Yucatan: Caribe e magia Maya

Yucatan: Caribe e magia Maya Sabato 11 Marzo 2000: All’apparenza sembra una giornata come tutte le altre, la sveglia suona alla solita ora e istintivamente vien da pensare di dover andare al lavoro. Basta poi un attimo per riportare la mente ad una realtà completamente diversa. La porta del la camera di Federico, di...
Scritto da: LucaGiramondo
yucatan: caribe e magia maya
Partenza il: 11/03/2000
Ritorno il: 26/03/2000
Viaggiatori: in coppia
Spesa: 3500 €
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Yucatan: Caribe e magia Maya Sabato 11 Marzo 2000: All’apparenza sembra una giornata come tutte le altre, la sveglia suona alla solita ora e istintivamente vien da pensare di dover andare al lavoro. Basta poi un attimo per riportare la mente ad una realtà completamente diversa. La porta del la camera di Federico, di fronte a noi, è aperta: se ne è andato ieri sera con i nonni, sprizzando gioia da tutti i pori. Oggi andrà via in camper, per la prima volta dopo l’inverno, e per questo era contento, anche se, purtroppo, inconsapevole del fatto che a partire veramente saremo io e Sabrina. Per questo gli chiediamo scusa fin da ora, per un’altra volta, l’ultima, crediamo, e speriamo che un giorno ce le voglia perdonare tutte. Non ce la siamo francamente sentita di sottoporlo ad oltre dodici ore di aereo e sette di fuso orario, tante quanto sono quelle che ci dividono dalla nostra meta: lo Yucatán, in Messico.

Nonostante alcuni pareri contrari in merito allo svolgimento del viaggio, prendiamo regolarmente il via e poco dopo le 8:00 siamo in strada … “il dado è tratto”, come disse un famoso condottiero. “Cavalchiamo” la nostra Punto blu in direzione sud, sfidando una fastidiosa nebbia. Percorriamo l’autostrada A14 per un brevissimo tratto, fino a Cesena, quindi seguiamo le indicazioni per Roma, la città dal cui aeroporto spiccheremo il volo che ci porterà a destinazione.

La E45 sale gradualmente verso lo spartiacque appenninico e nei pressi di Quarto la nebbia si dirada lasciando il posto al sole. Fila via tutto liscio come l’olio, a parte una deviazione per lavori che ci fa perdere un buon quarto d’ora. Il cielo sereno ci accompagna fino a Verghereto poi, oltre il valico, l’orizzonte s’incupisce di nuvole: poco male, la nostra speranza è di trovare tempo migliore altrove, magari dall’altra parte dell’oceano.

Seguiamo costantemente la valle del Tevere, del quale ne incrociamo più volte l’alveo, all’inizio è poco più che un torrente poi via via diventa sempre più fiume.

A Orte imbocchiamo l’A1, che percorriamo fino ad immetterci sul grande raccordo anulare di Roma, una manciata di chilometri ci dividono, ormai, dall’aeroporto Leonardo da Vinci di Fiumicino, dove arriviamo intorno alle 12:30. Lasciamo l’auto in un parcheggio a pagamento e saliamo sulla prima navetta disponibile per raggiungere il terminal. E’ la prima volta che partiamo da Fiumicino e per questo motivo siamo un po’ spaesati. Mentre vaghiamo alla ricerca del banco Alpitour telefoniamo a casa: il nostro naso si allunga a vista d’occhio quando raccontiamo a Federico che siamo giunti a Milano e che siamo alla ricerca di un parcheggio inquanto resteremo per almeno quindici giorni a lavorare (non sempre le bugie si dicono a fin di male e speriamo un giorno, nostro figlio, lo capisca).

Sui terminali il volo Lauda Air L41943 è dato in perfetto orario, alle 16:10, ma non ci facciamo illusioni, sappiamo benissimo che è ancora troppo presto per dirlo.

Cominciamo ad imbarcare i bagagli e insorge un piccolo problema: Sabrina non risulta sulla lista dei passeggeri, probabilmente è stata registrata con un nome sbagliato, l’aereo è pieno ed il timore degli addetti è che rimanga a piedi qualcuno … parlottano un po’ fra di loro e ci consegnano le carte d’imbarco … anche questa è andata! Viste le recenti esperienze di viaggio non crediamo alle nostre orecchie quando sentiamo chiamare l’imbarco in perfetto orario: il Boeing 767 della Lauda Air stacca da terra alcuni minuti dopo le 16:10 e in men che non si dica è sopra ad un candido mare di nuvole. Rivediamo terra mentre sorvoliamo le Alpi, ammantate da un altrettanto candido manto di neve.

Più tardi, sotto di noi, è perfettamente riconoscibile la città di Bordeaux, collocata sull’ampio estuario della Garonne: da questo punto cominciamo a sorvolare l’oceano Atlantico e il prossimo lembo di terra che avvisteremo sarà d’America.

Passano tante ore, trascorse alla meno peggio fra i limitati svaghi che un aereo può offrire, poi sotto di noi una luce, è un’isola, quella di Bermuda, collocata ad uno dei vertici del famigerato “triangolo maledetto”. Resto per un po’ al finestrino: forse avrò il piacere di vedere un oggetto volante non identificato o qualche altro strano fenomeno, o, molto più probabilmente avrò “solo” il piacere di vedere una magnifica stellata.

Atterriamo, ancora in perfetto orario, alle 21:40, all’aeroporto di Cancun e cominciamo le file per ritirare i bagagli ma soprattutto per passare la dogana: quintali di inutile carta vengono timbrati e firmati. Ci attende poi un pulsante che per uno strano meccanismo di casualità fa accendere la luce verde o rossa di un semaforo. Avanti a me tutti lo schiacciano: verde … verde … verde … ancora verde … tocca a me … rosso! … Ho vinto la lotteria, devo aprire la valigia! Per fortuna non si mettono a rovistare e me la fanno subito richiudere.

Finalmente siamo fuori: l’aria è calda e umida, e di primo acchito neanche troppo gradevole, ma credo ci abitueremo presto e alla partenza, di certo, la rimpiangeremo.

Saliamo sul pulman che ci porterà in poco meno di un’ora al Bravo Club El Mandarin, dove alloggeremo per tutto il periodo della nostra permanenza.

Al nostro arrivo cominciano i festeggiamenti di rito: musica, cocktail e grandi saluti di benvenuto. In Messico, per effetto del fuso orario, sono ancora le 23:30 del sabato, in realtà sono oltre ventiquattro ore che siamo in piedi e la stanchezza comincia a farsi sentire, per questo non abbiamo voglia di festeggiare e desideriamo solo ci venga assegnata la camera. Veniamo esauditi e, quasi subito, ci consegnano le chiavi della stanza 3301, dove un’inserviente ci accompagna. Di li a poco arrivano anche le valigie … e possiamo finalmente riposare.

Domenica 12 Marzo 2000: Tutta colpa del fuso orario: nonostante la stanchezza poco dopo le 6:00 siamo già in piedi, è inutile continuare a rigirarsi fra le lenzuola senza più sonno … meglio uscire a fare due passi, visto che il sole è già alto.

Ci guardiamo un po’ intorno: il villaggio sembra molto ben curato ed accogliente. Raggiungiamo la spiaggia: bruttina, ma questo già lo sapevamo, fin da casa, e ci siamo risparmiati la delusione, del resto, purtroppo, meno di due anni fa è stata devastata da un uragano che l’ha accorciata di qualche decina di metri, stanno lavorando per ricostruirla ma sarà difficile sostituirsi alla natura.

C’incamminiamo sulla destra del villaggio e con piacere notiamo altre persone, dall’aspetto piuttosto pallido, che passeggiano lungo il bagnasciuga: evidentemente non eravamo gli unici a non riuscire più a dormire. Dobbiamo ingannare il tempo almeno fino all’ora in cui ci concederanno la possibilità di far colazione e questo non avverrà prima delle 7:30.

Puntualissimi ci presentiamo a consumare il nostro primo corposo buffet mattutino: davanti ai nostri occhi si para ogni ben di Dio, non ci facciamo pregare e riempiamo i piatti. E’ lì che conosciamo due ragazzi di Jesi: Roberta e Gianluca, anche loro al primo giorno di vacanza, anche loro già svegli da un po’ di tempo e fra l’altro nostri vicini di stanza. Chiacchieriamo fino all’ora prestabilita per l’immancabile breefing, appuntamento ormai fisso di ogni viaggio, un po’ noioso ma utilissimo per cominciare a riordinare le idee sul da farsi. Conosciamo altri due ragazzi, anche loro di Jesi: Corrado e Maria Grazia, tutti insieme prenotiamo l’escursione per il giorno successivo, poi ce ne andiamo verso la spiaggia, dove trascorriamo un po’ di tempo fra la vasca idromassaggio ed un bagno in piscina, rilassandoci nel tepore dei primi raggi di sole.

In breve si fa quasi ora di pranzo. A casa saranno ormai rientrati dal week-end e forse è tempo di fargli sapere del buon esito che ha avuto il viaggio. Andiamo in camera e proviamo, inutilmente, più volte a prendere la linea, fino a quando, rassegnati, raggiungiamo la reception ed esponiamo il problema. Ci chiedono di scrivere il nostro numero su di un pezzetto di carta, alzano la cornetta ed in men che non si dica ce la passano mentre squilla il telefono dall’altro capo del filo … accidenti, sembrava impossibile e invece … Rassicuriamo tutti, sentiamo la voce di Federico e più distesi ce ne andiamo a pranzo.

Il villaggio cerca di sopperire alla mancanza della spiaggia mettendo a disposizione una navetta gratuita, al fine di raggiungerne una non troppo distante e soddisfare così la voglia di mare dei clienti. Incuriositi dal fatto, nel pomeriggio, saliamo su di un pullman con destinazione Coco Beach. La spiaggia è situata in pratica a ridosso e poco più a nord della città di Playa del Carmen, per questo motivo relativamente affollata e comunque bella. Peccato che il sole se ne vada presto dietro alle nuvole, col risultato di rendere l’aria piuttosto fresca ed il mare non troppo invitante per un bagno. Intorno alle 18:00 comincia già ad imbrunire e rientriamo al Mandarin. Ci rifugiamo in camera per una rilassante doccia, quindi poltriamo fino all’ora di cena.

