WEST U.S.A.: come dentro a un film di Parte Prima

Venerdì 25 Giugno: Eccoci finalmente, oggi è il gran giorno della Partenza, con la P maiuscola. Per quanto tempo abbiamo pensato a questo viaggio … personalmente fin dall’epoca in cui, ancora bambino, mi fu regalato un libro, che tutt’ora conservo gelosamente, il cui titolo è “Meraviglie naturali del Mondo”. Ricordo che lo sfogliai...
Scritto da: LucaGiramondo
west u.s.a.: come dentro a un film di parte prima
Partenza il: 25/06/2004
Ritorno il: 19/07/2004
Viaggiatori: fino a 6
Spesa: 2000 €
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Venerdì 25 Giugno: Eccoci finalmente, oggi è il gran giorno della Partenza, con la P maiuscola. Per quanto tempo abbiamo pensato a questo viaggio … personalmente fin dall’epoca in cui, ancora bambino, mi fu regalato un libro, che tutt’ora conservo gelosamente, il cui titolo è “Meraviglie naturali del Mondo”. Ricordo che lo sfogliai e rimasi allibito di fronte alle immagini del Gran Canyon e di tanti altri luoghi di quella zona degli Stati Uniti … ma sembravano talmente distanti, quasi irraggiungibili, invece oggi andremo alla loro conquista e un sogno diventerà realtà. Non pare essere vero, ma attraverseremo veramente l’Oceano Atlantico e tutti gli States per sbarcare nel grande “West” americano.

Il suono della sveglia irrompe nel pieno della notte: non sono ancora le tre e, Federico a parte, abbiamo incamerato pochissime ore di sonno, ma la stanchezza non è un problema perché l’entusiasmo, alle stelle, ci riempie le vene di adrenalina.

Alle 3:25 si presenta a prenderci il nonno per accompagnarci all’aeroporto e alle 3:40 siamo già in strada. La distanza da percorrere è brevissima ed è incredibile perché, causa lavori al Marconi di Bologna, spiccheremo il volo, per andare in America, proprio dall’aeroporto della nostra città.

Già prima delle 4:00 siamo di fronte alla porta delle partenze del Ridolfi di Forlì: scarichiamo le nostre cose, salutiamo il nonno e gli diamo appuntamento … a fra poco! Infatti corre a casa a prendere nonna e bagagli perché, dopo tanti viaggi nei quali ci hanno accompagnati solo per il primo tratto, questa volta verranno con noi. Dopo meno di un’ora, finalmente tutti insieme, imbarchiamo le valigie (direttamente per San Francisco … speriamo bene!) e ci mettiamo in attesa alla porta numero 5 da dove saliremo sul volo KL 1582.

L’eccitazione sale, man mano che passa il tempo, fin quando, in leggero ritardo, alle 6:27, il Fokker 100 della compagnia di bandiera olandese KLM non stacca da terra con destinazione Amsterdam.

E’ strano veder scorrere, al di là del finestrino, paesaggi così familiari, ma il tutto si esaurisce in fretta: un grosso nuvolose si interpone fra noi e la terra impedendoci di vedere tutto o quasi, se non, per alcuni tratti, le Alpi ancora innevate.

Sabrina dorme, recuperando un po’ del sonno perso, mentre le nuvole non ci danno tregua. Ci viene offerta la colazione e, poco più tardi, alle 8:14 atterriamo al Schiphol International Airport, nella capitale olandese, mentre è appena piovuto.

Sbarchiamo e, dopo una breve sortita al ritiro bagagli per verificare che le nostre valigie non siano state scaricate per errore, ci avviamo verso il Terminal F, con il piccolo che si diverte a percorrere le numerose scale e pedane mobili. Ci aspettano lunghe file: prima al controllo passaporti, poi al metal detector, alla fine però saliamo sul gigantesco Boeing 747 della KLM che, identificato come volo KL 605, lascia la pista di Amsterdam alle 12:14. Siamo seduti nelle file centrali e purtroppo non potremo vedere ciò che lungo il tragitto scorrerà sotto ai nostri piedi.

Raggiunta la quota e la velocità di crociera sincronizzo l’orologio sul fuso orario di San Francisco, dove arriveremo, e sposto le lancette indietro di ben nove ore! … La cosa curiosa è che la trasvolata durerà all’incirca dieci ore e per tutto il tempo inseguiremo il sole col risultato di atterrare, praticamente, solo un’ora dopo la partenza.

La rotta passa molto a nord, così, ormai a metà percorso, sorvoliamo le coste della Groenlandia, disseminate di iceberg. Successivamente, sotto di noi, scorre buona parte del continente nordamericano, mentre Federico, eccitatissimo, non riesce assolutamente a fare quello che sarebbe un provvidenziale riposino, poi finisce la terra ed appare un’immensa distesa d’acqua sulla nostra destra … è l’Oceano Pacifico, l’unico che ancora ci mancava.

Seguendo la linea di costa andiamo più a sud e cominciamo a scendere di quota, mentre compare la sagoma di un grande ponte … quella inconfondibile del Golden Gate! Poco dopo, alle 13:25 locali, tocchiamo felicemente terra all’aeroporto internazionale di San Francisco … eccoci America!!! Non ci sembra vero: siamo veramente nella mitica California, mitica sì, ma solamente uno dei cinquantuno stati che formano la Repubblica Federale degli Stati Uniti … che piaccia oppure no la nazione numero uno al mondo! Scendiamo dall’aereo e affrontiamo una lunga coda al controllo passaporti, poi ritiriamo sane e salve le valigie e, dopo aver subito una piccola perquisizione alla ricerca di eventuali prodotti alimentari, finalmente usciamo all’aria aperta.

Con l’ausilio di un treno monorotaia raggiungiamo la zona degli autonoleggi, dove ci rivolgiamo al banco della compagnia Alamo, con la quale avevamo già una prenotazione, e in brevissimo tempo ci consegnano, senza variazioni di prezzo, un’auto di categoria superiore rispetto a quella prevista: una magnifica Chevrolet Astro (targata California 5HCE185), con tanto spazio e otto comodi posti a sedere.

Caricate le valigie c’immettiamo sulla Highway numero 101 in direzione del centro, così, mentre mi abituo alla mancanza del cambio e del pedale della frizione, ci ritroviamo di fronte all’hotel Best Western Americania, che ci ospiterà per le prossime due notti.

Lasciamo in camera tutti i bagagli e, nonostante la stanchezza cominci veramente a farsi sentire, partiamo alla scoperta della nostra prima metropoli americana.

Percorriamo Market Street, fiancheggiata da stupefacenti grattacieli, raggiungiamo la baia di San Francisco e seguiamo il lungomare fino a svoltare sulla sinistra lungo la strada che sale alla piccola altura di Telegraph Hill. Nel frattempo il piccolo si è addormentato e per risvegliarlo scoppia, forse a ragione, una piccola tragedia … non gli si poteva però negare l’opportunità di osservare il magnifico panorama sullo skyline di Downtown (il centro cittadino), caratterizzato dall’inconfondibile sagoma della Transamerica Pyramid.

Scattiamo qualche foto poi torniamo in riva al mare per visitare il famoso Pier 39: simpatica trappola per turisti, situata proprio di fronte all’isola di Alcatraz, col suo celeberrimo ex penitenziario. Il molo è noto soprattutto perché sulle sue banchine si è stabilita una colonia di grossi leoni marini, che però in questo periodo dell’anno abitualmente migra più a sud, infatti ci sono solo alcuni esemplari, che naturalmente immortaliamo, ma il tutto si è rivelato una piccola delusione.

Ci fermiamo a cenare in un ristorantino sul Pier, con la vista che spazia, oltre i vetri in lontananza, fino al Golden Gate, poi, poco dopo le 9:00, distrutti dagli effetti del viaggio e del fuso orario, torniamo in hotel e ci ritiriamo in camera a consumare il meritato riposo.

Sabato 26 Giugno: Già prima delle 8:00 siamo tutti in strada, pronti a dare il via alla prima vera e propria giornata da turisti negli States … e quale modo migliore di iniziare se non con un’abbondante colazione di tipo americano? Rifocillati a dovere saliamo su di un pulmino, messo a disposizione gratuitamente dall’hotel, e raggiungiamo Union Square, la piazza che è un po’ il cuore di San Francisco, contornata da numerosi grattacieli.

Ad un isolato di distanza si trova la stazione di partenza dei Cable Cars: l’unico mezzo di trasporto al mondo considerato monumento storico! Le caratteristiche vetture, senza le quali San Francisco perderebbe una parte del suo fascino, sferragliano su e giù per le colline della città, affrontando con successo pendenze che superano anche il 20%! Per salire si agganciano con un rampino ad un cavo d’acciaio senza fine che scorre fra le rotaie, mentre si lasciano andare a ruota libera nelle vertiginose discese, servendosi unicamente del freno a mano per rallentare. Giunte infine al capolinea vengono ruotate a mano di centottanta gradi per mezzo di una grande pedana girevole: l’operazione a cui assistiamo nell’attesa per acquistare i biglietti che ci permetteranno di viaggiare sui Cable Cars per l’intera giornata.

Saliamo a bordo ma percorriamo solo un brevissimo tratto di linea, fino a Union Square, dove scendiamo. Torneremo in vettura più tardi, dopo aver visitato a piedi una parte della città non servita da questi mezzi.

In breve ci troviamo di fronte al Chinatown Gate, la simbolica porta che da accesso a quella che può essere considerata, con i suoi centomila abitanti, dopo New York, la più popolosa comunità cinese al di fuori dell’Asia. Gli avi degli attuali residenti si stabilirono nella zona già nel 1848 e da allora cominciarono a costruire una città nella città, con fattezze chiaramente orientali, quelle stesse fattezze che ancora oggi la caratterizzano.

Percorriamo Grant Avenue, vera e propria spina dorsale del quartiere, con i suoi tipici lampioni bianco-rossi e con le costruzioni dai tetti a pagoda, ma osserviamo anche quella che fu la prima cattedrale di San Francisco, la St. Mary’s Church (purtroppo per lei, oggi, completamente fuori posto). Visitiamo nelle vicinanze la variopinta Waverly Place, particolarmente ricca di decorazioni orientaleggianti, poi lasciamo momentaneamente Chinatown.

Ci inoltriamo nella vicina Downtown, una realtà completamente diversa, con i suoi vertiginosi grattacieli, fra i quali spicca per dimensioni e per forma la Transamerica Pyramid. L’edificio, che caratterizza più degl’altri lo skyline della città, può offrire, se osservato dalla sua base, una prospettiva particolarmente suggestiva.

