Yemen, ricami di pietre

26 Marzo, 1997 mercoledì. Città di Castello- Roma Fiumicino. Partenza alle ore 8.15 circa da Città di Castello, la formazione era composta dai miei genitori, Patrizia, di Rimini, sorella del mio ragazzo e me. Il cielo era limpido e la temperatura quasi estiva, ovvero si moriva dal caldo. Abbiamo incontrato un solo mediocre ingorgo prima di...
Scritto da: Francesca Mariucci
Partenza il: 26/03/1997
Ritorno il: 03/04/1997
Viaggiatori: in gruppo
Spesa: 1000 €
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26 Marzo, 1997 mercoledì.

Città di Castello- Roma Fiumicino. Partenza alle ore 8.15 circa da Città di Castello, la formazione era composta dai miei genitori, Patrizia, di Rimini, sorella del mio ragazzo e me. Il cielo era limpido e la temperatura quasi estiva, ovvero si moriva dal caldo. Abbiamo incontrato un solo mediocre ingorgo prima di arrivare a Fiumicino. All’aereoporto una vigilessa ci ha fatto fare manovre azzardate per scendere i bagagli, complicando traffico e saluti. Partiti igenitori, noi due goivanissime componenti del “gruppo vacanze a sorpresa” ci siamo appropinquate al luogo dell’appuntamento con gli altri compagni di viaggio, sotto la lettera “E” dei voli internazionali. Durante l’attesa Patti si allontana e io controllo i nostri bagagli abbarbicati su di un precario carrello con le ruote storte. Guardando da una posizione strategica il punto esatto dell’incontro riesco ad individuare i primi partecipanti…Terrore, sono tutti over 70 ! Indugio finchè non torna Patrizia e non mi convince che ormai è ora di farsi riconoscere. Scattano le prime presentazioni, tra torinesi e milanesi, Patrizia viene messa al corrente anche di un fastidioso intervento alla prostata. Finalmente ci fanno fare il check-in e, alleggerite dal bagaglio, in balìa delle frotte di turisti, decidiamo di metterci in fila per passare la dogana… Poi mi sono concessa il capriccio dell’ultima birra e quattro chiacchiere con i torinesi che mi sono valse i loro calorosi saluti quando ci siamo rivisti a Sana’a. Imbarcate un pò in ritardo, dopo le 13.30, e guarda caso, sull’aereo-carretta della Yemenia, ci siamo trovate accanto all’altro unico giovane del branco di italiani imbarcati alla volta di Sana’a, tale Riccardo, proveniente niente popò di meno che da Arezzo, (non distante da Città di Castello); con lui abbiamo approfondito come ci si sposa in Yemen, è una faccenda complicata, ed abbiamo scoperto che ci si fidanza e sposa di venerdì, e giù altre battute dell’aretino. Lunch italo-yemenita consistente in pollo super speziato che ho letteralmente spolverato, Patrizia invece è stata assalita da disperazione in quanto il pollo non rientra affatto tra i suoi piatti preferiti, per non parlare di come era condito! Ne è seguita una incetta di formaggini. Alle ore 17.30 circa abbiamo fatto scalo al Cairo ed abbiamo visto dall’alto anche le piramidi, oltre al mitico Nilo. La sosta è stata lunghina, di un’ora dicono alcune fonti, ma dei soldati burloni hanno provveduto a fare un simpatico show, una specie di balletti con gags. Intorno alle ore 19 i passeggeri seduti accanto a noi hanno iniziato a sentire uno strano suono, tipo cellulare. Dopo varie supposizioni bislacche si scopre che era la mia sveglia sullo zaino, che per altro tenevo tra le gambe ed avrei dovuto sentirla meglio degli altri. Dinner egi-yemenita: pesce trooooppo speziato, che anche io, nota spazzolatrice di pasti aerei, non sono riuscita a finire. Ore 23.30 circa arrivo a Sana’a. Sbarcate. Abbiamo dovuto riempire il modulo per la dogana nell’antrone-capannone dell’aereoporto. Lunghissima fila per il controllo dei passaporti. Ritiro dei bagagli…, tranne Paola, la nostra simpatica accompagnatrice di Bologna. Patrizia ed io siamo rimaste sconvolte per il controllo di alcuni barattoli di miele effettuati con dei bastoni luridi, mentre Ebe di Milano ci aveva già accolte sotto la sua ala di mamma chioccia. Passiamo senza noie i controlli, ci hanno fatto solo una “S” di gesso sui bagagli, a Patrizia anche sul giaccone, e giunti dall’altra parte siamo state perforate da raffiche di sguardi ai raggi “x”, ci giravano in tondo, squalescamente, spudoratamente…Come prima impressione direi che non ci siamo sentite proprio a nostro agio. Dimenticavo di menzionare che abbiamo avuto anche il primo impatto con le jambiye, impressionanti pugnali ricurvi con manici impreziositi da argento e pietre dure. Infine, dopo varie confusioni create dai membri più anziani del gruppo, e dalla guida locale Mohamed, saliamo in un taxi imbottito di pelo sintetico e arriviamo allo Sheraton Hotel. Ci siamo subito stravaccate, tutto positivo se non fosse per il cuscino di Patrizia cheemanava odori troppo speziati. Dopo esserci rinfrescate siamo crollate a letto, io con un forte mal di testa e con un’Alka-seltzer sullo stomaco.

