Wild wild afrika

BOTSWANA 12-28 luglio 2005 12 luglio. Volo delle 14.30 da Firenze per Francoforte. Scesi dal bus si prosegue a sinistra per la zona B, lungo i corridoi. Occorre poi trovare il gate di partenza: arrivati al controllo, oltrepassarlo; al di là c’è il duty free . L’aeromobile di South African Airways è al completo. Che è nuovo lo si...
Scritto da: angeb612
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BOTSWANA 12-28 luglio 2005 12 luglio. Volo delle 14.30 da Firenze per Francoforte. Scesi dal bus si prosegue a sinistra per la zona B, lungo i corridoi. Occorre poi trovare il gate di partenza: arrivati al controllo, oltrepassarlo; al di là c’è il duty free .

L’aeromobile di South African Airways è al completo. Che è nuovo lo si intuisce dalle postazioni – anche quelle in economica – dotate di schermo le cui funzioni sono svariate (tv, audio, giochini…). Anche il rancio non è male.

La notte in volo per me è sempre un incubo dato che ho la assoluta necessità di coricarmi nel vero senso della parola, e cioè sdraiarmi, per poter dormire. Ciò significa che chiudo gli occhi per un’oretta, non di più. Accanto a me, dal lato finestrino, c’è un signore assurdo che non si alzerà MAI per le oltre 12 ore di durata del viaggio. Boh! 13 luglio. Aeroporto di Johannesburg. Dall’alto si notano fumaiole sparse: devo essere sincera e dire che ho pensato a fabbrichette o luoghi di lavoro. Ho più tardi capito che si trattava, invece, delle baracche in cui vivono migliaia di sudafricani nei dintorni della città e che, nel freddo mattino invernale, altro non hanno di che scaldarsi se non accendendo il fuoco.

Scendendo all’aeroporto, si può fare il controllo passaporti anche passando dalla zona riservata ai cittadini sudafricani: ce lo consiglia un signore italiano che percorre spesso questa tratta e che si dirige senza esitazioni da quel lato. Lo seguiamo e, molto più velocemente, attraversiamo la postazione. Poi, però, l’attesa all’arrivo bagagli compensa il vantaggio precedente: è infinitamente lenta, c’è chi rischia di perdere le connessioni. J.Burg è il punto di arrivo dei voli extra africa, qui occorre necessariamente ritirare i propri bagagli anche se si ha un connected flight, il che mi lascia intuire che è meglio viaggiare col solo bagaglio a mano… Un autista ci attende: aspetta noi, un’altra coppia di milanesi e una ragazza che viaggia sola, Christina di Madrid. Facciamo rapidamente conoscenza lungo il tragitto che ci separa dall’albergo dove trascorreremo una sola notte in attesa della partenza vera e propria, l’indomani. Il traffico non è caotico, le auto si muovono a gran velocità, e sono auto italiane, tedesche, berline e fuoristrada lucide e nuove. E’ evidente la distanza fra chi sta seduto in auto e chi, al di fuori, ai lati della strada, intirizzito dal freddo, aspetta il bus o un passaggio da un pick up, vende giornali o semplicemente adocchia chi sfreccia oltre.

