West USA on the road
Ci siamo fermati una notte per tappa (tranne a San Francisco dove abbiamo trascorso 3 notti e a Yosemite 2), gli alberghi sono sempre stati in posizione strategica per le gite che abbiamo compiuto ed essendo appartenenti quasi tutti a grandi catene internazionali (Best Western, Hampton Inn, Holiday Inn) la qualità è stata soddisfacente. Il tempo è quasi sempre stato bellissimo permettendoci di godere al massimo tutte le meraviglie che abbiamo visto anche se l’escursione termica è stata notevole (siamo passati dai 30 e più gradi della Death Valley ai quasi zero di Yosemite e del Grand Canyon).
Di seguito le tappe con relative distanze e tempi di percorrenza: – San Francisco – Yosemite (El Portal): 322 Km (200 miglia); 4 h – Yosemite – Death Valley: 422 Km (262 miglia); 6 h – Death Valley – Las Vegas: 185 Km (115 miglia); 2 h 40 m – Las Vegas – Zion: 274 Km (170 miglia); 3 h – Zion – Bryce Canyon: 145 Km (90 miglia); 2 h – Bryce – Kayenta: 404 Km (251 miglia) 5h 30 m + 30 km per la Monument Valley – Kayenta – Grand Canyon: 258 Km (160 miglia); 3 h – Grand Canyon – Laughlin: 327 Km (203 miglia); 3 h 30 m – Laughlin – Joshua Tree (29 Palms): 267 Km (166 miglia); 3h 10 m – 29 Palms – Palm Springs: 85 Km (53 miglia); 1h 15 m – Palm Springs – Los Angeles (Venice Beach): 209 Km (130 miglia); 3 ore
Sabato 26 settembre 2009 Dopo un’attesa di ben sei mesi, finalmente partiamo per il nostro sospirato viaggio lungo la parte ovest degli Stati Uniti. Abbiamo organizzato e pagato tutto dall’Italia, alberghi e noleggio auto (in loco abbiamo pagato solo il navigatore).
Avendo l’aereo da Milano Linate alle 8.15 decidiamo di passare la notte all’Air Hotel Linate, comodo e ottimo albergo a cinque minuti di navetta dall’aeroporto.
Sfruttando un’offerta vantaggiosissima di British Airways atterriamo a Londra Heathrow alle 9.30 e ora dobbiamo aspettare cinque ore prima di ripartire per San Francisco. Per fortuna British spacca il minuto e alle 13.40 siamo sul nostro gigantesco Boeing per la California. Il volo si svolge tranquillo e offre incantevoli viste dall’alto dell’Islanda, della Groenlandia, del Canada e delle Montagne Rocciose.
Atterriamo a San Francisco alle 16.40 locali (in Italia è l’1.40!) e dopo gli infiniti controlli (tra Londra e San Francisco ci hanno perquisiti, scannerizzati e interrogati una decina di volte) siamo ammessi negli States. Con il viaggio e il fuso orario che si fanno sentire, non ce la sentiamo di raggiungere l’albergo con i mezzi pubblici ma optiamo per la comodità del taxi (dall’aeroporto a downtown 45$ compresa la mancia).
Alloggiamo al Vertigo Hotel in Sutter Street, delizioso e luminoso anche se un po’ kitsch (una perla su tutte: la base delle abat-jours è un’enorme testa di cavallo in ceramica bianca); in Sutter Street, cosa inusuale per noi che siamo abituati a dormire in alberghi sperduti in mezzo al nulla, sono presenti numerosi ristoranti, minimarket e piccoli locali in cui fare colazione. La prima sera, contrariamente ai nostri bei propositi, se ne va dormendo: alle 19.30 siamo già nel mondo dei sogni dal quale ci sveglieremo la mattina dopo alle 8.00.
Domenica 27 settembre 2009 Primo inconveniente del viaggio: Salute di Ferro Giobby, dopo aver ingurgitato una brioches con acqua fredda non appena svegliatasi, si fa prendere da una congestione che rischia di farla vomitare in ascensore. Risolti i problemi di salute di Giobby, può cominciare il nostro primo giorno alla scoperta di San Francisco. Lo iniziamo facendo subito un’esperienza che si può fare solo qui: saliamo sul Cable Car (costo biglietto 5$ a testa), il tipico tram senza fili che percorre su e giù le colline della città; infatti San Francisco è ricca di saliscendi, con salite e discese ripidissime che richiedono tanto fiato e gambe forti. Altre cose che ci colpiscono sono la pulizia delle strade, il poco traffico e l’estremo rispetto degli automobilisti nei confronti dei pedoni. Scesi al capolinea a Powell-Mason percorriamo Market Street, una via commerciale ricca di negozi delle più famose marche, che ci porta al Pier 33, da dove parte il Ferry per la prigione di Alcatraz; purtroppo non c’è più posto in giornata, quindi prenotiamo per il giorno dopo alle 11.30 (consigliamo di prenotare il biglietto anche dall’Italia, vista la quantità di persone interessate). A pochi metri c’è Fisherman’s Wharf, il vecchio molo di pescatori ora trasformato in un’accozzaglia di piccoli negozi di souvenirs (tra cui Lefty’s, il negozio per mancini che credevamo esistesse solo negli episodi dei Simpsons). Dietro a Fisherman’s Wharf c’è una colonia di leoni marini ammassati su piattaforme di legno che per la gioia dei turisti (sic) latrano tutto il giorno. La nostra prossima tappa è il Golden Gate Bridge, il famoso ponte rosso simbolo della città che collega le due estremità della baia. Camminiamo sulla ben tenuta passeggiata a mare che arriva fin sotto al ponte; è domenica e quindi è pieno di gente che corre (vediamo anche papà che spingono correndo bambini sul passeggino) e di famiglie numerosissime riunite intorno ai barbecues. Dopo aver scattato innumerevoli foto al ponte torniamo verso l’albergo sostando prima per qualche minuto al Fort Mason Garden, grazioso piccolo parco con vista sulla baia, e poi transitando per Hyde Street (la via più ripida del mondo) da dove si gode una magnifica vista sull’isoletta di Alcatraz e la Coit Tower. Attraversiamo così i quartieri di Russian Hill e Nob Hill, con le loro case vittoriane e i loro localetti con tavolini all’aperto (se fossimo in Francia li chiameremmo bistrot).
