Comunque dopo aerei, duecento milioni di formalità burocratiche e apertura bagagli a random da parte del governo USA, giunte in terra messicana affrontiamo mille individui che ci piombano addosso fuori dall’aeroporto pronti ad offrire i loro servizi, facciamo conoscenza con un receptionist di albergo a dir poco indolente e ci cimentiamo con la scocciantissima questione della propina, la mancia. Ci sembra di essere in balia di un fiume in piena: la macchina dell’organizzazione turistica è implacabile ed è caratterizzata da brusche accelerazioni e altrettanto repentini rallentamenti. La gente si fa in quattro per offrirti questo e quello, ma non appena dai retta a qualcuno questo non ti si fila più per niente…Siamo un po’ perplesse da questo approccio con i ritmi messicani, ma avremo tempo di schiarirci le idee nelle prossime due settimane. Nel frattempo, quasi senza rendercene conto, ci ritroviamo in albergo, in camera, e non appena possibile lasciamo perdere dubbi, incertezze e domande e tentiamo, finalmente, di dormire. 13 aprile 2003, domenica Nonostante la spossatezza o forse proprio a causa di essa non ho dormito molto, ma dopo una veglia di ventotto ore anche dormirne solo quattro o cinque è abbastanza meraviglioso. Però ora basta, bisogna darsi una mossa e pensare già a sistemarci in un altro albergo. Ripartiamo abbastanza convinte e dimostriamo un’organizzazione piuttosto efficiente. Andiamo a Cancun, prenotiamo per Mérida e telefoniamo a casa (grandi le tessere Ladatel: si possono usare in tutti i telefoni pubblici e c’è bisogno solo del numero). Poi, sotto un sole accecante, partiamo alla ricerca dell’hotel: vagoliamo un po’ a vuoto boccheggiando per il caldo ma poi troviamo il Novotel, gentilmente consigliato dalla Lonely Planet. E’ molto carino e abbastanza economico. Espletate le questioni pratiche ora finalmente dopo un lungo, lungo, grigio e freddo inverno andiamo al mare! Decidiamo di affrontare la gita a Isla Mujeres ma non è molto chiaro come arrivarci. Nuovamente vaghiamo un po’ a vuoto sotto il sole impietoso di mezzogiorno, ma alla fine troviamo il mezzo fino all’imbarco. Appena sbarcate dal traghetto ci rendiamo subito conto che la cittadina di Isla Mujeres è proprio graziosa, ma siamo troppo concentrate ad arrivare al mare per soffermarci troppo; così rimandiamo eventuali giri escursionistici e puntiamo dritto verso Playa del Norte. Quasi non ci possiamo credere: è tutto troppo bello! Sabbia bianchissima, palmizi ombrosi capaci di offrire dal sole eccessivo e, soprattutto, un mare da cartolina! Finalmente ci possiamo godere il tanto atteso sole, non prima di una essenziale spalmatura della crema a protezione totale. Essenziale perché effettivamente ci impedisce di scottarci ma è anche vero che ci consegnerà a Mérida bianche come cadaveri europei! Dopo la spiaggia facciamo un altro giro e apprezziamo come merita la bella isoletta. Sperimentiamo anche la nostra prima cena messicana, molto buona, al ristorante El Balcon, difficile da scovare (per noi) e consigliato dalla Guida che oramai, come dice il suo stesso nome, è praticamente un faro, come dire: la luce. Dopo cena cominciamo a sentire tutta la stanchezza di questa prima giornata e già sul traghetto teniamo a stento gli occhi aperti. Quando arriviamo in camera siamo così distrutte che (forse) nemmeno l’apparizione di un topo potrebbe svegliarci. Scopriamo che in un posto non meglio precisato vicino alla nostra camera c’è una specie di festa con musica altissima. Inizialmente ci preoccupiamo, ma non ce n’è motivo perché nonostante l’assurda confusione, durata tutta la notte, riusciamo ugualmente a dormire! 14 aprile 2003, lunedì Sappiamo che i bus a queste latitudini mettono a dura prova la resistenza di noi europei così, quando prendiamo il nostro bell’autobus di prima classe per Mérida, siamo coscienti di affrontare un trauma. Come ci aspettavamo, infatti, il rumore e il freddo dell’aria condizionata ci procurano un mal di testa inevitabile. Naturalmente arriviamo a Mérida giusto a mezzogiorno, di modo che ci facciamo la nostra bella camminatina zaino-in-spalla per cercare l’albergo sotto il solito sole battente. Ci stabiliamo a Las Monjas: per carità, costa diecimila lire ma li vale tutti. Ossia, abbastanza pulito e decisamente “spartano”. Dopo esserci sistemate facciamo un giro esplorativo per Mérida. Incuriosite dalla guida arriviamo nella zona del mercato ma il sole è a picco e il caldo soffocante, il chiasso del traffico ci stordisce e la tantissima gente in giro quasi ci frastorna, così finisce che per poco non ci coglie un malore. Tentiamo di fuggire dalla folla trovando rifugio in una sorta di yogurteria, ci riprendiamo un po’ poi facciamo rotta verso una zona più tranquilla, lontano il più possibile dal rione del mercato. Continuiamo a camminare e, mentre girovaghiamo per cercare l’ufficio informazioni, veniamo sistematicamente avvicinate da quella categoria di tizi la cui occupazione principale sembra essere quella di spellare gli ignari turisti. Noi non siamo del tutto ignare e resistiamo a quasi tutti gli assalti, tuttavia un tizio riesce a farci fare un giro a vuoto facendoci credere di condurci all’ufficio informazioni mentre, invece, ci porta in un’agenzia che organizza escursioni. Ma noi non abbocchiamo. Un altro si butta su una spiegazione maya-filosofico infinita facendoci perdere un sacco di tempo, e solo dopo un’ora riesce a capire che in quel momento non abbiamo nessunissima intenzione di fare compere nel suo negozio di artigianato. Mi dispiace, perché alla fine loro ci rimangono male e noi anche, così l’unica strategia possibile non può essere che ripudiare l’atteggiamento amichevole e adottare l’atteggiamento “muro”, così che nessuno perderà tempo e nessuno ci rimarrà troppo male. Dopo esserci liberate degli scocciatori riusciamo finalmente a fare un po’ di foto in piazza, poi andiamo a mangiare al Burger King. Si, so che è una vergogna, ma di fronte ai continui assalti di tutti quelli che ci si parano davanti per trascinarci nel loro ristorante, decidiamo di scontentare tutti affidandoci alla soluzione più disimpegnata e al di sopra delle parti. Dopo cena assistiamo anche alla Vaqueria in piazza, una danza folkloristica i cui ballerini ci stupiscono per la loro abilità, il loro equilibrio e i loro buffi sandali. Ma rimane poco tempo per rimuginare su qualsivoglia stupore, è meglio andare a letto perché domani ci aspetta una levataccia.