Un’utilitaria rossa ci sorpassa, ha un adesivo sullo sportello: well behaved women rarely maked history. La tipa che guida dev’essere interessante! L’hotel invece non è granché: piccola camera, piccolo letto, grandi avvertenze di chiudere bene qualsiasi cosa: porta, finestra, valigie. Decidiamo di fare un giro nei dintorni, cioè attorno all’isolato, tanto per renderci conto di dove siamo. A posteriori mi rendo conto che siamo stati ampiamente incoscienti e che abbiamo corso un rischio più alto di quando abbiamo incrociato la strada di leoni o elefanti. La zona (RANDBURG) è tra le più tranquille, siamo d’accordo, non è Soweto, non sono le bidonville, ma le recinzioni alte tre metri, il filo spinato elettrificato, i cani da guardia sapientemente addestrati, le guardie armate al di là dei cancelli di veri e propri fortini…Beh…Ci hanno fatto decidere di affrettare il passo e tornarcene indietro. 14 luglio. Ore 6.00, siamo sugli 8°. Incontro coi nostri compagni di viaggio (9 in tutto: ottimo), Dudley la guida, afrikans doc dai colori chiarissimi, ex giocatore di rugby (e si vede), che si presenta in pantaloncini bermuda, e la sua assistente, Beatrice, francese, intabarrata, invece, in maglione di pile e guanti. Saggia…Dimenticavo: c’è il terzo fondamentale componente del gruppo, Sally, un truck overland tutto sommato comodo e col quale cominciamo a prendere confidenza. Caricati i bagagli ci muoviamo in direzione della frontiera. Una prima sosta per la colazione e siamo al confine. L’ingresso in Botswana costa 25 euro.

Diretti verso nord ovest, verso il Kalahari, ci fermiamo ai lati della strada per un rapido spuntino; segue l’ultima sosta a KANG (e ultimo wc: le mie compagne ed io li conosciamo ormai TUTTI, da J.Burg a Livingstone!)prima di entrare nel bush.

Si è fatto ormai tardo pomeriggio, la luce diminuisce, occorre trovare un luogo dove piantare le tende del nostro primo accampamento. La strada è un sola e corre diritta verso nord: è uno splendido kudu femmina che ci attira nella boscaglia. Abbandoniamo infatti l’asfalto per seguirla, ci addentriamo tra gli sterpi e gli alberi rinsecchiti, la perdiamo, ne vediamo altre due. Poi Dudley decide di fermarsi (non riesce mai a ritrovare lo stesso posto, dice): accende il fuoco, ci mostra come devono essere aperte e piantate le tende, ci illustra quelle che sono le priorità della vita comune per questi 15 giorni (montare-smontare le tende, preparare da mangiare, pulire) e si raccomanda che nessuno lasci il campo.

La luna non si vede: il cielo è nerissimo, talmente punteggiato di stelle da esserne velato, per la prima volta vedo la croce del sud, a qualcuno sembra addirittura di vedere un carro. E qui si sprecano le supposizioni su latitudine e longitudine. Io, nella mia beata ignoranza in materia, mi godo lo spettacolo di quei milioni di milioni di cristalli… Non ho mai avuto tanto freddo in vita mia! Vuoi per la stanchezza, per il cambio di latitudine o per il fatto che è comunque inverno e siamo intorno agli zero gradi. Più avanti coi giorni e risalendo un poco verso l’equatore, la faccenda si farà più sostenibile… 15 luglio. Colazione, smontaggio tende e partenza. Sosta a GHANZI (distributore di benzina Shell e toilette). Ci fermiamo per il pranzo sotto un maestoso baobab, ovviamente spoglio dato che siamo in inverno, ma adorno di enormi nidi. Purtroppo i cretini arrivano anche quaggiù e non si esimono dallo scrivere (sanno scrivere??) ed incidere sulla corteccia nomi e nomignoli…Il baobab cresce, in altezza e larghezza, fino agli 80 anni, dopodichè si ferma per cui è molto difficile datare un esemplare.

Lungo il tragitto avvistiamo struzzi, kudu, molte aquile e avvolti.

Raggiungiamo la nostra prima metà, MAUN, la più grande cittadina della zona, dotata di un aeroporto, alcuni camping, centinaia di casupole sparse.

L’Okavango River Lodge è un camping piuttosto rumoroso, vuoi per la musica suonata fino a tarda notte vuoi per i milioni di rane che popolano il fiume che lambisce il campeggio. Mojo, il cagnone nero del campeggio, ci fa compagnia durante la cena.