27 Marzo, giovedì. Visita di Sana’a.

Sveglia alle 7.30, scoprimmo poi che era un’ora tarda rispetto alle future sveglie mattutine. Colazione a buffet. Partenza in pulmino verso il centro della città: come prima tappa abbiamo visitato il museo. Stupore generale per le prime case decorate, e ancora doveva venire il meglio. Il museo lasciava un pò a desiderare, come le precarie e confuse spiegazioni di Mohamed, c’erano dei bronzi tozzi, fusi e rattoppati con la fiamma ossidrica, pochi oggetti rituali di alabastro per i riti sacrificali e l’unico pezzo di valore era un’antica statuetta sottovetro con un sacco di mani incise sul corpo, poi c’erano scene di vita ricostruite con i manichini della Standa, qualche abito antico, o semplicemente vecchio, alcuni blocchi di pietra con iscrizioni sabee e alcuni arnesi agricoli. Interessante la foto del tempio del sole di Mareb “scoperto”, in quanto essendo stati abbandonati gli scavi tanti anni fa, ora è completamente ricoperto dalla sabbia e noi siamo riusciti a vedere solo le alte colonne su cui si arrampicano i bambini armati di kalashnikov, ma questa è un’altra storia. Dopo il museo, chiamato Dar Al Shukr Museum, siamo andati in giro per la città vecchia, affiancando le vecchie mura ed entrando per la porta di Bab Al Yemen, o Yaman, infrattandoci nel Suq, tra spezie e colori. Ovviamente abbiamo già fatto il cambio di valuta in Ryals, molto pittoresco l’ufficio di cambio, come dire…Poco ricercato nei dettagli, ovvero una stanzetta di cemento e lamiera. All’uscita c’era un bambino che mi inseguiva calciando una bilancia per persone, insistendo col volermi pesare, pagando ovviamente, ma ha dovuto desistere perchè ho attraversato la fangosa strada con Patrizia e Paola, che iniziava in quel momento lo sfrenato shopping per rifarsi un guardaroba nuovo poichè non aveva più trovato la valigia. Dopo interessanti capi e calzature esposte siamo state recuperate dalla guida Mohamed che, sveltendo la prassi delle contrattazioni, ci ha ricondotte al pulmino. Patrizia a questo punto rimane folgorata dall’irresistibile fascino delle motociclette locali che continuerà ad ammirare con estatico stupore fino alla fine del viaggio. Ma il vero stupore e meraviglia la proviamo tutti all’ingresso di Bab al-Yaman. Edificata intorno al 1870 dai turchi, come struttura non è bellissima, ma quello che sconvolge è il riflusso, come la risacca del mare, di tutta quella gente e della polvere che vela l’aria. Il mare aperto ed impetuoso è paradossalmente contenuto all’interno delle mura, nel Suq al-Milh. La guida dice che questo brulicante mercato si chiami anche “mercato del sale”, ma io non l’ho visto. Piuttosto ho notato le zucche-serbatoi d’acqua, il tabacco seccato, i venditori di strane bibite schiumose, di giacche (oltre ai specifici negozietti ci sono degli ambulanti che ne indossano quattro o cinque assieme), di jambiye, spezie, granaglie, uvetta, caffè, stoffe (d’importazione indiana), musicassette pompate a volumi proibitivi, mirra e incenso, scarpe di plastica, datteri, tè, ceci (o altro) cotti come le caldarroste in grandi testi anneriti, profumi, zanzariere (inquietanti), strane lampade ad olio ricavate da barattoli di latta e stoppini, foto del presidente, buste di plastica, e l’immancabile quat, il re di ogni mercato yemenita. Dopo questa visita inebriante iniziamo ad inoltrarci nella città vecchia, ammiriamo i fregi e le finestre colorate dai vetri variopinti delle case, i splendidi portoni intagiati in un legno scuro ed i loro elaborati batocchi, per restare quasi esterrefatti davanti ad un orto, nascosto ed infossato, ai piedi di questi grattacieli ricamati, una macchia di verde inaspettato! Come è stata inaspettata la fine del mio primo rullino (panico). Per fortuna a consolarmi è intervenuto un simpatico e “maturo” ortolano, più avanti, nell’orto del comandante dell’esercito (vero ed in divisa), che voleva sposarmi… Ma il giro continua tra le viuzze, arterie senza nomi scritti. Una signora velata di nero ci vuole mostrare la sua casa, che altrimenti non avremmo potuto vedere in quanto nascosta da un alto muro. Ne andava fiera e faceva bene, infatti si trattava di una casa antica con un cortile decisamente rovinato, ma con finestre meravigliose, addirittura un intero piano ha finestre con l’alabastro al posto del vetro, le persiane sono lavorate ed hanno doppia apertura, come delle mini porticine con uscio compreso. Il balconcino di mattoncini forato, ovvero l’antico frigorifero, perfettamente conservato. E perchè non menzionare le sue bimbette? La più piccolina addirittura vestita in lamè. Insomma è stato un vero colpo di fortuna. Continuando la visita possiamo ammirare tante altre case, prive di cortile ovviamente, degne di grande interesse. Alcuni particolari ci fanno veramente riflettere, come per esempio il metodo dello scolo dell’acqua di scarico: un buco in cima ad una specie di scivolo che termina sulla strada, ora provvisto di tubo, (altro elemento ricorrente), che percorre lo stesso antico tragitto verso il basso, terminando comunque “all’antica”, ossia sulla strada,…Il progresso! Mentre ammiriamo questi dettagli dobbiamo provvedere a spostarci velocemente perchè le auto ed i camioncini Toyota yemeniti riescono ad infilarsi ovunque, con il rischio però di schiacciarti contro il muro. Tra le altre peculiarità da annotare va sicuramente menzionato l’anti-jella posto sui tetti delle case più belle: un gran paio di corna di toro o emu, sulla bestia ho dei dubbi, che agiscono contro l’invidia della gente. Le strade sono ovviamente di fango…, con quello che ci buttano è un lusso che siano così “pulite”. La Moschea principale l’abbiamo vista da fuori e di corsa, perchè lì accanto c’è una base militare e non si può nemmeno fotografare. Altro dettaglio: non credere mai di poter fare una foto senza yemeniti maschi davanti all’obiettivo, è trascurabile l’età, ma anche da un deserto sono capaci di sbucare all’improvviso e di mettersi in una posa falsamente distratta, mostrando la loro jambiya come solo un vero esibizionista londinese con l’impermiabile saprebbe fare. Pausa pranzo. Ristorante con piscina nella zona residenziale di Sana’a, con clienti della crème saanese, rampolli delle famiglie bene della capitale. Il pasto è molto indigeno ma altrettanto buono (non sono affidabile, mangio sempre tutto). Solo il pesce, di dimensioni sconcertanti, era un pò troppo stopposo, asciutto, e l’altro piatto tipicamente “loro”, nè zuppa e nè stufato, con schiumina sfrigolante verdognola…Non invogliava molto all’assaggio, e, una volta eroicamente messo in bocca, lasciava un vago senso di rimorso per averlo fatto. Il pane è ottimo, tipo fornarina e piada insieme. Scorpacciata finale di melone in palline, contro ogni avvertimento delle USL italiane, ( e ancora non era nulla!). Dopo un caffè veniamo di nuovo trasportati presso le mura nuove della città vecchia, non è un gioco di parole, e guai a chi non le fotografa perchè Mohamed ci tiene particolarmente. Ci siamo soffermati a guardarle in prospettiva dal ponte in cui sotto scorrono i maleodoranti scarichi umani cittadini, abbiamo anche incuriosito un saanese che ci ha guardato schifato come se fossimo dei pervertiti che fotografano, eufemisticamente, i rifiuti. Ci inoltriamo di nuovo tra le vie e notiamo le prime antenne paraboliche poi, salendo in cima al bell’hotel Al-Gasmy Palace Hotel, ex abitazione ricca, notiamo, dal meraviglioso panorama che abbiamo davanti di Sana’a, che molti tetti ne sono provvisti, e onestamente stonano come quei tubi che costeggiano le mura stuccate. Ma che bel panorama, lascia senza parole! Evvai con gli scatti di foto frenetici da ogni angolazione. Nel frattempo un milanese si becca una sassata da un bambino. Per tornare al pulmino abbiamo dovuto riaffrontare il Suq, ma non prima di esserci finiti di imbrattare le scarpe nel quartiere ebreo, purtroppo il più scadente, povero, sudicio e abbandonato della città. Tutti masticavano qat, anche i ragazzini. Nel suq Patrizia ha fatto qualche acquisto e per un attimo è andata via la luce dal negozio così siamo rimasti nelle tenebre più assolute, dato che non eravamo all’aperto. Finally outside! Aria e luce, o meglio polvere e luce. Abbiamo girato da sole, con Genna di Sassari, per i negozietti ed io avevo una donna, ed il suo scalzo bambino, che mi ossessionava appiccicata come e peggio di un’ombra. Il turismo:voleva soldi, stì Ryals legati con l’elastico! Comunque alle 17.30 siamo rientrati in albergo. Cena e chiacchierata stile piazza di Castello, in piedi nella hall, con Patrizia, Genna, Paola e infine il marito di Ebe, l’Alberto. A letto sfinite molto presto, ma l’ultimo commento è stato sulla peculiare abitudine yemenita di tenersi per mano tra uomini, come i bambini, e infine la scopeta che Mohamed parla davvero tanto…Anche anche da solo.

28 Marzo, venerdì.

Sveglia alle ore 6.30, stamattina è la volta di Mareb.

Da questo giorno abbiamo iniziato ad usufruire della jeep Toyota Landcruiser e del suo autista, un altro Mohamed. A creare la formazione ci ha pensato Paola, ed è stata la salvezza. Infatti per tutti i restanti giorni di avventura siamo rimaste in un gruppo davvero ganzo, il più giovane, e guidato dal boss degli autisti, il capo carovana, che si è rivelato estremamente gentile e pieno di iniziative bizzarre ( qui rientrano “le carote”, la vodka di contrabbando, la cassetta di Sanremo anni ’70, il qat e, perchè no, le proposte di matrimonio). Da non tralasciare lo scampato pericolo di ospitare in jeep per 300 km. Mohamed-guida e le sue caotiche spiegazioni, che sono dei tentativi disperati. Oggi abbiamo assaggiato il qat per la prima volta, timidamente, tranne Genna, medico, che si è spazzolata un arbusto intero mentre parlava e l’autista l’imboccava. Iniziamo questo viaggio notando i primi cambiamenti di panorama, monti e pianure bruciate dal sole, residui di lava che scuriscono intere zone, coltivazioni immancabili di qat- ma pare che questo non sia buono buono come quello di Manakha. Infine il deserto di dune, piccole dune. Durante il tragitto notiamo villaggi con sabbia arata, molto “curioso”, e abitazioni a torre cilindrica. Ancora più curioso è il posto di blocco in cui vediamo da vicino il primo cammello e…Tutti, uomini e bambini, armati fino ai denti. Anche i nostri autisti ci mostrano le loro armi con fare snob, come per dire “ma non ve ne eravate accorte fino a qui?”. Infatti ci era parso, ma pensavamo fosse un’impressione: tale non lo era di certo il fucile di Sal, che ci aveva turbato alquanto, come la sua proposta di matrimonio in blocco ( per invogliarci ci ha subito detto che ci avrebbe fornito di qat, gioielli e sesso…Insomma i vizi non ce li faceva mancare, e forse ciò ci ha spaventate ancora di più ). Al posto di blocco oso fare una foto e subito mi ritrovo circondata da fotogenici yemeniti e con un Kalashnikov in collo: panico! Il vecchio armato accanto che mi teneva la mano sulla spalla cercava di raggiungere una tetta, non c’è riuscito, se l’avesse fatto sarebbe rimasto mooolto deluso! Dopodichè hanno rincorso Patrizia con un fucile per metterglielo in collo, ha così avuto luogo un breve ma avvincente inseguimento. Ma eccoci di nuovo in jeep, scortati da una camionetta, Toyota ovviamente, con circa otto soldati seduti intorno ad un mitragliatore fissato sull’auto. Rassicurante!? Beh, era comunque l’unico compromesso per vedere i templi di Mareb; di andare a Baraquesh non se ne parla nemmeno. Infatti solo due giorni prima due turisti inglesi, o tedeschi, sono stati rapiti e mai rivendicati (grave situazione), altri dello stesso gruppo sono stati feriti durante la sparatoria che c’è stata. Eravamo tutti rassegnati all’idea che era meglio evitare guai sicuri tranne, colpo di scena, la mamma Ebe, (non quella della cronaca, la santona, ma la chiocciona).