Arriviamo in albergo alle 17 completamente stremati e dopo una bella doccia con pisolino andiamo a mangiare in un ristorante italiano a pochi passi dall’hotel (obiezione accolta: ecco gli italiani che non appena mettono i piedi fuori dai patrii confini mangiano solo nei ristoranti italiani, ma la vomitata di Giobby del mattino ci obbliga a non esagerare con le schifezze). Il bello in America è che ti servono, compreso nel prezzo della cena, un bicchiere d’acqua senza che tu lo richieda che ti viene riempito all’infinito quando è vuoto. Una cosa a cui prestare attenzione è la tassa che aggiungono al prezzo indicato nel menu (a cui sommare la mancia) che fa schizzare il nostro conto, bistecca di manzo + petto di pollo con contorni di verdure, a 55 $.
Lunedì 28 Settembre 2009 Stamattina il tempo, contrariamente a ieri quando era caldo e soleggiato, è nuvoloso e con temperatura fresca. Per placare la mia ansia, per prima cosa andiamo a vedere dove si trova esattamente l’autonoleggio Hertz vicino a Union Square; proprio nella piazza di Union Square sostiamo qualche minuto per decidere l’itinerario da percorrere per raggiungere il molo da cui dobbiamo imbarcarci per Alcatraz. La piazza è una piacevole scoperta, una isoletta felice ricca di panchine e aiuole in mezzo agli alti edifici dei centri commerciali e negozi come Macy’s, Tiffany et similia. Il nostro itinerario lambisce Chinatown per inoltrarsi nel quartiere di North Telegrah, la Little Italy di San Francisco: diversamente a quella di New York, è molto più tranquilla, meno chiassosa e soprattutto meno pacchiana. Non mancano anche qui i tricolori dipinti a ogni lampione e i nomi dei locali, con relativi menù, storpiati e improbabili ma l’atmosfera è calda e familiare. Lungo l’arteria principale Columbus Avenue (la fantasia è merce rara da queste parti) giungiamo a Washington Square per visitare la chiesa dei Santi Pietro e Paolo: nulla di rilevante da rimarcare se non la vista esilarante di numerosi cinesi che sulla piazza compiono allenamenti di Tai-Chi e danza cinese completamente fuori tempo.
Alle 11 siamo al molo da dove, alle 11.30 spaccate, ci imbarchiamo per l’isoletta di Alcatraz, l’ex prigione di massima sicurezza ora diventata parco nazionale (la visita è gratuita, bisogna pagare il biglietto del Ferry che costa 26 $ a testa). La navigazione dura 15 minuti scarsi, durante i quali, sferzati da un vento fortissimo e fastidioso, vediamo allontanarsi lo skyline di San Francisco e avvicinarsi l’isoletta, in compagnia (a detta di Giobby) di due delfini Flipper che spuntano dalle onde.
Alcatraz è segnalata dalla guida come una delle attrattive della città e infatti la troviamo interessantissima; un’audio guida in italiano ci spiega tutto quello che si deve sapere mentre facciamo il tour del penitenziario: vediamo i bracci (tra cui due chiamati ironicamente Broadway e Times Square) dove venivano rinchiusi i detenuti, le celle di isolamento, il refettorio, la biblioteca, entriamo fisicamente nelle celle, sentiamo dalla voce della guida le testimonianze delle guardie penitenziarie e dei prigionieri riguardo ai tentativi di evasione. Paradossalmente, il momento più pericoloso era quello del pranzo o della cena, in cui i reclusi potevano maneggiare coltelli e forchette con la possibilità di attaccare le guardie.
La vista da Alcatraz verso la città è stupenda (come dovevano soffrire i prigionieri nel vedere la libertà davanti ai loro occhi fusa in una visione così spettacolare) ma dobbiamo tornare indietro, dove ci aspettano le fish & chips di Fisherman’s Wharf (ottimo rapporto qualità – prezzo).
Il pomeriggio lo dedichiamo alla visita della Coit Tower posta su una sommità a ridosso sul mare, dalla quale scendiamo lungo una strada ripidissima (più ripida della via più ripida del mondo Hyde Street) per tornare verso il centro dove vogliamo dedicare qualche ora allo shopping. Purtroppo sprechiamo due ore perché la questione delle taglie è complicatissima, per trovare qualcosa che non ci stia addosso come un sacco di patate dobbiamo andare nel reparto bambini, dove la scelta è ridotta e lo stile è infantile. Delusi e stanchissimi torniamo in albergo, stasera cena in camera con i sempre affidabili ed economici panini di Subway. Domani la sveglia suonerà presto, si parte per Yosemite.
Martedì 29 Settembre 2009 Sbrighiamo le pratiche del noleggio, capiamo come guidare una macchina con il cambio automatico (è veramente semplice) e lasciamo San Francisco percorrendo il Bay Bridge. Dopo 3 ore e mezza di autostrada fino a Merced e strada secondaria che passa attraverso una distesa immensa di prati color giallo paglia, colline e infine le montagne della Sierra Nevada, arriviamo al nostro albergo a El Portal: lo Yosemite View Lodge, a pochi chilometri dall’entrata del parco.Con nostra piacevole sorpresa, la camera è spaziosa, ha il piano cottura e addirittura l’idromassaggio! All’entrata del parco facciamo subito l’Interagency Annual Pass che per 80 $ (a vettura) consente l’entrata illimitata per un anno in tutti i parchi nazionali. Yosemite è un inno alla natura, altissime montagne di granito si stagliano verso il cielo, con i pendii dritti e ripidi come fossero tagliati di netto da un’accetta. Numerose specie di animali selvatici, tra cui scoiattoli, cervi e cerbiatti, si incontrano per strada e in mezzo ai sentieri. L’unico neo è dovuto alla stagione secca, infatti non possiamo vedere le famose Yosemite Falls, le cascate che durante la primavera scendono impetuose lungo i declivi delle montagne. Ci accontentiamo della vista dell’Half Dome e di El Capitan, le due più famose montagne di granito del parco.
Con la navetta gratuita che fa il giro dello Yosemite Villane, scendiamo alla fermata numero 17 per prendere il sentiero che porta al Mirror Lake, lago su cui si specchiano le montagne circostanti che, per colpa della stramaledetta già citata stagione secca, il lago sia una distesa di sabbia il cui unico pregio sta nel fatto che dal centro di essa scattiamo bellissime foto del paesaggio intorno.
Alle 19 torniamo in albergo, ceniamo in camera con pizza di asporto ai peperoni (che per gli americani è il salame piccante…).