La serata propone un musical che purtroppo non riusciamo a seguire in tutta la sua interezza: a vincere è il devastante effetto del fuso orario e quindi il sonno. Ci trasciniamo presto in camera a completare quella dormita già in parte consumata sulle scomode sedie del teatro.

Lunedì 13 Marzo 2000: La sveglia è per le 6:30 e questo non è un problema visto che al mattino non riusciamo ancora a dormire, il vero problema, in effetti, sembra essere quello delle condizioni atmosferiche: il cielo è coperto e minaccia pioggia. Non ci aspetta una giornata di mare e quindi la presenza del sole non è indispensabile, siamo comunque in procinto di affrontare l’escursione al sito archelogico di Chichén Itza, il più importante dello Yucatán, e saremmo un po’ contrariati all’idea di doverlo visitare con l’ausilio di uno scomodo ombrello, senza contare la perdita di suggestione che può avere il tutto se visto in condizioni simili a quelle attuali.

Consumiamo così la colazione in attesa della partenza mentre comincia a piovigginare: tira vento da terra ed in genere non è buon segno. Intorno alle 7:30 saliamo sul primo pullman disponibile assieme a Gianluca e Roberta, mentre Corrado e Maria Grazia si attardano per vari motivi, col risultato di finire sul secondo pullman. Un po’ dispiaciuti per l’accaduto prendiamo strada mentre comincia a diluviare: oltre duecento chilometri ci separano dalla meta e non ci resta che sperare in un repentino cambiamento del tempo.

Seguiamo la superstrada verso nord fin quasi a Cancun, quindi svoltiamo a sinistra, verso l’interno. Se per noi non sembra essere la miglior giornata che si possa desiderare lo è ancor meno per un povero tasso, il quale, con grande dispiacere dell’autista, finisce sotto alle ruote del pullman.

Smette di piovere mentre pecorriamo, ormai da diverso tempo, un interminabile rettilineo: alla nostra destra e alla nostra sinistra il paesaggio è piatto e monotono, ricoperto da una bassa e folta vegetazione tropicale. Non deve essere cambiato molto dal giorno in cui sbarcarono i primi conquistadores spagnoli chiedendo agli indigeni dove fossero arrivati e sentendosi rispondere “yu-catan”, che in lingua maya significa “non capisco”, credettero che quello fosse il nome della regione e da quel giorno così la chiamarono.

Il percorso stradale è piuttosto noioso: a tratti non resistiamo alla tentazione di chiudere gli occhi. L’unico diversivo è l’attraversamento di una simbolica dogana fra gli stati del Quintana Roo (da dove proveniamo) e dello Yucatán, che assieme a quello di Campeche formano la penisola dello Yucatán. Questi tre stati, assieme ad altri ventotto più il distretto federale di Città del Messico formano la Repubblica Federale del Messico.

Quando arriviamo nel parcheggio di Chichén Itza, intorno alle 10:00, udite, udite … splende un bel sole! Pochi minuti più tardi siamo ai piedi della grande piramide, che gli spagnoli chiamarono El Castillo. Più esattamente si tratta del Tempio di Kukulcán, una delle maggiori divinità maya. Il dio viene rappresentato sotto la forma di un serpente piumato, e questo simbolo appare sulla balaustra delle scalinate di ognuno dei quattro lati della piramide. La costruzione contiene nella sua struttura numerosi riferimenti alla misurazione del tempo: il più evidente è rappresentato dalle quattro scalinate, composte ognuna da 91 scalini, per un totale, comprendendo la piattaforma superiore, di 365, tanti quanti i giorni di un anno. E una volta all’anno, il 21 di marzo, all’equinozio di primavera, il gioco della luce solare sulla balaustra della facciata nord crea l’illusione di un serpente che striscia verso il basso. L’evento è considerato ancora oggi propiziatorio e, per l’occasione, sul luogo si radunano decine di migliaia di persone, rendendo la visita quasi impossibile (per questo motivo anche se in tale data saremo ancora in Messico abbiamo deciso di non partecipare all’evento).

Un’altra curiosità è che dentro alla piramide si trova … un’altra piramide antecedente a quella che la sovrasta. Saliamo, così, un’angusta e opprimente scalinata fino alla sommità, dove si trova un tempietto che custodisce la statua di un giaguaro. La visita è decisamente sconsigliata a chi soffre di claustrofobia e il ritorno all’aria aperta sembra quasi una liberazione. La scalinata esterna della piramide, viceversa, è sconsigliata a chi soffre di vertigini: gli scalini sono costruiti con un rapporto fra pedata e alzata praticamente di uno a uno, col risultato di avere un’inclinazione di circa quarantacinque gradi. Vale comunque la pena salire fino alla sommità per poter godere di un panorama mozzafiato sull’intero sito archeologico, il tutto in un clima di grande suggestione.

Tutt’intorno si trovano numerose altre costruzioni, fra cui un grande basamento in pietra completamente decorato, in modo macabro, da schiere di teschi, che potrebbe essere stato il posto destinato all’esibizione delle teste appartenute alle vittime sacrificali. A poca distanza si trova il cosiddetto sferisterio, all’interno del quale si svolgeva uno strano gioco rituale fra due squadre che si disputavano una palla di gomma senza usare mani e piedi, solo con l’ausilio di anche e spalle. Gli anelli di pietra posti ai lati del campo erano i bersagli, e fin qui niente di particolarmente strano. La cosa incredibile è che come premio i vincitori ricevevano l’onore … di venire decapitati! Non si può certo affermare che i campioni di questo sport avessero lunghe carriere e, soprattutto, ci risulta molto difficile comprendere il significato del gioco.

Sempre in tema di sacrifici umani si può visitare il Sacro Cenote: un profondo pozzo naturale all’interno del quale venivano gettati i prescelti in onore del dio della pioggia Chaac.

Non lontano dalla piramide si estendono i resti del grandioso Tempio dei guerrieri o delle mille colonne, mentre in un’area più distante si incontra l’Osservatorio: i maya erano attenti osservatori del cielo e la cosa affascinante di questo edificio è la somiglianza con i moderni osservarori, la grande differenza sta, invece, nel fatto che a quei tempi non esistevano certo i telescopi ma solo pazienti calcoli basati su ripetute osservazioni dirette.

Proseguiamo nella visita mentre si alza un forte vento: il cielo torna rapidamente a coprirsi di nuvole e quindi sale il timore di un imminente acquazzone. In fretta e furia, mentre tutti scappano, riesco a vedere anche il cosiddetto convento (Las Monjas): un bellissimo edificio completamente ricoperto da enigmatiche decorazioni in pietra. In men che non si dica raggiungiamo il pullman, ma della pioggia neanche l’ombra … accidenti, si poteva andare con più calma, al massimo ci saremmo … bagnati! Pranziamo in un vicino ristorante, allietati da alcuni balli folcloristici, poi imbocchiamo la strada del ritorno. Percorriamo pochi chilometri fino a raggiungere uno sperduto villaggio allo scopo di visitare un caratteristico mercatino (una sorta di trappola per turisti). Ancor prima di farci scendere la guida fa salire sul pullman un bambino che tiene in braccio un armadillo: dice di averlo catturato lui stesso, dice anche che è commestibile e quindi in vendita. Pensandoci bene potrebbe essere un bel souvenir, anche se ho motivo di credere che potremmo avere qualche problema in dogana. La cosa migliore sarebbe comprarlo per poi rimetterlo in libertà, ma alla fine ci accontentiamo, come tutti, di scattare una foto ricordo, naturalmente dietro il pagamento di un piccolo compenso. Acquistiamo una bottiglia di tequila Mexcal, quella originale, con tanto di verme compreso nel prezzo, poi torniamo sul pullman e ripartiamo.

Dopo pochi chilometri siamo di nuovo fermi, questa volta nella vecchia cittadina coloniale di Valladolid, tutta raccolta intorno alla piazza principale, sulla quale si affaccia l’antica Catedral de San Servacio, quasi interamente costruita, secondo quanto dice la guida, con materiale di recupero dai siti archeologici dei dintorni. La sosta a Valladolid dura non più di mezz’ora, un po’ poco, considerando il fatto che vi sarebbero altre cose da visitare nelle immediate vicinanze, ma ci sono ancora circa duecento chilometri da percorrere ed il sole ormai è basso sulla linea dell’orizzonte.

Lungo il tragitto di ritorno cediamo ben presto alla tentazione di dormire, col risultato di giungere a destinazione ancora in balia del sonno e quindi piuttosto frastornati quando sono da poco passate le 20:00. Ci catapultiamo sotto alla doccia e, più tardi, ce ne andiamo a cena, quindi concludiamo, seppur stancamente, una giornata che per molti versi è stata memorabile. Martedì 14 Marzo 2000: E’ incredibile: non riusciamo proprio a dormire fino all’ora prestabilita e spengo nuovamente la sveglia prima ancora che questa riesca a suonare. Niente di male, fuori splende un magnifico sole e ci aspetta una giornata di completo relax nella spiaggia del Mandarin.

Occupiamo un ombrellone e ce ne andiamo a colazione. Torniamo di lì a poco e prendiamo comodamente posto sui lettini, quindi arrivano anche gli amici di Jesi.

Le donne se ne stanno sdraiate al sole, noi uomini, invece, non resistiamo a lungo e siamo smaniosi di ingannare il tempo. Per cominciare basta un mazzo di carte: partitone a scopa … Gianluca contro Gianluca, Jesi contro Forlì … vince Forlì, anzi, stravince! Poi ci facciamo coinvolgere in una partita a pallanuoto … e perdiamo con onore.