Dopo i grattacieli affrontiamo la salita che ci riporta sulla collina di Chinatown, passiamo davanti al fantasioso edificio della Bank of Canton, e riguadagniamo la linea dei Cable Cars. Saliamo sul primo che passa e poco dopo ci ritroviamo al capolinea di Fisherman’s Wharf … proprio quello a cui non volevamo arrivare. Poco importa, perché viaggiare su queste strane vetture è anche divertente, così, senza patemi, torniamo a salire sulle colline di San Francisco.

Intenzionati a cambiare linea scendiamo proprio di fronte al piccolo museo dedicato a questi incredibili mezzi di trasporto: è collocato all’interno di un edificio sapientemente restaurato e vi si possono osservare i macchinari che permettono il funzionamento di tutti i Cable Cars della città.

Dopo la breve ma interessante visita saliamo finalmente sulla vettura giusta e andiamo alla conquista delle incredibili pendenze della Powell-Hide Line: il tratto di rotaia sicuramente più suggestivo ed emozionante. Arriviamo così anche al capolinea giusto, in Hide Street, di fronte al molo dove si trova l’Historic Ship: un’interessante sfilata di vecchie imbarcazioni, capeggiata idealmente dal Balclutha, un grande veliero a tre alberi oltre al quale, in lontananza, si staglia l’inquietante sagoma dell’isola di Alcatraz.

Dopo una velocissima toccata e fuga alla vicina Ghirardelli Square (regno del cioccolato), visitiamo, per la gioia del piccolo, l’Historic Ship, dove, oltre al veliero, si possono vedere l’Hercules, un vecchio rimorchiatore, e l’Eureka (con propulsione a pale), un tempo il più grande traghetto al mondo.

Esplorato, per volere di Federico, ogni più piccolo anfratto delle imbarcazioni c’incamminiamo poi lungo la strada che costeggia il mare, fino a raggiungere Fisherman’s Wharf. Il vecchio quartiere dei pescatori e delle fabbriche alimentari si è trasformato col tempo in una perfetta trappola per turisti nella quale, vista l’ora, anche noi veniamo irretiti.

Pranziamo e torniamo al capolinea dei Cable Cars, affrontiamo a ritroso i suggestivi saliscendi e poco dopo ci ritroviamo a Union Square, dove sfilano a ritmo incessante un numero incredibile di Limousine.

Grazie al pulmino Best Western rientriamo all’hotel e, questa volta con l’auto, partiamo per la seconda parte della giornata. Attraversiamo tutta la città da est a ovest e arriviamo, sulle rive dell’Oceano Pacifico, in vista del celeberrimo Golden Gate.

Il più famoso dei ponti sospesi fu inaugurato nel 1937, dopo essere stato progettato e realizzato in soli cinque anni. Attualmente, ogni settimana, una squadra di venticinque imbianchini utilizza circa due tonnellate di minio per rendere la struttura impeccabile, ed è proprio il colore del minio a caratterizzare il Golden Gate che, rossastro risalta mirabilmente sullo sfondo della Baia di San Francisco.

Attraversiamo quest’incredibile opera d’ingegneria e ci fermiamo a Vista Point, un punto panoramico sulla destra all’uscita del ponte, che ci permette di osservare la costruzione nella giusta angolazione, con in più i grattacieli di Downtown che si stagliano sul blu del cielo in lontananza. Scattiamo numerose foto e poi facciamo una passeggiata fino a raggiungere il pilone centrale, mentre dall’oceano soffia un vento gelido ed il ponte, seppur impercettibilmente, oscilla in maniera poco rassicurante. Riguadagniamo così i comodi sedili dell’auto e scendiamo, sulle rive della baia, alla cittadina di Sausalito … che è carina, ma nulla di eccezionale.

Risaliamo in direzione del Golden Gate ed imbocchiamo la strada che s’inoltra nella Golden Gate Recreation Area, una zona protetta sulle rive del Pacifico: da lì è possibile ammirare il ponte, dall’alto delle scogliere, in tutta la sua maestosità! Osservato il Golden Gate, praticamente da tutte le angolazioni possibili, riprendiamo la strada per il centro di San Francisco e transitiamo lungo il tratto di Lombard Street denominato “The crookedest street” (la strada tortuosa), una delle vie più famose e forse, appunto, anche più tortuose del mondo, resa celebre grazie ai numerosi film che vi sono stati ambientati … sono davvero incredibili questi americani! Arriviamo così, ormai al termine della giornata, nei pressi del Pier 39: l’intenzione sarebbe di prendere un gelato per cena, ma non troviamo parcheggio, così decidiamo di andare prima a vedere il tramonto da Treasure Island. La scelta si rivela però essere un piccolo errore, infatti troviamo la conferma ai nostri dubbi sul luogo che, collocato in mezzo alla baia, si raggiunge percorrendo il suggestivo Oakland Bay Bridge (a due piani, quello inferiore per uscire e quello superiore per entrare a San Francisco): il sole scende lontano dallo skyline della città ed il tramonto non è nulla di eccezionale, in più Federico, giustamente stanco, cede di schianto, anche per effetto del fuso orario, e ci costringe a rientrare in hotel senza prima aver cenato.

La giornata termina così, fra i pianti del piccolo, in modo abbastanza rocambolesco, ma ciò non toglie nulla alle straordinarie cose che abbiamo visto e stanchissimi ma soddisfatti ci dedichiamo, anche questa sera, al meritato riposo.

Domenica 27 Giugno: Grazie agli effetti del fuso orario non è un problema alzarsi presto al mattino e poco dopo le 7:00 siamo già pronti a partire.

Consumiamo una buona colazione e ci avviamo in auto per le strade di San Francisco che, visto il giorno festivo, sono semi-deserte. Si viaggia incredibilmente spediti, così in brevissimo tempo arriviamo ad Alamo Square. Su questa specie di piazza prospetta il gruppo di case più famoso della città, le cosiddette Painted Ladies: sei villette in stile vittoriano che contrastano magnificamente sullo sfondo dei grattacieli di Downtown … ma sono in ombra e torneremo più tardi a fotografarle.

A dir la verità tutta la zona è disseminata di edifici realizzati in questo stile: deliziose costruzioni che sembrano uscite da un libro di fiabe. Non possiamo fare a meno di notarle, assieme ad un caratteristico mezzo dei vigili del fuoco, lungo la strada che da Alamo Square ci porta al quartiere di Mission, storicamente il primo della città. Da questo luogo ebbe infatti origine il nome San Francisco, e più precisamente da quel gruppo di francescani spagnoli che nel 1776 vi fondò la Mission Dolores, quello stesso complesso ecclesiastico che ancora oggi possiamo osservare. La cappella, in particolare, eretta nel 1782, è il più antico edificio della città.

Scattiamo qualche foto e poi, in auto, raggiungiamo il Golden Gate Park, enorme polmone verde situato nella parte centro-occidentale della città. In particolare ci rechiamo al Japanese Tea Garden, un piccolo e curatissimo giardino giapponese all’interno del quale trascorriamo un po’ di tempo passeggiando tranquillamente, fra ponticelli, bonsai e pagode, immersi in una straordinaria quiete, tanto che non sembra affatto di essere nel centro di una grande metropoli. Così come nei vicini giardini botanici, un po’ meno curati, ma letteralmente invasi dagli scoiattoli che ci corrono intorno alla ricerca di cibo.

Terminiamo la visita al Golden Gate Park con il Conservatory of Flowers, una bellissima serra realizzata nel 1878, in stile vittoriano, all’interno della quale, in un’umidità quasi insopportabile, osserviamo tantissime splendide specie di fiori e piante tropicali.

La prima parte della giornata è volata via e si è fatto tardi, anche perché ci aspetta il check-out al Best Western entro le 12:00, così rientriamo all’hotel, recuperiamo i nostri bagagli e con quelli a bordo ripartiamo.

Prima di lasciare San Francisco abbiamo un conto in sospeso da regolare con le Painted Ladies, quindi ci dirigiamo nuovamente verso Alamo Square. Rispetto alla mattinata però qualcosa è cambiato. La città si è svegliata ed in particolare è stato dato il via ad una manifestazione molto nota da queste parti: la metropoli californiana è una delle capitali mondiali della omosessualità e in Market Street oggi va in scena il Gay Pride. Noi eterosessuali non siamo interessati ma il traffico è quasi completamente bloccato nella zona e, foto alle Painted Ladies compresa, impieghiamo più di un’ora ad uscire dalla città e ad imboccare l’Oakland Bay Bridge.

Ci lasciamo così alle spalle San Francisco, con le sue meraviglie architettoniche e paesaggistiche che la rendono davvero unica … Forse, come tanti dicono, è veramente la più bella città degli States.

Attraversiamo la baia e diamo in pratica il via al tour “on the road” nel sud-ovest americano: di fronte a noi la strada per giungere all’ideale traguardo è lunghissima ma anche estremamente accattivante.

Percorriamo poche decine di miglia verso l’interno e, quando ci fermiamo in un parcheggio lungo l’autostrada per consumare uno spuntino, non possiamo fare a meno di notare quanto la temperatura esterna sia già cambiata e schizzata verso l’alto … infatti fa un caldo infernale! Percorriamo la pianura centrale californiana che, tutta coltivata, a tratti ci ricorda vagamente la Val Padana e nel tardo pomeriggio raggiungiamo la piccola cittadina di Mariposa, situata ad una cinquantina di miglia dall’ingresso dello Yosemite National Park, che visiteremo domani.

Ci fermiamo per la notte in un hotel della catena Super 8. Saliamo in camera e più tardi scendiamo per cenare in un ristorantino messicano, poi, stanchi, ci avventiamo sui nostri letti: per domani c’è in programma un’altra dura ma, speriamo, bellissima giornata.

Lunedì 28 Giugno: Non vogliamo perdere la buona abitudine di svegliarci presto, sfruttando al meglio il corso della giornata, e così facciamo.

Dopo aver usufruito della colazione, inclusa nel prezzo della stanza, scattiamo qualche foto ad alcuni caratteristici edifici di Mariposa e partiamo con l’obbiettivo di visitare il nostro primo grande parco nazionale: lo Yosemite (si pronuncia Iossemiti).