Mercoledì 30 Settembre 2009 Giornata interamente dedicata alla visita della parte meridionale di Yosemite. Per fortuna oggi il tempo è magnifico anche se la temperatura è piuttosto frizzante.
Saliamo sulla nostra fiammante Mazda 6 grigia e dopo essere entrati nel parco sostiamo 10 minuti sotto l’unica cascata che in questo periodo si riesce a vedere, anche se il gettito è flebile: Bridalveil Fall, chiamata così perché assomiglia al velo di una sposa. Scattata la decina di foto d’ordinanza, ci dirigiamo verso Wawona da dove prendiamo la navetta per Mariposa Grove, base naturale per ammirare le bellissime sequoie giganti. Le avevamo viste in precedenza sui libri e sulle guide, ma dal vivo si rimane a bocca aperta di fronte alla loro maestosità ed eleganza.
Percorriamo un piacevole sentiero che si snoda attraverso la foresta, permettendoci di vedere queste meraviglie della natura: sono impressionanti anche le sequoie cadute e terra, formano immensi ponti su cui si potrebbe camminare a occhi chiusi. Passiamo di fronte al gigantesco Grizzly Giant, una sequoia che secondo il pannello illustrativo posto alle sue radici è alta come un Boeing 747 e più alta della Statua della Libertà. Un’altra attrattiva è il tunnel che passa sotto un ennesima sequoia; qui c’è la coda per fare le foto, constatiamo con piacere che molta gente (qui e altrove) chiede con gentilezza se vogliamo che ci scattino una foto insieme.
Tornati a Wawona, facciamo il nostro primo incontro con una pompa di benzina americana (che da un’equazione sommaria risulta costare 0,7 euro al litro, e meno male che nei parchi è più cara!). La nostra macchina va a Gasolina (benzina senza piombo) che è nella pompa con il manico nero; diversamente che in Italia, prima paghi e poi fai benzina… La nostra prossima tappa è Glacier Point, uno dei punti visitabili più alto di Yosemite.
Arrivati a destinazione, ci accorgiamo subito di quanto sia valsa la pena arrivare fin qui, su una strada lunga e tortuosa rallentata anche da lavori in corso. Quello che ci si presenta davanti alle balconate a 1000 metri a strapiombo sulla Yosemite Valley è uno spettacolo mozzafiato, un paesaggio letteralmente da cartolina: sullo sfondo le cime più alte e lontane della Sierra Nevada, davanti le montagne di granito Half Dome e El Capitan illuminate dal sole e sotto la foresta tagliata in due dalla strada. Prima di lasciare questo luogo incantato che non dimenticheremo facilmente abbiamo il tempo di fare un “servizio fotografico” a uno scoiattolo che si avvicina senza paura ai nostri piedi, e a un altro che si disseta a una pozzanghera vicino alla nostra macchina.
Alle 18.30 siamo in albergo e si ripropone il dilemma della cena: siamo stanchi di mangiare panini e pizze pesanti come un mattone, quindi decidiamo di spendere un po’ di più (27 $ a testa) e andare al ristorante del Lodge a mangiare un’ottima bistecca ricoperta di patatine fritte con buffet di zuppe e insalate incluso nel prezzo.
Giovedì 1 Ottobre 2009 Stamattina la sveglia suona presto, alle 6.30 siamo già in piedi per affrontare la tappa più lunga del nostro viaggio (circa 430 km) che ci porterà alla Death Valley. In realtà la prima sveglia ci viene data alle 3.30 da una leggera scossa di terremoto che fa sobbalzare la nostra stanza, ma siamo talmente stanchi che la sentiamo appena e ci riaddormentiamo subito. Impostata la nostra destinazione sul navigatore ci apprestiamo a vedere per l’ultima volta lo Yosemite Park. Stando attenti a non spiaccicare gli innumerevoli scoiattoli che ci attraversano davanti la strada, percorriamo il Tioga Pass Road, una strada che collega il parco da ovest a est (chiusa da novembre a giugno inoltrato causa neve). La zona est di Yosemite è meno battuta dai turisti, così vista anche l’ora mattutina ne approfittiamo per fermare la macchina lungo i belvedere disseminati per la strada e scattare le ultime foto. Usciti dal parco e arrivati a Lee Vining, prendiamo la Highway 395 che scende gradualmente verso valle.
Il bello degli USA è che anche negli spostamenti tra un punto e l’altro si incontrano paesaggi meravigliosi che si possono ammirare anche senza smettere di guidare. Così è fino a Lone Pine (dove pranziamo e facciamo benzina) con ai lati due catene montuose mozzafiato.
Ora siamo sulla 190 e fino alla Death Valley lo spettacolo è straordinario. Per chilometri e chilometri non incrociamo una macchina né incontriamo una curva, ci sediamo addirittura in mezzo alla strada a scattare qualche foto. Cominciamo a intravedere le prime tracce di deserto, la terra è arsa dal sole e infiniti cespugli rinsecchiti disseminano il paesaggio. A un certo punto la strada scende in picchiata e si fa tortuosa, attraversiamo un piccolo canyon con sullo sfondo montagne che sembrano tavolozze su cui sono state versate tutte le tonalità del marrone. Vediamo le dune di sabbia, un pezzo di deserto del Sahara nel bel mezzo dell’ovest americano, che alcuni temerari raggiungono a piedi. Mano a mano che ci avviciniamo al centro della Death Valley la temperatura raggiunge i 30° (stamattina a Yosemite eravamo vicini allo zero!), finalmente alle 15 arriviamo al Furnace Creek Ranch, un’oasi in mezzo al deserto dove abbiamo prenotato una camera.
Sistemate le valigie partiamo alla scoperta della Death Valley vera e propria: la prima tappa è il Golden Canyon, un sentiero roccioso di 3 km che attraversa rocce color giallo acceso (la temperatura supera i 30°, non osiamo immaginare il caldo che fa a luglio e agosto). Poi è la volta del punto forse più famoso della valle il Badwater Basin, la distesa di sabbia e sale posta 86 metri sotto il livello del mare. Qui non c’è letteralmente nulla, solo un paesaggio lunare molto affascinante con sfumature dal bianco al grigio perla; l’unica cosa che ci ricorda di essere sulla terra è un minuscolo stagno dal quale affiorano isolette di sale e piccolissimi insetti che, non si sa come, riescono a viverci. Per ultimo tocca ad Artist Drive, una lingua stretta di asfalto a senso unico che passa attraverso montagne gialle, rosse e marroni. Ormai siamo al tramonto e i colori che vediamo sono magici, l’ultima immagine della giornata siamo noi sulla strada, da un lato il sole già tramontato illumina ancora una parte della valle, dall’altro una luna piena bianca come zucchero fa capolino sopra una montagna color cacao.
