West USA: un parco al giorno o quasi
Compagno di viaggio è mio marito, Leonardo, che ha già visitato il West degli USA con un amico nel 2001; io invece (Nadia, mi presento!) non c’ero mai stata prima. L’itinerario che abbiamo studiato gli ha comunque permesso di vedere per la prima volta la maggior parte dei parchi che abbiamo visitato; questo solo per dare l’idea di come la natura si sia sfogata in particolar modo in questa parte del mondo e di quanti posti incredibili ci siano da ammirare. Prima di partire con il diario, alcuni numeri: il viaggio è durato 20 giorni (dal 20/8/2005 al 9/9/2005) che, considerando il trasferimento aereo, equivalgono a 18 giorni pieni in America. Qui abbiamo dato priorità alla natura, visitando come città solo San Francisco e assaggiando appena Las Vegas. Per quanto riguarda i parchi, abbiamo ammirato 15 tra National e State Park. Ecco da dove viene il titolo della nostra avventura. Tutto ciò camminando con la macchina per un totale di 3720 miglia, vale a dire più di 6000 km.
Il periodo di ferie che il lavoro ci ha permesso di prendere si è rivelato ottimo: siamo a fine agosto, è ancora caldo e i parchi non sono poi così affollati dai turisti: in tante occasioni ci siamo trovati soli circondati dalla natura. Il diario è stato scritto direttamente in loco, giorno per giorno, anzi, sera per sera, qualche volta addormentandomi con la penna in mano per la stanchezza. Questo è appunto un diario, non un tentativo di mini-guida-turistica, per cui non troverete descrizioni accurate dei luoghi, anche perché potrei togliere il gusto unico della sorpresa a chi questi posti intende visitarli; credo invece che possa essere utile per capire un po’ i tempi della nostra vacanza, ossia quanto abbiamo dovuto correre per vedere tutti questi posti e quanto tempo abbiamo dedicato ad ognuno di essi.
E visto che, nonostante non mi sia limitata a scrivere, ce ne sarebbero ancora tante di cose da dire, per qualsiasi commento o domanda o qualsiasi altra cosa scrivetemi pure (nbozzone@vodafone.It)! Buona lettura e speriamo… che arriviate in fondo svegli!
Sabato 20 agosto – In viaggio… Eccoci qua, finalmente siamo a San Francisco; ancora non mi sembra vero! Già perché il lavoro ci ha talmente impegnato fino all’ultimo che oltre a non godermi l’attesa delle ferie ci siamo ritrovati, come al solito, a fare le valigie la sera prima della partenza. Risultato: siamo andati a letto alle tre del mattino! Non è stato difficile tirarsi giù dal letto dopo solo tre ore di sonno, è la paura di fare tardi all’aeroporto che ci sveglia. L’appuntamento da non mancare è alle 7.30 sotto casa nostra dove il mio babbo, ed eccezionalmente anche la mia mamma, ci accompagneranno all’aereoporto di Firenze. Qui la giornata comincia bene, con il check-in risolto in pochi minuti e una buona colazione; ultimi saluti ai miei e… si parte!, prendiamo il primo aereo che da Firenze ci porterà a Monaco, volo Lufthansa. Il volo parte alle 9.00 (puntuale) e appena siamo in quota ci danno la colazione… tipica tedesca: un panino al formaggio! Arriviamo alle 10:00 a Monaco; dall’imbarco sul volo che ci porterà direttamente a San Francisco ci separano cinque lunghe ore, che passiamo nel Terminal G, guardando le vetrine dei vari negozietti e pranzando a base di weiss wurstel. Finalmente arriva l’ora dell’imbarco, le 15:05. Il volo è Lufthansa, in “code sharing” con United e Air New Zealand (!?), su un aereo “firmato” Star Alliance. Voi ci capite qualcosa? Io niente! L’aereo, un Airbus A340, è nuovo di zecca, bello, pulito e spazioso. Partito puntuale anche questo, abbiamo passato così le nostre UNDICI ore di volo: – spuntino a base di salatini – “cena” (erano le 17.30…) a base di salmone – film “Robots”, carino, ma io l’ultima ora l’ho dormita – un giro ai bagni (che spettacolo, erano… al piano di sotto!) – spuntino cioccolatoso – secondo film, “Hitch” (visto la prima mezz’ora, il resto dormito) – un altro pranzo… o cena? Boh! Comunque l’ho saltato per dormire ancora.
Arriviamo a San Francisco alle 18:30 locali (3:30 italiane). Dopo il controllo dei passaporti, il prelievo delle impronte digitali, la foto, le risposte a “chi sei?”, “cosa fai nella vita?”, “perché sei qui?” e addirittura “dove lavori?”, saliamo sull’air train, un trenino che ti dovrebbe portare velocemente da una parte all’altra dell’aereoporto. In realtà c’è voluta mezz’ora per arrivare al luogo in cui ritirare la macchina a noleggio, prenotata dall’Italia. Evase le pratiche, andiamo nell’immenso garage, circondati da una distesa di auto, tra cui si nasconde anche la nostra. Trovarla non è facile: dopo lunghe ricerche, indicazioni sbagliate, alla fine un cinesino ci aiuta e finalmente troviamo il mezzo: una full-size della Chevrolet, macchinone decisamente sufficiente alle nostre esigenze, visto che tutte le nostre cose (due valigie di medie dimensioni, uno zaino ed una borsa) nel bagagliaio ci sguazzano. Leonardo si mette al volante ed io gli faccio da navigatore… del piffero, visto che, non appena fuori dall’aereoporto, gli faccio subito sbagliare strada. Nonostante questo arriviamo all’albergo abbastanza facilmente. Lasciati i bagagli, andiamo al supermercato di fronte, aperto 24 ore su 24, a comprare uno spuntino. Domani niente sveglia!
Domenica 21 agosto – San Francisco (A giro per la città) Ci svegliamo appena passate le 10.00, dopo una bella dormita. Ci prepariamo piano piano ed usciamo dall’albergo alle 11.40. Il programma di oggi è: prendere la macchina e girare a zonzo per le strade della città. Prima di tutto però… la colazione! Così partiamo per cercare uno Starbucks, che troviamo dopo pochi minuti sulla strada; il problema è: dove parcheggiare? Gironzoliamo tre o quattro volte intorno al bar, con in mente l’equazione “una svolta a sinistra = tre svolte a destra”, ma di parcheggi neanche l’ombra. Allora decidiamo di tirare diritto e fare un salto a Union Square. Arrivati in zona troviamo un garage a non-so-quanti-piani: lasciamo la macchina qui. Raggiungiamo la strada con un ascensore che va alla velocità della luce e… cosa c’è di fronte a noi? Un altro Starbucks! Io sono tutta felice, quando ci troviamo in giro per il mondo mi piace fermarmi qui a fare colazione. Entriamo e, come al solito, prendiamo il mezzo litro di cappuccino (servito nei bicchieroni di carta) e due dolcetti. Ora che lo stomaco è decisamente pieno, siamo pronti ad esplorare la zona. Il tempo non è un gran che: nuvoloso e ventoso. Speriamo domani sia meglio! A Union Square, oltre ad una bellissima “scultura” a forma di cuore, c’è anche una esibizione artistica dove pittori, fotografi e scultori vendono le proprie opere. Cominciamo da qui a girare il nostro filmino e a scattare le prime foto. Vorremo andare nel quartiere di China-Town, ma visto che sono io a guidare con la cartina, ovviamente, sbagliamo strada e ci ritroviamo dalla parte opposta. Santa pazienza! Ritroviamo la strada giusta e infatti ecco la porta di entrata al quartiere, fatta ovviamente a forma di pagoda. Al di là di essa si trovano, uno accanto all’altro, una serie di negozi di souvenir, di abbigliamento, ristoranti e piccoli supermercati. Visitiamo la zona, divertendoci a riprendere e fotografare le case costruite in stile cinese, una più strana dell’altra. Qui siamo nel “centro” di San Francisco che, come le altre città americane, equivale al centro finanziario e quindi ci fanno da sfondo i grattacieli di uffici, tra cui la Transamerican Pyramid. Ritorniamo a Union Square per uno spuntino (hot dog dal baracchino sulla strada, come a New York!), terminato il quale riprendiamo la macchina e andiamo ad Alamo Square.
Qui la fortuna ci assiste facendoci trovare un parcheggio proprio accanto al giardino della piazza. La piazza rappresenta una delle classiche cartoline di San Francisco in quanto il paesaggio offre delle belle casine con i grattacieli del Financial District come sfondo. Ovviamente anche noi facciamo il classico scatto. Stiamo un pochino lì, altra piccola passeggiata e poi di nuovo in macchina. Questo è un quartiere residenziale quindi, oltre alla piazza, non c’è nient’altro da vedere. Twin Peaks non è molto lontano, decidiamo perciò di farci un salto. Durante il tragitto lo scetticismo di vedere il panorama della città dalla collina aumenta dato che non solo è nuvoloso, ma le nuvole sono molto basse per cui, dopo pochi metri di salita, ci troviamo completamente immersi nel grigio: si vede a malapena la strada! Inutile fermarsi al piazzale panoramico ed in men che non si dica cerchiamo un altro posto dove andare. Passata la delusione, decidiamo di provare il brivido di percorrere le strade più ripide della città. Ci dirigiamo verso Filbert Street dove, nel tratto compreso tra Hyde Street e Leavenworth Street, la pendenza raggiunge il 31,5%… Niente male! La strada è a senso unico e la possiamo percorrere solo in discesa. E’ come essere sulle montagne russe: vedi il cofano della macchina ma non la strada e ad un certo punto… ti ritrovi in giù! Il tratto è breve ma intenso. Dopo il brivido della discesa parcheggiamo per cercare di fare delle foto che rendano l’idea e scegliamo di immortalare le macchine parcheggiate rigorosamente a 90 gradi. Due strade più avanti, in Lombard Street, il problema della pendenza è stato risolto in modo insolito, tanto che la strada è diventata un “must-see” di San Francisco. In pratica nel giro di pochi metri ci sono 8 curve a zig zag; la strada è pavimentata a mattoncini rossi e, tra una curva e l’altra, ci sono bellissime aiuole tutte fiorite. Una vera attrazione turistica, affollatissima, tra quelli che la percorrono chissà quante volte in macchina e quelli che stanno sotto a fare la fila per fare la classica foto. Ovviamente non possiamo mancare proprio noi: prima foto e ripresa e poi via alla macchina e giù, su Lombard Street. Divertente! Dove possiamo andare adesso? Ma sì, al Golden Gate o meglio nei dintorni del ponte, perché stasera ci limiteremo a fotografarlo. Proviamo quindi a imboccare il Lincoln Boulevard ma il genio delle cartine, ossia la sottoscritta, dà un’altra volta indicazioni sbagliate ed eccoci nella 101 N che porta all’entrata del ponte. Evitiamo di salirci sopra uscendo all’ultima “exit” prima del casello e raggiungiamo, passando nel mezzo a una zona residenziale da favola, Lands End dove, accanto ad un campo da golf, c’è un sentierino che ci porta in una piazzola dalla quale possiamo ammirare il Golden Gate che splende in tutta la sua bellezza. Sì perché, nonostante si tratti di un ammasso di ferraglia rossa che tiene in piedi una strada in mezzo alla baia della città, il ponte è proprio bello e affascinante. Sarà perché lo abbiamo visto in mille film? Chissà! Riprendiamo la macchina e girelliamo ancora intorno al ponte, fino a trovare una strada che ci porta vicino vicino. Altra foto e via. Sono le 19 passate e ritorniamo all’albergo per sdraiarci un po’ e riposarci da queste “fatiche” prima di andare a cena. Leggiamo la guida per scegliere il ristorante… la città offre un sacco di cucine e visto che chissà quanta bistecca mangeremo nei prossimi giorni, il ballottaggio è tra il giapponese e il messicano. Vince il giapponese e andiamo all'”Iroha”. Leggiamo il menu e rimaniamo stupiti dall’assenza di sushi. Ma come? Un ristorante giapponese senza sushi?!? Mah… hanno solo i California roll (in tema!) come antipasto. Allora decidiamo per due “combinazioni”: io prendo tempura & salmon, Leonardo sashimi e yakitori. Dopo una insalatina, ci arrivano i due vassoi completi di zuppa di miso e super-ciotola di riso. Leo ha praticamente un falò nel suo vassoio, studiato apposta per tenere caldi gli spiedini ma con le fiamme talmente alte che se non sta attento gli va a fuoco il naso. No, scherzo, ma meno male che dopo un pochino si spenge. Da bere non prendiamo nulla e andiamo avanti a the verde offerto dalla casa. Totale spesa: 41$ e ce ne andiamo via soddisfatti. Di nuovo in albergo, io sono cotta. Leo va a comprare l’acqua al supermercato di fronte (1 gallone per soli 99 centesimi).
Lunedì 22 agosto – San Francisco (Fisherman’s Wharf e Alcatraz) La sveglia che abbiamo messo per le 9.00 non è servita a molto visto che alle 6.10 avevamo tutti e due gli occhi spalancati. Il motivo? Il fuso orario? No, il rumore! Il nostro albergo è proprio su Lombard Street che a quest’ora è già molto trafficata. Ma dove va la gente così presto? Mah! Girati di qui, rigirati di là, Leonardo riesce dopo un’oretta a riprendere sonno. Io no. Ritorno sull’albergo, che ancora non ho descritto: siamo all’Econolodge, prenotato via internet. Per 88 $ a notte abbiamo una camera piuttosto grande, con il lettone comodo, un tavolino con due sedie, televisione e anche frigo (vuoto), fornetto a microonde e pure la macchinetta per fare il caffè. Anche il bagno è decente. Insomma, niente male considerato la cifra e che siamo a San Francisco. Alle 10.30 siamo pronti, si parte! Anche stamani il tempo è nuvoloso e anche stamani tira vento. Il programma di oggi prevede l’attraversamento del ponte ed una visita a Fisherman’s Wharf, punto di partenza per la gita ad Alcatraz. Ma prima di tutto la consueta colazione nel consueto Starbucks: abbiamo scoperto che ce n’è uno a pochi passi dall’albergo. Mentre ci gustiamo i dolcetti notiamo quanto qui siano avanti con la tecnologia: in tantissimi bar e hotel si può trovare l’accesso wireless ad internet completamente gratis. Così succede che entri a prendere un cappuccino e vedi una fila di uomini bionici che lavorano o si divertono al computer portatile. Oggi accanto a noi ce n’è uno che smanetta al computer e sul tavolino ha cellulare, palmare e auricolare blue tooth. Accipicchia! E’ tardi, dobbiamo andare! Direzione Golden Gate, che però si presenta tra le nuvole. Leonardo è dispiaciuto del tempo infelice, mentre io sono contenta anche così: mi affascina il vedere solo parzialmente i piloni, mi dà un senso di… mistero. Il ponte è lungo 1,7 miglia, volendo lo si può attraversare anche a piedi o in bicicletta. Per le auto è a pagamento ma solo verso sud; andando a nord è gratuito Dopo la traversata ci fermiamo al Vista Point per fare ancora delle foto. Da qui vediamo che dall’altra parte della strada, in alto sulla collina, ci sono macchine parcheggiate e persone che guardano il ponte… ancora più da vicino! Cerchiamo di capire come fare ad arrivarci e, dopo un tentativo fallito, troviamo la strada, uscendo, in direzione opposta dell’autostrada, in direzione Sausalito. Bingo! La strada comincia a salire e dopo pochi minuti godiamo anche noi della vista ravvicinata sul ponte. In pratica siamo molto vicino al pilone e la strada è immediatamente sotto di noi. Come vista sarebbe spettacolare, peccato che siamo praticamente dentro le nuvole e oltre a non vedere un accidente o quasi tira anche un vento pazzesco. Torniamo verso la città, pagando quindi i 5$ di pedaggio. Chissà come mai da una parte si paga e dall’altra no! Boh!? Ci dirigiamo verso Fisherman’s Wharf dal quale, alle 16.30, parte la gita ad Alcatraz che abbiamo acquistato via internet due giorni prima di partire. Per arrivarci decidiamo di passare (ancora una volta!) dalle curve di Lombard Street. Le percorriamo in macchina, parcheggiamo e risaliamo le salita a piedi, utilizzando le scalette laterali. Arriviamo in cima e giusto in quel momento passa il cable car. E qui ecco la dimostrazione del vero turista che aspetta paziente la fine della fermata del tipico tram e che si butta in mezzo di strada, incurante delle auto in arrivo, per fargli una foto con lo sfondo del carcere.