Finalmente possiamo ammirare e fotografare gli otto pilastri del tempio del sole del 400 a.C., dove si arrampicano ragazzini con fucili in collo. Proprio lì ho beccato una cavalletta nera con puntini gialli, grande come un piccione, ed ho compreso perchè si dice che certe popolazioni del deserto si cibano anche di cavallette! Comunque del tempio si vedono solo questi pilastri, dato che la sabbia ha ricoperto tutto il lavoro di scavo fatto negli anni ’50; gli archeologi americani sono stati costretti ad abbandonare il paese a causa della guerra, una delle tante, scoppiata all’improvviso,…Che poi è tuttora sonnecchiante, ma è un dormiveglia, i sintomi di un nuovo scontro con l’esercito ci sono già tutti. Comunque siamo nel regno che fu di Saba, il più potente dell’Arabia antica. Anche il tempio della luna ci mostra solo cinque pilastri e poco più, però lì sono in corso degli scavi fatti da archeologi tedeschi ed è tutto recintato. I ragazzini, improvvisati commercianti, vendono, oltre alle arance grosse come meloni, anche delle statuette antiche e altri oggetti del VI secolo d.C. Che affiorano dalla sabbia, “regalando” così a chiunque i resti del regno di Saba. Questa zona si chiama ‘Arsh Bilqis e significa il trono di Bilqis, cioè il nome yemenita della regina di Saba. Infine visitiamo i resti della mitica diga di Mareb, la più grande dell’antichità. Doveva essere davvero immensa, i resti dell’humus accumulato ed ora non più fertile, bensì desertico, sono belli da vedere, sembrano un canyon di roccia, ma sconcertano al pensiero del destino che hanno segnato sulla popolazione di allora, facendo tracimare più volte la diga. L’ultima visita della giornata la facciamo, sotto un cielo minaccioso e qualche tornado di sabbia in prospettiva, all’antica Mareb. Per terra si trovano con estrema facilità pezzi di vasellame dipinto. La vecchia città mantiene ancora un grande fascino, è comunque una città fantasma. Ci abitano solo due famiglie poverissime, tra rifiuti e ruderi. Infatti fu bombardata durante la guerra civile degli anni ’60, altri edifici sono comunque crollati per l’abbandono, del resto sono veri e propri grattacieli di fango! Ne approfittiamo cinicamente per scattare alcune foto delle case sezionate, che rivelano contemporaneamente la loro struttura, il materiale di costruzione e lo scheletro che debolmente le sorregge, forse ancora per poco. Ci sono anche delle iscrizioni sabee sulla porta di una casa. Arriva la fame e si va a mangiare. Il ristorante, per forza di cose, si trova nella “nuova” Mareb, città bassa, fatta di cemento e lamiere. La bionda milanese mi ricorda che è Venerdì Santo, e io mi ricordo che è anche giorno di fidanzamenti yemeniti. Per loro oggi è un giorno festivo ed il qat gira nelle mandibole indigene più del solito. Qui c’è anche una piscina e Annamaria, la romana, si è ustionata tradita dal cielo coperto. Quando siamo ripartite è iniziato anche a piovere. Siamo tornate a Sana’a pennichellando un pò, con brevi soste fotografiche per i panorami, sempre sbalorditivi. Abbiamo conosciuto anche un’altra guida che parlava non solo l’italiano, ma anche i dialetti regionali. Infine rientro in albergo, e mi devo arrendere a mettere l’odiato collirio, Genna mi fa capitolare, per i miei occhi iniettati di sangue a causa del vento e della sabbia. Prepariamo il bagaglio leggero per le due notti che dovremo passare fuori. Erroneamente certe di lasciare le valige in ottime mani nel deposito dello Sheraton Hotel. 29 Marzo, sabato.

Partenza per Taiz, o Ta’izz.

Dopo aver caricato i miseri bagagli nella jeep ammiraglia abbiamo lasciato Sana’a. In questa giornata abbiamo incontrato più volte l’aretino Riccardo che ci ha fatto, come al solito, ridere con i suoi aneddoti ai limiti del credibile. Ad una sosta per il tè l’ho anche mandato a quel paese (scherzosamente) davanti ad un folto gruppo indigeno e Riccardo si è sentito sgretolare sotto i piedi ogni briciolo di rispetto yemenita, l’avevo fatta grossa, e lui ha temuto una jambiyata alla gola per il disprezzo e l’indignazione che avrebbe potuto suscitare. Per fare le foto, io e Patrizia, abbiamo perso l’opportunità di visitare un albergo “tipico”, ma dai racconti sconvolti della sconvolta romana abbiamo capito che era uno spettacolo curioso per la sua precarietà. Ripreso il viaggio, iniziamo a salire veramente in alto, il cielo è popolato da rapaci. Genna deve assolutamente fare pipì, la più gelata dello Yemen, lì è proprio freddo. Patrizia invece acquista da alcuni bambini delle pietre con qualche foglia fossilizzata. A me regalano un fiore profumato che spacciano per tè. Improbabile! Oggi abbiamo appreso la notizia che le visite a Mareb sono temporaneamente sospese. Siamo stati gli ultimi turisti. Pare ci siano state altre sparatorie tra soldati e tribù in rivolta. Ad Aprile ci saranno le elezioni e Paola è convinta che si verificheranno grossi disordini. Il paesaggio è più verde, sebbene ci siano dei nuvoloni scuri che a noi piacciono poco, mentre al suddetto verde fanno gola. Lo spettacolo che ci si para davanti è quello di intere montagne terrazzate, opere così audaci da sembrare finte. Durante il viaggio abbiamo la superficialità di commentare con entusiasmo il colore delle carote che alcuni bambini vendono lungo la strada, Mohamed capisce “carrot”, e si ferma per acquistarcene due mazzi. Questo aneddoto resterà nella storia. La povera Genna si è trovata in una delle più delicate situazioni diplomatiche della sua vita. Mohamed infatti smezza con le mani la sua carota e ne offre mrtà alla Dottoressa Genna, la quale inizia a sudare cercando una via di scampo. Anche i sassi sanno che non possiamo ingerire frutta e verdura crude vendute per strada…Figuriamoci se non ne è al corrente un dottore! Beh, Genna lo sa benissimo ma non ha proprio scelta, non può rischiare di offendere il gentile e generoso Mohamed, quindi, con un movimento etereo e distratto, agguanta un fazzolettino, ultimo e unico aiuto, e delicatamente, appena appena per non far intuire il disagio, sfrega piano l’intera superficie del vegetale incriminato, poi dà il primo morso che deglutisce come un sasso. Inutile dire quanto abbiamo sofferto di crampi allo stomaco per non scoppiare a ridere, noi tre megere di dietro, mentre pulivamo a fondo con un coltellino le nostre succose carote. Il nostro stupore, con un’esplosione liberatoria di risate, ha avuto luogo quando Genna, dopo essersi mangiata circa cinque carote/armi batteriologiche, ci ha chiesto il coltello per pulire di fino l’ultima carota offertagli dal mitico autista. Con un candore che persino Cenerentola si sogna di avere, ha detto: ” Una me la voglio pulire.” Lo ammetto, ci siamo commosse quasi fino alle lacrime. Ma la caccia fotografica continua, ancora senza alcun sintomo sospetto, sosta per i terrazzamenti, sosta per una cisterna d’acqua piovana di un villaggio, sosta per un pollo che abbiamo ucciso con la jeep e finalmente sosta a Ibb. In questa città ho lasciato il cuore, c’era la piccola Hann, bimbetta che mi ha stretto la mano per tutta la durata della visita, accarezzandola e ripetendo “sedik” che significherebbe “amica”. Quando l’ho salutata mi ha rincorso lanciandosi con le braccia al collo per darmi due baci, ha detto che sarebbe voluta venire in Italia. Anche oggi che la rivedo in foto, se potessi la teletrasporterei, come in Star Trek, qui a casa mia. Ibb, oltre a luogo popolato da bei bambini, è anche molto diverso dagli altri centri. Le case a torre sono in pietra e le vie sono tortuose e strettissime. Siamo potuti entrare in via eccezionale nella Moschea di Al-Jalaliya. Qualcuno è rimasto deluso perchè è spoglia e piccolina, ma secondo me è stato emozionante: camminare in un luogo così sacro e rispettato da quella gente, che nonostante ciò ci ha permesso, a noi “infedeli” (e sappiamo che aria tira…), di accedervi. Dopo la visita ci siamo diretti in cima ad un’altura detta Jabal Rabi, cioè montagna di Dio, da cui si gode di uno splendido panorama e dove abbiamo mangiato in un ristorante governativo considerato da Mohamed bellissimo, in realtà è un obrobrio fatto a palafitta di forma ovale che deturpa il paesaggio, un esempio delle peggiori opere degli anni ’60 italiani.