Seguiamo la Strada numero 140 che s’inoltra nella Sierra Nevada e ben presto incontriamo la valle in cui scorre il Merced River, il fiume che esce dalla Yosemite Valley, mentre il paesaggio intorno a noi si fa sempre più aspro. Arriviamo così in circa un’ora all’ingresso del parco, dove per 65 dollari, acquistiamo il “Golden Eagle Pass”, una carta che ci darà la possibilità di entrare in tutti gli altri parchi nazionali degli States. Varchiamo così un po’ emozionati il cancello che dà accesso a quello che fu il primo parco naturale al mondo, istituito con decreto firmato da Abraham Lincoln in persona, nel 1864. Lo Yosemite, chiamato così in omaggio alla tribù indiana degli Uzumati, sterminata a metà del XIX secolo, si estende per migliaia di ettari, inglobando nei suoi confini grandiose montagne che sfiorano i 4000 metri di altezza … noi ci accontenteremo però di visitarne solo una piccola parte.

Oltrepassata una strettoia si apre davanti ai nostri occhi la Yosemite Valley e subito dopo, alla nostra sinistra, appare l’impressionante sagoma di El Capitan, una delle più alte falesie conosciute, con i suoi 900 metri praticamente in verticale, punto d’incontro dei free climbers di tutto il mondo. Poco più avanti, sullo stesso lato della valle, intravediamo anche le Yosemite Falls, spettacolari cascate che in tre salti superano un dislivello di 739 metri, risultando così le più alte del nord-america e fra le prime del pianeta.

Lo spettacolo della natura ci conquista letteralmente, mentre continuiamo ad inoltrarci in questa strana vallata il cui fondo, largo qualche chilometro, è completamente piatto e in netto contrasto con le impressionanti vette granitiche circostanti, fra le quali spicca l’Half Dome, grandioso monolito dalla caratteristica forma, che è diventato un po’ il simbolo di Yosemite.

Una strada, a senso unico, fa il giro della vallata, risalendola sulla sinistra orografica per poi uscirne dall’altro lato. Nella sua parte centrale costeggia il Merded River, che placido scorre formando grandi anse in un meraviglioso scenario naturale. Scenario che cerchiamo di goderci con una sosta lungo le rive del fiume, accompagnata da una breve passeggiata, in tutta tranquillità.

Più avanti, lungo il nastro d’asfalto, ci fermiamo anche nel punto dal quale, per mezzo di una modesta scarpinata, in uno splendido contesto ambientale, si raggiunge la base delle Yosemite Falls. Vorremmo trattenerci più a lungo in questi luoghi, ma il tempo vola e sono quasi le 11:00 quando lasciamo il fondovalle per cominciare a salire lungo la strada che porta a Glacier Point.

Impieghiamo circa un’ora per arrivare ai 2200 metri di quota del punto panoramico forse più famoso del parco, situato alla sommità di un’altura che domina la Yosemite Valley, ma dopo un’interminabile serie di curve veniamo abbondantemente ricompensati. Lo spettacolo da quassù è a dir poco mozzafiato: la valle ora è ai nostri piedi e la vista spazia al centro sull’imponente sagoma dell’Half Dome, a destra sulle Vernal e sulle Nevada Falls, particolarmente ricche d’acqua, e a sinistra sulle Yosemite Falls che, seppur così grandi, da quest’altezza appaiono quasi come un’insignificante rigagnolo. La vastità dello scenario è tale da lasciarci esterrefatti e in contemplazione per diverso tempo … poi, lentamente, torniamo sui nostri passi verso l’auto per pranzare e riempire così qualcos’altro oltre agl’occhi, già saturi di meraviglie.

Fatto il pieno di energie ci spostiamo di qualche miglio, lasciamo l’auto in un parcheggio ai bordi della strada e c’incamminiamo lungo il Taft Trail. Seguendo il sentiero attraversiamo un bel tratto di foresta, con imponenti piante, e in meno di mezzora arriviamo nella sua parte terminale, che si affaccia, come Glacier Point, sulla Yosemite Valley. Passiamo accanto alle cosiddette Fissures, vertiginosi tagli nella roccia, come fendenti di una grossa lama, inferti da chissà chi al severo bordo del precipizio, e giungiamo in vista dello straordinario sperone granitico di Taft.

E’ una specie di balcone naturale, magistralmente sospeso a diverse centinaia di metri dal fondovalle e lo spettacolo, con la visuale che spazia di fronte su El Capitan, è grandioso … Così restiamo per un po’ ad osservare il panorama, mentre diversi scoiattoli, per la gioia di Federico, ci saltellano intorno, poi, pienamente soddisfatti per l’esito più che positivo di questo primo trail, affrontiamo con calma la via del ritorno.

In auto partiamo lasciandoci alle spalle Yosemite, ma portando con noi gl’indelebili ricordi delle sue meraviglie naturali. Ci aspetta un bel tratto di strada prima di chiudere la tappa e, in pratica, scendiamo dalla Sierra Nevada per poi, in parte, risalirvi. Arriviamo così, quasi alle 20:00, al Best Western Holiday Lodge di Three Rivers, ormai alla porte del Sequoia National Park, che visiteremo domani.

Ci rassettiamo un poco e usciamo per cena ad un Pizza Factory, chiudendo la giornata con una sana risata grazie al nonno che, non ancora in sintonia con i fast-food americani, all’uscita, in piena buonafede, getta tutto nel bidone dei rifiuti … vassoio compreso! … E con il sorriso ancora stampato sulle labbra ce ne andiamo in camera a riposare.

Martedì 29 Giugno: Siamo diventati velocissimi: alle 7:15 siamo fuori dalla stanza e, consumata la colazione, alle 8:00 già in strada. Seguiamo il nastro d’asfalto della Highway numero 198 che, una curva dopo l’altra, s’arrampica sulla Sierra Nevada e ben presto entriamo nel Sequoia National Park.

Il parco, istituito nel 1890 per proteggere soprattutto i millenari alberi da cui prende il nome, si sviluppa ad un’altitudine media che supera i 2000 metri, per cui, anche dopo l’ingresso, affrontiamo in salita un’interminabile serie di curve, mentre intorno a noi il paesaggio non presenta segni di foreste ne, tanto meno, di sequoie, e se non avessimo avuto in merito informazioni ben precise ci sarebbe sorto probabilmente il dubbio di aver sbagliato strada … invece, all’uscita di una delle ultime curve, ci appare la sagoma di tre grandi alberi in fila indiana e da quel punto in avanti, assieme a loro, compare anche l’intera, rigogliosa, foresta.

Continuiamo a salire ancora un po’, fino a giungere in prossimità di un centro visitatori, di fronte al quale troneggia The Sentinel, un’enorme sequoia. Da lì imbocchiamo una strada secondaria in direzione di Crescent Meadow, mentre aleggia nell’aria un po’ di fumo a causa di un piccolo incendio nelle vicinanze: per sicurezza chiedo informazioni ad un ranger … nulla di preoccupante, mi risponde.

Le grandi piante spiccano fra le altre, oltre che per dimensione, anche per la loro corteccia più chiara: sono davvero una meraviglia, così ci fermiamo al loro cospetto ed è un’emozione indescrivibile poterle toccare.

Seguendo la strada arriviamo al cosiddetto Tunnel Log, una galleria scavata attraverso il tronco di una grossa sequoia caduta tempo addietro chissà per quale motivo. Completiamo, infine, la visita di questa zona del parco lasciando l’auto in un parcheggio per salire a Moro Rock, uno sperone roccioso sul quale si avventura un breve ma irto trail. Il sentiero è, a tratti, vertiginoso e circa a metà percorso Sabrina, che non ha buoni rapporti col vuoto, impaurita si ferma ad aspettarci, perché noi, “impavidi”, proseguiamo fino alla cima, da dove si ha un bel colpo d’occhio sulle alture circostanti … peccato solo per il fumo e la foschia.

Lasciando Crescent Meadow, al ritorno dalla passeggiata, eleviamo ulteriormente il nostro contatto con la natura avvistando, in un breve lasso di tempo, ben due cervidi (probabilmente daini) … mentre gli scoiattoli, numerosissimi, abbiamo da tempo smesso di contarli.

Torniamo a percorrere la strada principale e giungiamo, nel cuore del parco, in un ampio parcheggio dove lasciamo l’auto per recarci al cospetto di “sua maestà” il Generale Sherman … E’ un’incommensurabile onore trovarsi di fronte al più grande essere vivente del pianeta: con i suoi 83 metri d’altezza non è la più alta sequoia esistente e neppure la più grossa, sebbene gli 11 metri di diametro alla base, ma è in fatto di massa che il Generale pare sia imbattibile e nonostante l’età, compresa fra i 2300 e i 2700 anni, appare in gran forma e sprizza salute da tutti i rami.

Dopo le foto di rito c’incamminiamo lungo il Congress Trail, un comodissimo sentiero che si snoda all’interno della Giant Forest. E’ lungo questo tracciato che possiamo osservare numerosi esemplari di sequoia gigante, a volte purtroppo danneggiati, più o meno seriamente, dai numerosi incendi, che qui pare si sviluppino, quasi esclusivamente, per cause naturali. Per dimensioni e per stato di conservazione spicca in particolare l’albero soprannominato The President, affiancato, a poche decine di metri, da un folto gruppo di sequoie che, visto l’eccellente vicino, altro non potevano essere che il cosiddetto Senato! Dopo un’ora abbondante di completa immersione nella natura, ivi compreso l’avvistamento di un altro bel daino, siamo di ritorno … stanchi ma pienamente soddisfatti anche di questa scarpinata.

Risaliamo in auto e percorriamo un discreto tratto di strada: ci lasciamo alle spalle il Sequoia National Park ed entriamo nel Kings Canyon National Park. I due parchi sono molto simili e praticamente uno il proseguimento dell’altro, tanto che vien da chiedersi il perché non siano uno unico … purtroppo lo ignoriamo, ma un motivo sicuramente ci sarà.

Arriviamo così a Grant Grove, ovvero il boschetto di Grant: sono già le 13:00 e pranziamo, come sempre “al sacco”, prima di fare a piedi un breve giro della selva, dominata naturalmente dal Generale Grant, un po’ più giovane e meno alto del suo più noto parigrado Sherman, ma con un diametro di base maggiore, che supera i 12 metri. Tutt’intorno poi, associando l’intero contesto alle gerarchie militari, non possiamo fare a meno di notare un’incredibile serie di “subalterni” … spesso di alto grado e meritevoli di onorificenze. Per completare il quadro non poteva mancare, ovviamente, il caduto sul campo … un “vecchio ufficiale”, stramazzato al suolo nel 1969, del quale è rimasta in pratica la sola corteccia … vi si può tranquillamente passeggiare all’interno ed è una stranissima sensazione che diverte in particolare il piccolo.