Tutti felici ripartiamo. Arriviamo velocemente al porto: il problema è ancora una volta il parcheggio, o meglio, cercare il parcheggio al minor prezzo. Qui è più facile essere colpiti da un fulmine che trovare un posto sulla strada che non sia per massimo due ore e infatti la zona presenta una concentrazione di garage direttamente proporzionale alla presenza di turisti. Ad un certo punto vediamo ad un incrocio il cartello “Parking all day 8$” ma è troppo tardi e non facciamo in tempo a svoltare. Il prezzo è il migliore, dato che gli altri chiedono almeno 12$; il problema è che, nonostante giriamo come matti per almeno un altro quarto d’ora, in quel parcheggio non riusciamo proprio ad entrare. Alla fine ci rompiamo le scatole e ci infiliamo nel primo garage che si trova, finendo per pagare 16$, ossia al prezzo più alto. Che geni, se ci si era andati subito, oltre al tempo, si risparmiava anche benzina! Siamo sulla costa: la zona è molto carina, ci sono una miriade di negozietti, bancarelle e ristoranti. Pranziamo a base di clam chowder ossia un panino enorme svuotato della mollica e riempito o con della brodaglia gialla (sarà stata buona, ma l’aspetto non era invitante!) o con pesce misto (gamberetti, vongole, granchio). Scegliamo quest’ultimo; con un fish e chips ed una bottiglia d’acqua fanno 20$. Il panino è fenomenale e poi, dopo aver mangiato il ripieno ti ritrovi con tutta la crosta inzuppata di sughetto… molto buono! Dopo pranzo ci facciamo una passeggiata ed andiamo a vedere i leoni marini al Pier 39. Come sono buffi! Sono tutti distesi su delle assi di legno galleggianti a pisolare, poi ogni tanto si ricordano di essere vivi e si danno una sonora grattata sulla pancia con le pinne: simpatici! Arrivano le 16.00, ora dell’imbarco sulla Blue & Gold, la nave che ci porterà ad Alcatraz. Stavolta siamo di una puntualità che spacca il minuto, ma c’è gente qui chissà da quanto e quindi camminiamo per metterci dietro l’ultimo della fila. Camminiamo, camminiamo e camminiamo ancora. Ecco, ci siamo. Mamma mia ma entrerà tutta questa gente nella barca? La coda scorre piano, perché, prima di salire, ti fanno obbligatoriamente la foto di rito insieme a un salvagente, che alla fine della gita ti rivendono per 15$. Mi verrebbe voglia di fargli la linguaccia al momento dello scatto, visto che non gliela comprerò mai, ma mi contengo. Saliamo sulla barca ed andiamo al secondo “piano”, all’aperto. Quando la barca salpa c’è un vento che mi pare quello del Golden Gate tanto che, per fare la foto al carcere che si sta avvicinando, chiedo a Leonardo se mi mette le mani in testa per tenermi fermi i capelli. Che scena! Mi giro verso la città ma il tempo oggi è veramente impietoso ed i grattacieli sono purtroppo ricoperti dalla nebbia. Arriviamo all’isola: qui tutte le strutture che componevano la prigione sono fatiscenti e questo accentua l’aspetto sinistro del posto. Compriamo una cartina per due dollari ma se ne poteva benissimo fare a meno visto che la vera visita dell’isola è alle celle. Entriamo nella prigione dove ci danno le cuffie per l’audio tour. Avevo letto su internet di persone che consigliavano questo tipo di tour; noi l’abbiamo provato e siamo rimasti contenti. Io di più perché ho scelto quello in lingua italiana, Leonardo un po’ meno perché ha scelto l’inglese, ma un po’ di cose se l’è perse per strada. La visita è stata interessante: le celle sono allo stato originale e quindi orribilmente piccole, sudice e scomode. L’audio tour è composto dal narratore che ti dice dove devi andare, quando fermarti per sentire il racconto, quando proseguire; le sue descrizioni sono intervallate da racconti di carcerati e guardie originali. Quasi tutti visitano il luogo con questo tour: a vederci da fuori dovevamo avere l’aspetto di automi! La cosa curiosa che mi ha colpito è che, nella versione italiana, il narratore parava un italiano perfetto mentre i carcerati… parlavano con accento siciliano. Roba da matti! Alla fine del tour siamo di nuovo persone normali che possono andare dove vogliono e noi decidiamo di andare al cortile nel quale i carcerati si godevano l’unica ora d’aria della giornata. C’è un vento forte, ma talmente forte che spesso ti sposta e che in confronto quello del Golden Gate sembrava brezzolina. Alle 19.00 siamo di nuovo sulla terra, al Pier 39. Un giro tra i negozi e la fame comincia a farsi sentire. Allora decidiamo di andare a cena al messicano, che ieri ha perso il ballottaggio. Individuato il ristorante sulla Mission Street, comincia la mission impossible del trovare parcheggio. Gira gira lo troviamo proprio di fronte al ristorante. Ristorante? ma no, è una taqueria, alias fast food pieno di gente. In verità sulla guida c’era scritto che era una taqueria, ma chi l’ha mai vista una taqueria? Il morale comincia a scendere in direzione ginocchia: non abbiamo voglia di fare a cazzotti per accaparrarci chissà quale delle settecento cose scritte piccine piccine sul menu appiccicato al muro. Cerchiamo perciò un altro messicano (un ristorante, non uno col sombrero) muovendoci a piedi nella zona (guai a spostare l’auto), che ne è piena. Peccato che è anche pieno di ragazzi di colore un po’ rumorosi… per carità, non ci sarà stato pericolo, ma l’atmosfera non ci piace e, dopo un’occhiata di approvazione, facciamo il dietro-front. Saliamo di nuovo in macchina, via di qui e al diavolo le taquerie. Al messicano (sempre il ristorante) non vogliamo però rinunciare e, cerca cerca, finiamo in uno proprio vicino all’albergo. Non è fra quelli consigliati dalla guida ma è buono e per niente caro, soprattutto se dimenticano di metterti le birre in conto! Finita la cena, tutti a casa! Non appena varchiamo la porta dell’albergo mi si spenge la corrente e, in preda ad un sonno più che colossale, andiamo a letto.
Martedì 23 agosto – da San Francisco a Yosemite National Park Stamani sveglia alle 8.00; ci alziamo un po’ più tardi e cominciamo a raccattare tutto ciò che è a giro nella stanza e ad infilarlo in valigia. Dopo la colazione, stavolta tradendo Starbucks per il Chestnut Bakery, lasciamo la camera; chiamiamo casa per rincuorare i genitori: i miei mi mettono anche in vivavoce così sento la mia mamma che ragiona con il sottofondo dei mille “ciao!” del mio babbo, tutto contento perché, dopo l’autorizzazione a fare razzia del nostro frigorifero, si è già fatto fuori “quelle cosine bianche tanto buone nella loro salsina”… alias gli agli sott’olio, di cui non sapeva neanche l’esistenza. Era felice come un bambino!! Prima di partire facciamo anche il pieno, nonostante che a San Francisco abbiamo macinato poco meno di 100 miglia.
Il tempo è migliore rispetto ai giorni passati ma fa comunque freschino. Io sono in pantaloni lunghi, felpa leggera e giubbotto di jeans. Partiamo alle 11.30 in direzione Bay Bridge, poi la 580 fino a Tracy, poi la 125 fino a non mi ricordo dove, poi la 99 fino a Merced. Uscendo dalla città le strade sono veramente grandi: almeno quattro corsie per parte. Man mano che ci si allontana dalla città le corsie diminuiscono fino a diventare strade a noi familiari. Ci fermiamo intorno alle 13.30 per mangiare un boccone al Mc Donald’s. Al fast food assistiamo al boicottaggio del pollo grigliato: in pratica, ai tre clienti che lo hanno richiesto è stato dato il crispy chicken che sempre pollo è ma che di grigliato non ha proprio nulla. Il primo ha protestato mentre gli altri due, dopo aver realizzato l'”errore”, hanno mangiato il crispy. E indovina? Tra questi c’ero anch’io! ma non ho protestato visto che la mancanza del grigliato ha fatto arrabbiare la parte salutista di me, mentre la presenza del crispy ha accontentato la mia gola. Poggio e buca fa pari e chi se ne frega! Risaliamo in macchina e il viaggio prosegue lungo la strada per Mariposa, la 49 per Oakhrust e la 41 per Yosemite, al suono di Rolling Stones, Small Faces e Smashing Pumpkins. Così facendo arriviamo all’entrata del parco. Acquistiamo il National Park Pass: per 50$ possiamo girare per un anno in tutti i parchi nazionali americani. Il nostro obiettivo di oggi è visitare Mariposa Grove, dove si trovano le sequoie, ed il Glacier Point, per poi arrivare all’entrata ovest e quindi alla città di Mariposa, in cui ci attende la camera al Super 8.
Arrivati a Mariposa Grove abbiamo due possibilità: visitare la zona a piedi oppure con un trenino organizzato. Io voto per la prima visto che anche il clima è ideale: ora siamo in pantaloncini e maglietta, non c’è vento (un sogno!) e non fa troppo caldo. E poi come si fa a non fare una passeggiata in questo bel bosco? E Leonardo che ne pensa? Boh!? Comunque vinco io e alle 16.30 comincia la scarpinata. Ci sono vari sentieri che possiamo fare e che ci conducono alle sequoie più significative; quelle più grandi sono nel punto più lontano dal parcheggio (e ti pareva!) che dista un po’ meno di due miglia. Cominciamo a camminare: vediamo il Fallen Monarch (una sequoia caduta di cui si vedono tutte le radici), la Bachelor e le tre grazie, il Grizzly Giant (la sequoia più grande del parco) e il California Tunnel, una sequoia che puoi attraversare camminandoci sotto. Questo è il Lower Grove: abbastanza veloce da visitare, segnalato non benissimo ma decentemente. Adesso comincia il dramma: sono ormai le 17:15, decidiamo di modificare il piano assai ottimistico che avevamo studiato (nuova!) e di non andare al Glacier Point ma di rimanere qui e camminare fino a raggiungere Upper Grove, zona in cui, tra le altre, ci dovrebbero essere le sequoie più grosse del parco, per una bellezza di 8 metri di diametro alla radice. Arriviamo ad un bivio, seguiamo la strada indicata dal cartello che dovrebbe essere lunga un miglio e cento. Camminiamo, camminiamo e ancora camminiamo… anche di buon passo. Arrivano le 17:50 e ci chiediamo: 1) ma non finisce più questo sentiero? 2) a che punto siamo? 3) e le sequoie giganti dove sono finite? Qui non c’è più nulla! Si perché è vero che a camminare in salita sembra di fare più strada di quanta realmente se ne faccia, ma non c’è neanche un cartello intermedio che ti dice a che punto sei! Sono già le 18.00, c’è da ritornare al parcheggio, fra poco farà buio. Invertiamo la marcia e ritroviamo il cartello di prima, seguiamo per il parcheggio ma ci pare che la strada vada da tutta un’altra parte. Anche qui niente indicazioni intermedie. Insomma, tra andare in su e in giù, guardare una cartina disegnata male, seguire un cartello sbagliato, tirando qualche accidente riusciamo a ritrovare il parcheggio alle 19.30, dopo aver camminato per chissà quante miglia, altro che due! Consoliamoci con le cose positive: oltre a vedere altre sequoie giganti molto belle (Faithful Couple e Clothespin) ci siamo visti anche un po’ di “wildlife”, ossia cerbiatti e scoiattoli. Ormai il buio è alle porte e allora decidiamo di arrivare a Mariposa uscendo dal parco e rifacendo la strada di oggi pomeriggio a ritroso. Le miglia, tra spostarsi dentro il parco o uscire fuori, sono più o meno le stesse, cambia però il limite di velocità (fuori 55 miglia all’ora, dentro 45), quindi dovremo fare prima. Più o meno dovremmo essere a Mariposa alle 21.00, giusto per fare il check-in all’albergo, lasciare i bagagli e andare a cena. Ci mettiamo in viaggio, dopo un po’ incontriamo Oakhurst dove ci sono dei lavori: stanno rifacendo la strada. Ci sono quindi dei tratti a senso unico alternato che passiamo rapidamente. Sono le 20 passate. La strada qui è “grattata”, cioè pronta per essere riasfaltata, cosa che oggi pomeriggio non era. “Hanno fatto tutto stasera”, commentiamo e andiamo avanti. Dopo un po’ la strada diventa più larga e più trafficata, “accipicchia quanta gente c’è a giro!”, commentiamo nuovamente. Dopo un po’ decidiamo di accendere il cervello: “come mai non ci sono più montagne intorno a noi?” E qui il dubbio ci assale, prendo la cartina e in quel momento, solo allora, mi ricordo che oggi pomeriggio da Mariposa avevamo girato per Oakhurst, e stasera invece siamo venuti diritti. La cartina ci dà la conferma: stiamo andando verso Fresno. Oh cavolo, abbiamo sbagliato strada! E neanche di poco visto che, dopo aver fatto inversione, un cartello ci indica che mancano 29 miglia al bivio… ahh! Di certo noi abbiamo dormito nell’ultima mezzora ma anche questi californiani sarebbero da attaccare al muro! Nel senso che quando prima ho scritto “un cartello”, “un” era inteso come articolo determinativo, visto che quella è l’unica indicazione presente. E va beh, ci rassegniamo e torniamo indietro, stimando per le 23.30 l’arrivo all’albergo, cena stavolta inclusa. Che giornata! Ma non è ancora finita… dopo miglia su miglia arriviamo finalmente a Oakhurst dove ci fermiamo a fare benzina. Il benzinaio, che sta chiudendo la baracca, ci avvisa: “ehi, avete vinto un lavaggio dell’auto, volete farlo?” Per carità, di lavare la macchina ora proprio non se ne parla, però che sfiga non poterlo sfruttare! Decidiamo di mangiare qui e ci fermiamo da Pizza Factory che per fortuna chiude tra meno di un’ora. Ordiniamo due pizze, difendendoci dagli attacchi di uno straniero che ci voleva spudoratamente passare avanti, al punto che anche la cassiera gli dice “ci sono prima loro!”. Noi lo scrutiamo un po’ e capiamo che… è italiano! Non ho veramente parole! L’aspetto delle nostre pizze è invitante. Io tutta affamata prendo il primo boccone e… ahh! Rimango ustionata! Ma a quanti milioni di gradi è questa roba? La mozzarella (o quello che sembra essere tale) è talmente spessa che il pomodoro che sta sotto pare sia lava, non si raffredda mai! Finito di mangiare sento pezzi del palato crollare e allora mi riprendo un po’ con il ghiaccio della Coca Cola. Riprendiamo il viaggio, stavolta il bivio non ci frega e, dopo un po’, arriviamo a destinazione. Mamma mia, non mi sembra vero! Saliamo in camera che è molto carina, più accogliente dell’Econolodge dei giorni passati; il costo è di 103$. C’è un unico inconveniente: il caldo soffocante. E che problema c’è, basta accendere l’aria condizionata… seee, funzionasse! Non va neanche a pigiarla. Chiamiamo in aiuto il tizio dell’albergo che, con la sola forza delle braccia, fa rifunzionare l’attrezzo. Un mito! Io mi metto a scrivere il diario, Leonardo a contare quante centinaia di miglia faremo domani e poi andiamo a letto dopo aver fatto una bella doccia. Sono le tre del mattino.