15 aprile 2003, martedì Sveglia alle cinque e mezzo allo scopo di giungere all’ameno sito di Chichen Itzà con una temperatura accettabile. Infatti, dopo due ore di autobus, alle otto siamo già davanti ai cancelli d’entrata. Che bella la piramide che si svela alla vista a mano a mano che si lascia il viale alberato! Ci si apre alla vista la spianata, letteralmente dominata da El Castillo non ancora assalito da turisti intenti alla scalata, e il nostro primo approccio con l’antica popolazione maya non poteva essere migliore. Ben presto anche noi ci sottoponiamo al rito dell’ascesa, e non senza timori visto che per tutte e tre la vertigine è in agguato. Con molta calma e circospezione mi accingo alla conquista di El Castillo, e ancora più cautamente affronto la discesa. Alla fine tutte e tre conquistiamo la vetta e guadagniamo la discesa senza particolari problemi. Devo confessare che, dopotutto, questo mi procura una certa soddisfazione! Anzi, piuttosto gasate dall’impresa diamo inizio alla visita fai-da-te delle rovine con la Romi e la Sandra assolutamente all’altezza, guida alla mano. Ma gli dei maya, si sa, oltre che assetati di sacrifici umani erano anche dispettosi, e così disseminano la nostra strada di piccoli imprevisti (sarà forse la vendetta per aver vigliaccamente mangiato al Burger King ripudiando il vero cibo messicano?). Prima ci capita un piccolo incidente con il “dio serpente” Kukukan, al quale promettiamo di riparare al fine di evitare ripercussioni catastrofiche. Poi facciamo arrabbiare una giapponese la quale, inequivocabilmente, ci fa capire che avrebbe utilizzato le arti dei suoi antenati samurai per punirci se non avessimo rispettato la fila per scendere sotto la piramide. Fila nella quale, peraltro, noi non eravamo affatto inserite preferendo evitare probabili attacchi di claustrofobia. Tutto sommato il dio serpente si rivela più dispettoso che furioso, facendoci scontare solo un paio di contrattempi ed esentandoci da veri sacrifici, permettendoci così di continuare beatamente nella nostra visita fai-da-te delle rovine di Chichen Itzà. Conosciamo anche tre italiani: sono i primi che vediamo e siamo particolarmente contente di scambiare quattro chiacchiere, opinioni e informazioni sulle nostre rispettive avventure in Messico. Forse capiterà anche di rivedersi perché, anche se i nostri viaggi hanno percorsi circolari in direzioni opposte, pare termineranno nello stesso punto. Vedremo. Nel frattempo continuiamo l’esplorazione del sito di Chichen Itzà (la bocca del pozzo degli Itzà) che è tra i più grandi e i meglio conservati dello Yucatan. Lo visitiamo in lungo e in largo e ci sfilano davanti, tra gli altri, El Castillo, il gioco della Pelota, il Cenote Sacro, il Tempio dei Guerrieri, Chichen Vieja con sentieri in mezzo alla foresta, l’osservatorio el Caracol, la chiocciola. Ce lo siamo sciroppato al completo, e per fortuna che abbiamo fatto la scalata la mattina presto perché la stanchezza, il caldo e la folla ci avrebbero impedito di portare a termine l’impresa se l’avessimo fatto ora! Per il ritorno prendiamo un autobus di seconda classe. La strategia generale era quella di viaggiare in prima perché è più sicuro e tutto sommato conveniente, ma il tragitto fino a Mérida è breve e poi questo è l’unico autobus che c’è a quest’ora, quindi decidiamo per una volta di soprassedere alle nostre stesse direttive. Il tipo che vende i biglietti presso il sito pare se ne sia andato a mangiare e, aspettando anche un bel po’, concedendogli la maggior fiducia possibile, ben presto appare chiaro che non tornerà. Per fortuna c’è la possibilità di fare il biglietto direttamente sull’autobus quindi non c’è problema. Facciamo un altro percorso rispetto all’andata, è più lungo ma evitiamo l’autostrada e il suo eterno nulla ostacolato da alberi che non consentono di vedere niente. Attraversiamo paesini e piccoli pueblos resi silenziosi dal caldo del pomeriggio. Sbirciamo la gente stesa sulle amache, le donne che sfaccendano nei cortili e i bambini che giocano. Bello questo ritorno a Mérida! Torniamo che è quasi sera, siamo stanche come al solito così si decide per una cena veloce. O meglio, fast. Dopo aver girato un po’ e reputando la scelta di un ristorante un’iniziativa troppo complicata, optiamo ancora una volta per il Burger King, del quale siamo ormai clienti abituali. Sfidiamo il freddo polare dell’aria condizionata, l’ira degli dei maya per il nostro secondo tradimento, e ci mangiamo i nostri panini ancora più velocemente del consueto per sfuggire al freddo. A questo punto, senza rimpianti, ce ne andiamo beatamente a letto! 16 aprile 2003, mercoledì Ci svegliamo ad un’ora più umana, alle 7.37 dove il sette reiterato sta a combattere eventuali indisposizioni degli dei maya tra cui possiamo citare Chak dio della pioggia, Kukukan serpente piumato e dio del sole, giaguari, tartarughe aquile sacre e quant’altro. Perché il sette? Così. La giornata di oggi sarà speculare a quella di ieri ma gli orari sono più umani. Partiamo alle otto e andiamo a Uxmal su un autobus a redondo…ma sì, proviamo autobus un po’ in tutte le salse! Questo autobus fa parecchie fermate, alle quali salgono più che altro messicani. In particolare alcune ragazze si piazzano vicino all’autista e cominciano a fare commenti e battute accompagnati da matte risate! Non ho capito perché ridono ma buon per loro…Effettivamente non ricordo se sugli autobus messicani si trovi il cartello “non parlare al conducente”, ma lo ritengo alquanto improbabile perché gli autisti chiacchieroni saranno una costante di pressoché in tutti i –numeosi- tragitti in autobus che ci siamo sorbite in Messico. Arriviamo a Uxmal, la “città costruita tre volte”, e subito ci rendiamo conto che di italiani in giro non si vede neanche l’ombra. Ma se sembrava che non saremmo riuscite nemmeno a partire perché c’erano gli aerei pieni, dove sono finiti tutti quanti? In compenso mezza Francia al momento si trova in Messico, tanto che se in questo momento ci fosse un referendum in patria sicuramente non raggiungerebbe il quorum! La visita del sito richiede meno tempo di quella a Chichen Itzà anche se gli edifici sono altrettanto imponenti, se non di più. I palazzi spuntano dalla vegetazione e sono molto suggestivi. Confesso di trovare particolarmente affascinanti proprio i nomi che vengono dati a questi edifici: la Casa dell’Indovino, il Quadrilatero delle Monache, il Palazzo del Governatore, il tempio delle tartarughe, la grande Piramide. Proprio quest’ultima è lo scenario di un brutto momento passato dalla Sandra. Lei parte per la scalata già piuttosto dubbiosa ed esitante, e ad un certo punto è colta da un attacco di panico da vertigine che richiede dieci minuti buoni di rassicurazioni, respiri profondi e movimenti molto rallentati prima di riuscire a scendere! Sicuramente questa piramide è più facile da scalare rispetto a El Castillo, che ieri aveva affrontato in tutta tranquillità. Chissà perché questa crisi…forse che il dio serpente sia ancora risentito? Quale che sia la spiegazione, a questo punto pare evidente che abbiamo (la Sandra ha) espiato. Non solo, ma ripariamo ad eventuali irritazioni degli dei maya consumando un pranzo che sarà l’unico pasto del giorno ma, soprattutto, sarà un pasto messicano, ripudiando il ripudio della sera prima al Burger King. L’occasione è propizia, oltre che per sfamarci, anche per assodare una caratteristica dei messicani che per la verità avevamo già notato. Ossia che i camerieri sono tanto lenti a prendere le ordinazioni e a preparare il pasto, quanto sono veloci a portare via il piatto. Non importa se uno ha finito o no, se solo attende un attimo in più prima di inforcare il suo bel boccone di fajitas il cameriere, lesto come un furetto, gli toglie il piatto da sotto il naso senza proferire verbo, al rischio che uno ci rimane anche un po’ male. E ancora una volta è toccato alla Sandra. L’altro giorno la birra, oggi il caffè…la cosa comincia a essere preoccupante. Davvero, sono proprio un po’ isterici i messicani in questa cosa del portare via, io non li capisco! Al ritorno da Uxmal la Sandra va in albergo e inizia a prepararsi per la partenza mentre io e la Romi andiamo a vedere il famoso Paseo Montejo. Ci facciamo a piedi tutto il Paseo e quello che vediamo è un grande viale a doppia corsia, grandi marciapiedi, grandi palazzi, grandi uffici, grandi banche e una statua del signor Francisco Montejo non tanto grande. Comunque, dopo le rovine e questa ulteriore sfacchinata sotto il sole, arriviamo in albergo stremate e sudate come asinelli sardi. Una doccia mi fa sentire in maniera più umana, ma non possiamo riposarci come vorrei perché è impellente rifare per l’ennesima volta le valigie. Fatti i preparativi ci trasciniamo cariche come somarelli alla stazione, dove ci aspettano quelle otto-nove ore di viaggio per Palenque. Speriamo almeno che l’autista sia un po’ meno matto della media messicana! Quando partiamo è sceso il crepuscolo e fuori dal finestrino non si vede già nulla: penso che anche per questa volta non potrò godermi il panorama. Però alzo gli occhi e, dopotutto, pare che la luna piena ci accompagni verso il Chiapas. 