Dopo aver fotografato un passo di cui non ricordo il nome arriviamo a Jibla, ex capitale degli altipiani. Dal 1070 circa fino all’età di 92 anni, nel 1138, governò un’altra mitica figura femminile, la regina Arwa, che fece prosperare l’intero regno. I suoi resti sono ancora sulla moschea, ma subirono un oltraggio due anni fa, quando un gruppo di sciiti, setta più intergralista, li gettò fuori dalla moschea perchè colpevoli di essere di una donna e quindi indegni di riposare in un luogo di preghiera. Vennero poi recuperati e riposti nel sarcofago. Anche quando ci siamo avvicinati noi, turisti europei, alla moschea (chiamata del resto “della regina Arwa”) siamo stati definiti con disprezzo “ebrei” da alcuni ragazzi adulti seduti in un muretto interno. Subito Mohamed ha cercato di calmare le acque…O rischiato di muoverle ulteriormente, tanto che uno, il più grosso, si è alzato disgustato e se ne è andato (per fortuna). Le foto interne della tomba della regina e del mihrab, che sono decorati in stile persiano, sono state scattate da un ragazzo poiché non potevo entrare. In questo paese abbiamo conosciuto più bambini che parlavano molto bene l’italiano, oltre ad altre lingue, Riima e suo fratello Alì erano davvero spigliati. Riima si illudeva di poter fare la guida turistica da grande e di non mettere il velo davanti al volto, ma lo “spasimante” di Paola (Dott. In geologia, santone e capotribù, nonchè guida e gentlemen) mi ha detto che la sua sorte sarà quella di finire la scuola dopodichè il padre le farà sposare un uomo e sarà la fine dei progetti. Suo fratello Alì avrà senza dubbio più chances. Ma qui ho lasciato un altro pezzo di cuore (ma va?) per un altro bambino di cui non so nemmeno il nome, purtroppo era muto. Dolcissimo, mi ha accompagnato lungo le strade, nella visita sotto il palazzo della regina, cioè ciò che ne resta, accanto al quale gli ho scattato una foto che ha voluto (e gli ho spedito), infatti si è messo in posa sull’attenti, e dopo lo scatto mi ha fatto vedere che sotto alla camicina aveva una pistola giocattolo di plastica di cui andava fierissimo. Ho chiesto di lui sia a Mohamed che al dott. Geologo ed entrambi mi hanno detto che non avrà un gran futuro a causa del suo handicap, però il dott. È stato più ottimista spiegandomi che la scuola araba richiede solo esami scritti quindi può seguire tranquillamente le lezioni e finire gli studi, in seguito i genitori potranno “comprargli una moglie”, parole testuali. Dopo i saluti siamo ripartiti per Taiz. Abbiamo un pò sonnecchiato durante il percorso, ma all’arrivo al Tourism Hotel eravamo ben deste. L’apparenza non era il massimo però era pulito e le lenzuola profumavano, (benchè la milanese avesse protestato perchè la federa era più corta del cuscino!). Eravamo proprio stanche però Paola ha lanciato l’idea di andare al suq di notte, (era già sera e faceva buio presto), e ne siamo stati tutti entusiasti. Il suq è molto pittoresco e camminare tra i banchetti nella strada in rifacimento (benchè Paola ci abbia detto che è rimasta come l’aveva lasciata l’ultima volta, qualche anno fa) era una vera impresa. I negozi di argento nuovo, antico e finto antico, oltre che finto argento, abbondano. Il turista lo si trova là! Non a caso ognuno di noi è uscito con almeno un pacchetto contenente qualche argentone. Paola ha comprato una carinissima collana con coralli, Patrizia un porta corano, un porta Kajal e un ciondolo in omaggio che non porta nulla ma molto originale, Genna, la solita “Rambo”, si è comperata una mega jambiya enooorme, d’argento, che quando l’ha vista Sal quasi casca sul divano della hall, è però davvero un bel souvenir, un gioiello. Io mi sono comperata, poco convinta, una custodia spacciata come d’argento e antica, che credevo spudoratamente falsa in entrambe le caratteristiche, e un ciondolo in omaggio, carino, grazie a Patrizia che ormai era diventata amicona con il commesso-nipote-cugino del proprietario. Ma non mi sono fermata qui, perchè poi ho comperato una jambiya di poco conto come “souvenir”, e come tale è il re di tutto lo Yemen, poi un foulard (made in India) come Genna (speriamo di non indossarlo insieme alle feste!!!!) la quale ha fatto incetta di tessuti e oggetti vari che non ricordo nemmeno più. Comunque eravamo tutte e quattro soddisfatte del giro di shopping nel suq, siamo anche uscite dalla porta opposta del mercato cercando a naso l’albergo, ed abbiamo avuto un ottimo fiuto. Paola ci ha detto che a Taiz spesso tolgono la luce all’improvviso e questo fatto, non so bene perchè, ci ha fatto accelerare il passo. Comunque non era molto illuminata e ne godeva l’effetto di giochi di luce delle finestre a vetri colorati. Al rientro in hotel ci siamo concesse la solita doccia e infine una cena, leggermente più spartana del solito, ma buona…Io poi mangio tutto. In camera siamo morte dal ridere alle battute delle due milanesi, soprattutto per le insistenti domande sul perchè non finiscono i tetti, sul fatto che “i turisti vogliono le strade pulite”, la fodera corta, etc.

Notte col canto del muezzin, del gallo e della pecora.