Mercoledì 24 agosto – da Yosemite alla Death Valley Stamani giù dal letto alle 8.30, sistemiamo le valigie e via, alla ricerca della fondamentale colazione. Prendiamo la macchina per fare un rapido giro di quello che Mariposa offre. In pratica, come tutte le cittadelle americane posizionate a anni luce dalle metropoli, il tutto si concentra su una via principale, che poi è l’autostrada che l’attraversa. Sui due lati della strada si possono trovare benzinai, ognuno col loro mercatino, alberghi e negozietti vari. Esplorare Mariposa si rivela una attività molto veloce e, dopo aver percorso due volte la strada principale, in un senso e poi nell’altro, ci fermiamo nell’unico posto appetibile che è la fruit-nut company. In pratica si tratta di un piccolo bar che vende ogni tipo di frutta secca da esso prodotto.
Il locale è mignon, veramente carino. La moglie del barista, dotata di marsupio con bambino annesso, ci porta, dopo qualche minuto, i cappuccini e i due dolcetti. Qui si fa tutto in famiglia! Di sicuro il bimbo non piangerà perché vuole essere tenuto in braccio o perché vuole muoversi! Ritorniamo all’albergo per il check-out poi passiamo al supermercato per comprare i panini ed il prosciutto per il pranzo e per fare scorta d’acqua: stasera saremo in pieno deserto.
Questo è il nostro programma (di nuovo, ovviamente, ottimistico) di oggi: – arrivare di nuovo al parco di Yosemite (stimato in 45 minuti) – vedere le cose più belle della Yosemite Valley (stimato in 2 ore) – andare all’uscita est del parco (stimato in 1 ora e mezzo) – decidere se fare una scappata a visitare il Mono Lake (stimato in 30 minuti) – raggiungere Furnace Creek, nella Death Valley (stimato in 5 ore) …Della serie: basta una sosta un po’ più lunga alle toilette per far saltare tutto. Presupponiamo quindi che partendo alle 10.30 arriveremo all’albergo nella valle della morte alle 20.00.
Partiamo alle 10.45 (bene, già in ritardo!) e, dopo i tre quarti d’ora previsti, varchiamo la Arch Rock Entrance di Yosemite, chiamata così perché a pochi metri da essa ci sono delle rocce che formano un arco sopra la strada. Ci fermiamo quasi immediatamente, affascinati dal Merced River, il fiume che già da qualche miglia fiancheggia la strada che stiamo percorrendo. Il paesaggio è da cartolina, ci troviamo di fronte alla classica immagine delle foreste americane: boschi verdissimi, montagne come cornice ed un fiume incredibilmente trasparente che invita qualche turista a farci il bagno. Iniziamo a visitare la Yosemite Valley, la parte del parco che offre più cose da vedere nel giro di poche miglia. E cominciamo con El capitan, un enorme masso definito il monolito in granito più grande del mondo (ma non era Ayers Rock in Australia? Boh!). In effetti è veramente imponente, anche fargli una foto non è molto semplice. Proseguiamo per le Yosemite Falls, la cascata più alta del nord-america (qui tutto è un primato) con 700 piedi di caduta tra la parte superiore (upper) e inferiore (lower). Parcheggiamo la macchina e ci concediamo i venti minuti di passeggiata per andare a vedere le lower più da vicino. Bello, non c’è che dire. L’acqua alla fine della cascata è trasparente e a me, con questo caldo, viene tanta voglia di infilarci i piedi dentro, come fanno un sacco di turisti. Ma non abbiamo tempo e allora proseguiamo. Incontriamo l’Half Dome e poi, dopo un pochino, le Bridalveil Falls. Queste cascate sono veramente uno spettacolo in quanto, in corrispondenza della caduta, il vento è forte e fa sì che, a volte, l’acqua non arrivi nemmeno in fondo ma si trovi sviluppata in diagonale. E questa nuvola d’acqua in continuo movimento sembra proprio un “bridalveil”, ossia un velo di sposa. Naturalmente l’effetto velo non funziona se c’è un turista che lo vuole riprendere o fargli una foto. E così non so quanto tempo siamo stati lì, cercando di immortalare questo effetto. Ma chi la dura la vince, alla fine ce la facciamo e quindi possiamo ultimare il giro panoramico felici. L’ultima tappa è la Tunnel View, in pratica la vista, molto bella, della Yosemite Valley. Qui chiediamo ad un signore attempato di farci una foto; lui ci fa lo scatto da un metro di distanza… ehm, scusi, è sicuro di averla fatta bene? Il dubbio viene anche a lui. Ci chiede se ce ne può fare un’altra e noi acconsentiamo dicendogli che può andare un po’ più indietro. Lui ci va ed esclama, sorpreso, “oh, così è molto meglio”! Pranziamo alle 14.00 nel parcheggio con i panini acquistati stamani al supermercato; poi dichiariamo conclusa la visita di Yosemite, in clamoroso ritardo con il nostro ottimistico piano. Anche il viaggio verso l’uscita del parco offre paesaggi molto belli (quasi inutile dirlo) e, ad una altitudine di 9900 piedi (3300 m), ovunque si guarda il paesaggio è roccioso e si possono contare uno per uno i pochi alberi. Parcheggiamo in un punto in cui si può esplorare un po’ la zona. Uno spettacolo: a perdita d’occhio ci sono solo enormi rocce bianche. Questo posto mi piace da morire, è in cima alla mia classifica delle meraviglie di questo parco. Monto sopra un sassone, mi ci metto lì e penso a non so quante ore potrei stare appollaiata in questa posizione a guardare il panorama senza annoiarmi. Dall’uscita est del parco alla Death Valley ci corrono più o meno 250 miglia. Abbandonato Yosemite, per la strada mi studio un po’ quello che il lago Mono Lake ci può offrire e realizzo che per visitarlo non dovremmo perdere tantissimo tempo, visto che il “must-see” del posto è a poche miglia da qui. E così, con la filosofia del “chissà quando ci si ritorna se ci si ritorna” decidiamo di andarci. Arriviamo a South Tufa dove, dopo una breve camminata, siamo sulla riva del lago. La particolarità di questo luogo è data da una serie di formazioni saline, più o meno grandi, che spuntano sia sulla riva che sull’acqua. Ci concediamo un quarto d’ora di passeggiata, qualche foto e ci godiamo l’assoluto silenzio di questo posto. Ore 17.45, si riparte ma stavolta con una novità: guido io! Pilotare la super-macchina è veramente un gioco da ragazzi, è tutto automatico! Anche troppo, visto che ancora non abbiamo capito come fare ad accendere i fari quando la macchina decide di tenerli spenti… bah! (ndr: qualche giorno più tardi scopriremo che i fari stanno sempre accesi).
Percorriamo quindi la 395 highway, una strada definita “scenic route”, ossia strada panoramica, visto che costeggia la Sierra Nevada, offrendoci quindi altri paesaggi montani da ammirare. C’è solo un piccolo particolare: il sole sta calando e la Death Valley è ancora lontana… ci arriveremo con il buio e questo un po’ mi fa girar le scatole, visto che pensavo di godermi, con la luce del tramonto, il tratto che dall’inizio del parco porta a Furnace Creek. Va beh, pace, d’altra parte più di così era difficile fare.
Sono le 20.00 e ci fermiamo a Lone Pine per il pieno di benzina e per comprare un pacchetto di crackers, sperando vivamente che arrivati all’albergo ci sia ancora qualche locale aperto in cui ordinare una cena decente. Un cartello ci annuncia che stiamo entrando nel parco e che stiamo percorrendo (ancora) una “scenic route”. Quando si dice rigirare il coltello nella piaga… Il buio è ora praticamente totale e non si vede un accidente: le uniche sorgenti di luce sono i catarifrangenti sulla strada ed i fari della nostra auto. Il cielo deve essere veramente spettacolare e a me, che le stelle fanno un effetto particolare, viene voglia di scoprirlo un po’, ma non è proprio il caso visto che sto guidando. L’unica costellazione che riesco a vedere è l’unica che conosco, l’orsa maggiore, che sta proprio di fronte a noi quasi ad indicarci dov’è la strada da seguire.
La Death Valley è definita dal National Park Service il più grande, il più caldo e il più profondo parco degli USA: me la ero sempre immaginata come una pianura infinita, con la terra che reclama acqua e con pochi arbusti qua e là, con una strada diritta che l’attraversava senza mai una curva. E invece è tutto il contrario! In effetti bastava rifletterci un po’: una “valley” non è una “valley” se non ci sono le montagne intorno, e qui di montagne ce ne sono parecchie da attraversare prima di arrivare al nostro albergo! E quindi la strada è tutto un salire (fino a 5300 piedi, leggeremo più tardi) e scendere a suon di curve e tornanti. La discesa è ancora più impegnativa perché presenta una pendenza del 7,5%. In pratica freni per fare una curva stretta e sulla curva, non frenando, riprendi immediatamente velocità, e che velocità! Insomma, è tutto un frenare! Benedette macchine automatiche, quanto ci starebbe bene il cambio manuale ora! In realtà anche con l’automatico ci sono delle marce ridotte, ma non voglio fare esperimenti in un posto del genere… Insomma, prima 11 miglia così, poi di nuovo salita e poi altre 16 miglia di discesa mista a dossi; e siccome la strada non era abbastanza difficile ci si sono messi anche una miriade di topi e due coyote ad attraversare la strada a pochi metri da noi… dico io, ‘ste bestie hanno a disposizione il parco più grande degli USA e proprio qui, mentre passiamo noi, una delle cinque macchine che abbiamo visto nelle ultime due ore, in questo punto, devono attraversare la strada! Dopo le 16 miglia in discesa troviamo il cartello “Elevation Level Sea” ovvero “livello del mare” e poi continuiamo ad andare giù. Uau! Arriviamo finalmente a Furnace Creek, sono le 21:15 e siamo a -190 piedi (-60 metri) rispetto al livello del mare. Pensare che cinque ore fa eravamo a 9900 piedi (3200 metri)! Incredibile! Fortunatamente il bar del ranch è aperto fino alle 22.00, quindi si allontana definitivamente il timore di cenare a crackers. Io, nonostante la storia del buio che, sono convinta, ci ha privato di un altro bello spettacolo, mi sento al settimo cielo non solo perché oggi abbiamo visto un sacco di cose, non solo perchè siamo nella Death Valley, che già il nome è tutto un programma, ma anche e soprattutto perché ho guidato in questo posto in un tragitto non proprio semplice. Insomma, mi sembra di aver compiuto chissà quale impresa! Mi sento proprio lo Schumacher della situazione. Andiamo al bar a mangiare cibo preconfezionato mooolto caro ed io per festeggiare mi prendo anche una birra media che mi scolo interamente nel giro di pochi minuti! Risultato: pare che mi abbiano messo la testa su un’altalena, accidenti, non ho neanche il fisico per reggere una birra media! In che condizioni! Sarà meglio andare a letto visto che, oltre ad essere piuttosto stanchi, domani c’è anche da levarsi presto per visitare la valle e andarsene via il prima possibile, dato che non è consigliabile stare qui durante le ore più calde del giorno. p.S. Per dare un’idea qui alle 23.00 la temperatura equivale più o meno a un 13 agosto a Firenze alle due del pomeriggio. Niente male, chissà domani! P.S. (2) prima di ritornare in camera finalmente possono dare un’occhiata al cielo magnifico in cui si intravede, nonostante le luci del ranch, anche la via lattea. Cosa volere di più? Spettacolo emozionante.
Giovedì 25 agosto – Death Valley e Las Vegas Dopo esserci recati al Visitor Center per farci consegnare un tagliando che ci dà il diritto di scorrazzare liberamente per il parco, comincia alle 8.00 l’esplorazione di questo posto: la Death Valley è un luogo dalle mille sorprese ma, fortunatamente, madre natura ha pensato anche ai turisti ed ha fatto sì che le cose più incredibili siano a poche miglia di distanza tra loro; poi è arrivato l’uomo che ha costruito una strada che le collega. Partiamo quindi dalla fine di questa strada, dove si trova Badwater, luogo in cui si presenta la depressione più forte degli Stati Uniti (un altro primato!): qui siamo a 85.5 metri sotto il livello del mare. Il punto, contrassegnato da un cartello, sorge in corrispondenza di ciò che rimane di un lago salato, prosciugatosi chissà quante migliaia di anni fa: una distesa di sale per un tratto della quale ci si può camminare anche sopra.
In questa pianura immensa, circondati in lontananza dalle montagne, immersi nel silenzio totale, siamo completamente soli: è una sensazione bellissima, ci si sente… vivi. Il forte vento, abbinato al sole impietoso che picchia duro già a quest’ora, mi fa sentire la pelle bruciare, è veramente caldo. Fortunatamente non è umido, per cui si può dire sopportabile, anche se la sensazione che ho è di non avere tutta l’aria che mi serve: respiro, ma non mi basta, e poi sto sempre attaccata alla bottiglia dell’acqua. Dopo una camminata nel sale ritorniamo alla macchina e, nei pressi del cartello, troviamo un motociclista solo soletto, ancora con il casco addosso, che sta tentando di fare una foto all’indicazione e ad un pezzo di stoffa, che riporta il numero 10… sembra il numero che identifica il partecipante di una gara. A causa del vento il tizio si trova in difficoltà e allora viene da me e mi chiede, in un pessimo inglese, di fargli da valletta: tutto contento il giapponese mi fa la foto accanto al cartello, ci ringrazia calorosamente, ritorna alla moto a scrivere non so che cosa in un foglio e riparte. La scena è durata un minuto, talmente veloce che non ho fatto in tempo a chiedergli per quale motivo avesse bisogno di quella foto: chissà magari era il concorrente n. 10 di una gara tipo “il turista motociclista”! Lasciamo divertiti Badwater e, durante il tragitto, realizziamo che alcuni dei luoghi che la guida definisce imperdibili (Artist Drive e Devil’s Course) non sono visitabili in quanto la strada di accesso è chiusa. Non sappiamo esattamente quale sia il motivo; dalle ricerche via internet fatte da casa ci pare però di ricordare che l’anno scorso ci siano stati degli allagamenti che hanno causato molti danni… ma come? Allagamenti qui alla Death Valley? Roba da matti! (ndr: il motivo, abbiamo verificato qualche giorno più tardi, è proprio quello).
Il dispiacere è alle stelle, soprattutto per l’Artist Drive che doveva essere una strada che fiancheggia rocce dai mille colori, ma poi ci rassegniamo (c’è altro da fare?) e cerchiamo di goderci il godibile.
Ci dirigiamo verso il Golden Canyon saltando il Natural Bridge, nonostante fosse visitabile. Per ammirare questo “ponte naturale” oltre a 1,5 miglia di strada sterrata è necessario percorrere anche un miglio a piedi per raggiungerlo e altrettanto per tornare indietro. E’ troppo caldo ed io non me la sento di camminare sotto questo sole. Il Golden Canyon è invece, come dice il nome, un canyon immerso in rocce color oro. La passeggiata qui è più breve e decidiamo di farla, ma ritorniamo alla macchina ancora prima del previsto: nonostante il percorso sia pressoché in piano, io ad ogni passo mi sento il fiatone, la sensazione di avere un macigno sullo sterno e la testa che mi cuoce, camminando di conseguenza alla velocità di una tartaruga. In macchina l’aria condizionata e una “sorsata” d’acqua degna di un cammello si rivela un ottimo antidoto, e così mi riprendo velocemente (p.S. Mi devo ricordare di togliere questo paragrafo quando farò leggere il racconto alla mia mamma!). Tra l’altro mi stupisce il fatto che non ci sia alcuna differenza di temperatura tra l’interno dell’auto ormai da ore sotto il sole e l’esterno… Con tutti questi inconvenienti, siamo già all’ultima tappa del Death-Valley-Tour: Zabriskie Point, ossia un punto panoramico semplicemente favoloso, un’occhiata nella valle con il Golden Canyon da una parte, altre montagne “colorate” dall’altra e la distesa di sale in lontananza. Uno spettacolo mozzafiato, una tavolozza a base di bianco, giallo, marrone, rosa e un intenso azzurro del cielo, che scaccia un po’ di amarezza per quello che non abbiamo potuto visitare. Sono le 11.30, cominciamo a levare le tende dopo il tentativo di andare a Dante’s Peak, fallito sul nascere perché anche qui la strada è chiusa. Peccato che siamo stati così poco tempo qui e peccato anche per ieri sera, ma comunque le cose più belle del parco ci sono toccate, quindi “tutto sommato” siamo contenti! Tra l’altro da ora in poi anche il viaggiare in macchina lascerà senza parole e non ci sarà mai nessuna foto o ripresa che renda l’idea di che cosa non è questo angolo della Terra.