Conosciamo altri due ragazzi: Paolo e Adriana, di Alba (Cuneo): ora siamo in otto, il numero giusto per affittare due auto. Ci rechiamo alla reception e, dopo una breve trattativa, concludiamo l’accordo, con la funzionaria della Budget ,che ci permetterà, l’indomani mattina, di partire, motorizzati, alla scoperta dei dintorni.

Si fa quasi mezzogiorno, l’ora giusta per chiamare casa: ci riusciamo dalla camera, non senza difficoltà e dopo vari tentativi. Sabrina ed io ci rimbalziamo a più riprese la cornetta del telefono ascoltando con estremo piacere la voce di Federico, mentre un sentimento comune ci attanaglia: la mancanza di quel piccolo monello. Ci sono dei momenti in cui sto veramente male al pensiero di star qua a divertirmi mentre lui, ignaro di quanto sta succedendo, se ne sta a casa, seppur in buona compagnia. Nonostante tutto continuo a credere che sia giusto quello che stiamo facendo.

Torniamo all’ombrellone: gli amici se ne sono andati a fare una passeggiata lungo la spiaggia. Li raggiungiamo e, più tardi, insieme, andiamo a pranzo.

Il pomeriggio sembra brevissimo, fra ripetuti bagni in piscina e altrettanti cocktails: il sole tramonta e quasi non ce ne rendiamo conto tanto si sta bene, ma non ci rassegniamo … accendiamo i riflettori sul campo da tennis e proviamo a fare qualche palleggio, fin quando a reclamare sono i succhi gastrici, e non ci resta altro da fare che accontentarli.

La serata si conclude a teatro, di fronte ad un gradevole spettacolo di cabaret, messo in scena dallo staff dell’animazione.

Mercoledì 15 Marzo 2000: Il tempo sembra proprio essersi messo al bello, splende un magnifico sole e usciamo, zaini in spalla, pronti per ritirare l’auto e partire alla scoperta del Messico “on the road”, non prima di aver consumato, però, un’abbondante colazione, durante la quale ne approfittiamo prepararando una sorta di pranzo al sacco. A tal fine Gianluca si presenta al tavolo con un piatto stracolmo, fino all’inverosimile, di frittate e salsicce con le quali imbottisce una quantità esagerata di pane. Anche noi facciamo la stessa cosa ma in maniera più limitata e non “disumana”.

Espletiamo quindi tutte le formalità che ci permetteranno di ritirare l’auto, anzi le auto. Firmo un pacco di carta, tutto scritto in spagnolo e quindi senza saperne il contenuto … speriamo bene. Procediamo alle verifiche: controlliamo a palmo a palmo le carrozzerie segnalando la più piccola ammaccatura. Gianluca, il più pignolo, intavola una discussione con l’addetto dell’autonoleggio per mezza tacca di benzina in più o in meno, visto che dovremo riconsegnare i mezzi, l’indomani mattina, con lo stesso quantitativo di carburante. Stiamo forse esagerando però, infatti la situazione sembra essere diventata un piccolo motivo di divertimento e non è il caso di continuare oltre.

Sono quasi le 9:00 quando, finalmente ci consegnano le chiavi. Saliamo in macchina con Paolo e Adriana, usciamo dal villaggio e cominciamo a percorrere la strada in direzione sud. Alle nostre spalle ci segue l’auto “targata” Jesi.

Il nastro d’asfalto oltrepassa Playa del Carmen e prosegue parallelo alla costa seguendo, costantemente, un’immaginaria linea retta, le curve sono una vera e propria rarità e praticamente non sono mai inferiori ai 170 gradi. Ogni tanto, sul bordo della strada, un cartello mette in guardia rammentando di non distrarsi dalla guida. Dopo circa un’ora raggiungiamo Tulum, la prima meta della giornata, dove visiteremo l’omonimo sito archeologico, uno dei più famosi e spettacolari dell’intero mondo maya.

Un grande centro commerciale, stracolmo di souvenir, è il preludio alla visita vera e propria: il business turistico non conosce limiti ed un gruppo folcloristico si esibisce nello “Show dei Voladores”, un antichissimo rito d’invocazione della pioggia (speriamo solo non funzioni!), quindi un trenino accompagna i turisti all’ingresso del sito, collocato, furbescamente, ad almeno un chilometro di distanza (chi vuole può andare anche a piedi!).

Ormai a destinazione mi accorgo di aver perso un pezzo della telecamera: mi faccio un altro giro in treno, trovo, fortunatamente, il pezzo e raggiungo gli altri alla biglietteria. Durante la mia assenza hanno visto un serpente, con ogni probabilità un serpente corallo, molto diffuso da queste parti e, fra l’altro, velenosissimo … meglio sorvolare e dedicarsi alla visita del sito.

Tulum signi fica “mura”, ed è un nome appropriato per uno dei pochi insediamenti cintati costruiti dai maya. Entriamo oltrepassando una delle cinque porte che si trovano lungo il perimetro della fortificazione e subito si para davanti ai nostri occhi il Tempio degli affreschi, ai cui angoli della facciata principale si stagliano imponenti maschere, probabili raffigurazioni del dio della pioggia Chaac. Il sito archeologico è disseminato di numerosi resti di edifici, fra cui scorazzano, indisturbate, enormi iguane. Il tutto è dominato dalla sagoma del Castillo, costruito quasi a picco sul mare, a giustificazione di quella che sarebbe stata la sua funzione principale: quella di faro.

La panoramica che si gode dalla scogliera è di quelle indimenticabili con l’azzurro intenso del mare ed il bianco abbagliante della spiaggia, in netto contrasto con la scura roccia sovrastata dall’inconfondibile sagoma del Castillo. Verrebbe voglia di restare in contemplazione per l’intera giornata, ma il continuo e frenetico via vai dei turisti distoglie ben presto la mente da pensieri fin troppo elevati … comincia a far caldo e cresce in noi la voglia di mare e refrigerio.

Saliamo sul trenino e torniamo al centro commerciale. Acquistiamo una carta telefonica e telefoniamo, da un apparecchio pubblico: componiamo il numero, il telefono squilla, Sabrina parla e poi riaggancia … semplice, come bere un bicchier d’acqua! … accidenti, perché dal villaggio deve essere tutto così tremendamente complicato?! Nel frattempo gli altri si attardano fin troppo fra i negozietti di souvenir ed è quasi mezzogiorno.

Saliamo finalmente in macchina e percorriamo una manciata di chilometri fino a raggiungere il parco di Xel-Ha: una piccola meraviglia della natura, una sorta di laguna interna, anche se bordata di rocce, forse un piccolo fiordo, ma siamo ai tropici e non in Norvegia, una specie di lago, ma l’acqua non è dolce, e neanche troppo salata. Il luogo è talmente particolare che non si poteva far altro che destinarlo a parco naturale.

All’ingresso un cartello raccomanda di non usare creme solari per non inquinare l’acqua e di conseguenza avvelenare i pesci. Una nutrita e chiassosa schiera di variopinti pappagalli da il benvenuto ai visitatori. Noi ci andiamo a sistemare in riva al meraviglioso specchio d’acqua e immediatamente, ancor prima di pranzo, nonostante l’ora ormai tarda, mettiamo in azione maschera e pinne. Manca un po’ di trasparenza ma non mancano certo i pesci, sono numerosissimi, di mille colori e, soprattutto, confidenti, abituati come sono alla presenza dei turisti. Fra questi spiccano numerosi pesci Napoleone, razze e barracuda, per non parlare delle tartarughe, sempre ai primi posti nelle preferenze di avvistamento.

Dopo pranzo decidiamo di compiere, a piedi, il giro dell’intero parco. Seguiamo le rive della laguna in senso antiorario e ad ogni passo scopriamo un angolo più suggestivo: sembra di essere in un film di Tarzan, con la fitta vegetazione a ricoprire alte pareti rocciose strapiombanti su deliziose lagune blu. Alcuni di noi non hanno resistito alla tentazione di sentirsi, almeno per un attimo, il re delle scimmie e hanno affrontato un avventuroso tuffo da almeno quattro metri di altezza.

Ormai al termine del giro ci siamo trovati a dover affrontare un insidioso ponte galleggiante posto a collegare le due rive della laguna, in prossimità del mare aperto. Le onde, oggi piuttosto alte, rendono il ponte un nastro praticamente in balia del mare e attraversarlo è sta un’esperienza per alcuni divertente e per altri tutt’altro che simpatica.

Quando il parco sta ormai per chiudere i battenti siamo ancora a gongolarci distesi su delle comode amache, vorremmo che non finisse mai questa giornata … invece volge inesorabilmente al termine.

Rientriamo verso Playa del Carmen quando ormai è buio, e lì ci fermiamo per il rabbocco dei serbatoi. Un benzinaio mi pulisce il vetro e non se ne va finché non gli do la mancia e a nulla è servito dirgli che l’indomani quel vetro pulito non mi sarebbe più servito.

Arriviamo al Mandarin e ci precipitiamo a fare una doccia e a vestirci per andare a cena, una cena che questa sera sarà ripicamente messicana, o, almeno, lo dovrebbe essere. In effetti non siamo riamasti troppo entusiasti del menù, troppo soft per essere … messicano! Vogliamo proprio esagerare: saliamo in macchina e raggiungiamo Playa del Carmen, ma ormai siamo troppo stanchi e, dopo non più di due ore, siamo già di ritorno. Consegno tutte le chiavi a Corrado: sarà lui, domani, a riconsegnare le auto, visto che Sabrina ed io saremo di nuovo in partenza, di buon ora, per un’altra escursione.

Giovedì 16 Marzo 2000: Nessuno degli amici ci seguirà in questa giornata di escursione in mare, ognuno di loro avrà avuto un buon motivo per rinunciarvi, speriamo solo di aver fatto noi la scelta più giusta e di non doverci pentire per aver speso i centosessanta dollari necessari a prendervi parte.