Grant Grove è davvero un luogo fantastico e, in definitiva, le sequoie di Kings Canyon sono forse più belle di quelle del suo più noto parco confinante.

Nel primo pomeriggio, a malincuore, lasciamo questi eccezionali monumenti della natura: prima di poter ritenere chiusa la tappa dobbiamo percorrere ancora la bellezza di 450 chilometri.

Scendiamo dalla Sierra lungo una strada secondaria, talmente tortuosa da far quasi girar la testa, poi finalmente arriviamo nella grande pianura centrale californiana: un unico, immenso giardino nel quale si coltiva di tutto. Giunti nei pressi della cittadina di Bakersfield però deviamo verso est e in poche miglia il paesaggio cambia radicalmente: il deserto, punteggiato di Joshua Tree, prende il sopravvento e i colori caldi diventano dominanti.

Passiamo attraverso il piccolo Red Rock Canyon State Park e poco dopo, in lontananza, scorgiamo le case di Ridgecrest, alla cui periferia, in un hotel della catena Econo Lodge, ci fermiamo per la notte.

Usciamo per cena da Denny’s, un tipo di fast-food sul quale avevo ottime referenze (confermate in pieno), poi rientriamo in hotel e, ripassando mentalmente le emozioni che ci hanno regalato i giganti della foresta, scivoliamo pian piano nel mondo dei sogni.

Mercoledì 30 Giugno: Parte molto presto quella che sarà, sicuramente, la giornata più lunga del viaggio, infatti, dopo le normali visite e oltre 500 chilometri di strada percorsa, questa sera ci dedicheremo anche alle follie di Las Vegas.

Già prima delle 8:00 siamo in viaggio lungo la Highway numero 178 in direzione della Death Valley. Oltre i finestrini scorrono paesaggi desertici e inospitali, tanto che, attraversando lo sconcertante abitato di Trona, ci vien da chiedere come si possa decidere di vivere in certi posti, soprattutto quando nelle vicinanze ce ne sono di molto migliori. Il panorama, per i non residenti come noi, è comunque affascinante, anche se questa mattina, purtroppo, non siamo accompagnati dal sole … nulla di preoccupante, non dovrebbe piovere, ma se qualcuno, alla partenza di questo viaggio, mi avesse detto che proprio oggi, mentre stiamo andando in uno dei luoghi più caldi del pianeta il cielo sarebbe stato nuvoloso, beh, non ci avrei certo creduto! Circa a metà mattinata, al termine di una lunghissima discesa, entriamo nella leggendaria Death Valley (dal 1933 compresa nel Death Valley National Monument). E’ una delle più profonde depressioni dell’emisfero settentrionale, con il suo punto più basso situato a 85,5 metri sotto il livello del mare e, visto il suo clima infernale (nel 1913 si toccarono i più 57 gradi Celsius), deve il suo sinistro nome alla frase pronunciata da un pioniere che, scampato ad un pericolo nell’attraversarla, più o meno, a quanto pare, disse così: «Grazie a Dio siamo usciti da questa valle della morte!».

Noi, senza particolari timori, invece vi entriamo e a Stovepipe Wells, minuscolo agglomerato di edifici con alcuni locali commerciali, facciamo la prima sosta, mentre il caldo comincia a farsi sentire e, in lontananza, qualche sprazzo di cielo sereno ci lascia ben sperare.

Riprendiamo a seguire la strada per il fondovalle e scendiamo sotto il livello del mare con la vista che spazia, a sinistra, sulle Sand Dunes: un pezzetto di Sahara nel West americano, ma la strada per visitarle è chiusa al traffico delle auto private e restano in lontananza, come il sole dietro alle nuvole … Ci approssimiamo al cuore di questo luogo che, metro dopo metro, ci appare sempre più surreale, come la breve deviazione sterrata che ci porta al Mustard Canyon … Il nome è appropriato perché gli strani cumuli di arido terreno che fiancheggiano il tracciato ricordano proprio nell’aspetto il ben noto condimento.

Nei paraggi visitiamo anche i resti di una vecchia miniera di borace. Ci fu un tempo in cui la valle si rese protagonista di un piccolo boom economico, con l’estrazione di questo minerale, ma tutto poi finì, soppiantato, diversi lustri più tardi, da un’altra risorsa, tuttora sapientemente sfruttata: il turismo.

Oltrepassiamo Furnace Creek, l’oasi che, in pratica, è la capitale della Death Valley, nonché l’unico posto nel quale è anche possibile soggiornare, e imbocchiamo sulla destra la strada che continua a scendere verso Badwater Basin, il punto più basso di questa incredibile depressione … Quando, finalmente, arriviamo, contornati dal bianco accecante del sale che ricopre il fondo di un antichissimo bacino idrografico, in quello straordinario luogo, a 282 piedi (85,5 metri) sotto il livello del mare anche il sole, grazie a Dio, vince la sua battaglia ed esce prepotentemente allo scoperto deliziandoci della sua presenza.

Trascorso un po’ di tempo e scattata la foto ricordo davanti al cartello con su scritta la quota, che sarà, senza ombra di dubbio, il punto più basso del viaggio, torniamo con calma in direzione di Furnace Creek, infatti, lungo il tragitto, ci aspettano diverse tappe.

La prima è al Devil’s Golf Course (letteralmente il “Campo da golf del diavolo”). E’ uno strano fenomeno messo in scena da terra e cristalli di sale, con la complicità degli agenti atmosferici: sembra d’essere nel bel mezzo di un campo arato, laddove un aratro, probabilmente, non è mai passato.

Poco più avanti imbocchiamo sulla destra la cosiddetta Artist Drive: una strada, a senso unico, che si avventura alla base di un anfiteatro le cui rocce, pigmentate dai numerosi minerali presenti, hanno assunto fantasiose tonalità. E’ uno spettacolo e una veduta diversa all’uscita di ogni curva, fino alla trionfante esplosione di colori dell’Artist Palette: la “tavolozza” sulla quale un immaginario artista sembra aver miscelato ocra, gialli, bianchi e azzurri alla ricerca delle loro infinite sfumature.

Sono quasi le 14:00 quando riguadagniamo la strada principale. Ci attardiamo ancora un po’ per fotografare la bizzarra Mushroom Rock (un fungo che i nonni, seppur cercatori incalliti, non possono cogliere), poi finalmente pranziamo, all’ombra di un rarissimo albero, in un parcheggio di Furnace Creek.

Mezzora di sosta, non di più, e ci buttiamo nuovamente a capofitto nella visita della Death Valley. Imbocchiamo questa volta la Route 190, che esce verso est, e ci fermiamo quasi subito a Zabriskie Point, luogo reso celebre dall’omonimo film di Antognoni. Il fenomeno geologico che si può osservare da questo punto panoramico è fra i più affascinanti della valle, con i calanchi erosi dalle intemperie che sembrano di carta pesta e, giallastri, spiccano meravigliosamente sul blu intenso del cielo retrostante.

Poco oltre Zabriskie Point si può percorrere un’altra deviazione (a senso unico), che si stacca dal tracciato principale e non ce la lasciamo sfuggire. Ci addentriamo così nel Twenty Mule Canyon, lungo la pista che seguivano i convogli carichi di borace, trainati generalmente, appunto, da venti (twenty) muli … in quell’epoca, forse, nessuno aveva il tempo e la voglia di guardare, come noi, il paesaggio circostante che, meraviglioso nella sua cruda desolazione, merita invece certamente più di un’occhiata.

Ci togliamo idealmente maschera e boccaglio mentre emergiamo … dal livello del mare, quindi prendiamo a salire, senza un attimo di sosta, anche a tornanti, fino a raggiungere i quasi 1700 metri del Dante’s View, una sorta di balcone naturale sulla Death Valley … La gigantesca depressione ora è ai nostri piedi e si abbraccia tutta in un solo colpo d’occhio, con la bianca distesa di sale del Badwater Basin che sembra un lago ghiacciato e, proprio di fronte, il Telescope Peak, che se somma la sua altezza (3368 metri) a quella negativa del fondovalle arriva all’impressionante dislivello di 3453 metri!!! … non sembra a vederli, ma è proprio così! Con l’adrenalina a mille salutiamo la Death Valley che, grazie alle emozioni di cui ci ha fatto dono, a dispetto del nome, ci fa sentire più vivi che mai. Percorriamo ancora poche decine di miglia e salutiamo anche la California (che incontreremo nuovamente alla fine del viaggio) per entrare nello stato del Nevada.

Il nastro d’asfalto scivola via liscio sotto alle ruote della nostra Chevrolet, mentre il sole, inesorabile, scende verso la linea dell’orizzonte esaltando i colori dell’arido paesaggio che scorre veloce ai lati dell’auto, oltre i finestrini, poi all’improvviso, dopo un dosso, appare l’improbabile sagoma di una città … sembra un miraggio, invece è proprio Las Vegas! Approdiamo nella metropoli del divertimento per eccellenza poco dopo le 19:00 e subito ci rechiamo all’hotel nel quale alloggeremo: il fantastico Luxor, a tema ovviamente egizio, con tanto di sfinge a grandezza naturale sul fronte e uno dei più grandi del mondo, con le sue 4400 stanze. Ai primi venti posti di questa speciale classifica se ne contano ben diciotto di Las Vegas, che ha monopolizzato l’ipotetico podio: al primo posto il The Venetian, con circa 7000 suite, al secondo l’Mgm, con 5005 camere e al terzo proprio il Luxor! Entriamo nella hall (davvero impressionante) e, ritirate le chiavi, raggiungiamo uno dei primi piani (il decimo!) con l’ascensore, che qui si chiama “inclinator”, visto che sale lungo gli spigoli interni della grande piramide che caratterizza il complesso.

Facciamo una veloce doccia e poi usciamo sullo Streep, la strada principale di Las Vegas che, con l’arrivo dell’oscurità, si è trasformata ed ora è un immenso scintillio di luci.

E’ strana la storia di Las Vegas (e del Nevada): meno di un secolo fa era solo un luogo di passaggio, per cui le leggi locali, contrariamente agli altri stati, prevedevano tempi di applicazione molto più brevi, soprattutto per le pratiche di divorzio (42 giorni) … ma era più facile anche sposarsi. Involontariamente ciò attirò gente … e la conseguente necessità di intrattenerla (col gioco d’azzardo) provocò poi la scintilla grazie alla quale, oggi, possiamo vedere tutto questo. Sembra pura follia: i più grandi hotel-casinò di Las Vegas si trovano proprio lungo lo Streep, il cui nome è appropriato, perché streep significa spogliare completamente qualcuno e al gioco si può perdere tutto … anche gli abiti.