17 aprile 2003, giovedì Per me il viaggio è stato abbastanza un incubo perché, oltre al freddo tipico causato da quei veri e propri tifoni che qui chiamano aria condizionata, ho sofferto per tutto il tempo di un attacco tremendo di mal di schiena, che davvero non è la condizione migliore in cui passare otto ore fermi sopra un sedile. Naturalmente non ho chiuso occhio, ma per fortuna almeno la strada non presentava particolari problemi e l’autista non era matto. In compenso non ci ha fatto tenere accese le luci e ci ha ammorbato per tutto il viaggio con vecchie canzoni simil-sanremesi rivisitate e corrette in spagnolo: un vero strazio. Siamo passati per Campeche, “la città dei pirati”, dove sono riuscita a vedere un paio di bastioni vicino al porto, e per Valladolid, di cui ho visto…la stazione degli autobus. E comunque, vi prego, qualcuno mi spieghi perché, dico perché, tengono l’aria condizionata a meno due gradi costringendo la gente ad infilarsi in coperte e maglioni fino al naso! Mah, misteri messicani! Arriviamo a Palenque alle quattro e trenta del mattino ma aspettiamo l’alba in stazione, perché tanto fino a quell’ora è tutto chiuso. Siamo indecise se restare a Palenque più di una notte e mentre ancora ci stiamo riflettendo partiamo per cercare un albergo. Ne scartiamo un paio perché sembrano davvero troppo fatiscenti, altri che ci ispirano sono ancora chiusi ed altri non hanno stanze. Ci infiliamo in un posto chiamato Hostal San Miguel che, nonostante il nome, non è un ostello ma un alberghetto, e quando strappiamo uno sconto solo in cambio della permanenza per due notti, abbiamo risolto anche quella faccenda. Sono le sei e abbiamo interrotto il tipo della reception mentre stava pulendo le scale. Il tizio ha una faccia che dire addormentata è dire poco, o forse più che altro sembra fumato, ma tutto sommato è gentile e per ottenere lo sconticino si attacca al telefono con quello che evidentemente è il grande capo. Concludiamo l’affare e siamo tutti contenti, così il tizio ritorna alle sue scale, e noi ci andiamo finalmente a stendere in una camera decisamente spartana, però pulita e con un bagno onorevole. Naturalmente la nostra folle tabella di marcia non ci consente molto tempo per riposarci, ed alle otto siamo già in strada a cercare mezzi per fare il tour Misol-ha/Agua Azul/Agua Clara. Davvero non ci mettiamo molto a trovarne. Anzi, a dire il vero siamo trovati, comunque decidiamo di andare con l’Agenzia Misol-ha. Indulgendo in un’occupazione tipicamente messicana, aspettiamo che sopraggiungano altri gitaioli così da riempire il pulmino e, per rendere più confortevole l’attesa, la gentile signorina ci fornisce anche di sedie. Io e la Sandra però ci sentiamo incredibilmente attive e sfruttiamo l’attesa per concordare anche l’escursione del giorno successivo, per la quale riusciamo a strappare un buon prezzo dopo una contrattazione sostenuta, onesta ma decisa. Saremmo state troppo stanche per riuscire a organizzare l’escursione autonomamente quindi ci assoggettiamo volentieri ai tempi e ai percorsi obbligati tipici della gita in comitiva. Così, seguendo docilmente il nostro gruppo, passiamo dietro la cascata di Misol-ha, passeggiamo sul ponte sospeso sopra le azzurrissime acque di Agua Azul invidiando per un attimo i temerari che decidono di buttarsi e, infine, rischiamo di romperci l’osso del collo nelle rapide di Agua Clara. A quel punto abbiamo guadagnato alcune ore di libertà che noi passiamo stramazzate sul telo della Sandra. C’è un’afa pazzesca e passiamo il tempo a osservare gli innumerevoli “esemplari” di messicani che si satollano sotto le loro tende , sopra le loro brandine, dentro la loro acqua e, soprattutto, attaccati alle loro bottiglie di Coca e Corona. Queste sono due settimane di vacanza in Messico, e molti sono a casa dal lavoro. E’ stato divertente: mai visti tanti messicani in festa tutti insieme, e penso proprio che nessuno fatichi a credermi! Tornate a Palenque ci trasciniamo in giro sotto il sole a sbrigare alcune questioni (biglietti, internet, telefono) decidendo di mangiare subito, perché se mettessimo piede in albergo non riusciremmo più a trascinarci ancora lontano dai letti. Stravolte e sufficientemente sporche ci mangiamo un buon piatto di quesadillas e sincronizadas a El Mulino dove, casualmente, becchiamo un happy hour 2×1 che ci procura due birre a testa. Stanchissime, mezze ubriache e quindi felici, ce ne andiamo finalmente in albergo dove riusciamo anche a far capire al tipo poco sveglio della reception che dovrebbe venirci ad aprire la porta perché, nell’uscire, abbiamo dimenticato la chiave in camera…E’ evidente che la stanchezza sta minando le nostre facoltà cerebrali. Urge, fortissimamente urge il letto. 18 aprile 2003, venerdì Scopriamo che la cappa di umidità che sovrasta Palenque non dà tregua neanche la notte. D’altra parte devo confessare che noi, povere ingenue, avevamo lasciato spento il ventilatore e chiuso la porta-finestra del terrazzino perché, dato che non aveva zanzariera, temevamo che si infilassero in camera altre lucertole oltre a quella che ci aveva accolto al nostro ingresso. Ad un certo punto della notte, però, sembrava di stare in una camera a gas e, a quel punto, abbiamo abbandonato ogni indugio precipitandoci ad aprire la porta e accendere il ventilatore. Comunque, con tutte queste faccende, anche questa notte dormiamo ben poco perché la sveglia suona alle 5.15 allo scopo di partecipare all’escursione organizzata dalla nostra agenzia di fiducia (Misol-ha) a Yaxchilan e Bonampak. Semicollassate dal caldo, dalla stanchezza e dal poco sonno ci muoviamo come automi ma alle sei siamo puntualissime davanti all’albergo ad aspettare il pulmino. O.K., si parte. Dopo cinque minuti perdiamo la ruota di scorta: molto bene. L’autista non fa una piega e la recupera agilmente, dopo di che partiamo per davvero. Prima dell’arrivo a Bonampak scendiamo e risaliamo su un altro trabiccolo scassato: un vecchio pulmino Volkswagen verde ramarro sul quale percorriamo nove chilometri di strada sterrata. Tuttavia non ne ho un ricordo molto nitido perché dai mille spifferi della carrozzeria entra a manciate tantissima polvere che ci imbianca e ci soffoca, e così passiamo quei cinque minuti con la bocca serrata e gli occhi strizzati. Arriviamo comunque al sito, immerso nella Selva Lacandona, e all’entrata ci accolgono le immancabili donne indios che vendono il loro artigianato. Queste sono più trascurate e, forse, più povere degli indios che abbiamo incontrato finora, ma in compenso i loro monili sono i più belli che ho visto. Il sito è molto bello: naturalmente non sono un’esperta ma è evidente lo stile diverso rispetto a quello visto finora. Inoltre mi affeziono istantaneamente al sovrano maya di Bonampak e soprattutto al suo nome, re