Tanto per cominciare il tempo meteorologico sembra esserci amico, il cielo è sgombro da nubi e dominato dal sole. Saliamo sul pullman che ci porterà fino a Cancun, da dove salperemo verso la nostra meta. Durante il tragitto un signore, alquanto noioso, si lamenta e sbraita per l’aria condizionata … vien quasi voglia di scaraventarlo fuori dal finestrino! Con i padiglioni auricolari decisamente dilatati arriviamo a destinazione, scendiamo dal pullman e saliamo sulla motonave che ci ospiterà per l’intera giornata. In attesa della partenza un fotografo messicano ci immortala, a turno, in compagnia di un piccolo pappagallo, con la speranza che poi, al ritorno, acquisteremo la foto ricordo.

Prendiamo finalmente il largo: almeno due ore di navigazione ci separano da Isla Contoy, un minuscolo lembo di terra situato ad alcune miglia di distanza dalla costa nord occidentale dello Yucatan, dichiarato parco naturale e riserva ornitologica. Soffia un sostenuto vento ed il mare è piuttosto mosso, così, quasi a metà del percorso, il continuo ondeggiare dello scafo comincia a mietere le prime “vittime” … il nostro stomaco, per fortuna, non cade in balia del mal di mare e la cosa non ci dispiace affatto.

Ormai in vista dell’isola gettiamo l’ancora in prossimità di un basso fondale, indossiamo giubbotto di salvataggio, maschera e pinne e ci tuffiamo per andare in esplorazione sulla barriera corallina circostante.

La corrente è fortissima, gli nuotiamo contro con difficoltà e notevole dispendio di energie. La fauna ittica non abbonda, a parte un grosso branco di pesci dai riflessi bluastri, in compenso notiamo numerose varietà di corallo, fra cui spiccano i meravigliosi “coralli ventaglio”, in tutte le tonalità di colore, dal fucsia al viola. Il ritorno alla barca è un gioco da ragazzi, con la corrente a favore si nuota in tempi da finale olimpica.

Arriviamo nella baia principale di Isla Contoy: bellissima, tutta bordata di palme e candida sabbia. Attracchiamo al molo e sbarchiamo. L’isola è completamente deserta se si esclude l’orrenda costruzione in cemento armato del centro visitatori, dove lasciamo gli zaini per poter prendere parte, più comodamente, una breve visita guidata. Saliamo su di una piccola altura così da poter vedere due mari: da una parte il placido mar dei Caraibi, azzurro ed invitante, dall’altra il golfo del Messico, più cupo ed agitato. Quest’ultimo svolge una continua azione di erosione sulla costa nord, mentre, invece, a sud, grazie alle correnti, la sabbia si va accumulando col risultato di rendere Isla Contoy, in pratica, un’enorme “zattera” in movimento verso la terra ferma, una “zattera” stracolma di cormorani, pellicani e, soprattutto, fregate, delle quali ne visitiamo una nutrita colonia. Nonostante la stagione degli amori sia ormai finita alcuni maschi gonfiano ancora il vistoso gozzo rosso come rituale di accoppiamento. Non lontano, fra le palme e la bassa vegetazione, scorrazzano, indisturbati, numerosissimi paguri di terra, mentre in acqua, a pochi metri dalla spiaggia, due razze, entrate in confidenza con i turisti, si lasciano toccare mentre ci nuotano fra i piedi.

Si pranza in compagnia delle iguane, sempre ben contente di prendere parte al banchetto, poi si va in spiaggia per trascorrere un po’ di tempo in completo relax. Ne approfittiamo per aprire una noce di cocco e, quindi, gustarne la profumata polpa, con gli occhi pieni di meraviglia per il mare di fronte a noi.

Si fa così l’ora di tornare a bordo e di lasciare, a malincuore, l’isola, anche se l’escursione non si può dir conclusa. Veniamo, infatti, scaricati, dopo oltre un’ora di navigazione, a Isla Mujeres, e questo, probabilmente, solo allo scopo di farci spendere qualche pesos nei numerosi negozietti di souvenir. Non disponibili a farlo ci rechiamo al porto per vedere gli orari dei traghetti, visto che siamo intenzionati a tornare sul posto, ma in un contesto diverso e con più tempo a disposizione.

Quando ripartiamo alla volta di Cancun il sole sta tramontando e quando vi arriviamo è buio pesto. Un componente dell’equipaggio ci saluta e ci chiede di lasciare una mancia: in mattinata gli avevo prestato una penna e, fra mille scuse, non me la sono più vista restituire … è una questione di principio, può ritenere quella penna, di poco valore, come la mia personalissima mancia! Sulla via del ritorno al villaggio cerco disperatamente di non addormentarmi … ma non ci riesco e faccio così compagnia a Sabrina. Giungiamo ancora una volta frastornati, al Mandarin, intorno alle 20:00, giusto in tempo per una doccia prima di recarsi a cena ed incontrare gli amici.

La serata prevede un musical imperniato sulla notte degli Oscar. A tal proposito ogni spettatore viene etichettato con il nome di un personaggio famoso: io sono George Michael e Sabrina Naoni Campbell, una strana coppia, strana ma anche stanca, dopo un’intera giornata trascorsa in mare.

Venerdì 17 Marzo 2000: E’ proprio venerdì 17 e, forse anche per questo, dopo due giornate intere di escursioni, abbiamo deciso di trascorrerne una, di completo relax, all’interno del villaggio. Non siamo particolarmente superstiziosi, ma se avessimo dovuto scegliere una giornata per non uscire, a parità di condizioni, avremmo sicuramente scelto questa.Ce ne andiamo in spiaggia di buon ora, ad oziare sotto all’ombrellone, fino a quando non decidiamo di fare una passeggiata lungo la spiaggia. Camminiamo a lungo in compagnia degli amici, fino a raggiungere un vicino villaggio: la Posada del Capitan Laffite. In questo tratto il mare è decisamente più bello rispetto a quello di fronte al Mandarin e, sinceramente, proviamo un po’ d’invidia. Scattiamo qualche foto e ci incamminiamo sulla via del ritorno: si sta divinamente, soffia una deliziosa brezza dal mare e, quindi, il sole non scotta sulla pelle, o almeno non dà l’impressione di farlo. Ogni tanto passa qualche pellicano o qualche fregata sopra alla nostra testa, sono bellissimi, sembra galleggino nell’aria mentre si lasciano trasportare dal vento.

Raccogliamo due grosse noci di cocco con l’intenzione di mangiarle più tardi: dovrebbero essere buone, ma Gianluca non si fida e chiede conferma ad un messicano di passaggio.

All’arrivo ci tuffiamo in piscina. In compagnia di Corrado e Gianluca prendo parte ad un match di pallanuoto, mentre Sabrina si rilassa sui bordi sorseggiando qualcosa di fresco … ed è quasi ora di pranzo.

Telefoniamo a Federico: è entusiasta perché domani andrà di nuovo via in camper, e questo ci fa piacere.

Pranziamo al ristorante sulla spiaggia, quindi torniamo all’ombrellone per … mangiare la frutta. Ci dedichiamo all’apertura della prima noce e lavoriamo senza sosta fin quando non vediamo la sua bianca polpa. Gianluca, ingordo com’è, ne ingurgita subito un pezzetto, senza accorgersi che il frutto non emana un buon odore, anzi … una tremenda puzza, come di … cavallo. Buttiamo il tutto e andiamo a lavarci le mani, ma la puzza non se ne va e Gianluca appare più preoccupato di questo che non per quello che ha mangiato … contento lui! Riprendiamo la nostra giornata sportiva mentre le donne se ne stanno sdraiate al sole: giochiamo a beach-volley e vinciamo tutte le partite, ci dedichiamo al tiro con l’arco e facciamo tutti centri … quasi tutti … anzi pochi, io solo uno, ma quanta fatica! Ormai è sera e decidiamo di giocare anche a tennis, andiamo in camera a mettere le scarpe e squilla il telefono. Alzo la cornetta e, dalla reception, mi dicono che qualcuno vuole parlarmi, così me lo passano: è Ivan, un amico di Forlì, in compagnia della moglie, Sabrina, e altri due ragazzi (Monica e Salvatore). Ci hanno rintracciato seguendo le indicazioni che gli avevamo lasciato prima di partire, e, sinceramente, siamo un po’ sorpresi, in quanto non ci aspettavamo che lo facessero. Corriamo subito a salutarli e ci mettiamo d’accordo per rivederli nei prossimi giorni, visto che resteranno in zona almeno fino a lunedì, il giorno della loro partenza.

Ci rechiamo al campo da tennis quando, ormai, non ci resta altro che fare gli spettatori, infatti è buio pesto e quasi ora di cena.

La serata trascorre in compagnia di un doppio spettacolo di cabaret, prima in versione internazionale e poi in italiano. Fra i due trovo anche il tempo di sfidare Corrado a carambola, ma il risultato è, a dir poco, indecoroso, anche se il lato sportivo della cosa è l’ultimo dei miei pensieri. I pensieri cominciano ad averli, invece, i ragazzi di Jesi, i quali, fra meno di ventiquattro ore, partiranno per l’Italia, ed è un peccato, visto che ci stavamo divertendo.

Sabato 18 Marzo 2000: Gianluca si presenta a colazione piagnucolando come una bambino, certo è riuscito, a quanto pare, a digerire il cocco, ma non vuole tornare a casa! La sua, naturalmente, è tutta scena anche se, infondo, lascia trasparire, come gli altri, un sottile velo di tristezza per l’imminente partenza. Del resto l’abbiamo sempre detto che una settimana di vacanza in questi luoghi è troppo poco: neanche il tempo di ambientarsi e bisogna levar le tende. Si finisce, in altri termini, per ingerire un boccone senza averlo opportunamente gustato, un boccone che, invece, valeva la pena di assaporare a lungo … almeno per un’altra settimana, cosa che noi, per fortuna, faremo. Cercheremo, in qualche modo, di consolarli e resteremo tutto il giorno con loro all’interno del villaggio, con la speranza di non procurargli più rabbia al solo pensiero che ci lasceranno in questo “paradiso”.