Las Vegas dista da qui più di 80 miglia, quindi fra un’oretta e mezzo dovremmo esserci. Ci fermiamo per strada al Mc Donald’s di Parhump in cui ordino l’insalata. Stavolta mi danno quello che gli ho chiesto. Il viaggio prosegue guardandoci sempre intorno stupiti: miglia e miglia di solo deserto.
L’autostrada ci porta a Las Vegas Boulevard che percorriamo interamente fino a raggiungere il nostro albergo che è oltre lo Strip, ossia la parte di città in cui si concentrano i casinò. Las Vegas è caotica anche di giorno: già a quest’ora (sono le 16.30) c’è un bel traffico. Varcata la porta dell’albergo (BW Park Inn, 59$ per una camera carina, nuova, colazione inclusa) ci concediamo un po’ relax, stravaccandoci sul letto a studiare il giro di stasera e facendo una bella doccia. Sono le 19:15, i casinò ci aspettano! Lasciamo la macchina al parcheggio dell’Excalibur (immenso e gratuito): l’obiettivo è arrivare fino al Treasure Island o al Venetian, includendo anche la cena, la vista dalla Eiffel Tower del Paris e una puntata al casinò. E così, muniti di cavalletto per fare le foto di notte, comincia lo “Strip Tour”. Vediamo: – Il Luxor, in tema egiziano: dicono che è uno dei più belli ma a noi ci colpisce il giusto anche perché ci sembra, rispetto agli altri, avaro di luci – l’Excalibur, che è stato per qualche anno l’albergo più grande del mondo. E ti credo! Praticamente il castello medievale che lo compone è racchiuso in quattro palazzoni giganti che costituiscono l’hotel, per un totale di 5000 camere – il New York New York, dove ci si può trovare la statua della libertà, Ellis Island, il Chrysler Building, l’Empire State Building e il Ponte di Brooklin – la Food Court che non è un albergo ma che è uno dei tanti posti dove poter cenare spendendo poco, anche sullo Strip. Qui scegliamo un fast food messicano e per 15 dollari ce la caviamo – il Paris in cui entriamo per salire sulla Eiffel Tower, alta la metà di quella vera. Dentro il casinò è enorme e curioso: il cielo è dipinto nel soffitto ed ogni angolo ricorda qualche cosa di Parigi. Saliamo sulla torre e lo spettacolo è… luminoso, ovviamente. A parte lo Strip, fino all’orizzonte si vedono migliaia di luci e lucine e così sembra che anche la periferia di Las Vegas sembra più luminosa rispetto ad una normale città. E pensare che un milione di persone abitano qui, in pieno deserto del Nevada. Tra l’altro quest’anno la città festeggia i suoi primi cento anni e ovunque si trovano T-shirt con su scritto il gioco di parole “sin-tennial”: appropriato al posto, cosparso, tra l’altro, anche di bigliettini di “simpatiche” signorine “poco” vestiste. – Bellagio, di cui ammiriamo non solo da terra, ma anche dalla Torre Eiffel, i meravigliosi giochi di acqua e luce della fontane – The Venetian: riproduzione di Venezia che puoi visitare anche con un giro in gondola. Tra l’altro, entrando dentro, tutti i negozi, bar e ristornati sono all’interno di casine e quindi sembra proprio di camminare nella vera Venezia. Bene, questo è il capolinea: possono sembrare poche cose ma in realtà questi hotel/casinò/centri commerciali sono di dimensioni spropositate e per arrivare fino a qui non so quanto abbiamo camminato, ed i nostri piedi cominciano non poterne più. E dobbiamo ancora tornare indietro alla macchina! E’ mezzanotte e allora ci infiliamo in una delle migliori performance del cattivo gusto, ossia al Ceasar’s Palace, colosso in tema romano, per sfidare la fortuna. Giochiamo pochissimi dollari (solo 9!), giusto per il gusto di dire “ho giocato anch’io!” e per avere la soddisfazione di tirare giù, per una decina di volte di fila, il maniglione della slot machine. Giochiamo anche a Black Jack (sempre a quello alle macchinette), richiedendo la stampa di un buono per la vincita di pochi centesimi di dollaro, solo per metterlo nell’album delle foto! Ripercorriamo miglia e miglia sulla strada del ritorno e, con i piedi ormai incandescenti, saliamo in macchina per tornare all’albergo, dopo esserci fermati a vedere una delle tante cappelle dove ci si può sposare, anche questa veramente kitch. Entriamo in camera e sono le 2.00 del mattino.
Venerdì 26 agosto – Zion National Park Con quello che abbiamo pagato l’albergo, la colazione propone una limitata scelta di “donuts” (ciambelle) e fette di pane da tostare. Vada per queste e la sottoscritta, che stamani si sente cuoca, inserisce le fette nel tostapane. Gli do la via e intanto che si scaldano scegliamo marmellate e il da bere. Poi penso “certo che ci vuole parecchio a riscaldare questo pane”… mi affaccio sul tostapane e vedo la crosticina quasi nera. Ehm… guarda cosa c’è qui: un pulsante grosso grosso con scritto “STOP”! Ops… La solita imbranata! Tiro fuori il pane ormai carbonizzato e inserisco altre fette, con la cameriera che, dopo aver assistito alla scena pietosa, tocca l’aggeggio infernale e mi dice “ho abbassato la temperatura”. Che figuraccia! Consumiamo la colazione e ora siamo pronti per partire per una nuova avventura anche se… Non sappiamo che strada prendere per la prossima destinazione, Zion National Park. Allora andiamo al negozietto del benzinaio e, dopo il pieno, consultiamo una cartina: non dovrebbe essere difficile sbagliare, basta prendere la Interstate 15 che ci porta direttamente al parco. Partiamo alle 11.30; a Mesquite ci fermiamo per il solito pranzo; facciamo un po’ di conti e alle 15:30 dovremmo arrivare a destinazione. In realtà le 15:30 arrivano prima del previsto, dato che qui si cambia fuso orario e che siamo quindi a -8 ore dall’Italia invece che -9. Cavolo, questo vuol dire che arriveremo al parco alle 16.30. Non è giusto! E chi si immaginava / ricordava che qui c’è il cambio dell’ora, uffa! Va beh, arriviamo comunque all’entrata sud del parco, in corrispondenza della cittadina di Springdale nella quale abbiamo l’albergo che ci ospiterà stasera, ancora una volta Best Western. Entrati nel parco lasciamo la macchina al Visitor Center perché qui la visita nei mesi estivi, cioè quelli di maggior affluenza, può essere fatta solo tramite uno shuttle bus gratuito che si ferma nei vari punti panoramici. Comincia così la nostra visita: partiamo ancora una volta dall’ultima cosa da vedere per poi tornare indietro e vediamo: – Il canyon creato dal Virgin River; noi ci siamo concessi la passeggiata di un’ora e… inutile dirlo, questo paesaggio di rocce rosse ci è proprio piaciuto – Weeping Rock, raggiungibile in pochi minuti dalla fermata dell’autobus, una roccia che trasuda acqua e sembra che pianga… molto particolare – the Court of Patriarcs: tre cime imponenti una accanto all’altra (strano che non le abbiano chiamate “the three sisters”) Torniamo alla macchina, sono le 20.30. Ottima la scelta dell’albergo: si trova ai confini del parco ma costa molto meno rispetto a pernottare al suo interno (110$ per una bella stanza con due queen bed). Ci fermiamo a mangiare allo Switchback, ristorante del lodge, dove siamo serviti e riveriti: ci sembra quasi strano, dopo tre giorni di fast-food senza forchette! Dopo cena ci dedichiamo allo studio del parco: lungo la via dello shuttle ci sono altre cose da vedere che richiedono passeggiate e domani mattina, prima di partire per Bryce Canyon, le vedremo.
Sabato 27 agosto – Zion e Bryce National Park Stamani facciamo colazione in compagnia della guida di Bryce Canyon. Quello che leggiamo ci “ispira” tanto, ma talmente tanto che decidiamo di saltare le visite che ieri sera avevamo pensato di fare a Zion e di andare direttamente li. O meglio, ci godremo un altro punto di Zion, Canyon View, più comodo perché si trova sulla strada per il Bryce.
Per ammirare Canyon View ci vuole circa un’ora di cammino. La passeggiata in mezzo alle rocce è bellissima e il panorama non solo nel punto finale ma anche per la strada mi fa finire il quarto rullino da 36. E adesso… Bryce Canyon ci aspetta! Dopo esserci rifocillati con i panini presi al mercatino di Springdale e dopo aver passato il Red Canyon (che abbiamo ammirato velocemente solo dalla strada) arriviamo al parco in un paio d’ore. Anche qui è attivo il servizio degli shuttle per visitare il parco ma, a differenza di Zion, non è obbligatorio utilizzarlo e quindi noi rimaniamo a bordo della nostra macchina. Raggiungiamo la fine della Scenic Route del parco, a 18 miglia di distanza dal Visitor Center, e cominciamo a tornare indietro, fermandoci in tutti i punti panoramici, ossia: – Rainbow Point: da qui si ammira un panorama molto bello – Black Binch Canyon: altra vista molto bella su un “mini” canyon – Ponderosa Canyon: da qui si cominciano a vedere i pinnacoli di cui il Bryce è costituito e anche qui la roccia che li compone è multicolor: bellissimo! – Agua canyon, altro canyon con i pinnacoli di cui due, enormi, sfidano proprio le leggi dell’equilibrio. Ma come fanno a stare in piedi? – Natural Bridge: qui la roccia è a forma di ponte, appunto: uau! – Farview point: da qui, come dice il nome, la vista è di non so quante miglia e nei giorni di bel tempo si può vedere l’Arizona. In teoria bello, in pratica un panorama infinito ma senza nulla di particolare: evitabile – Bryce Point che insieme a Inspiration Point, Summer Point e Sunrise Point, sono i punti in cui si può ammirare l’anfiteatro, ossia il cuore del Bryce, la parte composta da infiniti pinnacoli di diversi colori. Imperdibile e meraviglioso! Stiamo qui fino alle 19.30, quando dei tuoni ci avvertono che forse è il caso di terminare la visita e riparlarne domani. Poi non ha piovuto, meglio così! Il nostro alloggio di stasera è il BW Ruby’s Inn praticamente all’entrata del parco, anche questo, quindi, molto comodo! Intorno all’albergo c’è un ristorante un fast-food, un general store, un benzinaio e due negozietti stile di souvenir in stile far-west. Tutta la vita che ci può essere è qui, il resto è a miglia e miglia di distanza. Se fossimo tornati prima dal parco avremmo avuto il tempo di vedere anche il rodeo, ma le bellezze del Bryce ci hanno incantato e allora… pace.
Domenica 28 agosto – Bryce Canyon e Coral Pink Sand Dune Dopo aver lasciato la stanza dell’albergo e bevuto il peggior cappuccino di questa vacanza, ritorniamo di nuovo al Bryce Canyon: stamani ci aspetta la camminata all’interno dell’anfiteatro, in mezzo alle migliaia di pinnacoli, chiamati “hoodos”. Lasciamo la macchina a Sunrise Point e cominciamo a scendere: sono le 11.15. Percorreremo il Queen’s Garden Trail per scendere nel canyon ed il Navajo Trail per risalire fino al Sunset Point, collegato al Sunrise con una passeggiata sul bordo.
Non ci sono parole per descrivere cosa sono queste 2,8 miglia. La passeggiata è assolutamente imperdibile tanto che se si hanno solo tre ore a disposizione per visitare il parco molto meglio spenderle qui che fermarsi nei Viewpoint di ieri pomeriggio. Per carità, anche questi sono ovviamente bellissimi, ma non c’è paragone con ciò che ci stiamo godendo stamani; non ci sono neanche tantissimi turisti e quindi molto spesso siamo solo noi tra i pinnacoli. La passeggiata si fa a naso all’insù, a stupirci di come la roccia è frastagliata, di come sono buffe le forme, di come sono variegati i colori. Praticamente è tutto un “bada lì”, “bada là”, “guarda su”! In alcuni punti i pinnacoli hanno anche un nome, derivante della forma della roccia: vediamo la regina, i due ponti e Wall Street, strettissimo passaggio alla fine del Navajo Trail. Risaliamo, facendo una bella sudata, ed eccoci di nuovo sul bordo; guardiamo per l’ultima volta l’anfiteatro dall’alto. Lo salutiamo tutti contenti, sono le 14.15 e ritorniamo al Ruby’s Inn per pranzare al fast-food, incredibilmente in orario con quanto avevamo previsto. La pizza e il fish & chips ci viene venduto e consegnato dalla cassiera più grassa che abbia mai visto. Talmente grassa che ogni passo è una sofferenza e il fiatone è una costante. L’America è anche questo… Diamo da mangiare anche alla nostra Chevrolet facendo il pieno di benzina. Sono le 15.15 e partiamo con destinazione Page; dopo qualche giorno, il volante ritorna a Leonardo. Per la strada, dopo Mt Carmel Junction, decidiamo di fare una deviazione di 12 miglia dalla 89 highway per andare a vedere il Coral Pink Sand Dune State Park (=Parco statale delle dune di sabbia rosa corallo). L’entrata costa 5 dollari, che paghiamo ad un solitario ranger; il parcheggio è vuoto, siamo soli davvero! Qui siamo a 6000 piedi di altitudine e fa un bel caldo, più caldo di quello che stamani abbiamo sentito al Bryce; anzi, più che caldo è il sole che qui senti bruciare sulla pelle, un po’ come alla Death Valley. Siamo di fronte a uno scenario che corrisponde alla definizione classica del “deserto”, in quanto formato da dune di sabbia. Su questo mini-Sahara si può camminare senza limiti, non ci sono sentieri predefiniti oltre i quali non si può andare. Ci si può venire anche con il fuoristrada o con la dune buggy a scorrazzare quasi liberamente. Noi non abbiamo né l’uno né l’altro e quindi ci concediamo l’esplorazione a piedi ed io mi diverto un sacco. Attraversiamo la prima parte, quella più vicina al parcheggio, tra cavallette che saltano di qui e di là e arbusti vari. Nonostante di sabbia ce ne sia parecchia non abbiamo ancora l’impressione di essere in un deserto vero e proprio, quindi ci dirigiamo verso le dune più grandi. Arriviamo ai piedi della prima: già meglio, anche se ci sono le tracce dei fuoristrada che mitigano la particolarità di questo posto. E allora via verso la “cima” della duna. Allo scomparire delle tracce delle macchine il mio entusiasmo aumenta: abbiamo tutto il parco per noi e, a parte le nostre voci, c’è solo il vento. Per il resto sabbia e montagne intorno: favoloso! E può sembrare stupido ma mi diverto a camminare sulla sabbia liscia, mi dà l’impressione di essere il primo essere umano a mettere piede in questo luogo; mi affascina il pensiero che ogni movimento che faccio, ogni direzione che prendo, rimarrà, anche se per poco, stampato nella sabbia. Continuiamo a salire sulla duna, ma dopo un po’ camminare è sempre più difficile: la salita diventa più aspra e si affonda sempre di più in questa sabbia color corallo. Torniamo quindi alla macchina, arrostiti come gamberi ma con un sorriso spalancato in faccia; dopo aver tolto un po’ di deserto dalla scarpe, il nostro viaggio riprende: sono le 17.30.
Lasciamo lo Utah per entrare in Arizona e qui stavolta le cose vanno a nostro favore: in Arizona il fuso orario è lo steso dello Utah ma non esiste l’ora legale per cui guadagniamo un’ora sulla tabella di marcia… alè! Arrivamo a Page passando sopra la diga di Glen che domani mattina vedremo meglio. La camera al Motel Six, per soli 53 dollari, è carina e pulita. Qui il cellulare ancora non prende e l’ultima volta che abbiamo comunicato col mondo è stato sulla strada per Zion da Las Vegas. Domani mattina compreremo una carta telefonica così, segnale o no, ci faremo sentire lo stesso. Dopo una doccia (impossibile non farla dopo la giornata di oggi!) andiamo a cena al Dam Bar dove si mangia la carne. Il locale è carino e rievoca il periodo in cui è stata costruita la diga. Dopo cena via all’albergo a rilassarci un po’.