16 luglio. Finalmente si parte per MOREMI GAME RESERVE. Lasciamo Beatrice e Sally a Maun e carichiamo il minimo indispensabile sul Toyota 4×4 e relativo carrello pronti a dirigerci, lungo 100 km di pista sabbiosa, al cancello nord del parco. Ci guida Roby, formidabile vista, amabile compagno si sere attorno al fuoco.

Ci fermiamo a fare legna tra alberi di mopane secchi: è un bellissimo colpo d’occhio il contrasto tra la sabbia bianca, finissima, quasi polvere, e i colori ramati delle foglie non ancora cadute. Dudley si raccomanda sempre di non allontanarci: potrebbero esserci elefanti in zona.

Infatti ne vediamo, dall’auto, ma proseguiamo per raggiungere il primo camp site. Si tratta di una raduna vicino all’acqua nella quale disponiamo le tende in semicerchio; il fuoristrada col carrello chiudono il passaggio ad animali di grossa taglia! Il primo game drive è nel pomeriggio: splendida coppia di leone-leonessa distesi al sole del tramonto, incuranti di noialtri, sembrano pagati per farci godere lo spettacolo. E questa è una considerazione che abbiamo fatto spesso: gli animali sono molto belli, appaiono ben nutriti, i leoni che abbiamo visto (e da vicino) non mostravano cicatrici, segni di lotte, sembra che abbiano condizioni di vita meno sofferte. A ragione Moremi è considerato uno dei più bei parchi africani, assolutamente selvaggio e incontaminato da presenze disturbatrici. Vero è che il numero di esemplari presenti è inferiore ad altre zone (Kenya, Tanzania) però anche il numero di umani è proporzionale! Molto raramente abbiamo incontrato uomini lungo le piste, quasi mai durante gli avvistamenti. Che bellezza! Ritorno sul far della sera con ombre gigantesche di elefanti stagliate all’orizzonte che ci accompagnano fino da Dudley, il quale ci prepare una ricetta segreta (?) di mammà. Ottima.

È la prima sera nella savana ed è anche il primo appuntamento con quelle che (sul mio diarietto) ho battezzato “tales by the fire camp”. Quando tutto è in ordine, Roby si siede e comincia a raccontare. Racconta di come tutti i bushmen siano cugini tra loro. È questa una relazione di amicizia, non di parentela e deriva dal fatto che, nei tempi lontani, i bushmen e gli abitanti di un villaggio ai margini del fiume fossero soltanto buoni vicini. Un giorno i bushmen, che vivevano di caccia e usavano l’arco, videro su un’isola del fiume degli animali ma non sapevano come raggiungerli. Chiesero allora ai vicini, che erano pescatori, di poter avere in prestito le loro barche, i mokoro. Si sedettero ma non sapevano come utilizzarle. Allora i pescatori insegnarono loro ad usare i lunghi bastoni per spostarsi nell’acqua. Così arrivarono all’isola.

I bushmen cacciavano ma i pescatori non avevano altro che i mokoro: chiesero allora in prestito gli archi che, però, non sapevano utilizzare. I bushmen insegnarono loro. Fu così che, da buoni vicini, i due gruppi divennero cugini. Inoltre i pescatori insegnarono ai bushmen come coltivare meloni e zucche che da allora sono un cibo molto apprezzato.

Avrà sì e no 45 anni, Roby, ma racconta, in perfetto inglese, come un vecchio saggio e il suo tono caldo e pacato riscalda come il fuoco che scoppietta in mezzo al cerchio.

Ci rende partecipi anche di episodi che, a dir suo, sono realmente accaduti: e anche se a volte ci pare che farcisca il racconto con qualche dettaglio più colorito, gli rivolgiamo la nostra più totale attenzione. Racconta di una volta che quattro bianchi stavano facendo un safari a caccia di bufali. Erano accompagnati da un nero il quale era incaricato di avvistare gli animali. Avendo sparato ad un bufalo, i bianchi chiesero al nero di appoggiare il piede sopra la carcassa dell’animale e di imbracciare il fucile per scattare una foto. Il nero fece ciò che gli veniva chiesto ma, nel momento dello scatto , il bufalo si rialzò e il malcapitato rimase attaccato alla bestia che, impazzita, corse via. I bianchi non sapevano cosa fare: decisero di sparare e colpirono il nero ad una gamba. Adesso è zoppo.

