Volontario per scelta e turista per caso
Partiamo da un presupposto, che poi è anche il titolo: volontario per scelta. Decisamente non per caso, visto che la mia esperienza di volontariato è stata preparata, materialmente e “spiritualmente” da una associazione missionaria della diocesi di Treviso, per almeno sei mesi prima della partenza. E visto anche che la mia decisione di partire mi ha portato ad escludere (non senza difficoltà, anzi!) altre opportunità importanti che avevo per il mese di agosto. Ma il richiamo missionario, e la voglia di “fare qualcosa” (anche se, in effetti, in queste esperienze è più ciò che si riceve di quello che si da), hanno prevalso su qualsiasi altra cosa, e così, rompendo gli indugi, ho comprato il biglietto, non proprio economico in realtà (1600 euro) ma la colpa è mia che ho prenotato in effetti abbastanza tardi, a maggio).
E così, dopo qualche mese passato a chiedermi come sarà, che esperienza sarà, come sarà la vita in questo posto lontanissimo, mi sono imbarcato su un volo KLM da Venezia ad Amsterdam con altre due amiche, e da li via verso Quito, facendo scalo a Bonaire (Antille Olandesi) e Guayaquil (città costiera dell’Ecuador, nonchè prima città del Paese per dimensioni).
Del mio arrivo a Quito ho un’immagine straordinaria sempre in mente: l’aereo, da Guayaquil verso la capitale, deve superare le Ande (che si sarebbero rivelate mie future compagne di viaggio meravigliose) e virare poi verso nord per un breve volo di circa mezz’ora. Ad un tratto, sullo schermino dell’aereo che traccia l’itinerario e segnala i posti da vedere dal finestrino, compare la scritta “Chimborazo”. Il vulcano più alto dell’Ecuador, il punto più vicino al sole del pianeta, una montagna che sognavo di vedere da quando iniziai ad interessarmi a questo piccolo grandissimo Paese. Subito mi affaccio al finestrino, ma vedendo il cielo nublado (nuvoloso) scrollo le spalle non senza delusione. D’improvviso, la mia vicina di posto quasi mi urla “il Chimborazo!!”. Stupito mi volto, e d’improvviso, dalla coltre di nubi, ecco ergersi la cima del vulcano, che forava le nuvole e ci accoglieva in Ecuador.
Una volta a Quito ci accoglie il clima meraviglioso (almeno secondo me) della città, ben fresco di sera (da stare col maglione insomma) e quasi caldo di giorno. Non si direbbe mai di essere a 2800 metri! Dall’aeroporto ci siamo diretti ad Amaguana, paese del Canton de Quito a circa un’ora dalla città, dove si trova la cosiddetta “seconda casa” della Fundaciòn.
E’ giunto il momento di dire due parole sull’attività di questo ente. Questa fondazione, gestita da suore salesiane, si occupa di accogliere nelle sue strutture bambine strappate alle strade di Quito o di altre zone dell’Ecuador. Accogliendole nella “prima casa” in centro a Quito, si occupano di dar da mangiare, vestiti puliti, in molti casi anche “rieducarle” alla vita civile, e contestualmente si cerca la famiglia d’origine (se presente) cercando di prenderne contatti e valutare se è possibile un reinserimento della bambina. L’attività di noi tre volontari all’interno della Fondazione è stata fondamentalmente di animazione a queste bambine, di compagnia, di aiuto anche, per quel poco che si poteva fare in una così breve permanenza. Io, in quanto ragazzo, sono anche potuto andare una mattina e una notte in giro per le strade di Quito con un volontario locale cercando quei bambini e bambine che lavorano per strada, per conoscerli, capirne la situazione, sapere se vanno a scuola.