Pajaro Jaguar, nonché alla storia dell’alleanza matrimoniale con un principessa di Yaxchilan. Devo dire che le storie di re e regine, pur con tutte le varianti del caso, sono affascinanti a tutte le latitudini! Ci facciamo la nostra scalata e cerchiamo di vedere il più possibile, il più velocemente possibile, ma ugualmente arriviamo all’appuntamento con gli altri partecipanti alla gita con cinque minuti di ritardo, attirandoci il rimprovero di un simpatico membro della nostra comitiva. E per fortuna non siamo gli ultimi! Due tizi arrivano con quindici minuti di ritardo e il tipo riprende anche loro. Avrà anche ragione, ma è proprio il tipico rompiscatole-maestrino del cavolo, immancabile in ogni comitiva gitaiola. Non si può stare rilassati neanche in vacanza! Alla fine ci rimediamo tutti e facciamo rotta sulla prossima tappa: Yaxchilan. Lasciamo il pulmino e saliamo su una barchetta con il tetto di paglia con la quale risaliamo per circa un’ora il fiume Usumacinta, che segna il confine con il Guatemala…infatti hanno anche voluto i numeri dei passaporti ai vari posti di controllo. E’ abbastanza emozionante pensare di navigare in tutta tranquillità da qualche parte del centro America e, a parte questo, la gita in barca è piacevole anche perché il vento ci consente di abbandonare temporaneamente l’afa persistente di queste latitudini. La barchetta è condotta da un indio accompagnato da un ragazzino che, alla partenza, aveva portato sulla barca un contenitore pesantissimo pieno di bottiglie d’acqua per noi. La cosa ci ha piuttosto colpito e non abbiamo potuto fare a meno di sentirci un pochino in colpa. Attracchiamo in una spiaggetta da cui parte l’esplorazione del sito. Le prime figuracce le facciamo già all’ingresso, quando ci chiedono se eravamo con un tizio -indicando il pilota della barca- e noi, non riconoscendolo, neghiamo senza ombra di dubbio. Non l’avevamo guardato molto bene! Dopo una serie di quid pro quo interviene ad aiutarci anche la tipa “ritardataria” e tutto si risolve. Si, ok, siamo un po’ invornite, ma la stanchezza è una buona scusa…comunque alla fine riusciamo ad entrare. Siamo nella foresta pluviale e c’è un’umidità tremenda però il sito, così selvaggio, è affascinante. Oramai siamo delle esperte visitatrici di rovine maya e, guida alla mano, iniziamo il nostro percorso. Gli edifici più importanti, raggruppati in una sorta di spiazzo, li visitiamo in poco tempo, quindi ci addentriamo nella Selva. Siamo lanciatissime, decidiamo di seguire le indicazioni della guida e di raggiungere il tempio più alto, da cui pare si goda una vista bellissima. Infiliamo percorsi improvvisati e sentieri nascosti, un paio di volte sbagliamo strada, torniamo indietro e sempre continuiamo a salire. E’ dura, ma il peggio è che abbiamo pochissimo tempo prima dell’appuntamento per il ritorno e siamo un po’ terrorizzate dall’idea di far tardi perché già ci vediamo il maestrino mentre ci rimprovera con aria truce. Fra liane, uccelli di ogni tipo e scimmie urlatrici ci addentriamo nella giungla e finalmente troviamo il nostro tempio. Ci saliamo sopra affrontando l’ennesima scalinata maya e…non si vede niente. La vegetazione è troppo alta. Va bé, pazienza, noi siamo comunque fiere della nostra impresa. Sostiamo sulla cima dell’edificio congratulandoci con noi stesse e tentando di riprenderci dalla fatica. Effettivamente abbiamo proprio bisogno di una sosta, anche perché questa volta è la Romi a passare un brutto momento a causa di quello che sembra decisamente un calo di zuccheri, al quale cerca di sopperire con un provvidenziale Marss, un po’ liquefatto comunque efficace. Ma come sempre non c’è molto tempo per il riposo perché dobbiamo scapicollarci giù per tornare alla barchetta. Siamo moribonde ma giungiamo in perfetto orario. In compenso i due tipi ritardatari ancora non si vedono e alla fine raggiungeranno un ritardo record di venti minuti, arrivando giusto prima che al maestrino venga un colpo apoplettico dal nervoso. Il ritorno comprende anche una sosta per il pranzo, che facciamo in compagnia tra l’altro di una simpatica scimmietta di nome Mercurio, poi, dopo ore, ore e ore di viaggio arriviamo a Palenque. Facciamo una capatina in albergo e troviamo in qualche modo l’energia per andare a mangiare qualcosa. Sembrerò ripetitiva, ma ancora una volta siamo troppo stanche anche solo per affrontare una cena in un ristorante, con tutte le attese e le complicazioni del menù che questo comporta. Per questo scegliamo un posto veloce e relativamente desolato chiamato pomposamente taqueria ma, sorprendentemente, il tipo che ci serve è dinamicissimo, veloce, sorridente e, soprattutto, mangiamo le quesadillas più buone della nostra permanenza messicana. Chissà, forse gli imprevedibili dei maya ci hanno voluto premiare per la costanza e la fatica della nostra esplorazione odierna! 19 aprile 2003, sabato Finalmente ci alziamo ad un’ora più umana e ci voleva proprio, perché dopo il tour de force di ieri un po’ di riposo stava diventando vitale. Facciamo persino colazione e siccome i giorni precedenti l’avevamo dovuta saltare molto spesso, ci sembra quasi di indulgere ad un vizio proibito! Dopo esserci concessi questi semplici ma impagabili piaceri mattutini, siamo pronte per trovarci un combo e, in quindici minuti, siamo al sito di Palenque. A questo punto bisogna confessare che la Lonely Planet non manca di avvisare che è meglio recarsi alle rovine di Palenque molto presto la mattina, ma noi non pensavamo di essercela presa troppo comoda dato che arriviamo alle 8.45 e il sito apre alle 8.00. Tuttavia non tardiamo a renderci conto che c’è qualcosa che non va: niente di irreparabile, per carità, solo una fila che neanche agli Uffizi per Pasqua. Non ci resta altra scelta che assoggettarci a nostra volta alla coda, riuscendo ad entrare dopo un’attesa di tre quarti d’ora buoni. Ma ne vale la pena perché il colpo d’occhio è affascinante, infatti gli edifici principali del sito sono slanciati verso il cielo con la foresta che li sovrasta da dietro, hanno un’architettura particolarmente elaborata e sono davvero imponenti. Peccato solo per la folla e per il fatto che ci sono tantissimi indios che stressano per vendere i loro prodotti. Tutto questo però non riesce a sminuire l’atmosfera di solennità che pervade questo posto. Decidiamo di non farci distrarre né dalla folla né dai venditori, mettiamo mano alle guide e anche qui ci facciamo il nostro giro alla scoperta dei misteri del grande sovrano Pakal e del figlio Chan Balum. Peccato che io non stia molto bene e che, ancora una volta, andiamo di fretta perché dobbiamo tornare in tempo per lasciare la stanza entro mezzogiorno, per poi ripartire alla volta di San Cristòbal. Il risultato è che, avvolte come non mai dalla tipica cappa di umidità, ci sorbiamo di corsa tutto il sito, gruppo B e gruppo C compresi. Per visitare il gruppo C ci avventuriamo anche per un sentiero poco frequentato da cui la guida ci avvisa di stare possibilmente alla larga. Noi sfidiamo il pericolo e fortunatamente non incontriamo problemi, così guardiamo tutto e ce ne torniamo a Palenque-città che è mezzogiorno in punto. Puntuali, per carità, ma in compenso sudate e stravolte come è oramai nostra consuetudine. Sloggiamo dalla camera e a quel punto possiamo rallentare il ritmo. L’unico altro obiettivo della giornata è quello di partire, così il tempo si consuma nell’attesa della partenza e nel tentativo –vano- di resistere al caldo. Pranziamo