30 Marzo, domenica, PASQUA.

Colazione alle ore 7.00, “AUGURI!” (Ebe ha tentato un’opera di Cristianizzazione sugli autisti). Eccoci tutti intorno al tavolo, tranne Genna…Panico per la signora Ebe, allertati tutti i mezzi di rintracciamento. Mrs Ebe voleva controllare di persona in camera di Genna e a fatica Paola l’ha bloccata. Genna, ignara di tutto, s’è quasi sconvolta quando scendendo a fare colazione tutti la trattavano come Lazzaro uscito dalla tomba…E visto che oggi è Pasqua, mai stata più appropriata! Comunque si parte, non prima di aver visto un simpatico cammello proprio in front of the door dell’hotel. Foto. Altra sosta fotografica e panoramica in una altura da cui si vede Taiz nella sua vastità, beccando con lo zoom dei bambini in preghiera dentro ad una scuola ( lo scrivo perchè un domani potrei aver dimenticato cosa sono quei puntini bianchi sulla foto). Immancabile la foto alle due bambine, queste però esponenti del ceto alto, ben vestite e pulitissime. Visita alla moschea di Ash-Shadhli, di 500 anni fa, di architettura zabidita. La porta, benchè rovinata, è di pregevole fattura. Foto. All’interno puzza un pò di pipì, però è molto bella. Visti anche gli antichi e nuovi bagni per le abluzioni purificatrici (e altro), poi l’interno della moschea, dopo qualche discussione tra le guide locali sulle precedenze non stradali ma turistiche. Col capo coperto dal nuovo acquisto indiano e la camicia a maniche lunghe sono entrata nel sacro. C’erano anche la tomba di un Imam e sua moglie, ma non ho capito benissimo. Alla bionda di milano non le è stato bene che fosse “ridotta in putrefazione”, cosa che noi non abbiamo riscontrato. Di corsa, ed era questo il motivo della fretta delle guide locali, a vedere il mercato detto suq Wadi Al Dhabab, che è settimanale e offre colori, animali (emu, cammelli, asini, capre etc.), formaggi, oggetti curiosi e…Donne senza volti coperti. Ebbene nel nome del suq c’e la parola “Wadi” perchè è proprio sul fiume, un torrentello, e per l’occasione Patrizia ha sfoggiato i pantaloni puliti e di colore bianco candido, a prova di Dash. Alla fine del guado erano chiaramente, si fa per dire, maculati di più tinte di beige. Abbiamo incontrato nuovamente Riccardo ed i suoi freschi aneddoti, era così integrato nel look yemenita che si è meritato ogni complimento. Qui i bambini hanno avuto un insolito ruolo sulla mia sensibilità materna, anzi ero molto più in sintonia con Erode, visto il fastidio zanzaresco di due bambine che hanno anche provato a minacciarmi con un sasso perchè non cacciavo fuori i soldi. Ma ho resistito ad ogni cattivo impulso, piuttosto ho imparato, osservando una ragazza, come si mette il velo in testa. Genna ha acquistato del croccante di sesamo e lo ha regalato ad altri bambini. E’ stata una bella esperienza, abbiamo anche chiacchierato con un ragazzino che voleva mettere alla prova il suo inglese, così abbiamo carpito delle altre informazioni sulla scuola, su Taiz e su come siano ben visti i turisti italiani…Che sono davvero tanti! Nel frattempo Paola ha la brillantissima idea di fare un fuori programma ed andare al mare passando per il deserto in un fuori pista. Questo sconcerta un pò la guida locale ma non gli autisti, una volta chiarito che saranno rimborsati del carburante extra. Viaaa, verso il deserto quindi, ma prima il nostro autista si ferma in un bar/porto franco dove si vendono alcolici di contrabbando. Con molto poco savoir faire un tipo ha infilato parzialmente sotto la tunica due bottiglie di Vodka e l’ha nascoste tra i bagagli della nostra jeep, su chi se le sia bevute regna ancora il mistero, benchè di ipotesi se ne siano fatte un mare. Anche questo ci ha intrigato molto, a tutte e quattro, …Stè donne come s’entusiasmano con poco! Ma eccoci pronti a lasciare l’asfalto per il fuori pista desertico, Paola avverte subito lo scattatore folle Vittorio che sul deserto non ci si può fermare per scattare foto perchè rischieremmo di insabbiare le ruote. Per lui è stata sicuramente una fitta al cuore, però era troppo emozionato per rattristarsi. Partiti! La Tihama è una faglia africana che si è staccata dal continente originario per aderire alla penisola araba. Io non sono mai stata in Africa, se non lungo il Nilo in Egitto, e quel paesaggio mi ha dato la sensazione di essere davvero in un paese africano: sabbia con ciuffi d’erba, capanne di fango e paglia, tukul (non so come si scriva), il tipo di acacia che si vede nelle foto della savana, molti rapaci, gente dai tratti negroidi e cammelli qua e là. Deveva essere piovuto da poco perchè fortunatamente c’era poca polvere e molta erbetta. Vi abitano ancora dei rifugiati eritrei. E’ sicuramente una vita al limite della sopravvivenza, è una terra che offre poco, le oasi di palme saltano agli occhi come macchie improvvise, miraggi. Arriviamo al mare, dopo aver visto agglomerati di baracche addirittura di lamiere, con quel caldo e quell’umidità… Siamo arrivati in un luogo turistico nella località di Al Khukhah, dopo aver raccolto conchiglie, una delle quali dono del dott. Geologo, che era con il suo gruppo dei Grandi Viaggi poco più lontano, abbiamo pranzato al sacco intorno ad una tavolata e la mitica Paola ha sfoderato il suo asso nella manica, la colomba delle Tre Marie…BUONISSIMA! Vari baratti culinari tra lei e Patrizia, che odia il pollo e sfortunaccia c’è in ogni pasto, per fortuna c’erano quei formaggini! Ho ripreso un pò Genna, con la sua telecamera e proprio mentre faceva delle avances -sempre così audace stà ragazza!- ad un autista yemenita di un gruppo tedesco. Alcuni dei nostri hanno persino fatto il bagno. Mohamed mi ha aiutata a sigillare con delle buste di plastica una conchiglia con il cadaverino all’interno che non ho ancora trovato il coraggio di svolgere! Degni di menzione in quel posto sono i bagni, ovviamente turchi (ed è un bene), ma che hanno una finestrina che scopre proprio il privée di una persona che si accinge a sfilarsi i pantaloni. Ma il bisogno non conosce timidezze, e così sia! Siamo ripartiti da quel mare, Rosso di nome ma torbidino di fatto, alla volta di altre mete, verso Hodeida. Incontriamo molte coltivazioni di sorgo e cotone, alcuni cammelli e asinelli, donne e bambini con le taniche da riempire sfruttando l’acqua della recente pioggia. Ed eccoci a Zabid, città in cui Pasolini girò gran parte del film “Il fiore delle mille e una notte”. Il primo impatto è stato col caldo, che era insopportabile, o meglio per colpa dell’umidità, la mia maglietta era ormai una seconda pelle. I bambini erano un pò appiccicosi ed io avevo deciso di non adottarne nessuno durante questa visita e ci sono quasi riuscita. La prima visita la facciamo alla cittadella dove la guida Mohamed “spara”, in mezzo ad uno degli innumerevoli discorsi, “io e Mino…” intendendo il nazionalpopolare Damato, e da lì via altri indecifrabili aneddoti. All’interno di queste mura c’è poco da fotografare, però la moschea Iskandar con un minareto alto 60 m. L’ho documentata, benchè si vedesse poco. Sono salita su una torretta delle mura di cinta ed ho così potuto scorgere l’interno di un magazzino di cotone, che non avevo mai visto prima, ed era curioso vedere tutti quei salsicciottoni imballati e sparpagliati poco ordinatamente su tutta la superficie del magazzino-campo. A Zabid ci sono molte costruzioni turche, anche il palazzo di Nasar, sempre vicino alla cittadella, spicca per l’originalità dell’architettura, ed è abbastanza recente, essendo della fine del 1800, oggi ci sono degli uffici governativi. Nonostante il caldo ci introduciamo nel cuore della città, nel suq, ed è come entrare in un reticolo di gallerie perchè molti vicoletti sono coperti da tende e plastica, contro i raggi impietosi del sole. Durante la passeggiata notiamo molti minareti, alcuni molto antichi, intonacati di bianco, pare che Zabid ne possedesse in origine ben 236 e che ora ve ne siano “solo” 86! Comunque siamo riusciti a vedere un pò all’interno della moschea Asha’ir, sbirciando poco signorilmente da alcune fessure che davano nel suq. Le case qui sono nettamente diverse, basse, bianche, con un cortile delineato da un alto muro, con decorazioni frontali che si scorgono a fatica dall’esterno e bianchissime. All’apparenza potrebbe sembrare una città candida e l’apparenza non ha mai mentito tanto come in questo caso. Infatti pare di trovarsi in una discarica di rifiuti purtroppo, un abbandono ed una incuria crudele stanno lentamente, o velocemente, soffocando questo patrimonio prezioso ed unico nel suo genere. Le strade sono fogne a cielo aperto mentre alcuni splendidi negozietti, piccoli come quelli visti fino ad ora , ma qui ricercati nel dettaglio: (le finestrine decorate, la porta sagomata), ora sono ridotti veri e propri bidoni della spazzatura e la plastica fa da padrone, elemento di “colore” tra lo sfacelo. Tutto questo trasmette un senso fastidioso d’impotenza e disperazione allo stesso tempo, per quello che si perderà irrimediabilmente senza un serio intervento. Una zanzara mi ha ricordato anche le malattie che tale sporcizia porta con sè, …M’ha pizzicato la maledetta! Siamo riusciti ad entrare in una casa privata, sfuggendo alla seppur gentile signora che voleva farci bere il suo tè, sicuramente buonissimo, ma ormai vedevamo i microbi librarsi anche nell’aria, (e sicuramente lo stavano facendo). Siamo saliti fino alla sala per gli ospiti, il mafraj, molto bello, in seguito adibito ad ostello per gli studenti dell’università di Zabid. La facciata interna di questo edificio, più alto degli altri, è bellissima, per non parlare del portone, intagliato in modo da sembrare un ricamo. Da quell’altezza sono riuscita anche a vedere altre facciate altrimenti nascoste dalle mura dei rispettivi cortili. Prima di ripartire un bambino, quello mezzo adottato (nel senso che gli ho negato la mano ma solo ogni tanto), mi ha chiesto non i soldi, flu:s, ma l’elemosina, baksheesh, differenza che ho potuto scoprire in Italia rileggendo la guida. E che differenza! A mio babbo è preso un mezzo magone quando gliel’ho detto. Ma non è finito qui, perchè vedendo in jeep una bottiglietta di plastica vuota, l’ha voluta considerandola un gran regalo. Tutti i giochi che ho potuto vedere tra questi bambini erano costruiti con ingegno, utilizzando rifiuti di ogni tipo. In questa città siamo rimasti un pò tutti traumatizzati per molte ragioni, mentre la bionda milanese ha deciso che come escursione andava tolta in quanto troppo sporca da poter essere mostrata ad un turista “per bene”. No words! Una volta ripartiti ci siamo concessi altre due soste, una per vedere un telaio (spudoratamente messo lì per vendere i soliti tessuti indiani), nella città dei balocchi, perchè popolata da tantissimi bambini, come non ne ho mai visti, nemmeno in Guatemala dove pensavo vi esistesse un record in proposito. Questa località giocosa e squillante di vocine si chiama Bayt Al-Faqih ed in passato è stato un centro importantissimo per il mercato del caffè nato all’inizio del 1700. L’origine di questo villaggio è datata addirittura nel XIII secolo e lo fondò uno sceicco considerato molto saggio, tanto da dare il nome del luogo, che tradotto significa “casa del saggio”. Poco più in là abbiamo visto un edificio-cittadella, pare fosse la casa di un Imam, ma anche questa notizia è poco affidabile. Comunque qui ho riscoperto il gioco con le mani: “Amblimblone buccia di limone buccia di caffè am- blim- blè a scappare tocca a te!” Per un pò ci ho giocato con le varie manine delle tante Fatima e Maria locali, ho avuto il privilegio di parlare con una delle loro mamme da una finestra con inferriata ed ho assistito al “salto del cammello” tra ragazzini. Pare un posto felice e dopo Zabid pare quasi terapeutico. Siamo ripartiti verso Hodeida, raggiungendo la strada asfaltata, quella bella fatta dai cinesi, o dai russi?, e sentendo dei canti provenienti da un altro villaggio abbiamo chiesto e subito saputo da un bambino che si trattava di un matrimonio. Ma non è venerdì!? Che caldo! Tenevamo tutti i finestrini abbassati, dentro la jeep tirava la bora ma il sollievo era relativo. Mohamed l’autista ha spiegato che lì c’erano tanti bambini perchè il qat è uno stimolante, o afrodisiaco, che porta tali frutti. Abbiamo tutte risposto con un “Aha” perchè non eravamo certe se si trattasse di humour yemenita o risposta scientifica. Lungo la strada ci sono altre coltivazioni (io sono abituata a uliveti e faggeti umbri) ma lì c’era abbondanza di “papaieti”, “bananeti” e “sorgheti”, non c’erano però “qatteti”. Molti i cammelli, anzi…Solo cammelli! Finalmente eccoci ad Hodeidah. In hotel, il Taj Awsan Hotel, nuovo di pacca, ha solo un anno e mezzo, sebbene lo porti male, c’era una simpatica aria condizionata. Fuga nelle camere per il rito del doccione, cercando di spellarsi di dosso gli abiti. La camera è curiosamente arredata in stile tirolese, con moquette e mobili in abete, che non dovrebbe essere fitto da queste parti. Comunque è carino. In tv, alla CNN, hanno detto che un pazzo, proprio oggi, ha ucciso 11 bambini di una scuola di Sana’a per essere stato licenziato, io e Patrizia abbiamo sperato che tali notizie non giungessero a casa, visto poi che io non telefono mai. La cena è stata ottima, a base di pesce, la bistecca di barracuda ci ha fatto invogliare alla visita di domani al mercato del pesce…Come è fatto un barracuda? Dopo cena abbiamo guardato una telenovela araba nella tv della hall, era un pò hard considerando i costumi locali. Gli autisti, tranne il nostro, hanno dormito in auto, per risparmiare quei soldi. Noi 4 dell’Avemaria invece ci diamo la buonanotte e rientriamo in stanza, sotto gli occhi di due ragazzetti dell’albergo, che per tutta la notte ci hanno telefonato dicendo “I love you, (seguono baci sonori), open the door”, dopo disperati tentativi per dissuaderli, inutilmente, (parolacce, intimazioni di chiamare la polizia alle quali hanno risposto “No!…But open the door”, al chè ci sono cadute le braccia) abbiamo deciso eroicamente di piazzare la poltrona, che pesava sui 20 kg, contro la porta. La notte è passata così.