Dopo due belle storie ci diamo la buonanotte (ma chi dormirà?) e ci rintaniamo nelle tende, accompagnati come al solito dalle raccomandazioni di Dudley, adesso più vive che mai, di non uscire se non per estrema necessità, di usare le torce e di rientrare immediatamente nel caso si incontrino two shining eyes! Per chi è avvezzo a dormire tra i rumori artificiali delle nostre città, capisco che può essere un problema prender sonno quando solo il silenzio di avvolge. Abitando in piena campagna, i rumori della natura sono per me all’ordine del giorno. Ciò che fuoriesce dall’ordinario, però, è il ruggito del leone a meno di 2 km di distanza, o lo sniffare fragoroso e rimbombante di quei colossi di ippopotami che , poco distante da noi, si intuisce che stanno uscendo dalle acque. Non riesco, o non voglio, addormentarmi, voglio carpire qualsiasi suono, mugolio, respiro mi circondi. Credo anche che, fuori dalla mia tenda, ci sia il famigerato leone: si trattiene 5 minuti, 10, non se ne va, accidenti. In realtà, tendendo meglio l’orecchio, mi rendo conto che è Alessandro che, sepolto nel sacco a pelo, respira più deciso del solito! 17 luglio. Un caffé (?) veloce e siamo pronti per i game drive di questa domenica calda e soleggiata. Come al solito ci vestiamo a cipolla, pronti a sfogliarci appena il tepore mattutino lascerà spazio ad una temperatura più decisa. Decine e decine di impala al nostro passaggio si spostano timorose, poi ci guardano con quel bel muso dipinto ad arte: sono veramente eleganti. La nostra amica ed appassionata ornitologa, Christina, ci illumina sui nomi degli uccelli, ma siccome lei è spagnola e noi italiani, troviamo il giusto compromesso nell’utilizzare la guida, inglese, di cui è dotato Dudley. E quindi ammiriamo african grey e southern yellow hornbill, white stork, saddle billed stork, blacksmith plover, decine di aquile (martial, yellow billed, bateleur, fish eagle), lo splendido lilac breasted roller, un crucione color arancio e viola, simbolo del Botswana. E ancora facoceri, elefanti, giraffe, zebre, una maestosa leonessa, honey badger, gnu, springbok, un reed buck, red liwchi…

Al ritorno dal secondo giro nella savana, Roby ci permette di scendere per sgranchirci le gambe ed ammirare la pozza degli ippopotami, una depressione che, nel periodo delle piogge, assume quasi le dimensioni di un lago. Pur essendo in inverno, ancora molta acqua persiste e gli animali, soprattutto sul far della sera, si avvicinano per bere. La prospettiva inganna e la distanza pare avvicinare le ombre tra loro, come si trovassero su una stesa linea: ed ecco che un coccodrillo con la bocca aperta sembra voler inghiottire una cicogna anche se in realtà i due sono ben distanti.

Ben vicini, invece, due licaoni che, inseguendo un’impala, si trovano noialtri sulla loro traiettoria: fortunatamente non se ne curano e proseguono dritti dritti verso la loro cena.