in un localino il cui unico posto libero è fuori dalla portata di ventole e ventilatori, e iniziamo a sudare. Sempre sudando trasciniamo il pranzo per le lunghe fino a quasi il momento di andare in stazione. A quel punto raccogliamo i nostri zaini e ci trasciniamo in fila nella calura, sempre sudando, verso la stazione. Per la prima volta preleviamo anche i soldi dal Bancomat. L’esperimento ci procura un po’ di ansia e di patemi, ma si conclude con successo. Ora non ci resta davvero altro da fare che partire. Per arrivare a San Cristòbal dobbiamo salire fino a duemila metri e il tragitto ci spaventa un po’ perché sappiamo che è pieno di curve. La prima parte del viaggio si rivela per me abbastanza dura, infatti le prime due delle cinque ore di autobus le passo in preda ad una leggera nausea e, devo dire, anche le altre tre non sono idilliache. In compenso mi riempio gli occhi del paesaggio, dei villaggi arrampicati sui tornanti, delle baracche di legno e cemento ravvivate da scritte in vernice. Tra di esse sovrasta sulle altre, imperante, la scritta della Coca Cola che già si annuncia nelle vesti, quasi, di feticcio locale. Soprattutto però mi riempio gli occhi di questa gente (indios, non messicani) che va e viene a piedi lungo la strada. Mi colmo lo sguardo di bambini che giocano e delle donne, da sole o con il figlio più piccolo appeso al collo in un fagotto, oppure seguite a piedi dal resto della nidiata. Sono tantissimi. Stanno fuori dalle case –baracche di legno e lamiere- a sedere, a mangiare, bere e parlare. Finalmente, forse per la prima volta, le strade del Messico si popolano di gente. Verso le otto di sera arriviamo infine a San Cristòbal de las Casas e, dopo i tornanti ripidi dei monti e le spoglie lampadine fuori dalle baracche, le luci di questa cittadina adagiata sul bassopiano mi comunicano subito un senso di accoglienza. Scendiamo un po’ provate, ma quando metto piede fuori dalla stazione l’aria fresca che tira quassù mi ristora immediatamente, almeno tanto quanto i colori e i suoni di San Cristòbal. La città è veramente carina. Percorriamo la via principale fino all’albergo e scopriamo che San Cristòbal è in festa: luci , bancarelle, tantissima gente, messicani e indios e persino i fuochi d’artificio. E’ la Feria de la Primavera y de la Paz. Inoltre ci troviamo anche nella Semana Santa, i bambini sono in vacanza per due settimane ed ecco spiegato perché ne abbiamo visti così tanti in giro. L’aria quassù è freschina ma dopo l’afa di Palenque è una sensazione bellissima. Alloggiamo al Frey Bartolomé del Las Casas, un albergo carino ed economico, e quando ci siamo sistemate è già passata mezzanotte. Anche questa sera siamo molto stanche, oramai non vale la pena di uscire così non ci rimane che andare a letto; ma anche in camera ci raggiungono, invitanti, i suoni della festa.
20 aprile 2003, domenica La questione del giorno è se fare la gita al Cañon Sumidero o andare a visitare i paesini indios dei dintorni. Contrariamente alla volontà della Romi, considerazioni di natura logistico-tempistica ci inducono a scegliere la prima alternativa. Oggi è Pasqua, e l’aspetto di San Cristòbal è quello sonnacchioso tipico delle cittadine in un giorno di festa. C’è poca gente in giro, mentre in questa particolare mattina suonano allegre le campane delle chiese. Pasqua è una ricorrenza importante in Messico, preparata e preceduta da tutti i riti della Settimana Santa che sono particolarmente sentiti dalla gente tanto che anche noi, pur essendo sempre in giro, abbiamo avvertito questa loro devozione. Ci sentiamo un po’ coinvolte da questa particolare atmosfera lieta, sonnacchiosa e solenne al tempo stesso, e ci sembra logico a questo punto assecondare questa sensazione. Per questo decidiamo di trovare una chiesa e assistiamo alla messa. E’ stata una bella cosa, semplice e rallegrata dalla musica dei mandolini. Assecondato il lato spirituale arriva il momento di dedicarsi alla parte ludica, così ci avventuriamo a prendere un combo che ci condurrà all’imbarcadero per ilCañon, situato in una località dal nome piuttosto simpatico: Cahuaré. Il pulmino è pieno di “locali”, tra cui intere famigliole in gita, e non è la prima volta. In effetti finora di turisti ne abbiamo incontrati pochi nei nostri spostamenti ma, in compenso, di messicani e indios una marea. La discesa da S. Cristòbal fatta dal versante di Tuxtla Gutierrez si rivela tutt’altro che una passeggiata, infatti vediamo alcune auto ferme sul ciglio della strada con il motore fuso. Anche le curve rendono il tragitto davvero poco confortevole, comunque arriviamo in fondo indenni e fortunatamente non stiamo neanche troppo male. Il caldo della valle dopo l’aria fresca di San Cristòbal è a dir poco opprimente e ci accingiamo all’escursione adottando movimenti particolarmente cauti e rallentati. La gita non si rivela uno splendore perché siamo alla fine della stagione secca, è tutto molto brullo e non c’è neanche la cascata! Ma la vera cosa da ricordare della gita sono i balzi della lancia: facciamo delle “incocciate” sull’acqua che fanno salire lo stomaco in gola e ognuna di noi ha il suo bel da fare per gestire la situazione. La Sandra inizialmente rimane rigida dal terrore, poi pare rassegnarsi aspirando solamente ad arrivare alla fine indenne; la Romi è concentrata nello sforzo di non vomitare mentre io cerco di irrigidire gli addominali quando la barca sbatte sull’acqua per evitare di sprezzarmi la schiena. Il tour termina dopo circa due ore ma a quel punto decidiamo di non tornare subito a San Cristòbal perché davvero non ce la potremmo fare ad affrontare ulteriori sollecitazioni al nostro stomaco. Inoltre, con il passare delle ore il caldo si fa sempre più implacabile, così facciamo una sosta sotto l’ombra e assaporiamo per una volta il gusto del dolce far nulla. Inevitabilmente ben presto ci rendiamo conto che non potremo restare lì per sempre, così, sotto un sole davvero esagerato, ci avventuriamo piano piano sulla strada con l’intenzione di prendere al volo una corrierina che rientri a San Cristòbal. Ci ripariamo sotto la pensilina della fermata ma è abbastanza inutile: l’afa è tale che si suda anche senza muoversi e il calore sembra quasi sciogliere l’asfalto. Saliamo sul primo bus che si ferma. E’ pieno di messicani, soprattutto indios, e ci sediamo verso il fondo negli unici posti liberi. E’ così che, in maniera insospettabilmente tranquilla, ha inizio il viaggio in autobus più allucinante della vacanza…Prima di tutto dietro di noi c’è un vecchio pazzo, o malato, o ubriaco, certo poco pulito, che allunga le mani a mo’ di artiglio sul sedile della Sandra che ha la sfortuna di sederglisi davanti. Poi blatera, farfuglia, borbotta e questiona con l’omino che viene a riscuotere i biglietti ma, soprattutto, sputa in maniera disgustosa direttamente sul sedile davanti come neanche un lama di razza pura si sognerebbe mai di fare. E già questo renderebbe il tragitto un incubo. Se nonché, in più, ci si mette pure l’autista che si rivela matto da legare. “Costui” si cimenta in una guida davvero troppo sportiva, tagliando i tornanti dell’infinita salita che ci riporta a San Cristòbal, facendoci ammirare molto da vicino sia i precipizi sia i costoni di roccia della montagna e non lesinando, visto che c’è, di potare anche qualche ramo inopportunamente sporgente. Schifate dal vecchio lama e innervosite dalla guida dell’autista, abbiamo già troppe preoccupazioni per pensare a dar di