31 Marzo, lunedì, Pasquetta.

A colazione abbiamo riferito il fatto a Mohamed e, siccome i provvedimenti che sembrava stessero per prendere mi erano parsi eccessivi, ho sminuito l’incidente. In quella circostanza Mohamed ha raccontato l’episodio della triestina lussuriosa e a quel punto io e Patrizie ci siamo sentite in dovere di puntualizzare certi dettagli e certe differenze che intercorrevano tra i due casi!!! Anyway, ho trovato il tempo per provare a mettermi il velo in testa e farmi fare una foto da Patri proprio in quell’hotel, in seguito ho pensato che ci fosse sotto un imput inconscio, della serie “anvèdi de coprìtte, svergognata!”. Erano le otto del mattino ed era già caldo umido! Al mercato del pesce ci siamo sbizzarriti a fotografare pescioni, tra cui squali e pesci martello inquietanti. Abbiamo comperato collanine di conchigliette e qualcuno cesti e stuoie, volevano verniciarmi con uno stancil della Mecca sulla maglietta ma non mi è sembrata un’ottima idea vista la vernice che usava (quella smaltata per i metalli). Siamo ripartiti velocemente per lasciarci alle spalle il prima possibile tutto quel caldo, la direzione imboccata era quella per le montagne. Genna iniziava a dimostrare segni di insofferenza, anche perchè sedendo davanti si era già ustionata braccia e volto. Il nostro Mohamed ha cercato di consolarla indicandole i monti in lontananza e specificando che in “solo” due ore saremmo stati meglio. Genna si è sentita ancora peggio pensando alle due lunghe ore di sauna. Possiamo ancora vedere parte della Tihama, con villaggi poverissimi fatti di capanne di fango e paglia, con bambini di carnato scurissimo a cui Patrizia ha distribuito gli ultimi crackers, qui veramente apprezzati, come gli elastici e tutto ciò che da noi ha perso importanza e valore, e che qui recupera tutta la sua utilità. Abbiamo potuto osservare un lungo wadi apparentemente secco, tra le gole di monti ancora bassi, che però elargiva comunque abbastanza acqua per permettere tutte le coltivazioni che c’erano. Ho visto anche un maestro che insegnava lungo la strada, sotto l’ombra di un albero, con bimbetti seduti per terra e la lavagna appoggiata contro il tronco. Paola dice che quasi tutti gli insegnanti sono egiziani, a causa dell’alto grado di analfabetismo in Yemen. Grazie all’occhio di falco di Mohamed ho potuto fare la foto che volevo ad una strana pianta grassa senza foglie ma con fiori rosa, sosta che Paola ha giustificato agli altri con “caccia botanica”. Infine iniziamo a salire tra alti tornanti e profonde gole, oltre i 3000 m. Il clima si è fatto subito mite, anzi, era freschino. La prima visita la facciamo al villaggio di Al Hajara . Anche qui i monti sono completamente terrazzati. Era nuvoloso e questo conferiva maggior fascino al panorama, macchiato qua e là dall’ombra delle nuvole. Camminando lungo un cimitero, dopo aver raggiunto il villaggio in un sentiero degno di Indiana Jones, abbiamo raggiunto il suo centro. Qui le case sono altissime, in pietra e poco stucco intorno alle finestre. Sono molto imponenti e formano un blocco massiccio. I bambini conoscono benissimo “San martino campanaro” in più lingue e ti cantano tutte le versioni. Ho anche incontrato una simpatica coppia americana, la moglie era originaria dell’Eritrea. In questo villaggio ho comperato, con gli ultimi soldi in tasca, una collana porta kajal con acclusa offerta di matrimonio, il venditore era un ragazzetto di 17 anni. Ed è qui che si è verificata la più seria proposta dell’autista Mohamed in un imbarazzantissimo tète à tète in jeep, non sapevo che fare, ho ribadito che ero fidanzata ma per lui non sembrava un impedimento (avrebbe tenuto sua moglie e me accontentandosi di sporadiche visite…), fortunatamente sono arrivate le mie stupende compagne di viaggio e lui ha dovuto pensare a guidare. Ed in presenza loro non ha fatto parola…! All’ora di pranzo siamo andati a Manakha, situata leggermente più in basso. Qui abbiamo mangiato nel bellissimo funduq Al Askari, dove non solo abbiamo gustato ottime pietanze ma si è potuto apprezzare la musica ed i balli locali con un simpatico spettacolo dal vivo, io e Paola abbiamo anche ballato (le uniche donne). Inutile sottolineare che dopo pranzo ci siamo spazzolate altre gemmette prelibate del –dicono- miglior qat yemenita. Nel qat di montagna, si sa, il gusto ci guadagna. Il villaggio di Al Hoteib, che per avvicinarvisi bisogna percorrere un altro sentiero periglioso e sterrato con bei burroni che Patrizia teneva d’occhio, non è stato possibile visitarlo a causa dei fanatici religiosi zayditi che in quella zona hanno fatto qualche danno a luoghi sacri e che in quel particolare villaggio ismaelita il turista non è gradito, e li si può anche capire per certi versi, però a noi non è dispiaciuto molto perchè ci è sembrato un insieme di costruzioni recenti. Proprio qui abbiamo fatto l’unica foto di gruppo, poi siamo tornati verso Sana’a, sonnecchiando un pò. Ci siamo rifermati in un punto panoramico di Sana’a, dove c’era un recente monumento ai caduti. Un’altra foto l’ho fatta con due bei signori “distinti”, ben vestiti, con belle jambiye, tappetino davanti al panorama, su cui mi hanno fatto gentilmente sedere. La fascina di qat non mancava. E così si godevano il panorama e masticavano in santa pace…Questa sì che è vita! E’ stata l’ultima foto del (tragicamente) penultimo rullino. Ultima tappa è stata lo Sheraton. Mohamed, entrato ormai in confidenza, mi ha prima chiesto se ero stanca, “Sì e tu?” ho risposto io, e poi ha colto al balzo l’occasione di ribadire quanto sia afrodisiaco il qat, indicando l’enorme bolo in guancia… Il rito della riproposta serale è ormai istituzionalizzato, perchè anche Sal, figlio/cane del deserto (soprannome calzante quando guidava a scheggia sulla pista nel deserto della Tihama), ha mimato di nuovo l’andare a dormire, gesto solo suo, al nostro gruppo, generalizzando un pò. L’ esperienza dei suoi 55/58 anni lo porta a giungere al sodo senza tanti preamboli. Ci siamo un pò selvaggiamente appropriate delle chiavi delle nuove camere assegnateci e lì, dopo uno svaccamento sul divano che non rendeva onore all’età, ci siamo dirette. Abbiamo atteso le valige, quelle vere, lasciate in deposito. Ce le ha portate Paola per sveltire la lenta prassi alberghiera, e che oltre ad essere stanca era anche fusa a causa di alcuni problemi creati dai soliti milanesi, ma va? Pare non gli andasse bene la camera, la nostra invece era più grande e curata di quella assegnataci nei primi giorni. Ma un problemino c’era, infatti, dopo aver preso le due valige, ho iniziato a sentire una puzza forte, poi scoprendo che proveniva dal mio borsone. Era completamente inzuppato d’acqua mista a pipì di gatto. Prima ho provato panico poi rabbia perchè non avevo nulla di pulito da mettermi, non era certo un problema di look. Poi è filato tutto liscio. Fino a dopo cena. Abbiamo rivisto i membri dell’altro gruppo del Touring. Il signore di Torino mi ha raccontato che hanno subito una tempesta di sabbia durata tre giorni, lungo la costa, e ora si preparavano alla grande traversata del deserto in programma per giovedì prossimo…Beati loro!. Nella ricongiunzione dei gruppi c’è stato l’incontro/sfogo tra Paola e l’altra accompagnatrice, le quali nel frattempo avevano potuto recuperare anche le loro valige. Infatti Paola era in versione “topona”! Se l’avesse vista il Dott. Geologo!!! Come al solito a letto presto.