E’ di nuovo il momento delle storie attorno al fuoco: stavolta Roby racconta di quando un bufalo ha rischiato di ucciderlo. “Guidavo il backup vehicle durante un safari di tre settimane. Ci fermammo in un camp site per tre notti e ogni notte sentivo molti ippopotami. L’ultimo giorno tutti erano contenti ed anch’io, perché avrei rivisto mia moglie. Io e il mio partner eravamo occupati nello smontaggio delle tende quando sentii qualcosa correre nell’acqua. Pensai che fosse un red liwchi. Dopo pochi minuti un bufalo venne fuori, mi vide dietro la tenda ma io non vidi lui. Fischiettavo. Venne vicino a me ma non mi colpì perché correva forte, mi mancò di poco e mi fece fare un balzo con un corno ma mi mancò perché mi attaccai alla tenda. Il bufalo cadde su un ginocchio ma continuava a dibattersi, la sua coda era da una parte, le sue corna dall’altra. Cercai di tirargli la tenda sulla testa ma lui continuò a combattere. Mi nascosi ma non correndo, rotolando dietro alcuni alberi fino a che trovai il modo di arrivare alla macchina. Allora avvisai gli altri che non si erano accorti: mi chiesero che cosa c’era ma non risposi. Lo chiesero ancora e risposi. Uno dei clienti andò a vedere. Cercai di raggiungere il bufalo con la macchina e poi avvisai i ranger dicendo loro che mi aveva quasi ucciso. A Maun mi dissero di telefonare in capitale , Gaborone, e qui di richiamare dopo due ore. Risposi che non potevo aspettare e che l’avrei ucciso. Dopo dieci minuti arrivò il ranger con un fucile per ucciderlo ed io gli dissi che era in ritardo, che il bufalo era scappato.

È l’unica cosa che mi è successa durante un safari. Cerco di non pensarci ma a volte mi viene in mente e allora mi dico che Dio mi vuole bene e che devo andare ogni giorno in chiesa a pregare.” 18 luglio. Spostiamo il campo: dirigendoci verso il TERZO PONTE ci insabbiamo per bene e i signori uomini faticano non poco per liberare i veicoli. Siamo ben presto ripagati dalla mirabile visione di un gattone sopra un albero di jackal berry, pronto per il meritato riposo diurno dopo una nottata di caccia frenetica. È un leopardo così bello da sembrare mansueto, che si mimetizza al meglio nel controluce e infatti i nostri occhi di bianchi non riescono subito a vederlo. Il leopardo è solito stare sugli alberi che producono bacche di cui sono ghiotti gli impala cosicché può balzare loro addosso senza tanti sforzi. Anche durante il giorno. C’è una bella famigliola di ghepardi, piccoli e madre, e poi degli splendidi kudu maschi, animali che non avevo mai visto. Mi sembrano creature fiabesche: sono alti, imponenti, hanno grandi corna a spirale e ti guardano dritto negli occhi.

Anche il secondo camp site è vicino all’acqua, acqua che conosceremo per bene domani, sui mokoro.

19luglio. Il punto di imbarco si trova all’estremità sud del delta, praticamente il mignolo di quell’immensa mano che è l’Okavango, l’unico fiume al mondo che non si getta nel mare o in un lago ma evapora letteralmente nella distesa del Kakahari, rendendo incredibilmente verdi e lussureggianti le terre che circondano il suo delta.

Per strada ci fermiamo in contemplazione di una famiglia di 8 leoni che, sdraiata sul un termitaio, si gode il sole mattutino. Sono bei cuccioli di circa 4 mesi, alcune femmine e un maschio adulto. Alla spicciolata lasciano la loro postazione, uno dopo l’altro: da ultimo il maschio che, invece di passare davanti alla macchina, punta verso il lato dove sono seduta. Un metro e mezzo appena ci separa.