stomaco, ma quando arriviamo a destinazione scendiamo dal pulmino ondeggiando ancora come marinai rimasti al largo per vent’anni. Dopo aver riacquistato confidenza con la terraferma decidiamo che per oggi abbiamo già provato abbastanza emozioni, quindi nel resto del pomeriggio ci limiteremo a farci una salutare passeggiata per il centro. Per prima cosa, siccome ci è mancata la nostra razione quotidiana di scalini, saliamo la bella gradinata fino alla chiesa di S. Cristòbal, che domina dall’alto la città. Lì abbiamo anche uno scambio di e-mail con un bimbetto simpatico di nome Fernando. Io impazzisco letteralmente dalla voglia di fotografare ogni angolo, ogni scorcio delle vie di San Cristòbal ma in parte sono frustrata, perché capisco che non sono in grado di fare scatti all’altezza del posto. Inoltre abbiamo fretta e siamo stanche quindi proprio non ci sono le condizioni ideali per dedicarci alla cura delle foto. Il nostro girovagare non è però infruttuoso: ci mescoliamo alla gente in festa, visitiamo la cattedrale e riesco finalmente a mangiare la famosa pannocchia acquistata nei baracchini come una messicana doc…si fa per dire! La sera stiamo un po’ in piazza dove suonano e dove c’è un mucchio di gente per la festa, ma fa piuttosto freddo e noi, come al solito, siamo decisamente provate dalle fatiche di oggi così, ben presto, decidiamo di porre fine a questo giorno andandocene a letto, mentre pregustiamo la gioia di un’altra notte senza afa. 21 aprile 2003, lunedì Temprate (si fa per dire: dopo giorni e giorni di sfacchinate ci vorrebbe ben altro!) da un bel sonno al fresco, la mattina siamo pronte per la visita ai villaggi indios anche se, prima di partire, facciamo in tempo a visitare la Chiesa di San Domingo e a riprometterci di passare al mercatino indios adiacente, nel pomeriggio Per l’escursione ci affidiamo ad Alex e Raul, che ci avevano contattati già il giorno prima e che sono raccomandati anche dalla Lonely Planet. La visita ai villaggi mi piace molto e mi lascia addosso tante informazioni e sensazioni curiose, ma anche contrastanti. Innanzitutto però bisogna dire, per la cronaca, che la Romi aveva avuto ragione a insistere per fare ieri la visita ai villaggi, perché ieri era Pasqua, e gli indios l’hanno celebrata in tali modi che oramai noi potremo soltanto immaginare…Siamo un po’ sbattute da questa notizia ma tutto sommato la Romi affronta la cosa con elegante maturità, e noi le saremo eternamente grate per questo! Cerco di allontanare dalla mia mente il pensiero di cosa ci siamo perse e mi concentro sulle spiegazioni di Raul, che trovo molto interessanti. Sono trenta anni che lavora con gli indios e, al di là del fatto che questo sia il suo lavoro, si capisce che ci tiene davvero a far conoscere la realtà e la situazione degli indios, e le problematiche del Chiapas. A San Juan Chamula osserviamo il cimitero, sorprendendoci nell’apprendere che alcuni segni che noi interpretiamo come di povertà non lo siano affatto. Bisogna imparare a riconoscere i segni, dice Raul. Per esempio, un mucchio di assi fuori dall’abitazione non costituiscono affatto un segno di inciviltà ma nascondono una sauna; e una donna che cammina a piedi scalzi non necessariamente ne è costretta dalla povertà perché, se apre la bocca, possiamo scoprire che ha denti d’oro: quindi l’oro ci dice che la donna non è affatto povera, e che cammina scalza semplicemente perché questa è la tradizione. Arriviamo in piazza dove c’è il mercato alimentare e la scena costituisce un gran colpo d’occhio: ci sono solo indios, e per la prima volta ho la sensazione della mia estraneità e della lontananza quasi incolmabile fra noi e questa gente. A questo punto è giunto il momento di visitare la chiesa, la famosa chiesa, e di assistere ai suoi riti. Vediamo la gente seduta sul pavimento ricoperto di foglie secche e le statue dei santi. Ci sono i curanderi, c’è gente che parla ad alta voce nella propria lingua incomprensibile e melodiosa: parla con i santi e chiede loro grazie e favori. Officiano ai riti con gli ingredienti tipici: ci sono le uova, simbolo di nuova vita; le candele simbolo di energia; le bibite per sprigionare energia e le galline, nelle quali trasferire i propri mali. Poi c’è il push, una bevanda molto alcolica che serve quasi da anestetizzante. Non so dire se mi coinvolga tutto questo. Decisamente lo trovo un po’ vodoo ma allo stesso tempo è suggestivo, non lo nego. E’ altrettanto vero però che mi sento più interessata alla loro visione sociale che alla questione religiosa, ma è stato interessante sentire salmodiare e discutere indios e curanderi coi vari santi. L’altro villaggio che visitiamo si chiama Zinacantan. Questi due villaggi così vicini, separati solo da un monte, sono però molto diversi. Innanzitutto gli abiti: quelli di Zinacantan sono meno colorati ma li trovo persino eleganti. Soprattutto le gonne delle donne, specie se paragonate a quelle di capra di San Juan Chamula. La chiesa qui è una vera chiesa, cattolica e “romana”, nella quali si celebrano tutti i sacramenti, contrariamente all’altra. A Zinacantan visitiamo anche la casa di una tessitrice, una simpatica donnetta con sette figli, di cui l’ultimo ancora infagottato sulla schiena. Intanto Raul parla un po’ di tutto e, tra l’altro, anche della storia del movimento zapatista, pur se con poco entusiasmo e perché sollecitato da uno del gruppo. Secondo Raul, all’inizio, quando era un movimento sociale andava bene e lui lo appoggiava, ma poi se ne è distaccato quando hanno cominciato a girare le prime mitragliette. Inoltre ritiene che le sue rivendicazioni siano troppo generiche e per questo irrealizzabili. Ritiene che è impossibile parlare degli “indios” come di un corpo unico perché in realtà ci sono sette o otto comunità indios con lingue, costumi, tradizioni e persino religioni diverse. Per Raul il maggiore problema delle comunità indios del Chiapas è quello della sovrappopolazione che, in ambienti chiusi come quelli, genera il problema della consanguineità che induce addirittura all’albinismo. D’altra parte Raul ritiene che l’unica maniera da parte dei villaggi di mantenete la propria identità consista proprio nella loro chiusura e nella compattezza, così come è riuscito a fare San Juan Chamula. Infatti, per esempio, nessuno che non è nato o non ha genitori di SJC può andare a vivere lì, e nessun abitante di SJC può sposare un non-indio. Così, tornando all’EZLN, per Raul il suo merito è stato quello di portare a conoscenza del mondo il problema della povertà degli indios in Chiapas, dopo di che le sue azioni e i suo gesti hanno perso di purezza. Per Raul quello che bisogna fare con gli indios è semplicemente aiutare, non cercare di cambiarli. Se loro si trovano bene a camminare scalzi, perché costringerli a portare le scarpe? Un’altra cosa che ci fa notare Raul è particolarmente d’effetto. Ci fa notare che a Zinacantan, tra i colori delle bande ornamentali appese alla croce che c’è in chiesa, ce n’è uno che manca a San Juan Chamula: il rosso, il colore dell’amore. Perché a SJC non c’è amore, c’è tenerezza verso i figli ma il matrimonio è un semplice contratto. E se i bambini stanno male e il curandero (è un medico naturale, non uno sciamano) non funziona allora, semplicemente, el se muere. A Zinacantan, invece, se il curandero non riesce a guarire il bambino, gli indios considerano la possibilità della medicina occidentale. Forse questa è la strada: mantenere la loro identità ma renderli