Per cena mangiamo da 49’ers, una tavola calda stile saloon con prezzi dignitosi e qualità sufficiente.
Venerdì 2 ottobre 2009 La sveglia stamattina suona ancora prima di ieri, alle 5 ci alziamo dal letto per vedere l’alba da Zabriskie Point. Arriviamo prima di tutti che è ancora buio ma dopo mezz’ora la luce dell’alba comincia a rischiarare la valle colorando le montagne di un color rosa tenue. La linea d’orizzonte del sole scende a vista d’occhio cambiando il colore della catena montuosa davanti a noi, prima marrone poi beige. Qui le foto si sprecano, se la macchina fotografica funzionasse ancora a rullini ne consumeremmo uno intero. Torniamo in albergo per recuperare le valigie e fare colazione per poi dirigerci verso Dante’s View, punto panoramico a circa 1600 m di altitudine da cui si abbraccia con un solo sguardo l’intera Death Valley.
Delusi per non avere visto né il coyote né bee beep , abbandoniamo questa meraviglia geoologica e la California per il Nevada, guidando lungo la strada 190 e poi da Pahrump (orrendo paesino con solo pompe di benzina, fastfood e centri commerciali) lungo la 160 per Las Vegas.
Due considerazioni en passant: non capiamo perché i limiti di velocità, su queste strade larghe, diritte e con pochissimo traffico , siano così bassi (max 65-70 mph ovvero 110-120 kmh), ma soprattutto perché sia quasi impossibile trovare una stazione radio che non trasmetta canzoni religiose.
I sobborghi di Las Vegas sono tristi e anonimi, ma quando si arriva in centro la musica cambia: il traffico aumenta di colpo e i primi grandi alberghi appaiono alla nostra vista. Noi alloggiamo all’Excalibur, gigantesco hotel a forma di castello che riprende il tema di Re Artù e i cavalieri della tavola rotonda.
A Las Vegas sono molti furbi e per attirare i clienti ogni albergo dispone di grossi parcheggi gratuiti.
Entriamo alla reception e subito si presentano davanti a noi file di slot machine, tavoli da blackjack, da poker e postazioni da roulette ( scopriamo con disappunto che nei casinò si può fumare…).
Fatto il check-in, un inserviente dell’albergo, constatato che non siamo sposati, mi offre subito un biglietto per uno spettacolo di strip-tease della sera… Siamo o non siamo nella città del peccato? La nostra camera (al 28° piano) sia affaccia sull’hotel-casinò New York New York che riproduce più o meno fedelmente Statua della Libertà, ponte di Brooklin e Empire State Building. Anche se un po’ stanchi per la levataccia mattutina, decidiamo subito di fare quattro passi per lo Strip, la strada più famosa di Las Vegas. C’è moltissima gente e si sprecano le offerte invadenti e fastidiose per assistere a questo e a quell’altro spettacolo serale, a luci rosse e non. Uno dopo l’altro passiamo davanti a tutti gli alberghi più famosi della città (un’altra pazzia di Las Vegas è che, oltre che per giocare al casinò, la gente viene per vivere e fotografare gli alberghi): Montecarlo, Planet Hollywood, Bellagio (ogni mezz’ora questo offre un suggestivo spettacolo di fontane d’acqua accompagnate al ritmo di musica classica), Caesars Palace, Venetian. Quest’ultimo è composto tra le altre cose dal campanile di San Marco, il Ponte di Rialto e una riproduzione del Canal Grande, con tanto di gondole e gondolieri. Naturalmente ogni hotel ha al suo interno il casinò, noi a quello del Bellagio giochiamo 2 $ alla slot machine ma ovviamente non vinciamo niente. Delusi ci consoliamo con il cibo: al Treasure Island Hotel sfruttiamo un’offerta diffusa qui a Las Vegas, per 16 $ a testa mangiamo e beviamo a buffet tutto quello che vogliamo (c’è il banco della cucina cinese, messicana, spagnola, frutta, insalata e dolci a volontà). Alle 17, appesantiti e con i polpacci che cominciano a mordere, rientriamo in camera per un breve riposino. Non vedere Las Vegas di notte è come visitarla a metà; infatti lo scenario rispetto al pomeriggio cambia completamente: lo Strip è illuminato a giorno e ogni hotel con le luci accese dà il meglio di sé, in confronto gli Champs Elysées e la Tour Eiffel (quelli veri!) sono quasi spenti. Anche lo spettacolo di spruzzi d’acqua del Bellagio con le luci fa tutto un altro effetto. Mancava all’appello l’Hotel Luxor e presa la monorotaia gratuita ecco che ci troviamo davanti, tanto per gradire, una sfinge a grandezza naturale e un’altissima piramide di vetro nero. Prima di svenire a letto cosa mancava? Ma che domanda: un’eruzione di vulcano proprio davanti al Mirage.
Si può dire tutto di Las Vegas: che sia un circo a cielo aperto, un divertimentificio costruito apposta per spillare soldi, un luogo di perdizione, ma sicuramente è una città unica nel suo genere, che ha l’indiscutibile merito di ravvivare un po’ la vita di uno stato come il Nevada veramente povero di attrattive.
Sabato 3 ottobre 2009 Alle 7 e 15, con un caffè latte rovente e un pezzo di torta da 10.000 calorie, siamo già in macchina visto che oggi ci aspetta la giornata forse più impegnativa della vacanza: abbiamo in programma la visita di due parchi, Zion National Park e Bryce National Park. Lasciamo Las Vegas percorrendo l’highway 15 direzione nord, dopodiché prendiamo la strada numero 9 arrivando a Zion alle 11.30. Entrando nello Utah portiamo avanti le lancette di un’ora, quindi adesso rispetto all’Italia siamo 8 ore indietro. Il parco di Zion (pronuncia Zàion) è una profonda e stretta gola che si potrebbe dividere in due parti: la prima è visitabile solo tramite una navetta gratuita (shuttle) dalla quale si può risalire e scendere quando si vuole lungo le 9 fermate che individuano i punti più caratteristici. Le montagne che vediamo lungo il percorso ricordano nella forma le nostre Dolomiti, anche se queste sono rosse (anche l’asfalto, per conformarsi al paesaggio, è rosso).