1 Aprile, martedì…Chi subirà il pesce? Io ho già dato ieri! Forse il pesce è stato fatto al povero Mohamed-guida, infatti alle otto era lì ad aspettarci mentre noi con comodo aspettavamo le 8.30. La cosa che lo ha indignato di più è stato l’arrivare prima degli autisti. Paola s’è beccata una bella scenata e nemmeno il buongiorno, dopodichè se l’è beccata sicuramente più colorita il nostro autista, che si è semplicemente messo a ridere. Ripartiamo in jeep alla volta del Wadi Dhahr, è una valle fertile coltivata a qat e caffè. La potremo ammirare più tardi dall’alto, restando nuovamente di stucco. Scendiamo ai piedi di un roccione, in un paesino chiamato Qaryat al-Qabil, molto bello davvero. Ancora Mohamed continua a sbollire. Le case sono leggermente più basse di Sana’a ma molto curate, altre stanno per crollare, eppure son belle. In questo posto pare regnare una gran calma. C’è anche una casa metà cilindrica ma con la sommità rettangolare come le case di Sana’a. Io e Patrizia ci siamo allontanate dal gruppo per fare delle foto e così abbiamo visto una scuola ed un furgoncino zeppo di bambini in camicia bianca e cravatta, i più l’avevano verde. Cammina cammina abbiamo raggiunto il famosissimo, se non l’emblema dell’intero paese, Dar al-Hajar, la casa sulla roccia, del governatore. E’ innegabile che sia sensazionale, appoggiato quasi su di una roccia. E’ di ben 5 piani ed è abbastanza recente, pare del 1930. Ospitò l’imam Yahya, ma prese il posto delle rovine preistoriche che già vi erano! Comunque ora ci stanno lavorando per farci un funduq, senza però restaurare i pavimenti e le strutture ormai consunte, sicchè si prevedono crolli, vacci a mangiare! Comunque è un vero peccato se dovesse crollare, le opere di restauro yemenite lasciano un pò a desiderare. Gli autisti erano euforici e vestiti di gran lusso, avevano richiesto per oggi le foto di gruppo che poi abbiamo fatto. Siamo saliti con le jeep in alto per ammirare lo slendido panorama. Sal, figlio del deserto, ha fatto tutto un suo show con la jambiya saltellando in bilico tra due burroni! Siamo poi risaliti tutti a bordo alla volta di Thula, o Thilla, città di pietra, in cima ha una fortezza dove la popolazione si rifugiava in tempi di incursioni, assetando i nemici in basso lasciandoli senza acqua. Le strade sono lastricate, un lusso. Le cisterne sono molto grandi e tutto è particolarmente decorato, sebbene lo sia sulla pietra. Abbiamo potuto visitare finalmente un vero interno di casa a torre, con intere scene di vita ricostruite e addirittura tutti gli oggetti quotidiani, tra cui i dischi di concime usati come combustibile. Sul tetto abbiamo incontrato nuovamente il Dott. In geologia, il quale mi ha offerto un tè su una tazzina di terracotta, facendo orrore a tutti quelli che mi guardavano bere da lì,…Ed era un ottimo tè di bucce di caffè. Squisito,…Dopo le carote vogliamo forse formalizzarci per dell’acqua calda? Si narra che in uno di questi frangenti Thulani Paola abbia ricevuto la mitica lettera sigillata, “da aprire solo in Italia”, donatale dal Dott.! Ma tutti sanno che le donne alla fine aprono sempre lo scrigno facendo volare via il canarino, e Paola, istigata da noi tre streghette, non ha resistito e l’ha aperta in jeep. Ritornerò sul contenuto. Nei vicoletti di questa città ci sono anche dei bei negozietti. Mohamed-autista mi ha mostrato in un negozio le antiche jambiye, spiegandomi la differenza di forma tra quelle lì e quelle moderne con la punta rivolta verso l’alto. Paola l’ho persa un pò di vista…Ma ben sappiamo chi era entrato in gioco, e a proposito tornerò sulla busta chiusa, fonte di mistero. Eravamo già “in sella” alla jeep quando la nostra frizzante Paola ci rende partecipi del suo segreto. Ci mostra la busta datale dal dott. In geologia, capo tribù nonchè santone e guida dei Grandi Viaggi, e con occhietto birbo ci dice che la “dovrebbe” aprire in Italia…E già si è usato il condizionale! E’ questione di secondi, tra i nostri gridolini eccitati Paola apre l’involucro/velo del mistero…Spero di ricordare più o meno le parole scritte sulla bellissima cartolina di Sana’a, (mi pare fosse un’immagine della capitale by night …Romanticone!): ” Cara Paola, averti conosciuto è stato un grande piacere e mi mancherai perchè mi piaci molto, non solo come collega, ma anche come donna. Spero accetterai questo mio regalino. Dott. …” All’interno c’era una collana d’argento con un ciondolo rappresentativo formato da due jambiye con incastonata in mezzo una pietra dura rosa (non conosco granchè le pietre, quindi non oso dargli un nome, ma sicuramente è pregevole, non potrebbe essere altrimenti, visto che chi l’ha scelta è un Dott. In geologia!).