Lunedì 29 agosto – Antilope Canyon e Grand Canyon Anche stamani partiamo con calma: dopo la colazione accompagnata da una navigata in internet e l’invio di qualche mail, compriamo al supermercato i panini che ci sfameranno a pranzo. Ci dirigiamo all’Antelope Canyon che si trova a poche miglia da Page. Siamo nella Navajo Nation, vale a dire una parte di USA completamente gestita dagli indiani. Che, senza offesa, sono un po’ sanguisughe, visto che prima ti chiedono 6 dollari a testa per parcheggiare la macchina e poi altri 15 dollari per visitare il canyon con una guida (obbligatoria). Porca miseria, in tutto fanno 42 dollari. Mica poco, soprattutto se si pensa che con 50 si compra il National Park Pass, con cui puoi entrare in tutti i parchi nazionali per un anno. Aspettiamo l’inizio della visita guidata che dura un’ora e venti e parte ogni ora. Noi dovremo attendere una ventina di minuti per la visita delle 13.00. Arriva quindi una indiana che guida un furgoncino con 14 posti a sedere sopra, 7 per parte. Quello è il mezzo con cui portano i turisti all’entrata del canyon. L’indiana ha scambiato il deserto per Monza e viaggia a tutta birra per le strade sterrate… bisogna reggersi se no qui si vola giù!! Tutto sommato la cosa è divertente, magari non consigliabile a chi soffre di mal di schiena ma tanto, dopo 10 minuti, arriviamo a destinazione. L’Antelope Canyon è una insenatura molto stretta, tanto che in alcuni punti bisogna camminarci in fila indiana (appunto!). La roccia è levigata e striata, tanto bella che pare una scultura. La bellezza di questo canyon è data anche dalle poche fessure dalle quali filtra la luce: l’ora migliore per visitarlo è tra le 11.30 e le 1.00, quando il sole a picco filtra nel canyon e lo illumina risaltando i colori della roccia. Noi eravamo fuori orario e quindi il canyon, in alcuni punti, risultava quasi completamente buio. L’indiana si definisce “guida”, ma tale attributo è decisamente esagerato: l’esordio con “questo canyon si chiama così perché una volta c’erano le antilopi” mi fa subito sconnettere il cervello, tanto non mi perdo nulla. La tizia, dopo poche altre frasi, ci lascia scorrazzare fino alle 14.00, ora in cui ci riporterà, con l’attrezzo infernale, al parcheggio. Mangiamo il nostro panino al parcheggio degli indiani (almeno così hanno un senso ‘sti 6 dollari che abbiamo pagato!) e ripartiamo: sono le 14.40 e la nostra prossima destinazione è il Grand Canyon.
Ci arriviamo, percorrendo tutta la 89 South, intorno alle 16.45. Entriamo dalla parte est per poi uscire, stasera, da sud in corrispondenza di Tusayan, il paese dove alloggeremo al Red Feather Lodge. Lungo la strada ci sono alcuni Viewpoint: noi ammiriamo il panorama da Desert View, Navajo Point, Lipan Point, Moran Point e Grandview Point. Lo spettacolo è bellissimo, imponente. Ci si sente veramente piccoli di fronte ad una cosa del genere. Peccato solo per la luce; calando il sole dà risalto ai colori della roccia di una parte del canyon mentre tutto il resto è contro sole quindi si vede niente. Siamo un po’ cotti e allora alle 19.00 ci ritroviamo già stravaccati sul letto dell’albergo a riprenderci un po’ prima della cena che faremo al Tusayan Cafe, ristorante dell’albergo. Qui ordino una omelette, che si rivelerà la più grossa frittata che abbia mai visto. Alta due dita, occupava mezzo piatto.. Ma quante uova avranno impiegato per farla? Meglio non chiederselo e mangiare; Leonardo si gode un bel pezzo di carne e in tutto fanno 38$. Ritorniamo all’albergo e via, a letto, a ricaricare le pile per domani.
Martedì 30 agosto – Grand Canyon Stamani niente check-out, questa è una delle poche tappe in cui stiamo più di un giorno in un albergo. Sveglia alle 8.30, già dal letto per sfruttare la colazione gratis che viene servita dal lodge fino alle 9.30. Così ci facciamo fuori due ciambelle, due yogurt e due spremute d’arancia. Torniamo in albergo, accendiamo il telefono e… incredibile! C’è segnale! Ne approfittiamo per qualche telefonata e poi… di nuovo al Grand Canyon. Stamani vedremo il Mather Point e poi una serie di viste raggiungibili solo con lo shuttle bus gratuito. La vista da Mather point è superba e soprattutto i colori del canyon sono diversi da quelli di ieri, che magie che fa la luce del sole! Qui usciamo dal classico percorso segnato e andiamo su una roccia che sporge un po’ dal bordo del canyon… uau.. Stare in piedi qui fa un po’ impressione, sembra di essere sospesi nel nulla! Raggiungiamo il Grand Canyon Village, luogo in cui si trovano i resort del parco, dopo una passeggiata di due miglia e mezzo… la prima parte di questa passeggiata è bella perché è sul bordo del canyon e quindi camminiamo ammirando lo spettacolo alla nostra destra; la seconda parte sa di poco visto che da qui il canyon non si vede. Non siamo stati molto furbi, visto che, non essendoci tanta gente, potevamo a cercare parcheggio un po’ più vicino al Village e quindi prendere in tempi più rapidi l’autobus. Va beh… La camminata in realtà si rivela ben più lunga di due miglia e mezzo, visto che per trovare la fermata della linea rossa dovremo girare tutto il village: proponiamo un corso di formazione sull’utilizzo di cartelli e segnali agli americani. Finalmente ce la facciamo, saliamo sull’autobus e ci fermiamo a Powell Memorial, Hopi Point, Mohave point, The Abyss, Pima Point e Herman Rest. Viste spettacolari, anche se di poco diverse una dall’altra: d’altra parte tutta questa strada non è altro che una piccola parte di questo canyon. Comunque, bellissimo.
Visitiamo anche Yapi Point utilizzando la linea verde. Qui incontriamo un tizio che cerca minuziosamente col binocolo i suoi amici Amish che sono impegnati nell’attraversamento del canyon. Ci racconta di essere cresciuto in questa comunità e di esserne venuto fuori appena compiuti i 18 anni (e ci credo!, penso io). Infatti mentre loro, che non concepiscono le tecnologie moderne, stanno attraversando a piedi il canyon, lui ha pensato bene di arrivare dall’altre parte del canyon con l’auto, e adesso li sta aspettando. Il tizio è veramente buffo, non sta un attimo zitto e ad ogni frase ci abbina una bella risata, tutto da solo. Ci chiede da dove veniamo, gli rispondiamo “dall’Italia” e lui “parlate italiano?” “No, parliamo svedese” ci sarebbe stato da rispondergli. E lui.. Una risata e via… che personaggio! Ritorniamo a Tusayan, dove compriamo qualche souvenir al general store. Torniamo all’albergo, cena al solito ristorante di ieri sera e via, domani ci aspetta un’altra super giornata.
Mercoledì 31 agosto – Monument Valley – Muley Point Sveglia alle 7.30, oggi di cose ne abbiamo da vedere: oltre alla mitica Monument Valley, nella zona ci sono anche Muley Point e il Gooseneck State Park. Non sappiamo se riusciremo a vedere tutto perché servono tre ore di auto per andare a Kayenta e perché, anche oggi, la complicatezza degli essere umani giocherà a nostro sfavore visto che l’ora legale, non prevista in Arizona, è invece presente nella Navajo Nation: un’ora è quindi già persa in partenza.
Va beh, vediamo come va la giornata. Sveglia alle 7.30, dicevo, sistemiamo le valigie, una veloce colazione e poi bye bye Tusayan: ultima fermata al general store, giusto il tempo di comprare due tramezzini e poi si parte alle 9.30. Dovremo tornare indietro sulla 89, il che significa riattraversare Grand Canyon. Decidiamo di fermarci di nuovo a Desert View per salutare questo spettacolo della natura e vedere com’è la vista con la luce del mattino. La vista è sicuramente migliore rispetto all’altro ieri sera ma comunque i colori rimangono molto chiari all’orizzonte e non è che si vede tanto di più, a saperlo potevamo anche evitare. Ultima foto per sicurezza (metti non vengano le altre 28 scattate qui!) e ripartiamo. Ci fermiamo anche a Little Colorado River Gorge, un canyon scavato dal Little Colorado, affluente del Colorado. Per goderci la vista bisogna attraversare il mercatino degli indiani: un bel po’ di bancarelle che vendono tutte le stesse cose: braccialetti, collane, vasi e tappeti. Tiriamo diritti per la vista, bella ma non imperdibile. Una foto e ripartiamo. Da ora la prossima fermata sarà la Monument Valley. Durante il tragitto pranziamo mangiando i sandwich: per risparmiare tempo Leonardo mangia mentre guida. Il viaggio è un po’ lungo ma passa bene, ascoltando la musica e ammirando le montagne colorate che fanno da sfondo (p.S. Quelle vicino al Grand Canyon con tutta probabilità dovrebbero essere il limite del Painted Desert). Perdiamo anche qualche minuto a Tuba City, un paese sulla via, nel quale si trova una strada di cui un lato lavora con l’ora legale e l’altro no. Esploriamo un po’ la città, cercando magari due orologi che testimoniano questa particolarità da fotografare ma senza risultato, quindi tiriamo dritto.
Superiamo Kayenta, poi ancora una ventina di miglia e comincia a spuntare dalla pianura qualche sassone. A me comincia a venirmi su un sorriso sulle labbra che mi rimarrà stampato per tutto il pomeriggio e che diventa più grande quando, entrati nel parco, siamo di fronte alle famosissime formazioni rocciose. Il parco, il cui accesso costa 5$ a testa, si visita o con un tour guidato dai Navajo o da soli, percorrendo in macchina l’unica strada sterrata prevista. L’indipendenza è la nostra bandiera e allora partiamo alla scoperta di questo posto magico. La strada sterrata è, in alcuni punti, piena zeppa di buche per cui bisogna andare piano piano. Vediamo i due guanti, l’elefante, il cammello, le tre sorelle, il John Ford’s Point, la grande sedia, il totem, artist’s point e la finestra del nord per poi ritornare al parcheggio.
L’umore è alle stelle: visitare questo parco è affascinante e impressionante: affascinante perché è uno dei simboli dell’america, impressionante perché questi “monumenti” sono imponenti, incredibilmente rossi e dominano una valle di niente. Sono le 16.00 (Arizona time) o le 17.00 (Navajo time) e decidiamo di proseguire per Muley Point che dicesi essere una vista spettacolare di questa zona. Superiamo la Monument Valley ed il Mexican Hat, una roccia a forma di cappello messicano che dà il nome anche ad un gruppo di quattro case ad essa vicine. Da qui prendiamo la 261 e proseguiamo salendo sull’altipiano che domina la valle. La strada diventa impegnativa perché oltre ad essere tutte curve senza protezione dal nulla che ci sta sotto, è anche sterrata, il tutto per la bellezza di 8 miglia. Qui, a parte una sola macchina davanti a noi che dopo un po’ si ferma da una parte, non c’è veramente nessuno. Per mezz’ora buona di strada e forse anche più siamo, di nuovo, completamente soli! Arriviamo al Muley Point… questo punto è turisticamente poco conosciuto: la nostra guida lo cita appena e anche qui non è pubblicizzato. Strano però visto che il panorama da quassù è bellissimo anche se la foschia rovina un po’ lo spettacolo all’orizzonte: si vede tutta la vallata circondata dalla Monument Valley, dal Gooseneck Canyon (chiamato così – collo d’anatra – perché il fiume che l’ha creato si snoda per una lunghezza di sei miglia mentre gli estremi del canyon sono ad un miglio in linea d’aria di distanza, il che dovrebbe rendere l’idea di quanto il suo cammino è “attorcigliato”) e la Valley of Goods che si vede appena. Vista fenomenale e silenzio assoluto: binomio insuperabile. Sono le 19.00 (Navajo time) e 48 miglia ci separano dal nostro albergo a Kayenta… ciò significa niente visita al Gooseneck Canyon anche se comunque l’abbiamo visto dall’alto. Alle 20.00 siamo all’albergo (dove, per sicurezza, ci comunicano l’ora), una doccia e poi a cena al ristorante dell’Holiday Inn. Nella Navajo Nation gli alcolici sono banditi, per cui Leonardo si accontenta per la prima volta dell’acqua che comunque è buonissima, sarà anche perché è gratis!
Giovedì 1 settembre – Four Corners e Mesa Verde Sveglia alle 8.30. All’Holiday Inn inclusa nella camera abbiamo 10$ a testa da spendere nella colazione. Andiamo quindi al ristorante dove ordiniamo all’indiana di turno due cappuccini, due toast e uno yogurt con frutta annessa. Ci portano i cappuccini e… mai chiederne uno ad un Navajo. Questa “cosa” sa di vaniglia in una maniera schifosa, tanto che dal secondo sorso risulta completamente imbevibile da quanto stucca. Bene, dopo questo inizio promettente, finiamo di sistemare le valigie per ripartire alla volta di Mesa Verde. Partiamo alle 10.15; il volante ritorna oggi nelle mie mani e dopo un’oretta e mezzo di macchina ci fermiamo a Four Corners ossia nell’unico punto degli Stati Uniti dove quattro stati (Utah, Arizona, Colorado e New Mexico) si toccano. Qui l’ingegno umano ha dato il meglio di sé inventandosi un modo per cavar soldi dal nulla: gli indiani richiedono 3$ a persona per accedere ai “quattro angoli”, luogo in cui tutti, ovviamente, si fanno fare la foto in modo da toccare contemporaneamente i quattro stati. Noi, divertiti dalla curiosità della cosa, paghiamo ed entriamo. In nostra compagnia c’erano anche dei turisti un po’ particolari, ossia un gruppo di motociclisti Harley-Davidson-muniti, tutti agghindati con – ovviamente – giubbotti di pelle, guanti, stivaloni, tatuaggi e piercing. La particolarità era che tutti, ma proprio tutti, avevano cucito nel giubbotto la scritta “Soldier for Jesus”. Troppo buffi e… simpatici! Dopo la mia foto prendono possesso della pedana per farsi centinaia di foto una dietro l’altra; noi aspettiamo pazienti perché Leo vuole fare una ripresa e nel frattempo arrivano altri “soldati” e poi altri ancora… saranno una quarantina! “Spero che non abbiate fretta!” ci dice uno, ma poi concedono a Leonardo 30 secondi di pedana in “piena” libertà. Arriviamo alle 13.30 a Cortez, città niente male in confronto a ciò che abbiamo visto nei giorni scorsi e nella quale alloggeremo stasera, nel Best Western. Pranziamo da Mc Donald’s. Qui c’è anche segnale e allora chiamiamo casa per farci sentire. Ritorniamo in macchina che è un perfetto riassunto del nostro viaggio fino a ora: sul tappetino lato guida ci sono ancora briciole di sale della Death Valley, mentre il resto della carrozzeria ha abbandonato il color oro per essere ricoperta dalla sabbia rossa che ieri il vento della Monument Valley ci ha regalato.