In spiaggia trascorriamo la mattinata giocando a carte, a beach-volley ed infine a pallanuoto (con due donne in squadra è stato un vero massacro: 20 a 8). Sabrina, Maria Grazia e Roberta se ne stanno, per tutto il tempo, a far la spola fra la piscina ed il lettino, non lasciandosi sfuggire un solo raggio di sole. Intanto mi reco alla reception a contrattare il noleggio di un’auto per i prossimi quattro giorni, spunto un buon prezzo (forse) e torno alle mie attività balneari.

Pranziamo e torniamo in spiaggia. Gli amici di Jesi sono agli sgoccioli e di lì a poco se ne vanno per tornare, più tardi, in “abiti civili”. Ci scambiamo indirizzi e numeri di telefono con la promessa di incontrarci in un prossimo futuro. Li accompagniamo alla reception e li salutiamo intorno alle 19:00. Andiamo quindi in camera ad aspettare una telefonata che, però, tarda ad arrivare. Il telefono squilla, finalmente, quando ormai avevamo perso ogni speranza: sono le 20:30. All’altro capo del filo c’è Ivan, il quale dice di aver avuto qualche problema con i prefissi … gli crediamo e prendiamo accordi così da incontrarlo dopo cena.

Saliamo su di un taxi con destinazione Playa del Carmen e ci facciamo scaricare vicini al centro, cerchiamo quindi il luogo dell’appuntamento (il McDonald’s) e ci mettiamo in attesa di Ivan, Sabrina, Monica e Salvatore. Arrivano, seppur con un po’ di ritardo. Insieme a loro andiamo in un caratteristico locale sulla spiaggia, il “Blu Parrot”, dove chiacchieriamo, bicchieri alla mano, per qualche tempo raccontandoci le avventure degli ultimi giorni e trascorrendo una piacevole serata. Ci facciamo, infine, accompagnare al Mandarin e fissiamo un nuovo appuntamento, questa volta per la mattina in previsione di una giornata intera da trascorrere, insieme, all’insegna dell’avventura.

Domenica 19 Marzo 2000: E’ la festa del papà … e io padre snaturato sono ad oltre novemila chilometri di distanza da mio figlio: un oceano ci divide e la cosa, per dire la verità, non mi fa piacere. Ciò nonostante continuo a pensare che tutto questo sia giusto e che, infondo, Sabrina ed io non stiamo facendo nulla di imperdonabile o scandaloso. Con questo pensiero in testa esco dalla stanza mentre, come succede da un po’ di tempo a questa parte, splende un bel sole, in più ci attende un appuntamento con gli amici di Forlì, assieme ai quali trascorreremo la giornata.

Ritiriamo l’auto a noleggio: una Chevy Monza verde (targata 5834 TMR), una strana macchina, mai sentita nominare, ma non importa, purché svolga la sua funzione. Annotiamo, come vuole la prassi, ogni piccolo particolare, quindi usciamo dal villaggio e ci mettiamo in attesa lungo la superstrada.

Poco dopo le 9:00 arrivano Ivan, Sabrina, Monica e Salvatore. Parcheggiano e scendono dall’auto per salutarci. Neanche il tempo di ricambiare i saluti e Salvatore si accorge di aver forato … cominciamo bene! … Cambiamo la gomma di fronte all’ingresso del Mandarin, mentre passa un addetto dell’autonoleggio che ci consiglia di andare a Playa del Carmen: lì troveremo un gommista, nonostante la giornata festiva. Infatti lo troviamo: è un’officina modernissima, in tutto e per tutto all’avanguardia se solo fossimo … nel medio evo! … Tanto basta, comunque, per farci capire che la foratura è più grave del previsto: si tratta infatti di un taglio e la gomma non si può riparare! Decidiamo comunque di intraprendere l’escursione: Ivan e Sabrina salgono con noi, in modo da alleggerire l’auto “mutilata” dalla presenza della più classica fra le ruote d’emergenza, e seguiamo la strada che ci condurrà fino a Cancun, con la speranza di non forare un’altra volta.

I messicani hanno uno stramaledetto vizio: usano mettere lungo la strada le cunette per rallentare il traffico, le cosiddette “topes”, e, tutto sommato, sarebbe un bene se non le mettessero nei posti più impensabili e se, almeno, avessero l’accortezza di segnalarle! Me ne trovo una, all’improvviso, in mezzo alla superstrada, mentre viaggio, per fortuna, a soli ottanta chilometri orari, troppo tardi per frenare … “decollo” letteralmente! L’atterraggio è violento e le sospensioni vengono messe a dura prova, ma restiamo in strada e proseguiamo la marcia. Passo un po’ di tempo ad “ascoltare” l’auto che sembra aver retto bene all’impatto … ma quanta paura! Attraversiamo tutta Cancun e arriviamo a Puerto Juarez, da dove ci imbarcheremo su di un traghetto pedonale, e non con l’auto al seguito, come si era pensato in un primo tempo, per raggiungere Isla Mujeres: letteralmente “isola delle donne”. Esistono almeno due teorie sull’origine di questo strano nome: la prima dice che gli spagnoli, sbarcati sull’isola, vi trovarono una gran quantità di idoli femminili e di conseguenza battezzarono il luogo, la seconda, più affermata, sostiene che i pirati vi tenessero segregate le loro donne … comunque sia una cosa è certa: il nome non ha nulla a che vedere con l’otto di marzo! Entriamo in un parcheggio custodito dove lasceremo l’auto per tutto il giorno, mentre il posteggiatore, che ha, evidentemente, un giro d’affari più ampio di quanto non sembri in apparenza, ci propone l’affitto di una barca per soli duecentocinquanta pesos a testa e per l’intera giornata, così da poter girare l’isola a nostro piacimento. L’affare sembra vantaggioso, fin troppo vantaggioso, tanto da far nutrire il sospetto della fregatura. Ci pensiamo un po’ sopra e … finiamo per accettare.

Saliamo sulla barca e subito prendiamo il largo. Lungo il tragitto recuperiamo due sedie naufragate chissà per quale motivo e dopo neanche venti minuti siamo sul molo di Isla Mujeres. Passeggiamo lungo le caratteristiche stradine del centro, dove già eravamo stati in occasione dell’escursione a Isla Contoy, e ne approfittiamo per fare qualche compera, poi torniamo sulla barca. Il nostro primo desiderio è quello di fare snorkeling ed immediatamente veniamo esauditi e condotti a poche centinaia di metri dal porto, in prossimità di alcuni scogli, dove veniamo invitati ad entrare in acqua. Siamo piuttosto scettici sulla scelta del luogo, ma ci sono altre persone che nuotano intorno a noi ed un motivo ci sarà … e infatti c’è! Siamo, a tratti, completamente circondati da una moltitudine di pesci meravigliosi, per nulla intimoriti dalla nostra presenza, ed è una sensazione straordinaria! A pochi metri di profondità si trova la statua di una madonna, anche lei, come noi, avvolta dall’invisibile abbraccio dei piccoli abitanti del mare.

Risaliamo sulla barca un po’ dispiaciuti per aver dovuto abbandonare quel piccolo paradiso, ma non è finita … veniamo accompagnati in un’altra zona e, di nuovo, invitati ad entrare in acqua. Già pregustiamo il nuovo spettacolo, ed invece ecco la delusione: solo qualche timido pesciolino dall’aria spaesata e tanta fatica nel percorrere un tratto di mare interminabile. Quando torniamo a bordo siamo sfiniti, in più mezzogiorno è già passato e sentiamo il bisogno di fermarci a pranzare.

Veniamo sbarcati a Playa Paraiso, una spiaggia attrezzata che sembra far proprio al caso nostro. Ci rilassiamo all’ombra delle palme e addentiamo un panino con di fronte a noi l’inconfondibile silhouette della “zona hotelera” di Cancun. In un recinto, a pochi metri da riva, in pochi centimetri d’acqua, viene tenuto un povero squalo, una specie di vegetale che si fa prendere in braccio dai turisti e poi fotografare. Noi evitiamo la cosa: è un’indecenza, una totale mancanza di rispetto verso l’animale che, infondo, ha una sua dignità e che, forse sarebbe meglio uccidere piuttosto che ridurre in quelle condizioni! I pesci preferiamo vederli in libertà e quindi torniamo a bordo della “nostra” imbarcazione, vogliamo fare ancora snorkeling, e vogliamo farlo nel luogo più noto dell’isola: il parco di Garrafon, e lì veniamo condotti. Basta gettare qualche briciola di pane e l’acqua ribolle di pesci … deve essere una meraviglia … una meraviglia che, invece, ci viene negata: ci vien detto che non si può arrivare dal mare e fare il bagno senza aver prima pagato il biglietto d’ingresso al parco, ci viene anche detto che ormai è tardi e quindi ora di rientrare. Ma sono solo le 16:00, si era parlato di intera giornata e ci sono ancora due ore di sole!… Non vogliono sentir ragione le nostre guide: girano la prua verso Puerto Juarez e rientrano … ecco la fregatura! Cerchiamo di non arrabbiarci, infondo la giornata è stata positiva e ci siamo divertiti, questo è l’importante. Non vogliamo perderci gli ultimi raggi di sole così passiamo un po’ di tempo nella poco attraente spiaggia attigua al porto.

E’ buio quando arriviamo al Mandarin. Giusto il tempo di cenare e siamo di nuovo a bordo nella nostra Monza con desti nazione Playa del Carmen. E’ una bellissima e calda serata. Incontriamo di nuovo gli amici e insieme ci divertiamo a fare qualche acquisto tirando in maniera decisa sul prezzo, quindi ce ne andiamo, di nuovo, al Blu Parrot per chiudere in bellezza la giornata.

Lunedì 20 Marzo 2000: Il sole è più splendente che mai e l’unica aria di burrasca che sembra essere nei paraggi infuria più o meno all’altezza del mio ombelico: Montezuma non ha ancora consumato la sua vendetta ma è molto, molto arrabbiato.