Scendiamo a tutte le fermate e a Wheeping Rock facciamo un corto sentiero che permette una visuale suggestiva della valle. Riusciamo a compiere tutto il tragitto in quasi due ore e alle 14.15 risaliamo in macchina. Sinceramente questa parte del parco ci delude un po’, probabilmente perché avendo poco tempo non possiamo inerpicarci per i sentieri (da 1 a 3 e più ore di cammino) che ci consentirebbero una conoscenza più approfondita.
La seconda parte, che a noi è piaciuta molto di più, comincia dopo aver attraversato lo stretto tunnel di Mount Carmel, con montagne meno alte e più smussate, stratiformi e color ferro. La porzione di Utah che stiamo passando è molto carina, verdi paesaggi si intervallano a estesi prati dove pascolano mandrie di bestiame nero, i paesini che incontriamo sono pittoreschi e graziosi. Prima di arrivare a Bryce ci fermiamo a scattare qualche foto al Red Canyon, piccolo ma meritevole di una visita. Alle 16.30 varchiamo l’entrata di Bryce Canyon che precisamente è un altopiano calcareo in cui l’erosione ha scolpito rocce dalle forme e dai colori sorprendenti. Ci fiondiamo per prima cosa al Sunset Point, dove una passerella molto ben posizionata (una costante nel parco) permette una vista stupenda su un’intera valle di hoodoos, i tipici pinnacoli di colore rosso e arancione.
Contrariamente a Zion che si visita salendo e solo con la navetta, Bryce si esplora scendendo verso il basso con la propria macchina; andando verso sud incontriamo e scattiamo mille foto al Natural Bridge (una bellissima costruzione naturale a forma di ponte), Inspiration e Bryce Point, Agua Canyon fino ad arrivare alla fine della strada e al punto più alto del parco a circa 2800 m: Rainbow Point dal quale si ha una visuale emozionante a 180 gradi della valle. Tornando verso nord ci imbattiamo in 4 antilopi di montagna che noncuranti della nostra presenza brucano l’erba con soddisfazione.
Finalmente alle 19 riusciamo ad entrare in camera al Best Western Ruby’s Inn, che all’esterno sembra un complesso industriale ma dentro non è male, c’è la piscina e un fornitissimo negozio di souvenirs indiani. Mangiamo a buffet al ristorante dell’albergo, non è quello di Las Vegas ma considerando che oggi non abbiamo mangiato quasi niente va più che bene.
Domenica 4 ottobre 2009 La nostra destinazione oggi è la Monument Valley. Faremo la prima parte del viaggio nello Utah, successivamente entreremo in Arizona per poi tornare nello Utah. Partiamo da Bryce alle7.15 percorrendo la strada 89 fino a Page, poi svoltiamo sulla 198 fino a Kayenta e infine sulla 163 fino alla Monument Valley.
Il primo incontro della giornata è molto piacevole: un bellissimo cervo attraversa la strada molto vicino a noi, tanto che dobbiamo frenare di colpo per non investirlo. Più o meno a metà tragitto facciamo una breve sosta al Lake Powell, un esteso lago artificiale con falesie a picco e un grosso scoglio che spunta dall’acqua, il Lone Pine.
Arriviamo alla Monument Valley alle 13.30 e paghiamo il biglietto d’ingresso (5 $ a testa), essendo in territorio Navajo è gestito direttamente dagli indiani e non è compreso nell’Interagency Annual Pass. Lo spettacolo è meraviglioso: una strada lunga 17 miglia sterrata e polverosa come quelle del vecchio West (perfettamente accessibile anche con una berlina come la nostra Mazda) si insinua in mezzo a ciò che milioni di anni di erosione causata da vento e acqua hanno trasformato in vere e proprie sculture naturali di colore rosso, chiamate butt quando sono più alte che larghe e mesa quando sono più larghe che alte. Queste fantastiche “costruzioni” alla base sono piene di detriti che gli agenti atmosferici erodono in continuazione. Il tutto è impreziosito da un paesaggio tipicamente desertico, dune sabbiose su cui crescono radi cespugli e bassi alberi spogli.
Per tutto il percorso una tempesta di sabbia alzata da un vento impetuoso ci tormenta, per consolarci pensiamo che così sia più caratteristico anche perché per fortuna abbiamo la macchina, il problema è che dobbiamo scendere per scattare le foto e aprire la portiera non è sempre facile. Volendo ci sarebbe un altro modo per visitare la valle: gli indiani organizzano tour a bordo di pick-up scassati ma non ci sembra gradevole e soprattutto pare molto frettoloso.
Noi impieghiamo circa 3 ore a fare il giro completo, finito il quale per ripararci un po’ dal vento entriamo nel negozio di souvenir al Visitors Center dove compriamo a prezzi onesti dei vasetti di terracotta fatti a mano dagli indiani. Questi indiani Navajo sono un popolo fiero e dignitoso, si guadagnano da vivere gestendo il parco in modo spartano ma ben organizzato costringendo i molti turisti che lo affollano a rispettare la loro tradizione e la loro cultura.
Alle 18 arriviamo all’albergo Hampton Inn che si trova a 38 km dalla Monument Valley, a Kayenta, una cittadina tristissima posta all’incrocio tra due strade e sferzata continuamente da un impetuoso vento sabbioso. Noi a Genova siamo abituati ma un vento così forte come quando scendiamo dalla macchina non lo abbiamo mai sentito… Nonostante la desolazione del posto, l’hotel ha camere spaziose e confortevoli, la nostra ha un’imperdibile vista su un McDonald’s e un Burger King.
Mangiamo discretamente al ristorante dell’albergo, io una sorta di zuppa calda di maiale, patate e ceci e Giobby la decima bistecca di beef.
Lunedì 5 ottobre 2009 Per la prima volta la colazione è compresa nel prezzo. Rifocillati a dovere, poco prima delle 8 partiamo per la meta più attesa della vacanza: il Grand Canyon.
Lasciamo Kayenta facendo la strada 89 fino a Cameron e poi la 64 fino a South Rim, la sponda sud del Grand Canyon, dove arriviamo alle 10 (in realtà sono 3 ore di strada solo che cambiamo fuso orario tornando a – 9 rispetto all’Italia). Rispetto a ieri, quando abbiamo cambiato stato 3 volte, rimaniamo tutto il giorno in Arizona. Per quel poco che riusciamo a vedere, questo stato ci sembra piuttosto povero, i pochi paesi che incontriamo hanno case fatiscenti, quando non sono caravan abitati (trailers) o addirittura abbandonate.