Con un trenino monorotaia raggiungiamo il vicino hotel Excalibur che, imperniato sul tema di Re Artù, ha le forme di un meraviglioso castello medievale. Di fianco si trova lo stupefacente New York–New York, che ricostruisce fedelmente, anche se in scala ridotta, i più famosi grattacieli di Manhattan (non le Twin Towers, per fortuna), e davanti troneggia il gigantesco Mgm.

Ceniamo lungo lo Streep in un fast-food e riprendiamo la nostra passeggiata nell’impareggiabile stravaganza americana. Vaghiamo fra i tavoli verdi del Paris-Las Vegas, caratterizzato dalla riproduzione (alta 150 metri!) della Torre Eiffel e proprio di fronte ammiriamo l’hotel Bellagio, con le sue magnifiche fontane danzanti. Di fianco a quest’ultimo si trova poi l’immenso Caesar’s Palace, costruito sul tema dell’antica Roma e palcoscenico di storici incontri di boxe.

Alla strenua delle fontane danzanti per il Bellagio altri hotel offrono show gratuiti, come la spettacolare finta eruzione vulcanica del Mirage … ma lo spettacolo più incredibile lo offre il Treasure Island: un cast di attori e stunt-man mette in scena una stupefacente battaglia navale piratesca, in versione dance. Le rappresentazioni si tengono ogni ora e mezza e noi, purtroppo, arriviamo pochi minuti prima dell’ultima, così non riusciamo a prendere una buona posizione per vederla e non ce la godiamo … peccato! Sull’altro lato della strada, rispetto al Treasure Island, osserviamo l’incredibile The Venetian, con ricostruiti fedelmente il Canal Grande e alcuni celeberrimi scorci della città lagunare, mentre le lancette dell’orologio, completando il loro ultimo giro, fanno scattare il datario e in un attimo è … … Giovedì 1 Luglio: La stanchezza comincia a farsi sentire ma, imperterriti, continuiamo nella visita di Las Vegas e in autobus raggiungiamo Downtown per vedere Fremont Street, cuore storico della città, con la sua straordinaria volta di luci che, vista l’ora ormai tarda, è solo in parte funzionante … meglio poco che niente, dice comunque una famosa teoria.

E’ ormai l’1:00 e la nostra resistenza è stata messa a dura prova (Federico, otto anni a fine mese, ci ha veramente stupiti!), così esausti risaliamo sull’autobus che ci riporta congelati (per l’aria condizionata tenuta inspiegabilmente altissima) fin di fronte al nostro hotel. Ci trasciniamo in camera e felici, per il buon esito di una giornata indimenticabile, ci concediamo qualche ora di riposo.

Quando suona la sveglia ci sembra di aver chiuso gli occhi da pochi minuti e non è facile riaprirli, ma l’entusiasmo ci aiuta e in breve siamo pronti, con i bagagli in mano, a scendere dalla grande piramide.

Percorriamo in auto lo Streep, che con la luce del giorno fa tutto un altro effetto, ci fermiamo a far colazione da Denny’s e neanche a metà mattinata siamo pronti per una nuova avventura.

Lasciamo Las Vegas verso nord-est sulla Interstate numero 15 e dopo poche decine di miglia svoltiamo a destra seguendo le indicazioni per il Valley of Fire State Park che, istituito nel 1935, è il più vecchio parco statale del Nevada.

Lungo il breve tratto di strada che ci porta all’ingresso il paesaggio comincia a mostrare le caratteristiche peculiari dell’area, con le tipiche formazioni rocciose di colore rossastro, che probabilmente hanno ispirato il nome (Valle di fuoco).

All’entrata non c’è nessun ranger e lasciamo, come fan tutti (con grande senso di civiltà), i cinque dollari richiesti dentro ad una busta in un apposito contenitore, visto che nei parchi statali il Golden Eagle Pass non è valido, e cominciamo la visita.

Subito incontriamo le curiose conformazioni dette Beehives, quindi, effettuando una breve deviazione, un piccolo arco naturale, a cui Federico da immediatamente la scalata, e la Ati Ati Rock, uno sperone roccioso, che emerge dalla sabbia rossa come il fuoco, sul quale si trovano incisi alcuni petroglifi indiani vecchi di oltre quattromila anni.

Seguendo una strada sulla sinistra ci avviamo verso il cuore del parco, mentre un dispettoso nuvolone si posiziona proprio sulla nostra testa e il bellissimo punto panoramico detto, per le infinite sfumature di colore, Rainbow Vista viene sminuito a tal punto che, per la rabbia, evito persino di fotografarlo. Procediamo così spediti fin dove termina il nastro d’asfalto, ai piedi del White Dome, e, anticipando i tempi, ci fermiamo a pranzare in attesa che torni il sole.

La nostra scelta viene premiata e, puntuali, le nuvole se ne vanno lasciando nuovamente spazio al cielo sereno, in questo modo ci rechiamo a vedere il vicino Fire Canyon (il nome è una garanzia) e al ritorno, replicando la sosta a Rainbow Vista, possiamo finalmente scattare la sospirata foto tralasciata in mattinata.

Evitata per il caldo infernale la passeggiata nel canyon detto Mouse’s Tank, cominciamo ad uscire dal parco verso est e, osservate lungo la strada le particolari Seven Sisters (sette scenografiche rocce in fila indiana), ci fermiamo per vedere la Elephant Rock, quella che è un po’ la conformazione rocciosa simbolo del Valley of Fire. Per farlo bisogna percorrere un brevissimo trail di un ottavo di miglio (come ben specificato anche su di un cartello ai lati del parcheggio), ma è una disdetta perché consumata più volte la distanza, sul rovente suolo del Nevada, non riusciamo assolutamente a trovare la roccia (stranamente mal segnalata). Non mi so dar pace per questo piccolo fallimento ma dobbiamo per forza andare, perché siamo stanchi, accaldati e si sta facendo tardi.

Ci lasciamo alle spalle il Valley of Fire State Park che, tutto sommato, ci ha soddisfatti, meritando le giuste attenzioni, e riguadagniamo la Intestate numero 15 seguendo la quale, verso nord-est, salutiamo anche lo stato del Nevada per entrare in Arizona. Cambiamo fuso orario e mettiamo le lancette dell’orologio avanti di un’ora, mentre procediamo sul fondo dell’accattivante Virgin River Canyon, che ci porta a varcare anche i confini dello Utah.

A grandi passi ci avviciniamo agli scenografici picchi dello Zion National Park e arriviamo nella cittadina di Springdale, dove prendiamo alloggio nel locale hotel della catena Quality Inn.

Lasciamo le valigie in camera e, dopo una veloce doccia, ripartiamo in auto. Varchiamo l’ingresso dello Zion National Park e deviamo subito lungo la Mount Carmel Highway, stupenda strada panoramica fiancheggiata da montagne che sfoggiano incredibili colori, fra le quali spicca il Checkerboard Mesa. I rilievi, all’improvviso, spariscono quando usciamo dal parco, e ci ritroviamo a viaggiare su di un vasto e verde altopiano. Procediamo spediti in questo scenario ancora per diverse miglia, facendo in pratica le corse col sole che sta tramontando, e arriviamo in tempo utile per osservare le mirabili dune di sabbia rossa del Coral Pink Sand Dunes State Park con la calda luce del crepuscolo.

Restiamo a camminare su quella morbida arena, tempestata di magnifici fiori gialli, fin quando l’ultimo raggio di sole la illumina, mettendone in risalto l’ardente tonalità, poi, ancora estasiati, torniamo a seguire la strada in senso inverso per far ritorno all’hotel.

Ci fermiamo a cenare in un ristorante lungo il tragitto e arriviamo al Quality Inn con l’oscurità ed una magnifica stellata, chiudendo così nel migliore dei modi anche questa bella ed intensa giornata.

Venerdì 2 Luglio: Ad una settimana esatta dalla partenza di questo splendido viaggio ci alziamo da letto deliziati dalla vista che spazia sulle alture dello Zion National Park. Nell’aria frizzante del mattino c’è una pace immensa e possiamo prepararci con relativa calma perché al Quality Inn non serviranno la colazione prima delle 8:00.

Puntuali ci presentiamo, assieme ad altre persone, all’apertura del locale: in questo modo già prima delle 9:00 siamo pronti per dedicarci alla visita del nostro parco nazionale quotidiano. Zion è sì, dal 1919, il nome di un parco, che in precedenza fu per lungo tempo luogo di rifugio dei pionieri mormoni, ma è soprattutto il nome di un canyon formato dal Virgin River in milioni di anni e percorso, per quasi dieci miglia, anche da una spettacolare strada.

Varchiamo (per la seconda volta) la porta d’ingresso del Zion National Park e, lasciandoci sulla destra la deviazione per la Mount Carmel Highway, entriamo nello Zion Canyon. Le falesie intorno a noi ostentano fantastici colori, che vanno dal beige al rosa, dall’arancione al rosso, e strada facendo si fanno sempre più aspre. Circa a metà del percorso asfaltato, in prossimità della Zion Lodge, dobbiamo però fermarci: da quel punto in avanti, infatti, in alta stagione, è vietato il transito ai mezzi privati e bisogna proseguire con l’ausilio di una navetta (completamente gratuita).

Parcheggiamo l’auto e, prima di inoltrarci ulteriormente nel canyon, ci dedichiamo ad una breve passeggiata che prende il via proprio di fronte alla Zion Lodge. Un trail pavimentato porta, in meno di mezzora, alle cosiddette Emerald Pools, un luogo delizioso, dove si può tranquillamente passeggiare sotto ad alcune cascatelle: sottilissimi fili d’acqua che scendono, scenograficamente, da una sporgenza della roccia sovrastante. Si potrebbe proseguire col sentiero fin più in alto, ma ciò non sembra offrire nulla di più paesaggisticamente, così decidiamo di tornare indietro: ci sono da fare ancora tante cose in questa giornata e intendiamo utilizzare il tempo a nostra disposizione nel migliore dei modi.

Saliamo sulla navetta e scendiamo due fermate più avanti per fare, questa volta, la passeggiata di Weeping Rock. Il sentiero, breve ma irto, ci porta fin sotto una parete rocciosa dalla quale scende acqua con un piacevole effetto a pioggerellina. Osserviamo il fenomeno, senza correre il rischio di bagnarci, da una rientranza nel fianco della montagna: una sorta di balcone naturale situato in posizione privilegiata, alle spalle della cascatella, dal quale possiamo godere anche dello splendido panorama sui rossi picchi dello Zion.