Da qui l’entrata di Mesa Verde dista 9 miglia ma dopo ci aspettano ancora 15 miglia di strada di montagna tutta curve per arrivare al Visitor Center, fermata obbligatoria per comprare i biglietti per le visite guidate nelle “casine” (come le chiamo io) degli indiani costruite tra il 1200 e il 1300. Scegliamo di visitare Cliff Palace nella Chapin Mesa. Siamo al Visitor Center alle 15.00, compriamo i due biglietti per 5,50$ e saliamo in macchina: ci vorranno 25 minuti per arrivare al luogo da cui comincia il tour che comincia tra un’ora. E l’altra mezz’ora? Come la impieghiamo? Non vorremo mica stare fermi senza far niente? Allora prima di andare al ritrovo andiamo a vedere Sprucetree House, altro agglomerato di case visitabile senza guida. In realtà dal parcheggio bisogna scarpinare un bel po’ prima di arrivarci e soprattutto la strada al ritorno è molto ripida quindi ci vorrà più tempo per tornare indietro. Mezz’ora è troppo poca per una visitina e allora ci accontentiamo di guardarla da lontano. E’ ora di andare al ritrovo della visita guidata. Qui arriva una ragazza ranger carina, simpatica e, cosa più importante, parla anche un inglese umano, capisco quasi tutto! La visita dura un’ora e vale proprio la pena di farla: la guida ci spiega come era organizzato il posto, composto da 25 stanze e 21 kivas, ossia luoghi riservati a qualunque tipo di cerimonia e che era dimora di circa un centinaio di Anasazi, gli “antenati degli indiani”. Un’occhiata alla struttura da vicino e via, si risale per tornare al parcheggio. Sono le 17.10, la visita è finita e io sono particolarmente contenta, perchè avevo paura che questo posto, non essendo un qualcosa creato dalla natura, fosse più noioso da visitare e invece, fortunatamente, mi sbagliavo. Spenderemo la prossima ora girando in una parte del parco densa di punti panoramici, alcuni ai nostri occhi poco interessanti (come le buche nel terreno nel quale vivevano gli Anasazi prima di costruire i pueblo), altri molto interessanti (come la Square Tower House, altro agglomerato di “casine”) o Sunpoint, ossia la vista di tutti i vari agglomerati costruito lungo la parete del canyon, visti dall’altra parte del bordo. Sono le 18.30 piano piano lasciamo il parco accompagnati da due conigli, un cerbiatto e quattro tacchini che, a turno, ci attraversano la strada. Dopo un’ora prendiamo possesso della camera del Best Western a Cortez. Da qui ci colleghiamo ad internet tirando qualche accidente di rito e poi ripartiamo non proprio profumati per andare a cena: è tardi, se facciamo la doccia usciremo troppo tardi e c’è il rischio di trovare i ristoranti chiusi. Scegliamo di cenare da Francisca’s, ristornate messicano. Il locale è pieno ma dopo pochi minuti otteniamo un tavolo. Dopo aver letto le mille cose che il menu offre ordiniamo e ci arriviamo dei piatti di dimensioni colossali, sommersi da salsine formaggiose. Nel mio c’è: insalata con sopra due peperoni fritti e strafritti ripieni di non so quanto formaggio che fortunatamente mi piace; un taco con la carne e un altro rotolino ripieno di carne e ricoperto da qualcosa di non identificato e poi riso e purè di fagioli. Una cosa così strogolata che un hamburger di Mc Donald’s, in confronto, è come una zucchina lessa. Io comincio a mangiare e non è male, ma il piatto è enorme, talmente enorme che quando dichiaro la fine della festa mi ritrovo il piatto ricoperto di formaggio che ormai, raffreddandosi, si sta sedimentando su di esso. Come faranno poi a lavarlo? Gli ci vorrà l’acido muriatico per rimuovere tutta questa roba! E dire che avevo scelto questo piatto perché c’era l’insalata che è rimasta tutta lì, coperta delle peggio cose. Per lo meno una cosa positiva ce l’ha questo posto: con 22 dollari ce la siamo cavata. Ritorniamo all’albergo, una doccia e poi con calma a nanna.
Venerdì 2 settembre – Arches National Park Anche stamani colazione inclusa con la camera del Best Western. E vai! Altri 10$ risparmiati! Partiamo alla volta di Moab e dell’Arches National Park ma prima facciamo benzina e ci fermiamo al Wall-Mart a comprare videocassette per la telecamera e ancora rullini, visto che stiamo finendo le scorte: Leonardo ha già girato due ore di filmino mentre io sono alla fine del mio settimo rullino da 36. Il negozio è veramente grande, paragonabile ad un nostro ipermercato, e rimaniamo incantati dalle macchine digitali, visto che non l’abbiamo e che qui sembrano costare meno rispetto all’Italia. In realtà, così a occhio sembra che il prezzo sia lo stesso ma solo in valuta diversa, il che vale a dire un 20% in meno. La tentazione di effettuare l’acquisto è forte, ma riusciamo a resistere e finalmente partiamo per Moab, che non è così facile! Infatti secondo la guida dovremmo girare a destra per prendere la 666 highway in direzione nord e invece, in corrispondenza di quella autostrada ce n’è un’altra, la 491. La cosa non torna ma la città, come al solito, è tutta su una strada e quindi è impossibile sbagliare! “Stai a vedere che per chissà quale motivo hanno cambiato numero all’autostrada”, dico io. Ci fermiamo a un benzinaio e infatti è così: da poco tempo la 666 non esiste più. Chissà magari, essendo 666 il numero del diavolo, lo hanno bandito per la stessa ragione per cui il gioco “campo minato” è stato ribattezzato nel più pacifico “prato fiorito”. Nel giro di circa due ore siamo a Moab, giusto per pranzare. Cambiamo fast-food e scegliamo il Burger King: qui l’aria condizionata è a palla, fa un freddo cane ma noi ci scaldiamo con due panini di pollo (enormi) con contorno di patate e cipolle fritte, buono! Andiamo verso l’Arches National Park che dista poche miglia dalla cittadina. Dal nome pensavo inizialmente che il parco fosse pieno zeppo di rocce a forma di arco e in effetti è così, visto che la conta ufficiale ne riporta più di duemila. In realtà pochissimi sono visibili dalla strada e pochi altri sono visibili attraverso delle passeggiate più o meno lunghe e più o meno difficili. La cosa che mi ha stupito di questo parco, perché per me inaspettata, è il paesaggio in cui questi archi sono immersi. Già dopo un miglio dall’entrata nel parco ci sono rocce di un rosso intenso e di forme stranissime, alcune che sembrano dei totem, altre che sembrano dei grattacieli perché alte e strette (e infatti quelle che compongono il sentiero “park avenue” sono chiamate anche skyscrapers); ce ne sono poi alcune, come Balanced Rock, che sfidano qualsiasi legge fisica e non si riesce a capire come facciano a non crollare. Il tutto è condito da dune di sabbia pietrificate che in alcuni punti assumono i più diversi colori, addirittura il verde, mai visto come colore di una roccia fino ad ora! Sullo sfondo si trova poi una catena montuosa (“La Sal” Mountains). Il parco ci piace tanto, ma così tanto, che in un balzello raggiunge i vertici della nostra hit parate di questa vacanza: è un continuo fotografare e riprendere, fotografare e riprendere, anche in punti non marcati come viewpoint. Dopo non so quante foto scattate (qui necessita il digitale!), ci concediamo una passeggiata di mezz’ora per vedere i nostri primi tre archi: Tunnel Arch, North & South Window. E poi… obbligatorio andare a vedere il famoso Delicate Arch, fino ad ora visto solo sulle targhe automobilistiche delle auto dello Utah. Purtroppo però, non possiamo permetterci il lusso di spendere due ore per ammirarlo da vicino (in totale sono due miglia di cammino); siamo già a metà pomeriggio e non avremmo più tempo di visitare il resto del parco. E’ necessario quindi scendere a compromessi (come al solito!), e allora decidiamo di ammirarlo da lontano, ossia dall’upper view point. Dal parcheggio il sentiero è breve ma parecchio in salita (non per nulla si chiama “upper”) e arriviamo su con la lingua in terra. Oggi fa molto caldo, direi la giornata più calda dopo il sole a picco della Death Valley, tanto che sento proprio il bisogno di bagnarmi più volte faccia / capelli / collo con l’acqua, evitando così che il cervello cominci a friggere. E… eccolo là! Sopra i nostri nasi, in lontananza, l’arco simbolo dello Utah. Per vederlo un pochino meglio ci spingiamo qualche centinaia di metri oltre il sentiero segnalato, camminando sulle lastroni di roccia enormi. E allora usciamo dal sentiero segnato e andiamo ancora avanti per un centinaio di metri e più sulle rocce. Anche qui, come in molti altri parchi, siamo completamente soli, c’è solo qualche moscone dal ronzio paragonabile ad un elicottero che inquina un po’ l’atmosfera. Soddisfatti, ritorniamo alla macchina. Ci aspetta l’ultima parte del parco, Devil’s Garden, in cui si trovano, a distanza di un paio di miglia dal parcheggio, gli archi più grossi.
Sono le 18.00 e comincia l’esplorazione. Obiettivo: Landscape Arch, il secondo arco più famoso di questo parco che però è al primo posto nella classifica degli archi naturali più grandi al mondo. Grazie alle pareti di rocce che ci circondano e al sole, che sta calando, la passeggiata si è trasformata da una lotta per la sopravvivenza (beh, sto un pochino esagerando!) a una attività gradevole.
Due cerbiatti ci salutano sotto il Landscape Arch… uau, è veramente uno spettacolo! E da perfetta ignorante, mi chiedo, per l’ennesima volta in questa vacanza, “ma come cavolo fa la natura a creare queste cose?”.
Proviamo a proseguire nel sentiero per vedere altre “opere”. Da qui il percorso si fa più difficile: da sabbia e ghiaia nel miglio passato si passa al quasi arrampicarsi sulle rocce. Vediamo solo il Wall Arch, poi decidiamo di tornare indietro, visto che sono quasi le 19.00 e che sta cominciando a far buio. E con il buio si fanno vedere anche gli animali e sulla via del ritorno incontriamo altri quattro cerbiatti, qualche leprotto e qualche bestiolina che potrebbe essere un kangaroo rat. Saliamo in macchina, salutiamo il parco e via, ci dirigiamo a Moab per prendere possesso della camera al Motel 6. Questa camera è esattamente precisamente uguale a quella del Motel 6 di Page, con bagno angolare, letto da una parte, steso tavolo, stessa sedia colorati nello stesso modo. Par di aver rimesso indietro la videocassetta di un film: stessa scena! Sono le 20.15, troppo tardi da queste parti per concederci una doccia (che ci starebbe tanto bene) prima della cena e allora ripartiamo immediatamente per il ristorante. Moab è una cittadina piccola, caratterizzata da una serie di edifici in stile western. A quest’ora (20.45) ci sono ancora dei negozi aperti! Andiamo a mangiare da Eddie Mc Stif, una birreria dove puoi anche bere la birra al rasperry! Evitiamo… Io mi prendo una “light” per modo di dire, visto che dopo il primo sorso tutto intorno a me comincia a girare. Beh, vorrà dire che, dopo la cena, mi farò uno spuntino in albergo, per riempire ancora lo stomaco e minimizzare l’effetto dell’alcool! Alla macchinetta automatica mi prendo un buon vecchio chocolate chip gustoso e burrosissimo… che soddisfazione! Il giramento di testa va via ma mi arriva un abbiocco colossale. Alla tv c’è Forrest Gump, uno dei miei film preferiti, come non guardarlo? E il cuore batte un po’ più forte quando vediamo la scena in cui Forrest, dopo aver corso più volte da una parte all’altra degli Stati Uniti, si ferma e dice “sono un po’ stanchino!”. La scena è girata sulla mitica strada verso Cortez che ha come sfondo la Monument Valley, esattamente nel punto in cui noi pochi giorni fa, abbiamo scattato le nostre foto!
Sabato 3 settembre – Canyonlands Oggi tutta vita: sveglia alle 9.00, valigie in macchina e colazione al Mondo Cafè dove finalmente ci tocca, dopo qualche giorno, un cappuccino degno di questo nome. E oltre alla colazione, una sana e rilassante navigatina su Internet, dove abbiamo visto un po’ i prezzi italiani delle macchine digitali. E in effetti Leo aveva ragione: lo stesso modello ha lo stesso prezzo ma in valuta diversa. Chissà se a Salt Lake City, nostra destinazione di stasera, non ci scappa l’acquisto. Ripartiamo dopo il pieno di benzina. Dobbiamo decidere cosa fare: ci vorranno circa tre ore per arrivare a Salt Lake City e nei dintorni, a una ventina di miglia da Moab, ci sono due luoghi da visitare: Dead Horse Point State Park, da cui si dovrebbe godere di una vista bellissima su questo paesaggio che tra l’altro è il luogo in cui è stata girata l’ultima scena del film “Thelma & Louise”, e “Island in the sky” una delle tre parti che compongono Canyonlands National Park, definito dalla nostra guida il più bel luogo dello Utah. E allora noi decidiamo di guardare tutte e due le cose cercando di non perder tempo in camminate.
Partiamo da Canyonlands e, dopo una quindicina di miglia dall’entrata del parco, eccoci a Grand View Point, da cui ammiriamo un paesaggio stupendo il posto, per vastità, non ha niente da invidiare al Grand Canyon e forse, per quello che possiamo intuire vista l’assenza di sole, per la varietà di colori è anche meglio. Già assenza di sole… siamo purtroppo circondati quasi completamente da temporali che si stanno avvicinando, uffa! Però… devo dire che ho trovato affascinante ammirare non solo la terra ma anche il cielo: non essendoci niente di intralcio in qualsiasi direzione, essendo su un altipiano, si ha una visione così completa che si possono contare tutti i punti in cui in questo momento sta piovendo. E poi c’è uno spettacolo di fulmini che mi lascia a bocca aperta! Qui c’è un sentiero che ci porterà ad un’altra vista di questa zona e alla fine lo percorriamo (come si fa a resistere? Lo sapevo io che alla fine una camminata non ce la toglieva nessuno, neanche il rischio di prendere l’acqua!), ma anche da questa parte non c’è un solo raggio di sole che filtra. Peccato davvero perché ci siamo persi i colori di questo posto che dovevano essere proprio fenomenali! Comincia a pioviscolare e allora torniamo alla macchina… ma per un attimo, tra queste rocce tutte uguali, perdiamo il sentiero, contrassegnato da delle piccoli piramidi fatte con i sassi. E ora? Anche qui siamo soli… stiamo per un paio di minuti a cercare il sentiero del ritorno, e la mia fantasia vola: mi vedo già rassegnati a vivere da eremiti per anni e anni in questo luogo sperduto in piena solitudine. Stavo già pensando agli aspetti pratici di una vita da indigeno e… ritroviamo il sentiero, che era proprio sotto i nostri occhi!! Che bischeri! Torniamo in macchina, smette di piovere e allora ci fermiamo in altri due punti del parco per ammirare il paesaggio e… chissà che foto verranno! Lasciamo Canyonlands un po’ dispiaciuti dall’assenza di sole, sono già le 15.30, è ora di correre verso Salt Lake City, non ce la faremo a visitare anche Dead Horse Point. Sull’autostrada ci troviamo proprio nel mezzo ad un fortissimo temporale, tanto che anche con il tergicristalli al massimo della velocità non si vede niente… meno male che l’Arches ce lo siamo visti ieri! Arriviamo a Green River alle 16.45 e ci fermiamo al Burger King per “pranzare” e ci rifacciamo più o meno lo stesso menu di ieri. Qui l’aria condizionata è a livelli di frigorifero, occorre la felpa! Ripartiamo e man mano che ci avviciniamo a Salt Lake City aumentano le corsie dell’autostrada, fino ad arrivare a sei per parte… UAU, come nei film! Alle 20.00 arriviamo in citta, dopo aver salutato il South-West, da oggi fino alla fine della vacanza niente più deserto e sassi rossi ma montagne ed alberi verdi. Rientrare nella “cività” dopo una settimana e mezzo di deserto fa anche un po’ impressione: non eravamo più abituati a tutte queste macchine! La strada per il Motel 6 non dovrebbe essere difficile, a quanto dice la cartina, e infatti troviamo bene l’albergo anche se l’uscita dell’autostrada non corrisponde a quella riportata sulla conferma della prenotazione. Prendiamo la camera e visto che abbiamo mangiato poco fa ci andrebbe tanto un semplice pezzo di pizza e allora ci facciamo dare dall’albergo indicazioni per Pizza Hut. Più che indicazioni ci danno le coordinate: 400 South 775 West: qui le strade sono numerate come a New York. Unica differenza: da nord a sud qui i numeri vanno di 100 in 100 quindi alla periferia di Salt Lake troviamo la 12300. Mi diverte questa cosa: “dove abiti?” “Tra la 12300 South e la 3900 West”! Questa curiosa regola di nomenclatura delle strade ha però un vantaggio: non occorre avere una cartina della città per muoversi e infatti noi troviamo subito il locale. Peccato che il posto è un “take-away”, niente posto per mangiare all’interno del locale e allora… giriamo in lungo e in largo il “centro” di questa città enorme, dove anche le strade a senso unico hanno fino a sei corsie e quindi agli incroci con semaforo c’è una fila infinita di lucine che sembra di essere a Natale! Girelliamo un po’ e dopo esserci rotti le scatole ci fermiamo al primo posto che troviamo: Winger’s, una catena americana che fa prevalentemente ali di pollo in tutti i modi possibili inimmaginabili… pollo? Nooo, basta pollo è da due giorni che ci pranzo, non mi entrerebbe neanche per endovena! E allora ci facciamo spiedini di gamberi in salsa piccante, non male! Torniamo all’albergo e ci mettiamo a studiare con la mappa la strada che domani ci porterà da qui a Jackson.
