Volontaria per caso… in Etiopia

bellissima esperienza in Etiopia, nella valle dell'Omo, tra volontariato e tribù….
Scritto da: mikilaly
volontaria per caso... in etiopia
Partenza il: 13/11/2013
Ritorno il: 29/11/2013
Viaggiatori: 1
Spesa: 1000 €
Ascolta i podcast
 
Voglio raccontare a tutti della mia bellissima esperienza in Etiopia, tra volontariato e tribù…

Grazie ad un amico etiope che mi ha messa in contatto con una clinica ed una scuola, ho potuto effettuare questa esperienza senza bisogno di appoggiarmi ad alcuna associazione… ovviamente con i pro e i contro della cosa. Avevo provato a contattare alcune organizzazioni operanti nella Valle dell’Omo (io volevo andare proprio là in quanto ero stata precedentemente per una vacanza e mi ero innamorata del posto), ma non ho mai avuto risposta. Le uniche proposte che ho trovato in Internet erano purtroppo particolarmente costose, anche se sicuramente meglio organizzate di me e comunque con locations diverse da quella da me desiderata.

La parte iniziale del viaggio, da Addis Abeba ad Arbaminch il primo giorno con un bus prima classe (corrispondente ad una nostra classe…non classificabile per la scomodità e la esiguità dei posti) e fino a Key Afer con un mini van sovraffollato il secondo giorno, l’ho fatta in compagnia di Emanuel (il mio amico etiope che opera come guida turistica) che fortunatamente si trovava ad Addis Abeba.

A Key Afer ho alloggiato nella dignitosa e molto pulita anche se non di lusso Sami Pension, fornita di corrente e acqua in alcuni orari del giorno. Essendo io un tecnico di laboratorio, sono stata inserita nel laboratorio di analisi dell’Health Center del paese: catapultata in un altro mondo. Abituata ad aver a che fare con tecnologie all’avanguardia in Italia, mi sono velocemente adattata a stare in una struttura senza corrente, con un microscopio alimentato dai raggi del sole. Ho imparato velocemente a trattare con i pazienti che arrivavano dall’accettazione con una specie di impegnativa fatta su carta straccia, accogliendoli con un sorriso ed effettuando i prelievi di sangue o di altri fluidi biologici per le analisi prescritte: malaria, HIV, parassiti intestinali. Usando le poche parole di amarico che conosco, “salve”, “grazie”, “bello”, sono comunque riuscita a stabilire dei brevi contatti con queste persone che arrivavano a piedi da tribù lontane. Sicuramente non sono stata utile dal punto di vista dell’implementazione di nuove tecnologie, ma sento di esserlo stata dal punto di vista umano, per i pazienti che erano davvero felici nel vedere un bianco prendersi cura di loro e per gli infermieri del centro che si sono sentiti onorati della mia presenza. Purtroppo ho constatato personalmente che i casi di malaria, HIV e altre malattie per noi remote sono diffusi come anche la denutrizione infantile, che si combatte molto facilmente somministrando delle pappe proteiche ai bimbi. Queste pappe hanno un costo irrisorio (30 centesimi di Euro) e ne bastano una trentina per cambiare le condizioni di salute di un bambino… meno di 10 Euro per salvare la vita ad un bambino… fa riflettere!

Nonostante sia rimasta pochi giorni, ho instaurato un rapporto bellissimo con le persone che lavorano nella clinica, tutti ragazzi giovani e pieni di buoni propositi. Ricordo con particolare affetto Rebecca, l’ostetrica poco più che ventenne, che per uno stipendio di 40 euro mensili, lavora giorno e notte con poche pause. Originaria della tribù degli Hammer, ha deciso di lasciare la famiglia ed un futuro tra capre e mucche per studiare, portando con sé, mantenendo e mandando a scuola, i 4 fratelli più piccoli. Mi ha fatta assistere alle visite ginecologiche, misurando battiti e lunghezza del feto senza ecografi né particolari strumenti. Una notte squilla il telefono: è Rebecca che mi avverte che una donna è appena arrivata dalle tribù alla clinica e sta per partorire (si sarà fatta 10-20 km a piedi). La raggiungo alla clinica, nel buio totale, con la mia pila in mano….e il mio importantissimo compito sarà quello di tenere la pila puntata sulla partoriente! Nel giro di due ore la donna dà alla luce un bellissimo bambino, che guizza fuori come un pesciolino… e… sorpresa: è bianco! Con mia incredulità, scopro che i neonati sono di colore bianco nei primi giorni di vita. E’ stata un’esperienza splendida, davvero emozionante, che porterò per sempre nel cuore! Incredibilmente la mamma non ha emesso nemmeno un urlo durante il parto e il mattino seguente, col pargolo in braccio, si è alzata ed è ritornata nella sua tribù.