E’, questo, l’ultimo giorno che trascorreremo in compagnia di Ivan, Sabrina, Monica e Salvatore, infatti partiranno nel pomeriggio per tornare in Italia. Saliamo in auto e li raggiungiamo a Playa del Carmen, dove sono alloggiati all’hotel Tierra Maya, e, insieme, dopo una breve sosta per qualche compera, seguiamo la strada in direzione sud. In prossimità della località di Akumal scendiamo verso il mare ed imbocchiamo una strada secondaria che in qualche chilometro ci porta alla laguna di Yal-Hu, un’area protetta trascurata dai tradizionali circuiti turistici, ma non per questo priva di interessi. Varchiamo il cancello di ingresso, paghiamo i cento pesos richiesti e parcheggiamo nel minuscolo parcheggio disponibile, scarichiamo gli zaini e ci dirigiamo verso la laguna. Lo specchio d’acqua è bellissimo e il suo colore chiaro è in netto contrasto col blu intenso e terso del cielo, è simile a Xel-Ha, ma molto più selvaggio, non vi è una vera e propria struttura ricettiva, non ci sono né sedie né sdrai lungo le sue rive, quindi ci sistemiamo sugli scogli, visto che non c’è neanche la spiaggia, ma il tutto non guasta, anzi contribuisce a rendere il luogo un piccolo paradiso.

Trascorriamo tutta la mattina a scalar le rocce per tornare a distenderci al sole, dopo l’ennesimo tuffo nelle acque cristalline della laguna, in compagnia degl’immancabili pesci che ci scorrazzano attorno, siamo in estasi totale e completamente rilassati. Non succede nulla se si esclude una ciabatta di Ivan che va in pezzi e lo lascia praticamente scalzo … ci stiamo soltanto divertendo, e non è poco! Interrompiamo il bagno di pace e tranquillità solo per chiamare Federico, e per farlo dobbiamo uscire, in auto, dall’area protetta, visto che non è dotata neanche di telefono. Dopo varie peripezie riusciamo a parlargli: ci sembra tranquillo, sta giocando con le piastre e ha un nuovo aquilone che non vede l’ora di mostrarci.

Quando rientriamo a Yal-Hu abbiamo qualche problema col posteggia tore che vuole farci pagare di nuovo il biglietto. Gli rinfreschiamo la memoria dicendogli che eravamo usciti pochi minuti prima per telefonare e che, oltretutto, l’avevamo anche informato … ci pensa un po’ e, per fortuna, rammenta. Torniamo così a continuare il nostro bagno di pace e tranquillità, che, però, termina intorno alle 15:30, quando gli amici, controvoglia, devono prepararsi a partire. I saluti sono d’obbligo anche se, credo, ci rivedremo presto a Forlì. Le nostre strade a questo punto si dividono: loro salgono in macchina e seguono la superstrada verso nord con destinazione Cancun e anche noi lasciamo Yal-Hu, è bellissima ma ormai abbiamo gli scogli stampati sul fondoschiena. Seguiamo la superstrada verso sud, per pochi chilometri, quindi svoltiamo a destra ed imbocchiamo uno sterrato che penetra nella foresta fino a raggiungere le grotte di Aktun Chen.

Parcheggiamo l’auto mentre alcune simpatiche scimmiette ci prendono d’assalto, quindi c’incamminiamo, e raggiungiamo il punto da cui avrà inizio la visita, indossiamo il caschetto protettivo e scendiamo verso le grotte. Il percorso è interessante e si dipana fra stalattiti e stalagmiti di ogni forma e dimensione, mentre qualche grossa radice perfora il soffitto e si va a conficcare nel pavimento creando strani effetti scenografici. Ogni tanto si riemerge nell’intricata foresta tropicale per poi sprofondare di nuovo nelle viscere della terra. Il cenote, la parte più bella della grotta, si raggiunge quasi al termine della visita: è un grazioso laghetto dall’acqua incredibilmente trasparente nel quale si riflettono le concreazioni circostanti. E’ a questo punto del percorso che mi sale sulle spalle una scimmia, evidentemente stanca, che decide di farsi trasportare per un buon tratto di strada. Accetto di buon grado la parte del mezzo di trasporto e incamero, così, l’ennesima, nuova, esperienza.

Rientriamo al villaggio consapevoli di aver trascorso un’altra straordinaria giornata e ci fermiamo a sorseggiare una piña colada sui bordi della piscina, con la luna piena che sale, lentamente, fra le palme, verso il cielo sopra di noi. Siamo felici ma senza compagnia da questa sera, e non sarà facile trovarne altra. L’animazione ci propone un musical che seguiamo volentieri, ma ben presto soli ci ritiriamo nei nostri appartamenti.

Martedì 21 Marzo 2000: E’ il giorno dell’equinozio di primavera e a Chichén Itza si consumerà una grande festa: un’immensa folla si radunerà alla base della grande piramide in attesa che il gioco di luci ed ombre si ripeta per dar vita al serpente che scenderà nuovamente sulla terra. Noi in quel momento saremo sì in un sito archeologico, ma da tutt’altra parte: saremo a Cobá, immersi nella foresta tropicale, in un luogo, a quanto si dice, infestato dalle zanzare e nel quale vi sarebbero molte probabilità di incontrare serpenti. A tal proposito indossiamo pantaloni lunghi e scarpe adeguate, e questo nonostante la giornata si preannunci tutt’altro che fresca (per fortuna possiamo contare sull’aria condizionata della nostra Monza).

Partiamo verso sud e ci fermiamo a Playa del Carmen. Siamo alla ricerca di una banca dove acquistare qualche pesos e ne troviamo diverse, ma tutte chiuse visto che le celebrazioni legate all’equinozio, in Messico, sono considerate festa nazionale. Proseguiamo allora lungo la superstrada, oltrepassiamo Akumal, riusciamo a cambiare un po’ di denaro al bancone di un bar e raggiungiamo Tulum. Da qui imbocchiamo una strada secondaria che si avventura verso l’interno della regione, tagliando la boscaglia con interminabili rettilinei. Alcune micidiali topes sono collocate in prossimità degli sparuti villaggi che si incontrano lungo il percorso, villaggi spartani, dove, ancora oggi, si vive in condizioni precarie, all’interno di fatiscenti fabbricati, a volte poco più che capanne.

Raggiungiamo una zona costellata di specchi lacustri, nelle cui vicinanze si trova il sito di Cobá, che, non per niente, in lingua maya, significa “acqua mossa dal vento”. Il luogo, nei suoi giorni di gloria e di potere, doveva essere uno spettacolo, era, infatti, il nodo centrale del sistema viario maya, un sistema complesso e con strade larghissime (almeno dieci metri), e tutto per farvi transitare nientemeno che … gente a piedi! I maya, infatti, non conoscevano la ruota, né, tanto meno, possedevano cavalli o altri mezzi di trasporto! Entriamo all’inteno del sito archeologico, senza nemmeno pagare il biglietto d’ingresso in considerazione del giorno festivo, ed in pochi minuti raggiungiamo il gruppo di rovine dominato dalla piramide Iglesia, composta da nove terrazze e sovrastata da un tempio in stile tolteco. Ai suoi piedi si trova l’immancabile sferisterio impeccabilmente restaurato.

Il gruppo di rovine più importante, quello di Nohoch Mul, si trova ad oltre due chilometri di distanza: per questo motivo decidiamo di affittare, entrambi, una bicicletta, allo scopo di rendere la visita meno faticosa. In questa giornata mi sarei aspettato di tutto: caldo torrido, nugoli di zanzare (che non ci sono) e serpenti (che vorremmo continuare a non vedere), ma, certamente, mai mi sarei aspettato di inforcare una bicicletta, per altro estremamente comoda, vista la circostanza.

Il gruppo di Nohoch Mul è dominato dalla suggestiva piramide El Castillo, a dodici piani, la più alta di tutto il nord dello Yucatán, ben quarantadue metri. Saliamo lungo una vertiginosa scalinata fino alla sua sommità per godere del magnifico panorama sulle rovine circostanti, disseminate nella foresta. Restiamo per qualche tempo in contemplazione, prima di abbandonare la vetta e pedalare sulla strada del ritorno. Riconsegniamo le biciclette, adottiamo un abbigliamento più balneare e ci rifugiamo in macchina a cercare refrigerio (il termometro segna trentaquattro gradi!).

Torniamo a Tulum percorrendo a ritroso la strada dell’andata, quindi ci mettiamo alla ricerca di una spiaggia dove trascorrere il resto della giornata. La troviamo, ed è anche molto bella, con sabbia bianca e finissima, quasi impalpabile, acqua azzurra e scenografico boschetto di palme alle spalle. Subito cerchiamo refrigerio fra le onde, quindi ci dedichiamo al riposo e all’ozio più assoluto, per buona parte del pomeriggio, fino a quando non decidiamo di passeggiare lungo la spiaggia. Un passo dopo l’altro arriviamo fin quasi alle rovine di Tulum: non lontano da noi, sulla scogliera, appare chiarissima l’inconfondibile sagoma d’El Castillo.

Abbiamo ancora un discreto numero di chilometri da percorrere prima di arrivare al Mandarin, per questo motivo lasciamo la spiaggia ancor prima che il sole tramonti, in modo da arrivare ad un orario che ci consenta di sorseggiare un cocktail e di fare una tranquilla doccia prima di cena. Per il resto la serata si trascina un po’ fiacca: nonostante un tentativo di chiuderla in discoteca restiamo un po’ carenti in fatto di compagnia, e in più Montezuma non sembra ancora di buon umore.