Il commento generale è stato gratificante, abbiamo concordato che è stato un gesto da vero gentlemen, un provarci “da signore”, benchè Paola sia convinta che se l’uomo yemenita non ci prova non è soddisfatto, e onestamente l’abbiamo notato davvero. Ma torniamo alle visite. La prossima tappa è stata Al Hababa, villaggio ancora dentro le mura di cinta, tutto in pietra, ma con una bellissima cisterna all’interno, intorno alla quale le case formano una specie di anfiteatro. Davvero bello. Qui ho fotografato i due militari in mimetica che si tengono per mano. E’ l’unica cosa che ancora mi sembra buffa, sembrano bei bambinoni. Abbiamo proseguito ancora verso l’alto, sui monti, da cui si godevano bei panorami di vallate verdi grazie a qualche wadi, io intanto centellinavo le ultime foto. Particolare è stato vedere un cimitero. E’ fatto di pietre poste sulla terra ed intorno i contadini arano e coltivano, perchè, così Mohamed guida ha spiegato, dopo quindici anni le tombe non hanno più senso, del corpo non c’è più nulla, così i campi vengono riutilizzati per le varie coltivazioni. Il cimitero è diviso in sezioni delimitate da muretti di pietre, ogni sezione rappresenta un periodo diverso di anni. Abbiamo proseguito per Shibam dove abbiamo pranzato in un più modesto funduq. Anche qui tutto era buono, tranne il solito piatto sfrigolante verdognolo. Dopo pranzo Paola ha distribuito ad ogni autista e alla guida, con rispettivi elogi e applausi, le borse Touring con le mance all’interno. Mohamed ci ha raccontato alcune storie cruente yemenite di ammazzamenti, poi ha detto di aver letto che proprio oggi dovevano giustiziare l’attentatore della scuola di Sana’a, dopodichè sarebbe stato crocifisso davanti al luogo della tragedia… (ma sarà vero? Spero di no!) Pronti a ripartire. E’ la volta di Kawkaban. Quindi siamo saliti sù sù, fino in cima al monte. Abbiamo subito avvertito un bel freddino. Il panorama che si godeva da quell’altura è stato il più assoluto, dominava la vallata dell’Al-Mahwit fino all’orizzonte. Il minareto della piccola moschea era tutto di pietra, scarno e solenne più degli altri. Questo paese è silenzioso, anche i bambini fanno poco rumore, macchine non ne ho viste, le ragazze velate con cui ho parlato sussurrano e chi la fa da padrone è il vento, siamo proprio nel punto più alto, 2850 m. E’ proprio vero che da lì ci si può anche immedesimare in delle aquile. Curiosi i negozietti di forbici dorate, è un prodotto che qui va forte. Peccato che la città sia stata bombardata negli anni ’60. Infine si decide di scendere verso Shibam passando per la mulattiera in mezzo ai pendii. Continuiamo la discesa, formando il gruppo di testa Patrizia, Mary ed io. Scendendo ammiriamo, con qualche preoccupazione su dove mettiamo i piedi, il panorama.. Lungo il percorso sia io che Patrizia abbiamo raccolto pietruzze colorate. Giunte in fondo non sapevamo che strada prendere, essendoci uno sbarramento di fichi d’india. Però nel frattempo notiamo anche delle case scavate nella roccia. Arrivati in fondo scatto, finalmente, la penultima foto dell’ultimo rullino ad una bambina con il tipico cappuccetto in testa (ne cercavo una dalla mattina). Ho poi proseguito con il gruppo ricompattato fino alle jeep. Lì c’è stato un simpatico scambio culturale di italo-arabo con l’aiuto dell’inglese. La parola “pioggia” ci è piaciuta perchè per farcela capire un bambino ha indicato il cielo sputando subito dopo per terra. Abbiamo saputo apprezzare i giocattoli semplici che avevano costruito da soli, come l’auto con dei fili di ferro che riproducevano il volante collegato alle due ruote. Genna invece si è fatta mettere il turbante maschile. Siamo ripartiti per Sana’a. All’arrivo, veloce per altro, gli autisti hanno voluto il bacio sulle guance, avendolo richiesto fin dal mattino, per quella circostanza. Mitico Sal! Abbiamo preparato parte della valigia e relax. Ci siamo dovute preparare per andare a cena fuori in un ristorante un pò per turisti e un pò no. E’ stato interessante poter vedere come cucinano il pesce, ossia come è fatto il forno (tandoori). La cena è stata ottima e quel pane mi fa impazzire. Genna ha ripreso la cena di quattro tizi “saanesi” che ovviamente mangiavano con le mani, senza nè piatti e nè tovaglia. Ha cercato prima di zumare su di loro chiedendo a Patrizia di abbassarsi e dopo che Patti ha confessato di essersi ormai grattata tutta la gamba, ha deciso di mettersi proprio davanti al loro tavolo, sempre con estrema indifferenza, ottenendo poi (per fortuna) il loro consenso. Genna è tornata a sedere dicendo “Se ne sono accorti”, ma va? Dopo cena siamo andati al suq by night, totalmente al buio a causa del razionamento di energia elettrica. Non sappiamo quello che abbiamo potuto pestare e non voglio nemmeno pensarci, al massimo porta fortuna. La città così al buio acquista un fascino fiabesco. Gli stucchi di notte sembrano fosforescenti. Le finestre colorate ci incantano. Scatto l’ultima foto, certa che non renderà nulla (infatti!). Anche Vittorio, col cavalletto, finisce il 58° rullino, incredibilmente l’ultimo. Ci siamo commossi tutti fino alle lacrime quando un suono ufesco, in quel contesto antico, indicava che il rullino si stava inesorabilmente riavvolgendo. Bella passeggiata! Quando siamo uscite dalle mura del suq Mohamed ci ha lasciate, Patrizia, Genna e me, in mezzo al marciapiede dell’isola pedonale. Nel totale buio. Siamo infine tornati al pulmino e lungo la via del ritorno in hotel abbiamo notato tanti negozi aperti, soprattutto barbieri e venditori di tappeti, oltre che a locali con divani messi in fila, tipo cinema, con pipe ad acqua e tv. Nella hall Mohamed ci ha consegnato un simpatico regalino come souvenir fornito dalla Universal: un cesto colorato con dentro bustine di caffè, cannella, mirra etc. Molto grazioso! Shukran, ovvero, GRAZIE. Considerato il fatto che alle ore 4.20 di mattina dovevamo alzarci, siamo andati a dormire.

2 Aprile, mercoledì.

Spartana colazione e aereoporto. Salutato Mohamed e fatte le prassi di imbarco. Incontrato Riccardo con altri aneddoti al seguito e comprata con gli ultimi “spiccioli” una musicassetta araba (carina) sebbene abbia Brook Shield sulla facciata. Riccardo ha detto che al funduk di Manakha ha ballato lui, cantando le canzoni di Jovanotti. L’imbarco è avvenuto alle 8.30 circa, in un bell’aereo Yemenia. Genna ha fatto l’ultima sua ripresa alle mani dipinte di una ragazza velata, col volto scoperto però. Viaggio tranquillo, di chiacchiere, mangiate e risate. Un gruppo di pazzi volevano andare in Sudan e si erano stizziti perchè avevano dichiarato lo stato di guerra senza il loro permesso, …Quando si dice alle volte! Arrivati a Fiumicino ci siamo salutati tutti, tranne Riccardo perchè viaggiando con solo il bagaglio a mano non l’abbiamo più visto. Comunque noi quattro siamo rimaste insieme ancora un pò, fino alla navetta per Roma. Abbiamo salutato la simpaticissima Genna che avrebbe dovuto prendere un altro aereo per Alghero, ma alle ore 18, campa cavallo! Con Paola abbiamo avuto la fortuna di restare insieme fino alla stazione di Roma Termini. Ci ha anche aiutate, tenendoci le valige, a fare “al volo” il biglietto e a telefonare al babbo per dirgli l’orario del treno per Arezzo. Peccato che ci siamo dovute salutare troppo in fretta e non era una formalità quando ci siamo dette che “è stato un vero piacere!”. Restiamo quindi solo io e Patrizia, ancora con mille commenti da fare sul viaggio, quasi un sommario di quello che ci è più piaciuto. Siamo arrivate ad Arezzo cotte dalla stanchezza. Giulio, l’mì babbo, è arrivato dopo pochi minuti e le poche energie sono servite per fare il riassunto del riassunto. Patrizia è poi voluta tornare a Rimini senza fermarsi, temeva che se si fosse rilassata non sarebbe potuta ripartire. Ci siamo risentite per telefono quando è arrivata a casa. Comunque il viaggio ormai è finito proprio per tutti, anche Genna ora sarà a casa sua. Non ci resta che goderci le foto e spedirne le copie agli amici per avere l’occasione di non dimenticarci dal 3 Aprile. N.B.: sono abbronzata…, hanno un bel colore caraibico sia il viso che il braccio sinistro…E BASTA! Sono stata benissimo! Franci 10/4/97 Oggi è il 28/06/02…Per me è stato un bel viaggio, spero che possa essere stato di qualche interesse anche a chi non era con me. Mi scuso per le mie ingenuità ma rimaneggiarlo, oggi, avrebbe voluto dire renderlo meno vero.



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