Giunti all’imbarcadero, siamo accolti da simpatici ragazzi pronti a portarci indietro nel tempo (ma neanche tanto), a quando gli abitanti del luogo si spostavano nel delta utilizzando solo i mokoro, lunghe imbarcazioni scavate nel tronco dell’albero delle salsicce: un albero, un mokoro, che può resistere in acqua per 7 anni. Quelli utilizzati per i turisti vengono costruiti in resina, ma sono ugualmente stretti come quelli di legno. Ci si sposta in acqua utilizzando un lungo bastone, a mo’ di gondola, e occorre stare “fermi come patate” per non rischiare di capovolgersi. Inizia la navigazione nei canali del delta, attraverso una vegetazione fitta di cannelle e piante acquatiche di cui si nutrono alcuni animali. Ci sono erbe lunghe da 1 a 8 metri, cave all’interno e che una volte essiccate, venivano utilizzate per costruire i tetti delle case. Adesso il loro impiego è riservato ai tetti dei lodge. L’acqua, profonda da pochi centimetri a 5 metri, è talmente ferma e compatta che il mokoro sembra solcare della seta , ed è così fresca e limpida che i ragazzi la bevono tranquillamente. Water lily sono sparsi un po’ ovunque: quelli aperti sono del tipo diurno, di color da bianco a violetto o viola. La loro vita dura un mese, poi la pianta muore e da essa germoglia una nuova vita. Il sole picchia sulle nostre spallucce arrossate: ci sembra questo il momento migliore per un’escursione del genere (in estate qui si oltrepassano i 40°). Un picnic ristora noi e soprattutto le nostre guide.

20 luglio. Sveglia alle 6. Come al solito mi alzo prima: tanto sono dormigliona in patria, tanto poco riposo in viaggio dove ogni momento, per me, è davvero prezioso. E a ragione, perché alle 5.40 c’è una luna arancione gigante, mai vista così grande. Ci mette poco a scomparire, inghiottita dalle cannelle acquatiche, ma dall’altra parte spunta l’ultima alba di Moremi. Tolto in fretta il campo, ci dirigiamo verso il cancello sud diretti a Maun. Qui è d’obbligo una bella doccia, un po’ di bucato e, nel pomeriggio, Lino, Alessandro, Christina ed io ci regaliamo un volo sul delta.

Per 90 USD (o 67 €) è pronto un Chesna 102 che ci farà volare per un’ora sopra l’Okavango: spettacolo! Le foreste di mopane lasciano il posto ad una vegetazione lussureggiante di piante e palmizi che si stende a 360 gradi, il verde brillante è interrotto dalle nervature dell’acqua. Voliamo bassi, ad altezza aquila, tanto che si distinguono chiaramente elefanti, giraffe, zebre, bufali lungo la buffalo fence, e poi baobab che sembrano allungare le loro grandi braccia verso di noi! 21 luglio. Di nuovo sveglia alle 6 per compiere i 600 km che ci separano da CHOBE NATIONAL PARK. Arriviamo nel tardo pomeriggio, appena in tempo per ammirare il tramonto sul grande fiume Chobe. Il Chobe River Lodge camp site è piuttosto grande e costeggia il fiume: ci sono alloggi in muratura, siti per le tende, nuove costruzioni con bagni in legno e acqua calda. Davanti alla reception un negozietto ben fornito in cui cercare attentamente qualche occasione.

22 luglio. Appuntamento all’alba con il fuoristrada per un game drive che non si rivelerà ricco come quelli di Moremi. Si costeggia il fiume, punteggiato da ammassi di ippopotami da poco addormentati, incrociamo bufali e impala, ma ci pare che la nostra guida non abbia gli occhi di Roby. Attendiamo l’alba assieme ad una famigliola di babbuini (quanto siamo simili!!) riscaldandoci con tè e caffè.

Il pomeriggio ci riserva una sorpresa. La cosiddetta crociera sul fiume Chobe è da non perdersi. Si sale su un barcone dove sono sistemate due file di sedie per lato, e per due, tre ore si girovaga sul fiume come dentro ad un documentario. Uccelli dai colori sgargianti si lasciano avvicinare da noi umani stupiti,cicogne, cormorani, condomini di gruccioni verde smeraldo bucherellano le rive del fiume, fish eagle battibeccano con gabbiani per un pezzo di pesce, e poi piramidi di ippopotami che, disturbati dal rumore della barca, smontano e si disperdono nell’acqua (mi hanno poi spiegato che gli ippo si ammassano in quel modo per contrastare la corrente…), elefanti che attraversano il fiume tenendosi il codino e poi, usciti, si rotolano nel fango e se ne cospargono la pelle rugosa. Questi meravigliosi animali sono i co-protagonisti di uno spettacolo unico che si conclude col tramonto sul fiume, con la sfera rosa arancio rossa che si immerge piano piano.