Domenica 4 settembre – In viaggio per Jackson… Oggi è la prima e unica giornata di puro trasferimento del nostro tour: martedì e mercoledì visiteremo Yellowstone, ma il parco è lontano da qui per cui abbiamo inserito questa giornata di trasferimento a Jackson con relax incorporato (tra l’altro oggi è il nostro primo anniversario di matrimonio!!!).
Il relax comincia subito al mattino, uscendo dall’albergo alle 11.00 (!!), e godendoci una buonissima “colazione” da Starbucks. Questo locale è veramente accogliente: ci sono tante poltrone dove ti puoi bere un buon cappuccino nel bicchierone di carta stile coca-cola e fare tutto quello che vuoi per quanto tempo vuoi. E tutti qui dentro sono impegnati in qualcosa: c’è la cinesina che si è portata il PC portatile, la bionda che smanetta sulla calcolatrice alla velocità della luce, una mora che scrive/legge/sottolinea e un altro che fa finta di fare l’intellettuale, tentando di sfogliare tutto interessato un libro: in realtà e all’imbrocco e si squadra tutte le pollastrelle che entrano! Un paio di telefonate a casa, benzina e poi si parte. Cavolo, sono già le 12:35! La strada non è difficile, dovremo prendere la Interstate 15 e poi a Brigham seguire sull’89 che, sforando nell’Idaho, ci porterà a Jackson, nello stato del Wyoming. Ci vorranno più o meno quattro ore di macchina. La giornata comincia però ad andare un po’ storta visto che a Logan, invece di girare a destra per seguire la 89, abbiamo tirato diritti e ora ci ritroviamo sulla 91. Uffa!! Va beh, però continuando a diritto e prendendo la 36 si dovrebbe sbucare sull’89, magari con un po’ di strada in più, ma neanche tanto. La fregatura è che questa 91 è in fase di ristrutturazione, ma non solo per un pezzettino, bensì quasi interamente (gli americani quando fanno una cosa, la fanno bene!) e così la strada è, per miglia e miglia, cosparsa di birilloni rossi e bianchi e il limite scende a 45 miglia. Uffa di nuovo!! Le macchine davanti vanno anche un po’ più piano e quindi non si può sorpassare. Ci girano un po’ le balle, già eravamo partiti tardi, di questo passo arriveremo chissà a che ora! Avevo intenzione di girellare un po’ tra i negozietti di Jackson, ma se continua così ci arriveremo a notte fonda! Finalmente entriamo nella 36 che fra 40 miglia ci porterà all’89. Qui il limite è di 55 e Leonardo imposta il “cruise control” a 60 visto che la tolleranza per la multa è di 9 miglia. Ora siamo nell’Idaho ed il passaggio è sensibilmente diverso da quello che abbiamo salutato ieri: colline dorate, campi ovunque, pochissime case nel raggio di chilometri. Per via delle colline la strada è tutto un saliscendi e proprio su una discesa, quando la macchina sarà andata più forte, o non c’era nascosto un poliziotto? Cappero, ci si gela il sangue nelle vene quando vediamo che passati noi, parte, accende i lampeggianti e ci segue. Ci ha beccato! Non ci posso credere, proprio come nei film! Fantasticando, io mi vedo già in galera per tre mesi senza condizionale… aiuto! Il tizio ci dice che stavamo andando a 68 (?), ci chiede i documenti della macchina e patente, fa un po’ di controlli, ritorna e ci dice “tutto ok, ora andate più piano”. Ahhh, che sospiro di sollievo. Siamo liberi! Grazie! Ripartiamo e da qui fino a Jackson non supereremo neanche di un piede il limite di velocità. Comunque che sfortuna che il poliziotto ci ha beccato: questa strada non conosce neanche lontanamente il significato della parola “traffico”. Anzi, secondo me stavamo andando alla velocità giusta ma il poliziotto aveva voglia di vedere e parlare con qualche anima viva! Arriviamo a Montpellier, sulla 89, sono le 16.00 ora del nostro “pranzo”. La cittadina non è neanche piccola ma la cosa strana è che in giro non c’è nessuno, neanche una traccia di essere umano. Va bene che è domenica, ma dove sono tutti? Dove sono? Nulla, nessuno a giro. Neanche qualcuno che butta via l’immondizia, che rientra a casa o che si affaccia per sbaglio alla finestra. Mah! Posti per mangiare ce ne sarebbero anche, ma è tutto chiuso. E meno male che esistono i negozietti al distributore! Che Dio li benedica! Ne abbiamo trovato uno aperto che al suo interno accoglie un mini fast-food messicano: Taco Time. Evviva! Io insalata, Leonardo un taco e si riparte. Mancano 120 miglia a Jackson. Ci arriviamo poco prima delle 18.00, attraversando montagne verdi e vedendo diversi ranch. Anche qui abbiamo prenotato al Motel 6 dove stavolta la corrispondenza è con la camera di Salt Lake City: identica! Ma li fanno con lo stampino questi motel?!? Dieci minuti di relax e ci fiondiamo ad esplorare la città che è una delle più grandi in zona (ben 7.000 abitanti!) e molto turistica, essendo a poche miglia dal Grand Teton e Yellowstone National Park ed avendo, per l’inverno, una abbondante dose di piste da sci di tutti i livelli (qui siamo a poco più di 2000 mt). Risultato: la città è carina, con gli edifici del centro tutti di legno ed in stile western; ci sono anche tanti ristoranti e negozietti di souvenir dove puoi acquistare animali imbalsamati e corna di alce. Ne girelliamo qualcuno, compriamo qualcosa. Qui è piacevole anche camminare: ci sono tanti altri esseri umani oltre a noi! Meno male, finalmente un po’ di vita! Alle 20.00 ritorniamo alla macchina per prendere i giubbotti (comincia a fare freddo) e a cercare sulla guida un ristorante per la cena. Studiamo un po’ e ripartiamo a piedi, una ventina di minuti più tardi… oh ma.. Non c’è più nessuno! Dove sono andati tutti? La città si è svuotata tutta di un colpo! Ci dirigiamo ad un ristorantino, entriamo e ci accomodiamo ad un tavolo. Leggiamo il menu… secondo la guida ci dovevano essere cose abbastanza normali mentre la casa offre piatti strani, abbinamenti carne / pesce con miele o altre diavolerie più o meno strogolate. Leonardo si butta sul medaglione di alce mentre io prendo, per la prima volta all’estero e in anteprima assoluta, le fettuccine all’alce. Ci arriva il piatto e nonostante la previsione, il cibo ci piace: anche la pasta non è male, solo un pochino scotta. Tutti contenti ci facciamo, anche qui per la prima volta, il dessert per festeggiare il nostro primo anniversario di matrimonio che cade proprio oggi. Ordiniamo una “torta all’arancia con fragole e more”, una sola porzione da condividere e ci arriva un dessert enorme, tanto che in due ci sforziamo per finirla! Trattasi di una fetta di torta composta da tre strati di pasta intervallati da more e crema all’arancia e fragole più crema. La stessa crema ricopre poi esternamente tutta la torta… risultato: 12 cm di zucchero puro! Io sono proprio contenta e mi godo il momento, finora queste torte le avevamo ammirate solo in vetrina! Dopo cena proviamo a rifare una passeggiata in città, ma il deserto è totale e, visto che fa piuttosto freddo, ce ne ritorniamo in albergo. Domani Yellowstone ci aspetta!
Lunedì 5 settembre – Yellowstone Per oggi è programmato l’inizio dell’esplorazione di Yellowstone! Per arrivarci dovremo passare dal Grand Teton National Park dove abbiamo scelto i viewpoint più significativi per fermarci a fotografare il Jackson Lake e le montagne circostanti, alcune delle quali superano i 4000 metri. Nonostante le cose da vedere non manchino ce la prendiamo con calma, anche per goderci gli ultimi giorni di vacanza. Andiamo a far colazione in un posto pieno di gente e qui siamo gli unici a non ordinare roba salata. Ora, non c’è niente di particolare a fare colazione con prosciutto e patate, ma quelli che la fanno con il burrito messicano e cappuccino come bevanda… ma cos’hanno nello stomaco? Una riserva di acido muriatico che brucia tutto ciò che viene ingurgitato? Tutto ciò ha reso la nostra colazione molto divertente mentre, dal punto di vista del cibo, la torta all’uvetta era buona mentre il cappuccino faceva veramente schifo. Niente in confronto a quello “vanigliato” di Kayenta ma… faceva schifo lo stesso! Ci fermiamo al negozietto di souvenir per prendere salsicciotti di bisonte per i rispettivi babbi e poi partiamo alla volta del Grand Teton. Con una bellissima catena montuosa come sfondo abbiamo immortalato il Jenny Lake, piccino ma carino, ed il Jackson Lake, da Signal Mountain. Il panorama su Jackson Lake ha accompagnato il pranzo a base di tramezzino acquistato presso un benzinaio di Jackson. E qui scambiamo quattro chiacchiere con un tizio, un uomo anziano con evidenti problemi di salute che lo costringono a convivere con dei tubicini che da una borsa gli entrano nel naso. Veramente ammirevole la sua voglia di girare, conoscere e stare a contatto con la natura! Dopo questo assaggio di Grand Teton finalmente ci dirigiamo al mitico Yellowstone e, una volta entrati dalla parte sud, decidiamo di andare a visitare l’area per noi prioritaria, quella per cui abbiamo deciso di scarpinare per miglia e miglia fino a questo posto un po’ fuori mano, ovvero la Old Faithful Area, la parte del parco in cui ci si può stupire di fronte ai geyser. Questa parte è divisa in vari “basin” e noi cominciamo dalla Upper Geyser Basin, la zona al mondo con la più alta concentrazione di geyser. Qui si trova il famoso Old Faithful (vecchio fedele), un geyser dal getto molto potente (40 mt di altezza), famoso per essere quello più prevedibile, visto che ogni 92 minuti incanta i turisti con la sua eruzione della durata di 4 minuti. Arriviamo in zona alle 17.00, dopo esserci improvvisamente fermati in mezzo di strada per fotografare i nostri primi BISONTI! Il parcheggio è immenso e, lasciata la macchina, entriamo subito nel Visitor Center, che espone al suo interno l’utilissima previsione delle eruzioni dei vari geyser. L’Old Faithful è previsto tra le 17.55 e le 18.05. Bene, così abbiamo il tempo di girellare un po’! La zona che è veramente incredibile: uno dietro l’altro si trovano geyser (a fontana o a cono, cioè col cratere) e “pool” ossia “piscine” di acqua calda. La zona ne è così piena che siamo circondati da colonnine di vapore, dall’odore forte dello zolfo e dal rumore dell’acqua che bolle, proprio come in una pentola. Incredibile! E poi la concentrazione di geyser è così alta che è impossibile non vedere almeno una eruzione! Alle 17.45 eccoci davanti all’Old Faithful pronti, con telecamera e macchina fotografica, a immortalare il getto. Puntuale il vecchio fedele comincia il suo spettacolo per il quale è stata allestita una vera e propria platea di fronte a lui, con panchine in doppia fila che quasi lo circondano. In effetti proprio di spettacolo si tratta e dopo un paio di foto al getto in mi godo il mio primo geyser a bocca aperta. Bellissimo! Terminato lo show di 4 minuti riprendiamo l’esplorazione in cerca di altre eruzioni. Percorriamo la passeggiata di legno che vincola il nostro passaggio tra i geyser: camminare tra di essi liberamente non è consentito in quanto la crosta qui è talmente fragile che ti potresti ritrovare nell’acqua caldissima a lessare come un gambero. Rivediamo quindi altri geyser (tra cui l’Anemone, piccolino, ma che erutta ogni 7/10 minuti) e “pool” e per la prima volta in questo viaggio, ma forse in assoluto, ci meravigliamo dei fenomeni naturali che si nascondono sotto la terra. Sono le 19.00 poco meno e decidiamo di tornare alla macchina per dirigerci all’albergo quando Leonardo mi fa “Nadia…”. I tre puntini mi mettono in allarme, mi giro, lo vedo leggermente impietrito quando davanti a noi e proprio nella direzione del ritorno c’è un BISONTE che ci guarda diritto negli occhi e che piano piano cammina verso di noi. Non si vorrà mica vendicare delle salsicce di bisonte che abbiamo comprato stamani? Magari abbiamo in macchina un pezzo di suo fratello! Ma… ce ne sono altri due dietro di lui! Sono enormi! E ci guardano! Non staranno mica scegliendo la salsa con cui mangiarci? Ah già, sono erbivori! “E ora che facciamo?”, chiedo io con tono leggermente ansioso a Leonardo, “io gli faccio una ripresa poi torniamo indietro dall’altra parte piano piano”, mi fa lui. OK, allora anch’io gli faccio una foto e sarà la foto più veloce che abbia mai scattato, talmente veloce che, porca paletta, non ho messo lo zoom al massimo e mi è venuta anche mossa! Comincio così a camminare nell’altra direzione mentre mi guardo intorno: fino ad ora era pieno di turisti e ora… manco l’ombra! Sono tutti molto lontani da noi, nessuno si è accorto di chi ci sta facendo compagnia! Tra l’altro il sentiero di legno è in mezzo ai geyser per cui se quello decidesse di rincorrerci non potremmo neanche scappare! Ma Leonardo dov’è?!? … non ci credo, sta ancora riprendendo il bisonte! E’ un vero turista, disposto a tutto pur di non farsi scappare qualcosa! Oh, finalmente finisce la ripresa e viene da me. “ALLORA, ce ne andiamo via?!?” “Mi sa che non igienico…” fa lui “Perché??” (comincio a disperarmi) “Perché anche lui sta andando in quella direzione quindi ce lo ritroveremo vicino” “E allora che si fa? Anche gli altri due occupano la camminata, siamo tra due fuochi!” “Boh… stiamo fermi e aspettiamo”.