consapevoli che ci sono altre opportunità, altri mezzi. Tira vento ed è molto caldo, gli occhi bruciano. Quando torniamo a San Cristòbal sono quasi le tre del pomeriggio ed io sono contenta perché questa visita mi ha colpito. Vorrei avere avuto il tempo di visitare altri villaggi ma non è possibile, dobbiamo partire. Comunque va bene lo stesso perché so che, per quanto approssimative, le impressioni di oggi mi rimarranno. Salutiamo e ringraziamo Raul, quindi lasciamo definitivamente gli indios e la loro commistione fra sacro e profano per dedicarci a un’attività decisamente più prosaica: ovvero gli acquisti al mercatino indio di Santo Domingo. Come sempre la febbre del consumismo non perdona e, più cose vediamo, più sentiamo, irresistibile, il desiderio di impossessarcene, finendo per comprare tonnellate di stoffe di cui assolutamente non so cosa potremmo farne una volta a casa. Non contente, acquistiamo diverse altre amene reliquie. Ancora una volta facciamo tutto di fretta e alle quattro ci sciroppiamo, sotto il sole di San Cristòbal ancora in festa, tutto il viale Insurgentes fino alla stazione con gli zaini in spalla, particolarmente sudate perché abbiamo già indossato i vestiti pesanti per il viaggio. Ci aspettano diciassette (!) ore di pullman, e questo pensiero non mi rallegra, ma anche l’idea di lasciare San Cristòbal un po’ mi spiace. Avrei voluto avere un giorno in più, o almeno più tempo e più calma per fare le cose. Ma va bene così, si vede che l’esperienza del Chiapas è destinata a rimanere breve ma, come si dice, memorabile. Senza rimpianto lasciamo il Chiapas e la sua popolazione dura, impenetrabile e persino fredda, ma senza dubbio affascinante. Siamo pronte a lasciarci l’altopiano alle spalle perché adesso ci aspetta, finalmente, il mare.
22 aprile 2003, martedì E così ci sottoponiamo a diciassette ore di pullman da San Cristòbal a Playa del Carmen. Oramai siamo forgiate dalle precedenti innumerevoli esperienze con bus messicani, ma ciò non toglie che diciassette ore filate di viaggio ci intristiscono non poco. Tuttavia la prendiamo con filosofia e in effetti, superata la discesa da San Cristòbal e verificato che i tornanti non hanno prodotto l’irreparabile, ci rilassiamo un po’, calando ben presto in quello stato catatonico e semivegetativo che ci caratterizzerà durante l’intero percorso. In realtà però tale condizione sarà disturbata da alcuni elementi. Innanzitutto il primo autista mette su della musica techno martellante che davvero potrebbe indurci a commettere atti inconsulti. Come se non bastasse, lui e il suo “cambio” discutono per ore a voce altissima credo di tutto: la vita, la morte, la politica, la situazione sociale, le donne, le sbornie …emettendo anche suoni più o meno gutturali e di genere non meglio specificato. Noi siamo nelle prime file e la vicinanza con queste forze della natura ci indispone un pochino. A un certo punto il “secondo” se ne va a riposare in fondo al pullman e il suo compare ne approfitta per mettere su una musica rivoltante che ci accompagnerà per tutte le ore successive, ossia delle nenie messicane da endovena. Comunque tutto procede più o meno regolarmente fino a Ocosingo dove sostiamo un attimo e vediamo un gran trambusto. Che succede? Niente, solo che molto seccamente e senza tante cerimonie ci consigliano di nascondere i soldi, gli orologi ed eventuali ori in fondo allo zaino, perché pare che nel tratto isolatissimo di selva fino a Palenque ci siano i banditi. Banditi? In una frazione di secondo abbiamo gli occhi a palla, ci guardiamo in giro per vedere la reazione dei nostri compagni di viaggio e ci accorgiamo che tutti i messicani tranne un paio di turisti, probabilmente tedeschi, nascondono i loro averi senza preferire verbo. Chiedo spiegazioni al mio vicino messicano ma come risposta è solo capace di ridermi in faccia, la qual cosa mi fa più arrabbiare più che spaventare. Comunque non possiamo farci niente, vediamo che succede! Rimaniamo con gli occhi sbarrati per un bel pezzo: sembra che la radio abbia avvertito l’autista di aspettare un po’ prima di riprendere la corsa, forse per aspettare l’arrivo di una pattuglia di polizia. Ad un certo punto ci rimettiamo in marcia, ma fortunatamente presto vediamo che un’auto della polizia ci sorpassa a tutta velocità. Il tutto accade nel più perfetto silenzio dei nostri compagni di viaggio messicani che dimostrano, evidentemente, di non avere mezze misure: o sono iper-logorroici o completamente muti. Devo dire che questa mancanza di equilibrio inizia ad essere una caratteristica sempre più evidente…Comunque, capiamo che per questa volta ci è andata liscia, poi la stanchezza prende il sopravvento e ripiombiamo in stato catatonico fino all’alba, disturbate solo dalla musica vomitevole e dal freddo polare che imperversano sul mezzo. Un’alba nebbiosa ci saluta da Chetumal. Ancora due o tre ore ed eccoci a Playa del Carmen a cercare un albergo, zaino-in-spalla, naturalmente sotto il sole di mezzogiorno. E’ abbastanza un incubo, un paio non hanno posto ma alla fine ci sistemiamo in un albergo carino e non particolarmente caro chiamato La Ziranda. Fra una cosa e l’altra ci avviamo in spiaggia solo verso le cinque del pomeriggio, e la vista del mare giù in fondo alla strada è, come sempre, un vero spettacolo. Per oggi non si prende il sole, ma il riposo pomeridiano in spiaggia dopo la notte in bianco è meravigliosamente rilassante! Purtroppo il paio d’ore passate in riva al mare non bastano per rinvigorirci più di tanto quindi la sera, dopo una supercena, non tardiamo molto prima di trascinarci a letto. 23 aprile 2003, mercoledì Giornata memorabile perché per la prima volta in questa vacanza saremo stanziali, infatti oggi abbiamo deciso di riprenderci dall’immane stravolgimento del trasferimento di ieri e quindi non ci muoveremo da Playa. Il piano è starsene tutto il giorno a poltrire in spiaggia con l’intenzione di abbronzarci il più possibile, spingendoci al massimo fino in acqua per un bagno ristoratore. Il mare è davvero molto bello, così bello che in futuro sarà fonte di attacchi nostalgici di cui già posso immaginare la portata, ma non è il caso di pensarci ora! In effetti il giorno in spiaggia scorre piacevole e rilassante, e il nostro livello di beatitudine è decisamente elevato. Peccato solo che io e la Romi ci lasciamo prendere dall’entusiasmo e ad un certo punto, troppo tardi, ci accorgiamo di esserci irrimediabilmente scottate. In più, io pago tutta la mia verve dei giorni passati e nel pomeriggio devo avere un calo di zuccheri, o sali minerali o non so che altra diavoleria, fatto sta che quasi svengo. Mi riprendo un po’ solo dopo una doccia ma sono comunque piuttosto sbattuta. Del resto sembra che anche le altre non siano al loro massimo, infatti si ripete un po’ la scena della sera precedente. Cena, quattro passi e poi si brancola fino ai letti in albergo. Una considerazione si affaccia sempre più prepotentemente nelle nostre menti: la stanchezza di queste due settimane a zonzo per il Messico meridionale sta decisamente prendendo il sopravvento! 