Visto l’aspettativa e l’impazienza di visitare il Grand Canyon, abbiamo paura che condizioni meteorologiche sfavorevoli ci rovinino la gita; per fortuna i nostri timori sono infondati: la giornata è stupenda, il cielo è terso, la visuale ottima anche se la temperatura, trovandoci a più di 2000 m di altitudine, è rigida (raggiunge a stento i 10°C).
Entrati nel parco, lasciamo la macchina nel primo parcheggio disponibile e finalmente vediamo quello per cui abbiamo aspettato tanto; che dire del Grand Canyon che non sia già stato detto, descritto e fotografato? Altissimi torrioni di roccia dai contorni irregolari, ampi alla base e più sottili in cima, si fronteggiano tra loro divisi da strette gole, laggiù in fondo scorre apparentemente placido il principale “responsabile” di questo miracolo geologico, il Colorado River, di cui si scorge ogni tanto qualche ansa. Davanti e più in alto rispetto a noi si trova il North Rim, distante in linea d’aria una decina di miglia ma raggiungibile in macchina solo dopo 215 miglia di strada.
Partiamo a piedi da Mather Point lungo il sentiero che costeggia il canyon fermandoci a tutte le postazioni panoramiche per ammirare la vastità di quanto ci sta sotto. Qui facciamo il nostro incontro giornaliero con la fauna locale: davanti a noi zampetta un impressionante tarantola nera e pelosa, se non fosse per gli eccitati vecchietti che la “scortano” la schiacceremmo con piacere (scherziamo…). Dopo aver pranzato, prendiamo la navetta gratuita di colore rosso che copre la Hermist Rest Route; alterniamo sali e scendi dalla navetta a brevi camminate dove troviamo alcuni punti molto interessanti: The Abyss, con falesie a picco sul Colorado e Pima Point, altro luogo strategico per il panorama.
Ci sono anche sentieri che scendono in fondo al canyon (il più famoso dei quali è il Bright Angel Trial), ma noi decidiamo di non percorrerli poiché bisogna scendere per molto tempo (la risalita poi dura 8 ore!) e questo richiede un abbigliamento e un allenamento adatti che noi non abbiamo. Se questo non possiamo farlo, non ci perdiamo per nulla al mondo un altro must del Grand Canyon: il tramonto. Andiamo ad aspettarlo a Yaki Point, a detta di molti uno dei posti migliori; alle 17 siamo già lì (oggi il sole tramonta alle 18.06) e lo spettacolo giustifica l’attesa: più la linea dell’ombra sale più il crinale ancora al sole si accende di rosso, quando il sole tramonta definitivamente tutto il canyon è di un arancione scuro. E’ una delle visioni più romantiche mai ammirate, non ci curiamo minimamente del freddo pungente e di un gruppo di americane che starnazzano senza sosta come oche.
Aspettiamo la navetta della linea verde che ci riporta dalla macchina, alle 19 siamo all’albergo Best Western Squire Inn che si trova a Tusayan (3 km fuori dal parco).
Non abbiamo molte alternative per mangiare e quindi ci rifugiamo al ristorante dell’albergo, dove troviamo prezzi molto alti non giustificati dalla qualità della cena.
Martedì 6 ottobre 2009 Non ci sembra vero che stamattina la sveglia suoni alle 8 e non all’alba. Anche oggi la colazione è inclusa nel prezzo, al tavolo abbiamo ospite una simpatica coppia del New Hampshire con cui intratteniamo una breve conversazione.
Alle 10 partiamo verso sud lungo la strada 64 passando davanti all’eliporto da cui partono i tour in elicottero sopra il Grand Canyon. Arriviamo fino a Williams da dove, ignorando il navigatore, vogliamo raggiungere la Route 66 senza prendere l’autostrada. Pensiamo bene di percorrere per parecchi chilometri una strada sterrata finché non ci troviamo sopra un gasdotto in mezzo alla campagna, con noi solo gli alberi, gli uccelli (tra cui il road runner, che a differenza del cartone animato è un grosso fagiano) e qualche mucca solitaria. Se la macchina ci lasciasse a piedi non sappiamo chi potrebbe venire a recuperarci dato che pure i cellulari non hanno campo. Non ci azzardiamo a proseguire oltre e facciamo subito marcia indietro verso Williams per salire poi sull’highway 40, nel frattempo qualche maledetto sta cominciando ad appiccare numerosi focolai nella foresta di Kalibab sulla nostra sinistra; oggi non sembra proprio la nostra giornata fortunata… All’uscita 123 scendiamo dall’autostrada per entrare ufficialmente sulla Route 66, la nostra porta d’ingresso è Seligman, un piccolo paese molto colorato con il simbolo 66 a ogni millimetro. Questa mitica strada , celebrata da Kerouac e dagli esponenti della Beat Generation, fu la prima a collegare gli Stati Uniti da Chicago a Santa Monica. Dal punto di vista della viabilità è stata oggi soppiantata dall più comode highways, ma resta sempre una tappa obbligata per chi viaggia nell’Ovest americano.
La seguiamo fino a Kingman, l’ambiente circostante è arido e spoglio con qualche altopiano boscoso all’orizzonte, i pochi insediamenti abitativi che incrociamo sembrano quasi disabitati (eppure sono segnalati sulla cartina, cosa può fare la potenza di un mito…). Giunti a Kingman ci fermiamo in un ristorante segnalato dalla nostra guida Routard, il Dambar Steak House, caratteristico locale in tipico stile Western con sedie e tovaglie “muccate”, dove con 11 $ a testa mangiamo bene (hamburger gigante e petto di pollo monstre), anche se la cameriera inizialmente ci scambia per francesi… Risaliamo sulla 66 per raggiungere Oatman, un paesino incastrato tra le montagne che una volta era un avamposto per lo sfruttamento di una miniera d’oro, con l’esaurimento di questa decadde a ghost town e ora è diventato un insieme di negozietti di souvenirs un po’ dozzinali ma in fin dei conti pittoreschi. La particolarità di questo posto è che una mandria di asini gira libera per la via principale tanto che la pulizia della strada, per così dire, ne risente.