Scesi da Weeping Rock risaliamo sull’autobus, che ci accompagna fin dove termina il nastro d’asfalto e parte il Riverside Walk. Camminiamo a lungo su questo tracciato, di fianco al Virgin River, con le pareti del canyon che, passo dopo passo, si avvicinano sempre più, e giungiamo ai cosiddetti Narrows (le strettoie), laddove solo il fiume ha il privilegio di avere un varco fra le montagne. Da questo punto parte, infatti, un’escursione lunghissima, che si svolge quasi interamente nell’alveo del fiume le cui acque sono, a dir poco, gelide. Noi ci accontentiamo di fare qualche foto e una breve sosta … Federico, invece, si diverte a costruire dighe utilizzando i sassi del torrente, mentre tutt’intorno numerosi scoiattoli scorazzano simpaticamente alla ricerca di quel cibo che i turisti, stando alle ferree regole del parco, non gli possono proprio dare.

Con negl’occhi ancora gli straordinari paesaggi di Zion Canyon torniamo all’auto: il tempo è volato e mezzogiorno è già passato da quasi un’ora, così, consumato il meritato pranzo, riprendiamo senza ulteriori indugi il nostro viaggio.

Usciamo dal parco verso sud, da Springdale, per rientrarvi nuovamente poco più a nord seguendo la breve deviazione che ci porta all’accattivante punto panoramico di Kolob Canyon. Scattiamo alcune foto e poi lasciamo definitivamente i rossi picchi dello Zion, che non hanno certo deluso le nostre aspettative.

Percorriamo la Highway numero 15 fino alla cittadina di Cedar e da lì cominciamo a salire sulle montagne. C’inoltriamo nel verde paesaggio della Dixie National Forest e, una curva dopo l’altra, raggiungiamo, quindi superiamo i diecimila piedi (circa tremila metri) di quota, approdando su di un vasto altopiano. Il paesaggio si fa leggermente ondulato, quasi piatto, e nulla lascia presagire ciò che invece ci aspetta.

Prima un cartello, poi un parcheggio con di fianco l’ufficio dei ranger ci fanno capire che siamo arrivati nel Cedar Breaks National Monument, area protetta istituita nel 1933 dal presidente Franklin D. Roosevelt.

Lasciamo l’auto e ci affacciamo dal belvedere di Point Supreme con un’esclamazione di meraviglia che ci lascia senza fiato: l’altopiano improvvisamente sprofonda in un anfiteatro eroso dalle intemperie, fra le mille sfumature del terreno, tinto dagli ossidi di ferro e manganese, in contrasto col verde del bosco, che ne riveste il profilo superiore, e il blu intenso del cielo.

A piedi seguiamo un breve trail, che corre sul bordo del precipizio, e arriviamo, fra grandiosi scorci panoramici, sino a Spectra Point, dove crescono alcuni millenari e contorti pini aristati, fra le specie vegetali più longeve del pianeta, mentre qua e là, nonostante l’estate già inoltrata, ci sono ancora piccole chiazze di neve. Estasiati dalla vista di tanta bellezza percorriamo, senza fretta, anche il sentiero di ritorno al parcheggio: abbiamo perso più tempo del previsto, ma ne è valsa assolutamente la pena.

Il nastro d’asfalto segue per qualche miglio, a breve distanza, il ciglio di Cedar Breaks offrendo diversi punti panoramici che non ci lasciamo sfuggire, poi, imboccando una strada sulla destra che si allontana, ci poniamo alle spalle anche questo straordinario luogo.

Attraversiamo verdissimi paesaggi (è incredibile, solo ieri eravamo in pieno deserto!) e scendendo leggermente di quota arriviamo all’imboccatura della Ut12 Scenic Byway, a detta di molti la più bella strada degli States. Oggi però ne percorriamo solo un breve tratto, quello che passa per il Red Canyon, con la luce del sole, ormai prossimo al tramonto, che ne esalta le calde tonalità … un’altra meraviglia di questa bellissima giornata. Arriviamo in questo modo a Rubys Inn, minuscola località situata alle porte del Bryce Canyon National Park, e lì prendiamo alloggio nell’omonimo Best Western.

Anche questa sera si è fatto tardi e ceniamo in una pizzeria ben oltre le 21:00, così appena terminato, in pratica, è anche l’ora di coricarsi … Abbiamo percorso parecchia strada a piedi fra alcune delle meraviglie dello Utah e siamo tutti stanchi ma felici, così ben presto ci ritroviamo nel mondo dei sogni, anche se, fino ad ora, tutto il viaggio sembra essere un unico, grande sogno.

Sabato 3 Luglio: Poco dopo le 8:00 siamo già pronti per dedicarci alla visita di uno dei più noti parchi americani: il Bryce Canyon National Park, creato nel 1924 allo scopo di preservare, a dispetto del nome, quello che in realtà non è un canyon, ma un altopiano calcareo eroso dalle forze della natura. Ciò che gli indiani definivano “rocce rosse in piedi come tanti uomini …” sono le conformazioni che caratterizzano il luogo: pinnacoli multicolore che sfidano le leggi di gravità, chiamati “hoodoo”.

Ci troviamo ad oltre duemila metri di quota e l’aria del primo mattino è decisamente fresca, perciò coperti più del solito ci avviamo a percorrere il brevissimo tratto di strada che divide il nostro hotel dall’ingresso del parco e in breve ci troviamo all’interno di Bryce Canyon, chiamato così in onore di Ebeneezer Bryce, il primo mormone che vi si stabilì alla fine dell’Ottocento.

Seguendo le indicazioni arriviamo al parcheggio di Sunset Point e con trepidazione ci affacciamo sull’incredibile anfiteatro … il colpo d’occhio è sublime e la marea di guglie variopinte fa quasi girar la testa.

Camminando sul bordo del dirupo, accompagnati da splendidi panorami, arriviamo a Sunrise Point e da lì cominciamo la nostra escursione nel cuore del parco.

Scendiamo lungo il Queens Garden Trail e, al riparo dalla brezza che soffia nella parte sommitale delle falesie, la temperatura cambia repentinamente. Alleggeriamo la tenuta, ci proteggiamo il capo dal sole e ci avventuriamo fra gli hoodoo. E’ straordinario: ad ogni passo cambia lo scenario e di conseguenza siamo costretti a scattare una foto … accompagnati dagl’immancabili scoiattoli che, numerosissimi, ci scorazzano tutt’intorno.

Per fortuna il caldo (al quale eravamo preparati) è sopportabilissimo, così possiamo goderci appieno la camminata che si sviluppa fra suggestivi e scenografici passaggi, fino a giungere sul fondo della fantastica voragine.

Risaliamo lungo il cosiddetto Navajo Trail e proprio nella sua parte conclusiva percorriamo il tratto più accattivante e sbalorditivo: il sentiero si fa stretto e s’insinua fra altissimi hoodoo e alcuni alberi, che sembrano voler sfidare i pinnacoli nel tentativo di conquistare la sospirata luce del sole. Questo singolare e ardito mondo verticale è stato chiamato “Wall Street” … e l’accostamento ai vertiginosi grattacieli delle vie newyorchesi sembra davvero appropriato. Gli ultimi metri del Navajo Trail, che ci riportano in vetta, sono ripidissimi, ma la bellezza del luogo sopperisce da sola alla fatica per affrontarli … così, dopo quasi cinque chilometri, è proprio il più piccolo del gruppo a tagliare idealmente il traguardo di Sunset Point (gran premio della montagna di prima categoria!), meritando tutti gli elogi del caso.

Riguadagnata l’auto, ormai a mezzogiorno, partiamo alla scoperta dei vari punti panoramici disseminati lungo la strada del parco. Da Inspiration Point possiamo così osservare lo stupefacente mare di guglie di Silent City e da Bryce Point l’intero, incredibile, fantastico anfiteatro di rocce, magistralmente scolpite da madre natura. Da questo punto in avanti il Bryce Canyon National Park si allunga verso sud offrendo scorci meno spettacolari ma comunque belli, come la vista che si può godere da Farview Point, luogo nel quale ci fermiamo anche a pranzare.

Nel primo pomeriggio, inoltrandoci ulteriormente nel parco, osserviamo il suggestivo Natural Bridge e il grande hoodoo che caratterizza Agua Canyon, quindi, giunti dove termina la strada, a 2700 metri di quota, raggiungiamo a piedi Rainbow e Yovimpa Point, dai quali si domina letteralmente l’intero paesaggio circostante. Grazie alla limpidezza dell’aria in questa zona dello Utah e con l’aiuto di un cartello illustrativo, che ci mostra alcuni punti di riferimento, ci rendiamo infatti conto che la vista di fronte a noi spazia ad una distanza che supera addirittura i trecento chilometri! Il grande west americano non finisce mai di stupirci e allibiti anche per questi ultimi, incredibili, numeri rientriamo, quando il sole è ancora alto in cielo, in direzione di Rubys Inn.

Lungo il tragitto avvistiamo un bellissimo cervide che ci fermiamo ad osservare fin quando, intimorito dalla nostra presenza, non sparisce nella boscaglia, poi arriviamo al Best Western dove trascorreremo anche questa nottata.

Non dovendo percorre altre miglia per chiudere la tappa e dopo una settimana di viaggio a dir poco intensa, possiamo così finalmente concederci qualche ora di relax, per la gioia immensa di Federico che, in questo modo può fare un bagno nella piscina dell’hotel.

Prima che faccia sera ci rechiamo a scattare una foto nel vicino Red Canyon e al ritorno vaghiamo un po’ fra i negozietti di Rubys Inn, quindi, dopo aver cenato, ci precipitiamo a Sunset Point per vedere il tramonto, ma un grosso nuvolone, basso sulla linea dell’orizzonte, ci “rovina” irrimediabilmente la festa … peccato. Salutiamo così Bryce Canyon, che resterà per sempre nei nostri cuori, e ce ne torniamo all’hotel per la notte … inutile dirlo: un’altra memorabile giornata è giunta felicemente a conclusione.

Domenica 4 Luglio: E’ l’Indipendence Day: festa nazionale che, purtroppo per gli americani, quest’anno cade di domenica. Per noi in vacanza, invece, è una bella giornata come tutte quelle che l’hanno preceduta e, speriamo, come quelle che seguiranno. Solo ieri però abbiamo visto lo straordinario Bryce Canyon ed ora non sarà facile trovare qualcosa di più bello, ma soprattutto sarà difficile che le piccole cose riescano a soddisfarci appieno. Nonostante questo, di certo, non disperiamo e col morale alle stelle lasciamo fiduciosi Rubys Inn in direzione nord-est, lungo la Route numero 12.