24 aprile 2003, giovedì Per non perdere abitudini, vizi e virtù oggi si va a Tulum, si prende un bell’autobus e si visitano le rovine. Nonostante io inizi a provare una sorta di forma allergica nei confronti degli autobus e, in generale, di tutti i mezzi di trasporto a motore, la situazione si volge al meglio perché questa volta, prima all’andata e poi al ritorno, ci propinano i due più bei film che le varie compagnie ci abbiano rifilato in questi giorni. Peccato solo che il viaggio sia troppo breve e di entrambi non riusciamo a vedere la fine. Uffa. Provo una sorta di frustrazione messicana. Va bé. Come sempre sotto il sole cocente di mezzogiorno visitiamo Tulum-rovine, e il sito ci piace molto perché, pur essendo piccolino, è suggestivo e affascinante per la sua posizione a picco sul mare. Guida alla mano, spossate come in poche altre occasioni, ci facciamo praticamente tutti i monumenti così, per l’ultima volta, ci addentriamo nello spirito maya e, forse, ci ingraziamo per la nostra assiduità tutto il variegato pantheon di dei a cui quei bellicosi ometti erano devoti. L’escursione di oggi prevede anche una seconda parte marinara. Troviamo le famose cabañas in riva al mare presso le quali ci facciamo le nostre orette di spiaggia compiendo, tra l’altro, un insospettato balzo negli anni settanta. Vediamo infatti hippy, pseudo-hippy, “rimastoni” e nudisti senza clamore. Devo essere sincera, e la vista di questa fauna colorita non fa che rafforzare il mio compiacimento per non aver pernottato nelle piuttosto-fetide-capanne come avevamo pensato di fare inizialmente! Comunque qua al mare per poche ore non stiamo affatto male: la spiaggia è poco frequentata e per la prima volta possiamo coltivare l’apparenza dell’isola semideserta, quasi tutta per noi, lasciandoci alle spalle l’orda dei vacanzieri quotidianamente riversata sulle spiagge del Messico. Nel frattempo si alza un vento decisamente impetuoso che, oltre a piegare le palme, ci trasforma quasi in statue di sabbia. Le nuvole si abbassano e questa variazione sul tema del terso-cielo-messicano rende il panorama particolarmente incantevole; purtroppo però non possiamo indugiare troppo nella contemplazione perché è ora di andare a prendere l’autobus per il ritorno. Sarà pure un isola quasi deserta, ma ancora non abbiamo potuto abbandonare l’assillo dell’ora! La sera, tanto per cambiare, ceniamo al Burger King. Ebbene sì, siamo come sempre troppo stanche per scegliere dei ristoranti seri e optiamo per la rassicurante familiarità del fast food globalizzato. Incredibilmente poi ci scappa anche una bevutina al celebre Capitan Tutix, ma è inevitabile che l’unica sera in cui decidiamo di far tardi non ci sia molto movimento. In più ci si mette anche un cameriere assatanato di mance a romperci le scatole, così verso l’una ci ritiriamo onorevolmente nelle nostre stanze. Una, per la verità.
25 aprile 2003, venerdì Il programma di oggi era di andare a fare snorkelling all’Isla de Cozumel ma il dispettoso dio maya che controlla l’ultimo giorno di vacanze dei comuni mortali ci mette un po’ i bastoni tra le ruote. Noi ce la mettiamo tutta, non lasciandoci sviare da nessun segno avverso, ma alla fine dobbiamo cedere! Già il mattino si annuncia come l’unico giorno della nostra permanenza messicana in cui non brilla il sole. In compenso c’è un sacco di vento, il mare è un po’ agitato, il traghetto per l’isola balla, io sto piuttosto male e la Romi pure. Una volta arrivate ci sediamo un po’ in attesa che il senso di nausea se ne vada, ma quando ci mettiamo alla ricerca di un’escursione che faccia per noi scopriamo che le escursioni in barca per lo snorkelling si fanno solo la mattina. Non ci rassegniamo e proviamo un paio di alternative: ci rechiamo in altre due spiagge dove pare si possa fare snorkelling senza barca, ma entrambe risultano infruttuose. Rimarrebbe da provare un’altra spiaggia, ma a questo punto siamo smontate. Il tempo passa e prendiamo la decisione di andare sul sicuro, tornare a Playa e sfruttare le poche ore che ci restano per rilassarci sulla spiaggia amica. Per quest’anno in Messico, niente snorkelling: solo i cavalloni del mar dei Carabi sulla spiaggia di Playa del Carmen. Va bé, a me va bene anche così. Comunque bisogna dire che il dio maya dell’ultimo giorno di vacanza si incaponisce, e praticamente i cavalloni di cui sopra quasi si trasformano in uno tsunami! Le onde anomale acquistano forza sempre maggiore e si mangiano metri di spiaggia tanto che, ad un certo punto, ri-acquisisco in un secondo una prontezza di riflessi che avevo creduta persa per sempre in queste de settimane, riuscendo a raccogliere la mia roba un attimo prima che l’onda anomala la sommerga. Ormai è quasi sera, l’assalto del mare alla riva ci pare quasi un segnale e decidiamo a malincuore che è giunto il momento di lasciare la spiaggia. Le diamo un’ultima –direi amorevole- occhiata e, a passo messicano, ci trasciniamo all’hotel. E’ l’ultima sera, dovremmo salutare il Messico celebrandolo all’insegna della messicanità, ma è anche vero che a questo punto i sapori “locali” ci fanno più danno che gola, e così le nostre scelte ripiegano ancora una volta su Burger King e Hägen Dazs: tutto tranne che messicano! Dopo aver consumato i nostri misfatti culinari affrontiamo molteplici vasche della 5° Avenue, compiacendoci del fatto che siamo rimaste solo tre sere a Playa del Carmen perché questo struscio su e giù per la stessa strada ci fa venire la smania. Decidiamo di prendere una Sol da Capitan Tutix e di bercela verso l’hotel, rievocando alcuni tra i momenti topici dei giorni appena trascorsi. Nominiamo anche gli italiani visti a Chichen Itzà quando, evidentemente, il dio maya dell’ultimo giorno di vacanza decide di divertirsi un po’ materializzando proprio due di loro. In queste due settimane non abbiamo scambiato molti discorsi con altri turisti, quindi siamo ben contente di rivederli e trascorriamo un paio d’ore di simpatiche chiacchiere, confronti di viaggio e aneddoti esilaranti. Però dobbiamo ancora fare le valigie e la sveglia domani è alle sei così ci salutiamo, celebrando questo incontro fra connazionali in terra straniera con una immancabile foto ricordo. E’ piuttosto tardi quando riusciamo ad andare a letto ma forse per il troppo caldo, forse per la troppa stanchezza, forse per coerenza, anche quest’ultima notte la passiamo praticamente in bianco. 26 aprile 2003, sabato Il dio maya delle vacanze ci impone sonni brevi e agitati, comunque in qualche modo ci tiriamo su dai letti e riusciamo a prepararci per la partenza. Lasciamo le strade del Messico di primo mattino in un taxi con aria condizionata a palla, cappa di afa e poche persone in giro, solo tanti cani. Naturalmente siamo più sfinite che mai, io con il fegato dolente, la Romi in preda a orticaria da sole (forse) e la Sandra in ansia per le valigie. Nel frattempo, in attesa del primo volo di questa lunga, lunghissima, troppo lunga giornata, pare che a Cancun smantellino a randellate l’aeroporto proprio di fianco a dove noi aspettiamo per l’imbarco. Ho già la nausea. L’odissea si dipana tra aerei, aeroporti e controlli, ed è caratterizzata da una stanchezza che è quasi l’emblema di questa vacanza, ma che è insieme anche motivo di fierezza per il nostro viaggio on the road e consolazione per un ritorno che, perlomeno, ci accorderà finalmente un po’ di sonno! Dopo circa ventiquattro ore in giro fra oceani, aerei e aeroporti giungiamo finalmente a casa. E’ così che il nostro viaggio si conclude, in un tranquillo pomeriggio di una tranquilla domenica di primavera. Sono contenta, viaggiare è sempre una gran bella esperienza; siamo state bene, ci siamo trovate bene e con le mie compagne di avventura avremo bei ricordi da coltivare. E poi anche qua a casa, oggi, c’è un bel sole e, dopotutto, non si può dire che non sia lo stesso sole del Messico!