23 luglio. Il parco Chobe si trova a nord del Paese, abbastanza vicino al confine con lo Zimbabwe che varchiamo appunto questa mattina per 25€ o 30 USD o 150 PULA.

Il nostro camp site è nella ridente cittadina di Vic Falls: negozi e compagnie che offrono water sports fiancheggiano la strada principale. Piantiamo le tende su un prato e ci accorgiamo che, nonostante il cielo sia assolutamente sereno, una strada nuvola si profila all’orizzonte. E c’è anche una specie di rombo, di tuono: altro non è che il pulviscolo d’acqua che si innalza per metri e metri e il rumore sordo ovviamente è quello delle cascate e che tuttavia ci sorprende per la sua intensità.

Prenotiamo le attività da fare l’indomani e con 20USD o 20€ (c’è qualcosa che non va…) paghiamo l’ingresso alle cascate. Non è pochissimo, ma è l’unico modo per osservare come la natura possa esprimersi nella sua potenza. Dall’ingresso la stradina si bipartisce: verso sinistra si va alle cataratte, verso destra alle cascate. Andiamo a destra. Lo Zambesi si getta in una spaccatura profonda più di 110 metri con un fragore potentissimo e per una lunghezza di oltre 2 km. Ci bagniamo, ovviamente, ma è un divertimento; le rocce sono scivolose ma, con cautela, ci sporgiamo per guardare giù e pensiamo a domani…

24 luglio. Alle 7.45 ci aspetta un pick up alla reception: siamo pronti per il rafting! Effettivamente la varietà di attività richiederebbe almeno due-tre giorni a Vic Falls, purtroppo il nostro soggiorno è più breve e dobbiamo scegliere: alcuni faranno walking safari per vedere i rinoceronti, Christina andrà a dar da mangiare agli elefanti, io (con Alessandro che mi segue, ma non so quanto volentieri!) devo fare rafting.

Occorre andare in Zambia e per farlo basta attraversare il ponte che separa, appunto ZIM(babwe) da ZAM(bia): visto 10USD.

Una mezzora per il briefing introduttivo, poi con muta, elmetto, pagaia e giubbotto salvagente cominciamo a scendere verso la cosiddetta boiling pot. Tanto era l’entusiasmo, tanto ora è la strizza. Va aggiunto che sono neanche le 9, siamo in piena ombra e già abbastanza bagnati.

Nel pentolone ribolle lo Zambesi: vengono portati giù i canotti, gonfiati, e preparati gli equipaggi, ognuno dei quali ha un proprio capitano, super-esperto, che conosce le rapide a menadito…Ma ciò non toglie che il primo raft che prende il largo si ribalti immediatamente! E così il secondo. Il che non rincuora noi, che siamo gli ultimi. E che passiamo indenni! E così sarà per tutta la prima parte delle rapide, di terzo, quarto e quinto grado: non ci ribalteremo mai! Non ho mai visto muri d’acqua così alti e potenti, e di quell’acqua ne ho bevuta veramente tanta! Questi ragazzi sono fenomenali, trascorrono quasi tutti i giorni dell’anno in acqua. Ci spiegano che questo è il periodo migliore per il rafting perché è quello di transizione tra high e low water, laddove l’acqua alta impedisce di fare alcune rapide (il livello si alza anche di 15 metri) e così per quella bassa. Adesso invece si possono fare tutti i 25 km! C’è poi una rapida di sesto grado, non legale nel rafting, che infatti noi non facciamo: scendiamo dai gommoni e questi pazzi si fanno risucchiare da un gorgo infernale per poi sbucare di nuovo urlando come forsennati! Un panino al volo e si riparte. Essendo questo secondo tratto più calmo del precedente, possiamo goderci il panorama: baobab che spuntano curiosi dalla sommità delle pareti altissime, aquile che sorvolano la gola, un coccodrillo qua e uno là. Ecco che capiamo perché, di tanto in tanto, i ragazzi che coi kajak fanno assistenza saltano sul gommone…