Percorriamo poche miglia e nei pressi della cittadina di Cannonville deviamo sulla destra lungo la strada che ci porta al Kodachrome Basin State Park. Il piccolo parco statale è caratterizzato da fantasiose rocce, vagamente purpuree, levigate dall’erosione e deve il suo nome al National Geographic Society che, nel 1948, visti i colori del luogo, lo chiamò così proprio in onore della nota pellicola fotografica.

Entriamo nell’area protetta, dove regnano la pace e la tranquillità più assoluta: sarà forse merito del giorno iper-festivo, in complicità con l’orario, ma sembriamo proprio essere gli unici turisti presenti nel parco … e grazie a questo, probabilmente, riusciamo a vedere alcune grosse lepri e una bella pernice con tutti i piccoli al seguito.

Lasciamo l’auto e c’incamminiamo lungo il breve Angels Palace Trail che, inerpicandosi sulle prime alture, ci rende sufficientemente l’idea delle caratteristiche geologiche e paesaggistiche del luogo, offrendo, a tratti, anche scorci davvero interessanti.

Riguadagnata l’auto ci spostiamo poi a breve distanza per affrontare la passeggiata che ci porta ai piedi del cosiddetto Shakespeare Arch che, piuttosto piccolo e in ombra, non risulta particolarmente scenografico … Tutto sommato però ci avviamo a lasciare il Kodachrome Basin soddisfatti per il tempo che abbiamo voluto dedicargli … ed è già un successo dopo aver visto, solo ieri, l’inimitabile Bryce Canyon.

Evitiamo di percorrere le oltre dieci miglia di strada sterrata che portano al Grosvenor Arch e torniamo a seguire la Highway numero 12, che per un lungo tratto ci dà l’impressione di viaggiare in una vasta zona pianeggiante. Ma è proprio un’impressione perché all’improvviso ci affacciamo, dall’alto, su di una vallata sottostante erosa dal corso di un fiume in fantastiche forme e colori. Lo scenario si è presentato a sorpresa di fronte ai nostri occhi, quando assolutamente non ce lo aspettavamo e per questo lo abbiamo particolarmente gradito.

Procediamo fra stupendi panorami in quella che, probabilmente, è la parte migliore di Ut 12 Scenic Byway, compresa fra le cittadine di Escalante e Boulder, poi torniamo a correre fra le rive boscose della Dixie National Forest, saliamo di quota e ci fermiamo a pranzare in un’area di sosta fra gli alberi.

Quando riprendiamo il viaggio cominciamo a scendere dalle montagne, sulle quali si era inerpicata la strada, in direzione di Torrey, mentre il cielo si è purtroppo riempito di nuvole e questo, probabilmente, contribuirà a rovinarci in qualche modo il pomeriggio.

Giungiamo al termine della Route numero 12 e c’immettiamo sulla numero 24 verso est, con la vegetazione intorno a noi che è sparita nuovamente. Passiamo di fronte al Best Western Capitol Reef Resort, dove questa sera prenderemo alloggio, ed entriamo nel Capitol Reef National Park.

Il parco nazionale protegge una vasta area, che si sviluppa da nord a sud, caratterizzata, geologicamente, da una lunghissima falla tettonica, che vista dall’alto, ricordando vagamente nella forma le grandi barriere coralline (reef), ha ispirato lo strano nome. Nella zona, fra l’altro, pare si trovino le rocce più rosse di tutto il sud-ovest americano, che non intendiamo certo lasciarci sfuggire, anche se le strade praticabili dai normali mezzi a quattro ruote permettono di vedere solo una parte molto limitata del territorio.

Il luogo non è dotato di alcuna porta d’ingresso, per cui, appena oltrepassato il cartello che ne definisce il limite occidentale, contornati da bellissime conformazioni rocciose, deviamo sulla destra per raggiungere il Goosenecks sul Sulphure Creek, che qui forma due spettacolari anse, ma il sole è latitante e non ci godiamo appieno il punto panoramico. Poco più avanti raggiungiamo la piacevole oasi di Fruita, improbabile macchia di verde sulle rive del tumultuoso Fremont River. Qui, nel XIX secolo, s’insediarono i primi coloni mormoni, che, favoriti dal clima, piantarono diversi alberi da frutto. I coloni non ci sono più, ma quelle piantagioni, mantenute dai ranger, esistono ancora e i frutti possono essere raccolti liberamente dai turisti che lasciano, come compenso, una simbolica somma di denaro all’interno di un’apposita cassetta (ennesima dimostrazione di civiltà “made in U.S.A”!). Questa è la stagione delle albicocche e ne raccogliamo una discreta quantità, per la gioia del piccolo che si risveglia dal tepore nel quale era caduto.

Da Fruita seguiamo quindi la strada panoramica che s’inoltra nel cuore del parco, fiancheggiata da stupefacenti falesie, fra le quali spicca la strana conformazione detta Egyptian Temple. Il nastro d’asfalto termina poco più avanti, ad una biforcazione da cui partono due piste. Noi percorriamo quella di sinistra che si addentra nelle suggestive Capitol Gorge, dominate dall’imponente sagoma del Golden Trone. Al ritorno, invece, poco prima dell’oasi, deviamo sulla destra lungo lo sterrato che porta all’amena strettoia di Grand Wash, dove, a quanto pare, trovò a suo tempo rifugio il famoso fuorilegge Butch Cassidy.

Certo Capitol Reef, come dice anche la guida, non è il più spettacolare dei parchi americani, ma ci ha comunque saputo offrire spunti di notevole interesse paesaggistico, peccato solo che il sole sia mancato all’appello in più di un’occasione … noi però siamo testardi e cercheremo di rimediare a questa mancanza, con un po’ di fortuna, domani mattina.

Ci dedichiamo alla raccolta di un altro po’ di frutta, osservando fra gli alberi anche un meraviglioso branco di cervi, poi, visitata la vecchia scuola mormone di Fruita (attiva fino al 1941) e alcuni interessanti petroglifi indiani nelle vicinanze, ci avviamo verso l’uscita del parco. Passiamo accanto alla magnifica sfilata di rocce rossastre, ognuna con un nome (The Castle, Chimney Rock, Twin Rock …) associato alla propria caratteristica, e arriviamo al Best Western Capitol Reef per prendere possesso delle nostre camere.

In serata usciamo per cena nella vicina cittadina di Torrey, che vista segnata sulla carta stradale sembrava dovesse essere una metropoli e invece è piccolissima, paragonabile ad un nostro paesino di campagna. Mentre siamo a tavola si scatena un temporale … speriamo che si sfoghi e domani il sole torni a splendere alto in cielo, ad illuminare nel migliore dei modi questa indimenticabile vacanza.

Lunedì 5 Luglio: Il cielo sembra sufficientemente sgombro da nubi quando, ancora assonnati, usciamo dalla porta della nostra stanza. Dopo colazione, però, mentre ci accingiamo a fare il previsto, veloce, ripasso di Capitol Reef, il sole torna a giocare a rimpiattino con le nuvole, che sono riapparse dal nulla in brevissimo tempo … ed è una piccola disdetta! La luce, fra l’altro, non è buona come quella del pomeriggio e dobbiamo accontentarci di scattare poche altre foto prima di lasciare il parco verso est lungo la Route numero 24.

Anche questa strada, come la numero 12, è classificata Scenic Byway e a giusta ragione visti i panorami che offre. Tutto diventa poi ancor più bello quando il sole riesce, finalmente, a vincere la sua battaglia e torna ad irradiare di luce il seducente paesaggio che si estende intorno a noi a perdita d’occhio.

Macinando miglia in questo ambiente semi-desertico arriviamo nella remota cittadina di Hanksville, talmente remota che vi si festeggia con un giorno di ritardo anche l’Indipendence Day. Lo sceriffo locale ci fa segno di fermarci così da permettere il passaggio lungo la strada principale di un piccolo corteo di carri allegorici, sui quali si trova, in pratica, l’intera popolazione. Ritrovandoci in questo modo gli improvvisati e quasi unici spettatori ne approfittiamo, facendo incetta delle caramelle che i partecipanti alla sfilata lanciano a piene mani a chissà chi.

Con Federico raggiante per l’imprevisto bottino accumulato riprendiamo il nostro viaggio in direzione nord-est sulla numero 24 e, giunti circa a metà di un interminabile rettilineo, deviamo sulla sinistra seguendo le indicazioni per il Goblin Valley State Park.

Lungo la strada che porta al parco un’auto che ci precede, all’uscita di una curva, sbanda paurosamente, va quasi in testa-coda ma resta miracolosamente in carreggiata, così col cuore ancora in gola varchiamo la porta d’accesso alla “Valle dei Folletti”.

Più che una valle, in realtà, è una depressione del terreno all’interno della quale, grazie all’azione continua degli agenti atmosferici, si sono venuti a formare una miriade di pinnacoli, la cui parte sommatale ricorda vagamente il classico copricapo dei folletti (goblin, appunto), oppure grossi funghi, com’erano sembrati a tale Arthur Chaffin, il cow-boy che per caso li scoprì negl’anni venti, battezzando il luogo Mushroom Valley. Così anche noi possiamo far volare la fantasia alla ricerca della denominazione più appropriata, a cominciare dalle Three Sisters, la prima fiabesca conformazione, forse la più rappresentativa, che incontriamo appena oltrepassato l’ingresso … uno a zero per i goblin.

Il cuore del parco, invece, è un vero e proprio esercito di folletti, o una fungaia sterminata nella quale camminiamo, per quasi un’ora, alla ricerca delle prospettive più accattivanti, assegnando, nel contempo, quasi equamente i punti di questa surreale disputa. Alla fine, però, che siano funghi o folletti a prevalere non importa, perché a vincere in realtà è, come sempre, la natura, che è riuscita a stupirci ancora una volta.

Il cielo sereno ed il sole quasi allo zenit hanno fatto nel frattempo schizzare la temperatura verso l’alto e cerchiamo refrigerio dentro la nostra Chevrolet mentre lasciamo la stupefacente Goblin Valley riguadagnando la Highway 24 che poco più a nord s’immette sulla Interstate numero 70.