Mercoledì 22 Marzo 2000: E’ l’ultimo giorno con l’auto a noleggio e partiamo un po’ più tardi del solito: solo una manciata di chilometri ci dividono dal parco di X-Caret, ubicato, in pratica, nella periferia meridionale di Playa del Carmen. E’ stato costruito attorno ad una piccola insenatura naturale, oltre ad alcune grotte ed anfratti, ed in un’area archeologica di scarsa importanza, al resto hanno pensato i progettisti, trasformando il tutto in un grande parco zoologico, divertimenti e storico, con chiari riferimenti all’antica cultura maya. Ne è scaturita un’attrazione dal sapore più americano che messicano, ed americani sono, infatti, la maggior parte dei visitatori, catturati da un business turistico a loro congeniale, e al quale non abbiamo saputo o, forse, voluto resistere neanche noi.

Paghiamo il salatissimo biglietto (trentanove dollari a testa!) e varchiamo il sontuoso e monumentale ingresso, appena oltre il quale, come a voler dare il benvenuto, si trovano pappagalli e fenicotteri: chiassose macchie di colore in netto contrasto con il verde circostante. Subito vogliamo fare una delle esperienze maggiormente reclamizzate: una emozionante nuotata nel rio sotterraneo. Lasciamo gli zaini, che ci verranno restituiti al termine dell’escursione, indossiamo pinne e giubbotto di salvataggio, quindi scendiamo lungo una scalinata fino alla base di una profonda fenditura della roccia, all’interno della quale scorre poco più che un rigagnolo d’acqua, ci tuffiamo e cominciamo a seguirne il corso, in parte naturale ed in parte artificiale. Percorriamo lunghe gallerie ed emozionanti passaggi, fino a giungere, tutto sommato soddisfatti, al termine.

Recuperiamo i nostri effetti personali e ci dirigiamo verso la spiaggia, una spiaggia in gran parte artificiale ma carina. Ci sistemiamo occupando un ombrellone ed alcuni sdrai, quindi ci organizziamo per effettuare, a piedi, l’intera visita del parco.

Lungo il cammino, in un ambiente estremamente curato, fra scorci deliziosi e architettonicamente impeccabili, fra ricostruzioni di villaggi maya e resti archeologici, incontriamo tartarughe e coccodrilli, delfini e pesci tropicali di ogni forma e colore, puma, scimmie e farfalle, e tutti, è logico, rigorosamente in gabbia. La cosa ci rattrista un po’, infatti, è l’ultimo posto nel quale vorremmo vedere gli animali, e finiamo per sentirci, in qualche modo, responsabili e quindi, in parte, causa della loro deprimente sistemazione.

Dopo oltre due ore di cammino torniamo in spiaggia, mentre torna anche il sole che, nel frattempo, se n’era andato dietro alle nuvole. Facciamo un bagno e poi pranziamo: è lo stesso pranzo da quattro giorni a questa parte ma non importa, anche a X-Caret, tutto sommato, si sta bene, il clima e la temperatura sono, come al solito, deliziosi ed il relax è assicurato.

Sabrina poltrisce “vergognosamente” per tutto il pomeriggio, mentre io vado a fare snorkeling nell’unica insenatura naturale del parco, dove i pesci, quelli liberi, grazie a Dio non mancano, quindi affronto la discesa di un altro rio sotterraneo (quello “maya”), e quando torno da Sabrina è quasi ora di lasciare la spiaggia per assistere allo spettacolare “gioco della pelota”, che si tiene nello sferisterio del parco, uno sferisterio circondato da improbabili quanto indispensabili tribune gremite di spettatori. L’incontro termina senza vinti né vincitori e quindi … senza decapitazioni: chissà, forse anche nell’antichità il pareggio era il risultato più ricorrente … nell’interesse di tutti i giocatori! Usciamo dal parco, sistemiamo gli zaini nel bagagliaio e saliamo in macchina. Inserisco la chiave e la giro per avviare il motore … niente, il silenzio più assoluto. Riprovo una volta, due, tre, quattro, … niente da fare, non c’è segno di “vita”, e il problema sembra essere il motorino d’avviamento, visto che qualsiasi altro tipo di circuito elettrico funziona alla perfezione. Mi appresto a spostare l’auto per farla partire a spinta mentre si avvicina un sorvegliante a chiedere quale sia il problema. Cerco, in qualche modo, di spiegarglielo, così giro nuovamente la chiave per dimostrargli la mia teoria … e la macchina parte! … come non detto, ho fatto anche la figura dell’idiota.

Usciamo dal parcheggio e ci dirigiamo verso Playa del Carmen. In prossimità del centro ci fermiamo con l’intenzione di dedicare un po’ di tempo allo shopping. Vaghiamo per almeno un’ora fra negozi e bancarelle, acquistando magliette, soprammobili e bigiotteria. Nell’ultima contrattazione riusciamo anche ad utilizzare, come merce di scambio una, ormai inutile, carta telefonica con qualche pesos residuo, così ce ne andiamo convinti di aver fatto buoni affari.

Incrociamo le dita e tratteniamo il respiro, giro la chiave … e la macchina parte. Arriviamo al Mandarin certi di aver concluso un’altra buona giornata, apriamo il bagagliaio e prendiamo gli za… non ci sono più! … gli zaini non ci sono più! Nonostante il primo pensiero sia stato quello di averli dimenticati da qualche parte ben presto ci rendiamo conto di essere stati, purtroppo, derubati e ad un’iniziale sensazione di smarrimento si sovrappone, immediatamente, la rabbia più completa e, tutto sommato, giustificata. Subito facciamo un rapido inventario di quello che gli zaini contenevano: custodia subacquea della telecamera, occhiali da sole e da vista, frontalino dell’autoradio, pinne e maschere, qualche indumento e i teli da mare (del Mandarin), oltre a creme solari e tante altre cose all’apparenza insignificanti ma comunque utili. Un bel danno per noi ed un magro bottino per i ladri. Non sappiamo cosa fare e raccontiamo l’accaduto alla reception: si mostrano tutti molto dispiaciuti ma, comunque, impossibilitati a far qualcosa, se non che … offrirci, gratuitamente, altri due teli da mare.

Piuttosto cupi in volto ce ne andiamo a fare una doccia, ceniamo in fretta e poi torniamo a Playa del Carmen, intenzionati a fare un estremo e disperato tentativo: offriamo ad alcuni venditori ambulanti una cospicua somma di denaro in cambio di un aiuto a rintracciare la refurtiva, infondo, in città, dovrebbero conoscersi più o meno tutti. Niente da fare, si chiamano fuori dal giro e si dicono anche loro dispiaciuti per l’accaduto. Decidiamo, allora, di fare almeno la denuncia, così ci presentiamo al comando di polizia dove, subito, cominciano a farci un’interminabile serie di domande, quindi ci segnalano un indirizzo al quale presentarci l’indomani mattina … Tante grazie per l’interessamento ma lasciamo perdere! Saliamo di nuovo in macchina e … non parte! … Accidenti! … Provo e riprovo più volte, e … finalmente parte! … Ora basta, andiamo via, mettiamoci una pietra sopra, e chiudiamo, definitivamente, questa stramaledetta storia! Ci fermiamo (lasciando l’auto in moto!) per acquistare almeno una crema solare ed un pettine, poi rientriamo al Mandarin in tempo utile per assistere ad uno spettacolo di cabaret, quindi ce ne andiamo a letto, con la speranza che la notte porti consiglio: il consiglio di non lasciare che quanto accaduto rovini questa bellissima vacanza. Giovedì 23 Marzo 2000: La notte non è trascorsa nel migliore dei modi ed è stato un sonno tutt’altro che tranquillo: Sabrina ha sognato che, al nostro rientro a Roma, non ritrovavamo più l’auto e che quindi eravamo vittime di un altro furto, ben più grave del precedente. Fortunatamente, si dice, i sogni vanno a rovescio. Per dire la verità abbiamo un problema inerente ad un’auto: la restituzione di quella a noleggio e la paura che non parta, con le conseguenti imputazioni di colpe che ne deriverebbero. Grazie a Dio, invece, parte al primo tentativo e, più sollevati, possiamo raccontare le nostre disavventure, relative al furto, alla funzionaria della Budget, osservandone attentamente le reazioni. Alcuni indizi, in effetti, lasciasciano pensare ad un legame fra il ladro e la compagnia di autonoleggio, non si spiegherebbe altrimenti il fatto che il bagagliaio sia stato aperto e successivamente richiuso a chiave, lasciando, fra l’altro, al suo posto la ruota di scorta, e, non ultima, la totale assenza di segni di scasso. Ma la funzionaria allarga, prevedibilmente, le braccia e si dice, anche lei, dispiaciuta per quanto accaduto.

Ce ne andiamo in spiaggia a rilassarci, cercando di farcene una ragione e di passarci sopra, ma non è facile. Ora vediamo anche i messicani con un occhio diverso, seppur consapevoli di commettere un grosso errore nel farlo, in effetti non serve venire fin qua per farsi derubare, basta, a volte, rimanere in Italia! Cerchiamo allora di vedere il lato positivo della cosa: gli occhiali da vista erano scarsi di gradazione, la telecamera è ormai da comprare nuova e la custodia subacquea di conseguenza, l’autoradio, neanche dotata di RDS, era già piuttosto vecchia, e poi … basta guardarsi intorno, è una magnifica giornata ed il mare è calmo, tanto da sembrare bello anche di fronte al club. Passo buona parte della mattinata a prendere appunti, gli appunti necessari a riscrivere, una volta a casa, questo diario, visto che l’originale era, ahimè, dentro ad uno dei due zaini.

Trascorriamo un po’ di tempo nell’idromassaggio, prima di chiamare casa e sentire Federico. La sua vocina corre lungo il filo e ci intenerisce quando afferma che è un po’ troppo tempo che sta dai nonni … non c’è dubbio: è lui la nostra vera ricchezza! La telefonata così ci risolleva un po’ e ci tuffiamo in piscina lasciandoci andare in qualche benevola risata.

Pranziamo, quindi torniamo subito in spiaggia, e, mentre Sabrina “dosa col contagocce” le ultime pagine dell’unico libro che le è rimasto, io continuo a metter giù appunti. Nell’arco del pomeriggio cerchiamo, a più riprese, refrigerio in piscina, con il tempo che torna a scorrere piacevole ed inesorabile. Mi cimento di nuovo nel tiro con l’arco (questa volta dai diciotto metri), ed è un disastro: almeno un paio di frecce finiscono fuori bersaglio.