A me prende un attimino di “leggerissimo” sconforto e allora mi metto spalle alle bestie (non le voglio vedere!) e comincio a studiare una eventuale via di fuga tra i geyser: preferisco finire bollita che incornata! E poi accidenti ai ranger che all’entrata del parco ci hanno dato un foglio con il disegno di un incornamento e la frase “state lontano dai bufali”… Non riesco a togliermi dalla testa quel disegno! Ormai mi do per spacciata e già immagino il mio sedere a buchi stile groviera, ma poi posso tirare un (piccolo) sospiro di sollievo: ci sono altre tre persone vicino ai bisonti! Evviva, non siamo più soli! Due di essere rimangono immobili come noi l’altro invece, tranquillo e beato con passo sicuro, gli passa ad un metro e in un attimo se ne va. Ma come?!? Io ho praticamente il cuore e mano e questo si permette di fare così il disinvolto!? Ma allora non sono così pericolosi! Riesco a girarmi e mentre Leonardo è ancora lì che riprende (??!?) vedo adesso che tutti e tre gli esemplari sono lontani da noi e dalla camminata per cui… possiamo andare! Via, subito! Rientriamo alle 19.30 all’Old Faithful e quindi mettiamo via tutto l’armamentario tecnologico e ci godiamo con gli occhi un’altra eruzione. Questa è stata più bella e più lunga di quella di prima! E così tutti contenti, io soprattutto di avere il mio sedere ancora integro, ce ne torniamo alla macchina, direzione Lake Yellowstone e poi ristorante! Il lodge è fatto da una serie di casine ognuna delle quali è composta da quattro a sei camere; siamo venuti qui perché costa meno di una camera in albergo. Andiamo a cena al ristorante ed anche qui, come ieri sera, di cose strane ce ne sono parecchie anzi, più che strane, quasi tutti i piatti hanno qualcosa che non mi piace e allora mi ripiego sulla pasta alla puttanesca, visto l’esperienza positiva di ieri. Stavolta però il sughetto è buono ma la pasta e iperscotta! Ce ne torniamo all’albergo e, come di consueto, via a studiare cosa fare domani mentre accendiamo il riscaldamento: fuori fa un freddo cane (e pensare che due giorni fa a Moab c’erano più di 30 gradi!).
Martedì 6 settembre – Yellowstone Dopo la notte passata sotto le coperte stretti stretti in uno dei due mini-double bed del lodge, ci svegliamo alle 9.00 e via, colazione alla cafeteria. Un rapido giro al gift shop (dove vediamo un sacco di cose carine, stasera ci ritorneremo!) e al general store, dove compriamo pane e prosciutto per pranzo. Ora si parte davvero! Spenderemo la giornata vedendo cosa ci offre la zona del Grand Canyon, delle Mammoth Hot Springs e per finire di nuovo i geyser, stavolta a Norris Basin. La prima tappa è il Grand Canyon e subito i bufali causano una prima fermata sulla strada: in un grande prato dorato c’è una mandria intera. Dopo una mezz’ora siamo nel South Rim del canyon. Il nome è lo stesso di quello “ufficiale” in Arizona e bisogna dire che per bellezza questo di Yellowstone proprio non sfigura. Oltre ad essere uno spettacolo della natura per le upper e le lower falls (cascate) che lo delimitano, la cosa veramente impressionante di questo posto sono i colori. E dire che con tutti i parchi che abbiamo visitato ormai eravamo abituati a certi paesaggi, ma questo ti lascia proprio a bocca aperta! Vedere la roccia rosa, arancione, gialla è… strano! Giriamo la zona in due punti: uno è artist point, appunto, da dove si vedono le maestose cascate; l’altra è l’Uncle Tom Trail, un sentiero composto da 328 gradini che ti portano ai piedi della cascata. Qui siamo a 2000 metri, il sentiero è tanto corto quanto alto è il dislivello, e all’inizio della scalinata c’è un cartello che avverte che la via al ritorno è faticosa e sconsigliata a chi soffre di cuore. Dopo esserci goduti la cascata cominciamo a risalire, ma non è poi così tragica, basta fermarsi ogni pochino. Dopo pranzo visitiamo Mammoth Hot Springs, a 37 miglia dal Grand Canyon. La strada a tratti è densa di curve per cui, per una buona parte, il limite da non superare è 35 miglia invece che 45. Impiegheremo quindi più di un’ora a fare ‘sto benedetto tratto di strada perché, oltre che alle macchine che procedono piano piano c’è anche la fermata imprevista (ma piacevole) per ammirare un gruppo di bestie tipo capre che ha temporaneamente occupato la strada.
Alle 15.30 siamo a Mammoth Hot Springs e anche qui troviamo animali in libertà: le alci! Ci concediamo una passeggiata dei un’oretta in questo posto fenomenale (quante volte avrò utilizzato questo aggettivo?): si può ammirare ciò che l’acqua termale, uscendo dal suolo in più punti di questa collinetta, crea in superficie: terrazze di forme e colori diversi, frutto dei minerali contenuti nell’acqua e dei microrganismi che qui si sono insediati. Roba mai vista e colori incredibili! Lasciamo tutti contenti questa zona e, dopo altri tre quarti d’ora di auto, siamo adesso a Norris Geyser Basin, con la speranza di ammirare nuovamente una eruzione. Questa parte del parco è divisa in due zone; noi visitiamo quella che accoglie il geyser più grande del mondo, tanto grande quanto imprevedibile. Le sue eruzioni si manifestano circa due volte l’anno e nessuno sa predire quando. Non pretendiamo quindi di vedere questa eruzione ma quella dell’Echusin Geyser sì, che dovrebbe verificarsi più volte al giorno anche se esattamente non sappiamo quando: qui, a differenza della Old Faithful Area, non c’è il visitor center con affissi gli orari delle eruzioni. Proviamo ad aspettare un po’, ma dopo 10 minuti la nostra pazienza va a farsi friggere e quindi ripartiamo nell’esplorazione del luogo. La zona è ricca di geyser e pool, come la Old Faithful Area, ed è sicuramente interessante, visto che stiamo parlando di cose che sono rare nel mondo. A noi però non ci ha entusiasmato tanto visto che di eruzioni non ne abbiamo viste: nella parte che avevamo visto ieri, oltre ad essere più bella, è praticamente impossibile non assistere ad uno spruzzo d’acqua! Sulla strada del ritorno abbiamo nuovamente la possibilità di vedere mandrie di alci e bisonti… è impossibile non accorgersene: quando si vedono un sacco di macchine ferme ai lati della strada significa che c’è qualche bestia visibile. Ritorniamo al lodge e stavolta cena alla cafeteria in cui io me la cavo con una trota alle mandorle e un cheesecake per niente male. Finiamo poi di comprare gli ultimi regalini e poi in camera a programmare (sigh! sigh!) l’ultima giornata piena della vacanza.
Mercoledì 7 settembre – Yellowstone Stamani abbiamo decisamente stabilito il record mondiale del tempo necessario per alzarsi, vestirsi e preparare la valigia e dire “ciao ciao” alla camera: alle 8.40 eravamo già alla cafeteria a gustarci la colazione.
Poi un prelievo di contante, visto che siamo quasi a secco, l’acquisto dei francobolli per le cartoline che abbiamo comprato qua e là e via… si parte. Anche oggi programma stretto: ci siamo dati come limite le 14.00 per poter visitare (nuovamente) la Upper Geyser Basin e vedere qualche eruzione. Poi ci aspetta il viaggio di circa sei ore per Salt Lake City, città da cui domani parte l’aereo per tornare a casa.
Arriviamo alle 10.30 all’Old Faithful e qui consultiamo le previsioni al visitor center: – Entro mezz’ora dalle 12.30: eruzione del Riverside (come dice il nome si trova sulla sponda del fiume e l’eruzione crea un getto d’acqua simile ad un arco – definito dalla nostra guida imperdibile!) – Entro un’ora dalle 11.30: eruzione del Castle (la cui cadenza è ogni 13 ore e la cui eruzione dura 50 minuti) – Entro 40 minuti dalle 11.20: eruzione del Daisy (il cui getto arriva fino a sei metri) – Entro 10 minuti dalle 11.21: eruzione dell’Old Faithful Sembra che la fortuna sia dalla nostra parte oggi! Andiamo in direzione del Castle Geyser ma qui qualcosa non torna: ai suoi piedi si trova un cartello con la previsione del ranger aggiornata a penna e qui leggiamo che la prossima eruzione sarà alle 16.00 circa. Ma come? Di là c’è scritto un’altra cosa! Aspettiamo un po’ per vedere la qualcosa bolle in pentola (appropriato no?) ma di eruzioni manco l’ombra e quindi rimaniamo un po’ delusi, UFFA, anche se dopo un po’ ci pensa l’eruzione dell’Old Faithful (la terza che vediamo) a tirarci su il morale.
Decidiamo allora di andare al Daisy, camminando praticamente in mezzo al vapore. Ci innamoriamo sempre di più di questa zona e siamo giunti alla conclusione che si potrebbe stare qui un giorno intero senza annoiarsi. Arriviamo al Daisy puntuali e c’è già un po’ di gente che aspetta sulle panchine l’inizio dello spettacolo: meno male, almeno questa previsione sembra giusta. Ad un certo punto, mentre siamo in attesa, arriva una che dice a suo marito “Ehi, il Riverside sta cominciando, andiamo!”. Il Riverside? Quello definito “imperdibile”? Daisy mi dispiace, di sicuro non sei un geyser da poco, ma dobbiamo abbandonarti. E’ mezzogiorno e praticamente ci sono due geyser che erutteranno più o meno contemporaneamente… che sfiga! Arriviamo quasi correndo al Riverside e l’eruzione dura veramente una ventina di minuti tanto che ho il tempo di immortalarlo più volte nelle foto e di godermelo con gli occhi. Beh, in effetti non è proprio male! Terminiamo la nostra visita andando ad ammirare (e questo è il verbo giusto) la Morning Glory Pool, una pozza dai colori bellissimi, anche se i pannelli informativi ci dicono che in passato era ancora più bella. Come poteva essere più bella di così? Non riesco proprio ad immaginarmela! Sono più o meno le 12.30, è ora di ritornare alla macchina e ci vorrà una buona mezz’ora visto che stamani abbiamo camminato parecchio. E qui Yellowstone ci saluta con una bella sorpresa: la mandria di bisonti che avevamo visto più di due ore fa intorno ai geyser è sempre lì, stavolta però più vicino alla passeggiata che dobbiamo percorrere. Sono tanti ma ormai non abbiamo più paura come due giorni fa e gli passiamo vicino vicino. Ci fermiamo a vedere questi grossi animali; alcuni di essi camminano in mezzo alle auto parcheggiate, altri attraversano la strada e oltrepassano i vai casottini. Che spettacolo insolito! La gente è tanta e stavolta ci sono anche i ranger che indicano ai turisti da quale parte passare o se stare fermi aspettando che le bestie se ne vadano. Quando eravamo a casa e sognavamo il viaggio speravamo di vedere questi animali che ancora ci mancavano, ma non immaginavamo che li avremmo visti così bene! Compriamo l’ultimo regalino al gift store poi in macchina ci fermiamo ad una picnic area per pranzare in mezzo agli alberi. Ripartiamo, sono le 14.10, incredibilmente puntuali! Oggi il volante tocca a me, così come le 300 e passa miglia che ci separano da Salt Lake City. Usciamo dalla parte ovest e, durante le ultime 30 miglia di natura, oltre a vedere altri bufali ed alci ci rendiamo conto di quante solo le cose che non abbiamo visto nel parco e che qui ci si potrebbe quindi spendere una intera settimana senza annoiarsi! Continua il viaggio verso Salt Lake City, più o meno a metà strada ci fermiamo al Mc Donald’s a Pocatello per riprenderci un po’ con una bella merenda a base di patate fritte e coca cola. Patate fritte… Erano tre giorni che avevo voglia di mangiarle ma a Yellowstone nessuno le faceva! Tutta soddisfatta mi rimetto al volante e meno male che c’è il limite a 75, così alle 20.00 poco più siamo in albergo. Una sciacquata al visto e si va a mangiare: andiamo all’Hard Rock Cafe che l’altra sera avevamo visto per strada. Il locale è veramente carino, pieno di chitarre autografate e dischi d’oro. C’è anche buona musica e io mi sento meno ignorante di quello che sono, visto che conosco quasi tutte delle canzoni che mettono.
Ordino un mezzo pollo arrosto con patate fritte (un’altra volta!) e il mezzo pollo in realtà sembra un pollo intero da quanto è grosso… Nooo, scherzo, ma la ciccia era veramente tanta ed io preferisco finire le ottime patate fritte.
Con la pancia piena ritorniamo in albergo a preparare le valigie per domani.
Giovedì 8 settembre Oggi rientro a casa… ultima colazione da Starbucks e poi via all’aereoporto dove intorno alle 13.00 ci aspetta l’aereo per Denver, poi per Francoforte e poi per Firenze dove arriveremo circa alle 14.30 di domani. In realtà ci arriveremo molto più tardi visto che il volo Francoforte – Firenze è stato cancellato a causa dell’indisponibilità dell’aereo (meglio così): ci porterrano a Bologna e da qui la Lufthansa ci porterà a Peretola con un pullman. Fino a Bologna tutto ok, il dramma è stato dopo. La disorganizzazione è pressoché totale per cui, una volta prese le valigie, non avevamo la più pallida idea di dove andare e non c’era nessuno a cui chiedere informazione. Poi l’altoparlante annuncia che l’autobus ci sta aspettando sul “lato sinistro del parcheggio”. Lato sinistro… ma guardandolo da dove? Leonardo corre a cercare questo autobus mentre io e gli altri passeggeri (a parte un altro paio di italiani tutti americani e tedeschi) ci mettiamo da una parte ad aspettare notizie. Passano tre quarti d’ora così, nessuno sa dove caspita sia questo autobus. Ormai eravamo quasi per andare a prendere il treno invece un turista tedesco riconosce un tizio della Lufthansa in lontananza, andiamo in quella direzione ed era proprio lui la persona da cercare. Però, si è messo in evidenza…! Dopo 10 minuti arriva l’autobus e in quel momento nasce una bolgia infernale… la folla assale l’autobus per sistemare le valigie e poi cercare un posto a sedere. E qui dopo una serie infinita di accidenti, ci accorgiamo che l’autobus non è sufficiente a portarci tutti. Bene, e ora che si fa? Chiamano un altro autobus che arriverà dopo più mezzora. Insomma, alle 16.00 partiamo maledicendo la Lufthansa che se avesse messo una sola persona al ritiro dei bagagli questa si sarebbe subito accorta che un autobus era poco e magari saremmo riusciti a partire un’ora fa. E’ venerdì pomeriggio, l’A1 si fa prima a percorrerla a piedi che non su un mezzo e quindi, in un traffico infernale, arriviamo a Firenze alle 19.00 (tre ore quando ne occorre una… ahhh!), in corrispondenza dell’atterraggio del volo Francoforte-Firenze successivo al nostro. Se avevamo preso quello saremmo arrivati alla stessa ora ma molto meno nervosi! Finisce così questa super-vacanza e ora… rientramo nella normale vita di tutti i giorni, con impresse nel cuore le immagini di questi posti assolutamente unici al mondo.
Arrivati in fondo? Ancora svegli? Bene, sono felice! Allora potete leggere anche la conclusione.
“Un parco al giorno… o quasi”: i 15 parchi visitati sono: – Yosemite National Park – Mono lake – Death Valley National Park – Zion National Park – Bryce National Park – Antelope Canyon – Coral Sand Pink Dunes – Grand Canyon National Park – Monument Valley – Four Corners National Monument – Mesa Verde National Park – Arches National Park – Canyonlands National Park – Grand Teton National Park – Yellowstone National Park e poi ci voglio aggiungere anche: – Muley Point – Little Colorado Gorge – Mexican Hat – Valley of Goods (appena) – Painted Desert (appena appena) E, leggendo la guida, abbiamo scoperto che molte cose che abbiamo visto sono da Guinnes dei primati: – il monolito più grande del mondo (Yosemite) – le cascate più alte del nordamerica (Yosemite) – il parco più grande degli Stati Uniti (Death Valley) – il parco più caldo degli Stati Uniti (Death Valley) – il parco più profondo degli Stati Uniti (Death Valley) – l’unico punto degli Stati Uniti dove quattro stati si toccano (Four Corners) – l’arco naturale più grande del mondo (Landscape Arch, all’ Arches National Park) – la zona con la più alta concentrazione di geyser al mondo (Upper Geyser Basin, Yellowstone) – il primo parco nazionale del mondo (Yellowstone) – il geyser più grande del mondo (Steamboat, Yellowstone) … e ce ne saranno di sicuro tanti altri, che non so o che mi sono dimenticata, ma di sicuro tutto ciò che abbiamo visto è veramente fenomenale. Abbiamo provato più volte a fare una classifica dei parchi visitati ma non è possibile: come si fa a dire se è più bello il Grand Canyon o Yellowstone? Arches o Bryce? Impossibile!