Percorriamo l’autostrada verso est, ci fermiamo a pranzare in un’area di sosta e, toccato il punto più settentrionale del nostro itinerario, prendiamo a seguire, verso sud, la Route numero 128, detta anche Upper Colorado Scenic Byway.

L’incontro con il mitico Colorado è già di per sé emozionante, in più la strada, scelta in alternativa alla più breve ed agevole 191, si rivela panoramicissima: una gradita sorpresa che va oltre le più rosee aspettative.

La vallata si fa particolarmente interessante subito dopo la località di Dewey, laddove un ponte scavalca il leggendario fiume del far-west. Poco più avanti, sulla sinistra, infatti appare l’imponente sagoma della Fisher Tower, che spicca nel severo paesaggio roccioso circostante. Saliamo fino ai suoi piedi, seguendo un breve sterrato, così possiamo goderci la bellissima vista che, da lassù, abbraccia diverse anse del Colorado River.

La Scenic Byway prosegue lungo la riva sinistra offrendo notevoli scorci paesaggistici caratterizzati da rupi rosso-ocra, che si stagliano mirabilmente sull’azzurro del cielo tappezzato da candide nuvolette che paiono tanti batuffoli d’ovatta. Arriviamo in questo modo, dove la vallata si apre improvvisamente, nell’abitato di Moab, che ci vedrà suoi ospiti per le prossime due notti, alloggiati nel locale Sleep Inn.

Prendiamo possesso delle nostre camere ancor prima delle 17:00, così ne approfittiamo per trascorrere un’ora abbondante di relax sui bordi della piscina, prima di uscire per una passeggiata nel centro di quella che, dopo doversi giorni, ha finalmente l’aspetto di una vera cittadina.

Ceniamo con un buon piatto di pasta e chiudiamo una giornata positiva che, nata quasi come tappa di trasferimento, ci ha saputo offrire, invece, qualche altra magnifica perla da aggiungere all’album dei ricordi, che neanche a metà viaggio appare già idealmente pieno di istantanee virtuali.

Martedì 6 Luglio: La sveglia è, come al solito, di buon ora: ci aspetta una giornata intensa e piuttosto faticosa, con pochi chilometri da percorrere in auto e molti a piedi, in più c’è l’incognita del caldo, che in questa zona del paese davvero non scherza.

Lasciamo lo Sleep Inn seguendo la strada numero 191 in direzione nord, usciamo da Moab e dopo poche miglia svoltiamo sulla destra per entrare nel celeberrimo Arches National Park. Istituito già nel 1929 come National Monument ed elevato a parco nel 1971, preserva una zona dimensionalmente non vastissima nella quale, però, si trova la più alta concentrazione al mondo di archi naturali. Qui vento, pioggia, ghiaccio e grandi escursioni termiche hanno lavorato incessantemente per milioni di anni dando vita ad oltre duemila archi, di ogni forma e dimensione, che assieme a pinnacoli e incredibili rocce in bilico creano uno dei più sorprendenti e sontuosi paesaggi del west americano. Non per niente il luogo è stato scelto, in più di un’occasione, come set naturale per girarvi alcune sequenze cinematografiche.

Varcata la porta d’ingresso saliamo a tornanti su di un altopiano e subito si para davanti ai nostri occhi la prima meraviglia: la sfilata di rocce detta Park Avenue, che ricorda vagamente la sequenza di palazzi della nota via newyorchese. Più avanti, a Courthouse Tower Viewpoint, incontriamo The Organ, Tower of Babel, Sheep Rock e Three Gossip, altre meravigliose formazioni rocciose. Cosa dire poi dell’incredibile Balanced Rock che, situata nella parte centrale del parco, sembra voler sfidare tutte le leggi di gravità. Pare di essere … anzi siamo fra le alture di Beep Beep e Willy il coyote, personaggi dei cartoon le cui avventure sono proprio, idealmente, ambientate in questi luoghi. La roccia in apparente equilibrio precario è però controsole e torneremo più tardi a fotografarla, intanto svoltiamo sulla destra per raggiungere quella zona del parco denominata Window Section.

Parcheggiamo l’auto con di fronte a noi l’impressionante arco chiamato North Window. A piedi lo raggiungiamo, vi passiamo attraverso e saliamo su di una piccola asperità rocciosa. Da lassù la vista è sublime: a sinistra s’intravede la South Window mentre al centro, in primo piano, c’è la North Window, oltre la quale, come su di un grande schermo, si vede il magnifico Turret Arch … Quest’ultima conformazione, distante poche centinaia di metri, si trova proprio al centro della scena e sembra essere stata creata, non per caso, proprio in quel punto. E’ incredibile la sensazione che si prova di fronte a tanta bellezza e, personalmente, la gioia immensa di esserne testimone mi fa quasi commuovere.

Lasciamo estasiati questa zona del parco e riguadagnando la strada principale arriviamo, fin dove questa termina, all’ingresso dei cosiddetti Devil’s Garden … e il nome è tutto un programma, visto che il caldo sta cominciando a farsi sentire. I “Giardini del Diavolo” altro non sono che una stretta e suggestiva vallata arsa dal sole e percorsa da un sentiero, lungo quasi un miglio, che non possiamo proprio esimerci dal seguire, visto che porta al sensazionale Landscape Arch.

Quando arriviamo, un po’ accaldati, al suo cospetto non possiamo far altro che esternare una esclamazione di meraviglia, anche se dal punto di osservazione in cui è consentito stare non ci si può rendere perfettamente conto delle dimensioni di quell’esile “filo” di roccia: una vera e propria opera d’ingegneria della natura che tradotta in cifre parla di 32 metri di altezza e ben 89 di lunghezza, la più lunga campata del genere al mondo, assottigliatasi ulteriormente dopo il parziale crollo del 1991.

Appagati per aver conquistato l’ennesima meraviglia facciamo ritorno alla nostra auto e appena ripresa la marcia ci fermiamo per fotografare il pregevole Skyline Arch e per recarci a vedere, dopo una modesta scarpinata, il piccolo ma suggestivo Sand Dunes Arch. Ormai in tarda mattinata ci avviamo verso la zona del parco dove si trova il famoso Delicate Arch: la conformazione rocciosa simbolo dell’Arches National Park e dell’intero Utah, raffigurata persino sulle targhe automobilistiche dello stato! Raggiungeremo però l’arco solo in serata, con la luce del tramonto, e per il momento ci accontenteremo di vederlo solo da lontano. A tal proposito prendiamo a salire, sotto il sole cocente, lungo un breve ed irto sentiero, ma la stanchezza comincia a farsi sentire e Federico, ad un certo punto, probabilmente a ragione, si rifiuta di continuare, così tutti si fermano, all’ombra di un rarissimo albero, ad aspettare mentre solo io proseguo fino in vetta per scattare almeno una foto. E’ stato il piccolo, però, questa volta a fare la scelta giusta, infatti la fatica è stata tanta e la foto, col soggetto troppo distante, non all’altezza delle aspettative … poco importa, perché le bellezze che mi circondano sono tali e tante da farmi dimenticare in fretta lo sforzo compiuto, soprattutto quando, poco dopo, tornati alla Window Section, ci rechiamo a vedere da vicino e con la giusta luce lo stupefacente, incredibile, sbalorditivo Double Arch … solo la fantasia divina poteva concepire un’opera tale, fiancheggiata dalla Parade of Elephant: pachidermi di roccia in fila indiana, ideali custodi dell’unico arco doppio del parco.

Scattiamo una foto anche alla Balanced Rock, che non è più controsole, e ci avviamo verso l’uscita quando sono già abbondantemente passate le 13:00 e il caldo ha sicuramente raggiunto il suo apice.

Ci fermiamo a pranzare in un’area di sosta sulle rive del Colorado, alle porte di Moab, e poi rientriamo in hotel. Sfiniti facciamo una doccia ristoratrice e ci concediamo un po’ di riposo sui nostri letti, quindi, trascorsa un’oretta abbondante di relax in piscina, siamo di nuovo operativi.

Alle 18:00 in punto scatta l’operazione “Delicate Arch”: torniamo entro i confini del parco e mezzora più tardi siamo pronti per affrontare l’escursione forse più difficile del viaggio. Fa ancora un discreto caldo e ci aspetta un miglio e mezzo (2400 metri) di dura salita per arrivare all’arco degl’archi.

Arranchiamo, imperlati di sudore, lungo il percorso, che nella sua parte centrale si sviluppa su di un nudo piano roccioso inclinato, la cui pendenza costante non dà un attimo di respiro. Federico mi fa quasi pena mentre, a lunghi tratti, lo porto per mano col timore di sentirmi dire che non ce la fa più, ma alla fine riusciamo a guadagnare la vetta dell’altura. Percorriamo un breve tratto di sentiero pianeggiante, aggirando uno scenografico costone roccioso, e arriviamo in una sorta di anfiteatro dove si trova, come al centro di un palcoscenico, l’incantevole Delicate Arch, che si staglia mirabilmente sul grandioso panorama retrostante, a cui è affidato il ruolo di inimitabile quinta naturale.

Prendiamo il nostro posto in “gradinata” assieme a tanta altra gente che, in religioso silenzio, sta aspettando la calda luce del tramonto. Nell’attesa mi reco, in compagnia del nonno e di Federico, prima sotto all’arco per ammirarne da vicino le straordinarie fattezze poi sulle rocce circostanti alla ricerca di suggestive inquadrature, alla fine, però, torniamo ai nostri posti per goderci lo spettacolo.

Col trascorrere dei minuti le rocce diventano sempre più rosse e, ad un certo punto, l’arco sembra brillare di luce propria sullo sfondo del cielo terso alle sue spalle. La scena è straordinariamente bella ed emozionante, ma poi l’ombra prende inesorabilmente il sopravvento e, a malincuore, dobbiamo riprendere la via del ritorno, anche perché rischiamo di farci sorprendere dall’oscurità.

Lungo la discesa incontriamo numerose persone che ancora salgono, chissà dove andranno … lo spettacolo per oggi è chiaramente terminato! Un po’ di show lo offre invece la nonna, che decide di saggiare la durezza del suolo americano e cade … nulla di grave, per fortuna.

Arriviamo al parcheggio con il sole che, appena tramontato, infiamma ancora le poche nuvole sparse in cielo … siamo stanchi ma felicissimi di aver visto il meraviglioso Delicate Arch. Rientriamo così di buon umore a Moab, mentre il buio è già sceso a coprire ogni cosa: ci fermiamo a mangiare un gelato per cena e subito dopo corriamo in hotel a consumare la meritata notte di riposo, con la mente ancora rivolta all’inimitabile Arches National Park.



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