Per oggi la nostra gita finirebbe qui ma l’avventura no, infatti per arrivare al nostro albergo a Laughlin (20 km di strada) commettiamo lo stesso errore di stamattina: stavolta con la complicità del navigatore ci inoltriamo per un’altra stradina (sarebbe meglio dire sentiero) pietrosa e ricca di curve, ci inquietiamo ancora di più vedendo qualche segnale stradale bucato da proiettili.
Sani e salvi arriviamo all’Aquarius Hotel alle 18; siamo in Nevada, quindi l’albergo al pianterreno ha anche il casinò. Laughlin è la copia povera di Las Vegas, tanti mega alberghi con casinò senza la follia, la fantasia e la folla della sua illustre “collega”. La camera però è molto spaziosa e ben arredata, con una vetrata con vista fiume Colorado e montagne dell’Arizona.
Quella che doveva essere una giornata tranquilla di “trasferimento” si è invece rivelata la più avventurosa della vacanza, forse siamo stati un po’ incoscienti, ma così abbiamo visto veramente l’America profonda e selvaggia, senza frotte di turisti al seguito ma solo con la solitudine degli spazi sconfinati. Ceniamo al buffet dell’albergo (16 $ a testa) dove fanno le serate culinarie a tema: stasera è previsto l’Italian Tuesday. Ci fa piacere mangiare un po’ di pasta dopo tonnellate di carne (un vegetariano in vacanza negli USA morirebbe di fame) anche se i sughi hanno degli aspetti scoraggianti. Ci rifugiamo in quelli che si avvicinano di più al colore di una salsa al pomodoro, sinceramente preferiamo il buffet di Las Vegas.
Mercoledì 7 ottobre 2009 Alle 8 lasciamo la dimenticabile Laughlin e dopo pochissimi chilometri torniamo definitivamente in California. Percorriamo la 95 direzione sud per salire poi sulla 62, dove sul terrapieno del binario ferroviario che scorre parallelo moltissime persone per chilometri e chilometri hanno lasciato le loro tracce scrivendo i propri nomi con pietre colorate. Qui la temperatura sale, ci accorgiamo dal paesaggio che stiamo entrando nel deserto californiano.
Alle 11.30 arriviamo a Twenty-nine Palms dove c’è una delle entrate per l’ultimo parco che dobbiamo visitare: il Joshua Tree National Park. Come dice il nome, il protagonista indiscusso è il Joshua Tree, un vegetale che assomiglia al cactus, ma in realtà è un buffo e basso albero dal tronco sottile alle cui estremità crescono delle foglie simili a spine. Deve il suo nome ai primi mormoni che solcarono il luogo, ai quali sembrava che i suoi rami invocassero al cielo la terra promessa proprio come Giosuè. Anche gli U2 hanno contribuito ad accrescerne la fama dedicandogli un album, anche se l’albero raffigurato in copertina si trovava nella Death Valley… Il parco si visita molto bene in macchina, le strade sono in perfette condizioni e chissà perché poco affollate, nonostante questo luogo offra scorci e particolarità interessanti e uniche. Facciamo rapide soste per alcune fotografie agli alberi, sul terreno ci sono parecchie buche che secondo noi potrebbero essere tane di serpenti o tarantole; Giobby, con la sua fobia totale per qualsiasi animale che striscia, rimane inchiodata all’asfalto.
Andiamo a vedere, nella parte di parco dal clima più arido, un giardino dove crescono i Cholla, una specie di cactus multicolori marroni e gialli.
Tra tutti i tipi di rocce che abbiamo incontrato, qua ne scorgiamo uno nuovo: grossi massi di granito levigati e arrotondati dalla divertente forma di mammelle.
Dopo questa singolare scoperta decidiamo di guidare fino ai circa 1600 m di Key’s View, come dice il nome un punto chiave della zona; da qui si ha una vista completa della Coachella Valley, di Palm Springs e nelle giornate più limpide anche di una piccolissima parte del Messico. Oggi purtroppo il tutto è offuscato dallo smog e dalle emissioni delle industrie della South California.
Qui siamo praticamente sopra la faglia di Sant’Andrea, che secondo gli esperti causerà entro pochi decenni The Big One, il tremendo terremoto che sconvolgerà la California (ha aspettato millenni, speriamo aspetti ancora 2 giorni…).
Alle 15 usciamo dal parco attraverso il paesino omonimo di Joshua Tree, pranziamo velocemente da Subway e alle 16 siamo a Palm Springs , nostra base per la notte. Palm Springs non è altro che il buen retiro di anziani e pensionati che svernano qui attirati dal clima caldo e secco e dagli innumerevoli campi da golf. Il nostro albergo è il Best Western Inn, anonimo e poco curato, forse il peggiore in cui siamo stati finora.
Per cena abbiamo voglia di pizza: prendiamo la macchina e scegliamo in centro a Palm Springs il ristorante italiano Tuscany. Il posto è molto carino (a parte le terribili canzoni di Albano in sottofondo) e la pizza discreta, anche se la digeriamo il mattino dopo.
Giovedì 8 ottobre 2009 Alle 7 ci svegliamo, facciamo la colazione inclusa nel prezzo e alle 7.40 partiamo alla volta di Los Angeles. Prima di imboccare l’highway 40 che ci condurrà fino alla città degli angeli passiamo di fianco a un impressionante impianto eolico, dove non meno di 1000 pale girano vorticosamente sospinte da un vento fortissimo.
A mano a mano che ci avviciniamo alla città il traffico aumenta sempre più, meno male che l’autostrada ha 5 corsie e possiamo sfruttare il car pool, una corsia preferenziale per auto con due o più passeggeri, il che non impedisce che alcuni chilometri li facciamo comunque in coda. Ora capiamo meglio da dove viene tutto l’inquinamento che abbiamo visto ieri da Joshua Tree. Ci rechiamo prima di tutto a Venice Beach dove arriviamo alle 10.20, un piccolo tratto del lungomare di Los Angeles, paradiso dei surfisti e degli skaters, mentre sulla strada c’è una miriade di negozietti dalla merce scadente. Dalla spiaggia lunga e dalla sabbia finissima sentiamo l’odore dell’oceano, oltre a vedere una torretta da bagnino con sotto il classico gippone giallo da Baywatch.