Arrivati in fondo al percorso, esausti, rimane da affrontare la parte paradossalmente più impegnativa: la risalita. Si tratta infatti di arrivare in cima arrampicandosi – e non è un sinonimo – con tutta l’attrezzatura di cui sopra su scalette rudimentali fatte con paletti. E mentre arranchiamo, coi muscoli intorpiditi e stanchi, e ci danniamo per arrivare in cima, ragazzetti del luogo come capretti salgono e scendono trasportando il materiale su e giù. Ma alla fine ci aspetta la merenda!! Riconsegnato il tutto e recuperati i vestiti asciutti, saliamo su un camion tipo quelli dei paracadutisti e percorriamo a ritroso, passando da LIVINGSTONE, i circa 30 km che ci riporteranno in ZIM attraversando tre villaggi totalmente diversi da quelli incontrati in Botswana, molto più africani, abitati da poche centinaia di persone.

Che giornata! 25 luglio. Ultimi acquisti all’onnipresente supermercato Spar e partenza per la frontiera tra Zim e Botswana. Diretti verso sud sostiamo a KASANE dove mi fermo all’internet point (15 pula per 30’) . Alle 16.30 siamo al NATA BIRD SANCTUARY dove si apre la distesa del MAKGADIGADI PANS, lago salato prosciugato immenso (oltre 16000 kmq). Il piccolo camping non ha facilities ma un bel baobab sotto il quale ci accampiamo. I bagni sono in comune, c’è acqua calda nelle docce ma non per lavare i piatti; i tavolini di cemento rovinano un po’ l’atmosfera.

Svelti svelti piantiamo tutti e scappiamo verso il SOWA PAN per ammirare il tramonto.

Cena attorno al fuoco: non c’è luna e il cielo australe è come sempre spettacolare. Una stella cadente.

26 luglio. Sveglia alle 6 per MOLALA TAU, via FRANCISTOWN, con 350000 abitanti la seconda città del Paese. Sostiamo nei pressi di un centro commerciale per fare gasolio e pranziamo poco dopo a SHERWOOD, appena 9 km dal confine col Sudafrica. La frontiera si passa a Martin’s Drift. Il paesaggio è completamente differente: collinare, con vigne, piantagioni di cotone, agrumeti. A tratti pare di essere in Toscana.

Il camping site sarà ad ELLISRAS: si chiama Mulala tau, il riposo del leone. Carino, con l’erba ma senza acquaio per i piatti.

È il compleanno di Lino quindi festeggiamo con torta e candeline.

27 luglio. È il giorno della partenza. Gli ultimi acquisti li facciamo a VAALWATER, piccolo centro sulla via di Johannesburg dove è da segnalare un bel negozio di artigianato (Black Mamba) con prezzi europei ma begli oggetti.

Salutiamo con sincero affetto i nostri amici e compagni di viaggio (Dudley, Beatrice e Sally) e ancora non sappiamo che ci attende…Un bello sciopero degli equipaggi della SA Airways. Dopo ore e ore in lista d’attesa riusciamo ad imbarcarci per Parigi e da qui, con volo strettissimo, a tornare a Firenze.

Scrivo questo diario il 4 febbraio 2006: il ricordo vivo e nitido che ho delle due settimane trascorse in Africa non mi fa dubitare neanche per un istante che tra me e questa terra sia nato, o forse si sia consolidato, un legame unico, che non esiste con nessun altro paese che ho visitato. Il contatto con la natura per me è indispensabile e fonte di certezze e di equilibrio e soltanto in Africa – almeno per adesso – io l’ho trovato.



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