Ovviamente il viaggio di un mese non si è fermato alla fondazione, e qui arriva quel “turisti per caso” del titolo. Sì, perchè oltre al lavoro nella fondazione, un po’ previsto, un po’ per caso, ho avuto l’opportunità di girare molte zone del Paese, viaggiando per lo più con i mezzi della Fondazione. Abbiamo così avuto l’opportunità di andare alcuni giorni a Cuenca, terza città dell’Ecuador e bellissima città coloniale con le sue lunghe strade e le sue case basse, facendo la strada che segue la Cordillera da nord a sud, passando mille peripezie tra cui un bel pezzo di strada in costa alle montagne non asfaltata, in pieno paramo, o bambini che, tendendo una corda in mezzo alla strada, ti fermano per chiedere il “pedaggio”. Da Cuenca poi, abbiamo avuto modo di vedere alcuni pueblos della zona quali Gualaceo, Chordeleg e Sigsig, e poi di andare a Machala, capitale bananiera mondiale. Attraversando così gli immensi campi di banane fino a raggiungere Puerto Bolivar e ad imbarcarci per Jambelì, in un percorso che consiglio a tutti per la bellezza del Canal de Jambelì (avete presente un tranquillo week-end di paura?) e della sua spiaggia, con i suoi venditori ambulanti, e per l’avventuroso viaggio sulla chiatta che da Puerto va a Jambelì, attraversando un pezzo di Pacifico, con onde non indifferenti.
Un’altra zona che abbiamo visitato è stata Salinas de Guaranda (da non confondersi con Salinas, città costiera) nella provincia di Bolivar, a 3600 metri! Un freddo pazzesco. Un villaggio carino per una visita (di una mattinata, non di più) con le sue fabbriche di formaggio, maglioni e… Cioccolata! Ma soprattutto, abbiamo avuto modo da li di salire al Chimborazo (ricordate??) e raggiungere a piedi i 5400 metri!! E vi assicuro, non è così impossibile come sembra. La vista sull’Arenal, ossia il grande deserto sabbioso ai piedi del gigante, è qualcosa che non se ne va mai più dalla testa.
Infine, certamente importante, e direi sopra tutto il resto, la mia amata Quito. Una città meravigliosa, con il suo centro storico, le sue chiese, il Panecillo, il museo dell’acqua (di cui non ricordo il nome, ma se potete andatelo a vedere, merita!! Anche solo per la vista!!).
La cosa più bella, però, oltre all’esperienza missionaria, ma in essa anche integrata, è stata proprio il fatto di non essere “turisti”.
A mio avviso, andare in Ecuador per fare il turista toglie moltissimo di ciò che si potrebbe avere. Andare laggiù dev’essere un’occasione di conoscere la cultura, la gente del posto, di farsene travolgere, affascinare, prendere. Ma soprattutto di conoscerne bene gli aspetti, a fondo. Quelli belli, ma anche quelli brutti. Di un paese ancora profondamente povero, con molti problemi sociali. Se andiamo a Quito per fare shopping all’avenua Amazonas, senza nemmeno guardare il bambino che corre a lustrarci le scarpe, allora non abbiamo capito nulla, e possiamo starcene a casa, o andare in un villaggio turistico caraibico, dove il chiasso e il fragore della bella vita ci impediscono, almeno, di vedere la povertà, anche li presente (mai sopportato i villaggi turistici).
Un viaggio in Ecuador deve cambiare, c’è poco da fare, come in tutti i paesi del cosiddetto “terzo mondo”. Se andiamo li a fare i turisti, e torniamo a casa come se fossimo andati a Jesolo, con tante foto, ma poca sensibilità, sarebbe forse stato meglio essere rimasti a casa.
Il giorno di tornare a casa è stato drammatico, quando l’aereo si staccava dalla pista è stato come perdere un pezzo di cuore in quella terra straordinaria.
E un pezzo di cuore è importante, non credete? Forse è per quello che ho deciso di tornare.
Forse è per quello che ho già qui, sulla mia scrivania, un biglietto aereo per il prossimo marzo, che mi farà stare tre mesi e mezzo in Ecuador, a Quito, ancora.
Andate. Non per visitare, ma per vivere.
Non per cambiare, ma per essere cambiati.
Hasta luego!