Consumiamo uno spuntino e ci ritiriamo in camera quando ormai è sera, schiacciamo un pisolino e ci presentiamo, più tardi, a cena. Concludiamo, infine, la giornata con un piacevole spettacolo in teatro ed una breve apparizione in discoteca.

Venerdì 24 Marzo 2000: La sveglia suona alle 8:00, e ci sorprende in pieno sonno. Ormai i problemi legati al fuso orario sono un lontano ricordo, così come lontani vorremmo che fossero i pensieri legati al recente furto subito. Oggi, secondo programmi, saremmo dovuti essere in escursione, sul Rio Lagartos, a vedere i fenicotteri rosa, ma, viste le recenti disavventure, vi abbiamo rinunciato. Inutile negarlo: l’entusiasmo non è più lo stesso e, tutto sommato, una piccola limitazione alle spese, a questo punto, è giusto farla, in considerazione anche del fatto che nutrivamo qualche dubbio sulla buona riuscita dell’escursione, visto che non è ancora la stagione giusta per osservare i fenicotteri. Fenicotteri che, comunque, abbiamo visto, anche se non in condizioni ideali, nel parco di X-Caret. Ci rechiamo, allora, in spiaggia, dopo colazione, e ci sistemiamo in fronte al sole, alla ricerca del più completo relax, interrotto solo dalla verifica, presso la reception, degli orari di partenza e volo previsti per l’indomani, orari, per il momento, tutti confermati.

E’ un’altra bellissima giornata senza nuvole, e di fronte a noi si intravedono, come al solito, abbastanza chiaramente, alcuni palazzi situati sulla dirimpettaia isola di Cozumel. Alcuni ospiti del Mandarin, in un ombrellone vicino al nostro, stanno discutendo animatamente: fino ad oggi erano convinti che quei palazzi fossero, in realtà, navi da crociera ma, visto che da diversi giorni non si spostavano da quella posizione, oggi, sono finalmente riusciti ad identificarli come palazzi, anche se come palazzi di Cancun, città che, in effetti, si trova più a nord, lungo la costa, e non certo di fronte a noi … Non hanno, evidentemente, la più pallida idea di quale sia la loro, e la nostra, posizione sulla cartina geografica, tanto più che uno di loro fa una con-siderazione: “… chissà cosa avranno pensato i primi esploratori quando sono sbarcati su quest’isola?”… ma quale isola?! … siamo nientemeno che sul continente americano! … altro che isola! Non c’è che dire: non hanno proprio capito niente! … Noi comunque, idealmente, li ringraziamo per averci fatto sorridere, mentre veniamo coinvolti in un mini torneo di bocce: Sabrina ed io contro tutti uomini, ma il livello medio è piuttosto basso, così riusciamo a vincere la semifinale e poi a perdere, con onore, la finalissima.

Prima di pranzo vogliamo anche sperimentare, per la prima volta da quando frequentiamo villaggi-vacanza, una lezione di acqua-gym, una esperienza che, evidentemente, è piaciuta a Sabrina, visto che l’ha ripetuta nel pomeriggio. In precedenza aveva terminato il suo libro, conscia del fatto che se, due giorni addietro, fosse stato, come al solito, dentro allo zaino, mai ne avrebbe potuto conoscere l’epilogo se non dopo averne acquistata un’altra copia. Per quanto mi riguarda, concludo la giornata in spiaggia a tirar con l’arco, ci ho preso proprio gusto, e qualche piccolo risultato comincia a vedersi.

Le lunghe ore trascorse al sole si fanno sentire sulla pelle che scotta quando, al tramonto, ci concediamo uno spuntino al bar della piscina, dove, nel frattempo, facciamo amicizia con un gruppo di ragazzi, del quale, fra l’altro, ne fanno parte anche i nostri primi avversari del torneo di bocce, quelli sonoramente battuti e, per questo motivo, ancora benevolmente derisi dagli amici.

E’ buio e ce ne andiamo in camera a riordinare le valigie in vista della partenza. Più tardi ci rechiamo a cena e incontriamo i nuovi amici che, purtroppo, resteranno tali per meno di ventiquattr’ore. Trascorriamo assieme a loro una piacevole serata, chiacchierando, a lungo, seduti ad un tavolo del bar, prima di concludere la giornata in discoteca.

Sabato 25 Marzo 2000: E’ l’ultimo vero e proprio giorno in Messico e, tutto sommato, siamo contenti di tornare a casa e poter quindi riabbracciare Federico, ciò nonostante desideriamo goderci fino in fondo la vacanza e, per questo motivo, poco dopo le 8:00 siamo già in piedi e pronti per la colazione. Purtroppo, però, grossi nuvoloni grigi ricoprono tutto il cielo non lasciando presagire nulla di buono. Dopo non più di mezz’ora invece, per fortuna, si alza un forte vento e, in men che non si dica, torna a splendere il sole. Ringraziamo, inconsciamente, il dio Chaac per la gentile concessione mentre ce ne andiamo in spiaggia con l’intenzione di sfruttare a fondo ogni istante del tempo che ci resta. Così mi dedico prima al beach-volley e poi, di nuovo, al tiro con l’arco. Sabrina, invece, intenta a prendere quanta più tintarella possibile, si alza dal lettino solo per prendere parte ad una lezione di acqua-gym.

Incontriamo gli amici e il tempo vola: mezzogiorno arriva in un attimo. Consumiamo un velocissimo pranzo e torniamo subito in spiaggia. Ne approfittiamo per scattare una memorabile foto ricordo in compagnia del più strano e folcloristico ragazzo dell’animazione, una specie di “figlio dei fiori” in versione messicana che se ne va in giro per il villaggio a divulgare la parola “felicità”, ammiccando, nel frattempo, simbolicamente col dito indice e medio. Non manca, ogni tanto, di predicare lanciando frasi del tipo: “… forza e coraggio, la vita è solo un passaggio …”, oppure altre, dal contenuto sempre vagamente mistico. Il soggetto ci ha sempre incuriosito, fin dal primo giorno, e tuttora, giunti al termine della nostra vacanza, non sappiamo ancora come definirlo, solo una cosa sappiamo per certa: che è giunta, nel frattempo, l’ora di lasciare la spiaggia.

Andiamo in camera a fare una doccia e a chiudere le valigie prima di sistemarle al di fuori della porta. Sono le 15:30 quando usciamo, in jeans e maglietta, cominciando a vagare per il villaggio in attesa dell’orario previsto per la partenza. Salutiamo gli amici mentre l’irriducibile sottoscritto scocca le ultime frecce in direzione del bersaglio. Poco dopo, alle 18:00, lasciamo, puntualissimi, il Mandarin e mezz’ora più tardi siamo all’aeroporto di Cancun, dove ci attende una lunghissima fila per l’imbarco dei bagagli.

La porta numero nove ci viene indicata come quella prevista per la partenza del volo Lauda Air L41944, e lì andiamo. Ci mettiamo in attesa mentre appare un cartello con su scritto L’Avana e non Roma … si sono sbagliati e così ci trasferiamo tutti alla porta numero quattro. Poco dopo, sui terminali, appare il volo in partenza alle 23:00 e non alle 21:40 … accidenti, ci siamo, si comincia con i ritardi! … Alle 21:00, invece, fra lo stupore generale, ci imbarcano sul Boeing 767 che decolla in perfetto orario, mentre, sui terminali, risulta ancora in partenza per le 23:00 … e, per fortuna, si sono di nuovo sbagliati! Sui monitor nell’aereo appare immediatamente la distanza che ci separa dall’Italia: 9221 chilometri, e questo non è un errore! E’ tanta la distanza da percorre e tanto il tempo che ci separa dall’atterraggio, così, per cominciare, sincronizzo l’orologio sul fuso orario di casa: il tempo materiale di farlo ed è già … … Domenica 26 Marzo 2000: Voliamo a circa novecento chilometri orari verso est e quindi incontro al sole che sorge, col risultato di rendere la notte brevissima. La luce, ben presto, filtra attraverso i finestrini, ma noi, tenendo ben chiusi gli oscuranti, cerchiamo, ugualmente di dormire, e, per fortuna, ci riusciamo.

Siamo sopra all’Europa, e, sotto di noi, si vedono solo nuvole, nuvole che si diradano in prossimità dell’Italia, lasciando intravedere la Corsica prima e l’Isola del Giglio poi. A questo punto l’aereo scende decisamente di quota, per poi atterrare, in perfetto orario, alle 16:20, all’aeroporto di Fiumicino.

Recuperiamo le valigie e, poco dopo le 17:30, siamo in macchina pronti a prendere la strada di casa (il sogno di Sabrina non è stato premonitore e, per fortuna, non abbiamo subito il furto dell’auto). Telefoniamo per far sapere del nostro arrivo: Federico, purtroppo, è un po’ influenzato ma non vede l’ora di poterci riabbracciare.

Dobbiamo percorrere circa quattrocento chilometri, e, nonostante l’ora legale, entrata in vigore la scorsa notte, arriveremo a Forlì col buio, ma comunque in tempo per portare a casa il piccolo e metterlo a letto.

A Terni, in un attimo di distrazione, sbagliamo strada e perdiamo un buon quarto d’ora ad imboccare nuovamente quella giusta, mentre a Città di Castello comincia a piovere. La pioggia ci accompagna fino a casa, portando i nostri pensieri al tiepido sole Messicano: furto a parte, abbiamo trascorso una meravigliosa vacanza, in luoghi da sogno e, spesso, in ottima compagnia.

Alle 21:25 arriviamo a casa, scarichiamo le valigie e venti minuti dopo siamo da Federico: non sta proprio bene ma, inconsapevole della nostra provenienza, è felicissimo di vederci … tranquillo piccolo, la prossima volta sarai dei nostri!

Dall’ 11 al 26 Marzo 2000



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