Subito dopo ci dirigiamo verso Beverly Hills dove al parcheggio della biblioteca accade il miracolo: le prime due ore di sosta sono gratuite!!! Beverly Hills non è un quartiere, è una città vera e propria da più di 40000 abitanti; è conosciuta come il luogo più lussuoso e ricco del pianeta e noi ne abbiamo la conferma visiva passeggiando per Rodeo Drive dove ammiriamo delle villette stupende tutte con giardino e auto fiammanti. Ad ogni porta è attaccato l’avviso di sorveglianza 24 ore su 24, non ci azzardiamo a scattare nessuna foto per paura di essere arrestati. Non parliamo dei negozi, tutte le marche più care e prestigiose del mondo sono in bella mostra, non proviamo neanche ad entrare perché per come siamo vestiti ci sbatterebbero subito fuori. Lasciamo questo posto davvero esagerato per andare a Hollywood. La guida giustamente dice che l’unico mezzo per girare Los Angeles è la macchina, dato che le cose da vedere sono molto distanti tra loro, il problema è che si è sempre imbottigliati nel traffico e trovare parcheggio è un’impresa (è indispensabile avere il navigatore altrimenti si girerebbe per ore senza fine…). Dopo una ricerca di mezz’ora, parcheggiamo la macchina ai bordi della strada per 2 $ all’ora per un massimo di 2 ore (niente foglietti sul cruscotto, ogni auto ha il suo parchimetro che segna il tempo di sosta rimanente). Hollywood non ha niente del mito del cinema, le stars se ne stanno rinchiuse nei loro villoni sulle colline, le famose stelle della Walk of Fame si perdono tra il camminare frenetico della folla (tra l’altro molti nomi sono a noi sconosciuti) ed è tutto un susseguirsi di negozietti di souvenirs che vendono riproduzioni della statuetta dell’Oscar, portachiavi e calamite. L’unica cosa che ci piace molto è la piazzetta davanti al Chinese Theatre dove molte stelle del cinema hanno impresso sul cemento la forma delle loro mani e dei loro piedi. Scopriamo così che Al Pacino ha mani enormi, che Will Smith ha piedi esagerati e che Tom Hanks ha esattamente la mia misura di scarpe. Tra quelle dei nostri Mastroianni e Sofia Loren ci sono anche le simpatiche forme di Paperino e quelle veramente minuscole di Shirley Temple.
Tentati dalla nostra guida, ci avventuriamo sulle colline di Hollwood in cerca delle residenze delle stars. A Mulholland Drive abitano Jack Nicholson e Sharon Stone, noi effettivamente arriviamo davanti ai numeri civici che indica la Routard, ma la sola cosa che riusciamo a vedere è…Il cancello. Dopo questa inutile gita, ci sorbiamo un’altra mezz’ora di traffico infernale per raggiungere Downtown (quasi quasi rimpiangiamo le strade sterrate dell’Arizona). In Figueroa Street riconsegniamo con dispiacere la nostra impeccabile compagna di viaggio Mazda 6 e per la nostra ultima notte alloggiamo all’Holiday Inn City Centre. Giunti in camera stremati e frustrati, tiriamo la conclusione che tanto San Francisco è tranquilla, ordinata, sicura e piacevole da visitare così Los Angeles è caotica, disordinata e complicatissima da girare. Mentre la prima merita sicuramente di essere vista, sulla seconda abbiamo qualche dubbio.
Per cena ci concediamo l’ultimo pasto tipicamente americano: andiamo in un pub davanti all’albergo di nome Rock’n Fish dove mangiamo spiedini di carne in salsa teriyaki ben cotti e molto buoni.
Venerdì 9 ottobre 2009 Il nostro ultimo giorno negli States inizia alle 8.30. Facciamo il check-out all’albergo che gentilmente ci tiene le valigie finché non andiamo in aeroporto. Dedichiamo qualche ora alla visita di Downtown, la zona non è poi così brutta come viene descritta, è il quartiere finanziario ricco di alberghi e grattacieli (alcuni di apprezzabile architettura) che ospitano banche e uffici. E’ affollato durante i giorni lavorativi mentre è quasi deserto la sera e nel weekend.
Ci rechiamo subito al Bonaventura Hotel che non è solo un albergo ma ha al suo interno anche centri commerciali, palestre e ristoranti di ogni genere; la particolarità che ci spinge a visitarlo è l’ascensore a mo’ di capsula trasparente che dall’esterno schizza come un missile fino al 32° piano permettendo una vista completa su tutta Downtown. E’ molto divertente anche se a Giobby va lo stomaco in gola… Abbiamo a disposizione ancora qualche ora che occupiamo facendo shopping. Andiamo da Macy’s, il nostro rivenditore di fiducia negli Stati Uniti, dove si può trovare un notevole assortimento di famose marche a buoni prezzi, sfruttando poi il conveniente cambio euro-dollaro facciamo ottimi affari. Infatti compriamo 4 paia di jeans (2 Levi’s e 2 Guess), una giacca Ralph Lauren, due maglioni (1 Calvin Klein e 1 Tommy Hilfiger) al prezzo totale di 476 $ (circa 324 euro). Si son fatte le 13.30 e per pranzo cerchiamo qualcosa al piano terra del centro commerciale, mantenendoci a distanza di sicurezza da una sorta di chiosco che ha tra i suoi piatti PENE PESTO; mangiamo da Carl’s Jr, fast food di qualità superiore rispetto a McDonald’s e Burger King.
Torniamo in albergo intorno alle 15, i nostri giri sono esauriti quindi decidiamo di andare all’aeroporto con notevole anticipo avendo il volo alle 21.15. Per 50 $ prendiamo un macchinone dell’albergo guidato da un messicano pazzo che ci porta davanti al nostro Terminal. L’aeroporto di Los Angeles non è gigantesco come si potrebbe immaginare e non è ben organizzato, dopo i controlli di sicurezza non vendono quasi niente… Ora siamo qui ad aspettare il nostro volo che ci riporterà in Italia (sempre via Londra Heathrow) dove arriveremo alle 21.00 di sabato 10 ottobre, pensiamo a tutti i posti meravigliosi e unici che abbiamo ammirato, alle situazioni imbarazzanti e divertenti in cui ci siamo trovati, eravamo convinti prima di partire che questo fosse uno dei viaggi migliori che avremmo potuto fare e ne abbiamo avuto la conferma totale. Lo abbiamo vissuto in pieno facendo tutto quello che avevamo programmato. D’altronde bastano due numeri per capire: abbiamo percorso in macchina 2320 miglia (circa 3710 km) e abbiamo scattato 728 fotografie.
Chi volesse avere ulteriori informazioni può scriverci alla mail matteogiusto@yahoo.It