Ho lasciato Key Afer per Jinka, sempre a bordo di un affollato mini van. E’ davvero molto divertente muoversi a bordo di questi piccoli furgoni, omologati per 12 ma che in realtà trasportano anche 25 passeggeri; salgono le persone più strane, dalla donna con la zucca in testa e la pelle di capra in vita, all’uomo col gonnellino e 5 galline in mano…e tutti mi regalano un sorriso!

A Jinka sono stata ospite di una scuola, cercando di insegnare qualche parola di inglese e qualche nozione di matematica a bimbi dell’asilo e dei primi due anni delle elementari. E’ stato gestito tutto come un gioco, facendo dei piccoli test alla lavagna per poi distribuire qualche giocattolo e qualche maglietta ai bimbi. Anche qui mi sono trovata molto bene, grazie al preside della scuola che è stato davvero gentile, invitandomi anche a cena presso la sua famiglia e grazie ai bambini che mi hanno riempita di baci e abbracci, a volte non lasciandomi nemmeno il modo di muovermi!

Gli ultimi giorni li ho trascorsi presso la famiglia di Wure, un ragazzo della tribù dei Banna, conosciuto durante la mia vacanza precedente. Ci ha guidati su sentieri a me praticamente invisibili alla sua capanna, dopo una mezzora di camminata tra cespugli, pannocchie ed arbusti. Io ed Emanuel abbiamo piantato la tenda di fianco alla capanna e abbiamo subito preso parte alla vita della tribù. Accolti dalla mamma con un caldissimo caffè servito nella zucca, ho scambiato sorrisi e sguardi amichevoli a tutti i vicini che sono venuti a farci visita. Indu (che significa mamma) è una delle persone più eccezionali che io abbia mai conosciuto. Con una voce così sottile da sembrare una bambolina, un folletto, esile e fiera; innamoratasi di un uomo, lo seguì nonostante l’opposizione della famiglia che una notte fece incursione nella loro casa e la strappò al suo innamorato per darla ad un vecchio amico del padre. Lei fuggì durante la notte e venne scambiata per una donna della tribù dei Mursi con i quali i Banna erano in lotta…e fu trapassata al petto da un proiettile. Raggiunse però il suo amato, nonostante le ferite. Indu ora è vedova: il marito è stato ucciso dai Mursi. Ha sei figli, 3 dei quali ancora abitano con lei nella capanna: Wure, Doro, ragazza sui 15 anni (loro non sanno esattamente l’età) e Mulo, ragazzino sui 12 anni che è presto diventato il mio tesoro! Nella quotidianità, tutta la famiglia si occupa dei campi, delle galline, delle poche capre; la mamma va a prendere l’acqua, macina il sorgo con delle pietre per fare la farina e prepara da mangiare. Durante il giorno sono stata da sola con loro, comunicando a gesti e cercando di imitarli nei comportamenti. Ho provato a fare la farina, ho aiutato le donne nella preparazione del cibo, mi sono scambiata i vestiti con le ragazze, ho munto una mucca, ho fatto visita a tutte le capanne disperse sulla vallata, sempre accolta con grande affetto dalle persone…e l’ultima sera, grande festa danzante! In mezzo al nulla, abbiamo raggiunto uno spiazzo nella savana e un po’ alla volta sono arrivati tutti i giovani della zona; ragazzi da una parte e ragazze dall’altra, intonando canti ripetitivi e ritmati, saltavano gli uni davanti alle altre, prendendomi per mano per coinvolgermi.

L’indomani all’addio tristi lacrime sono sgorgate dagli occhi di tutti. Ritorno alla strada attraversando la savana, passaggio in moto fino a Key Afer e salita al volo sul mini van, forse l’unico della giornata, per Arbaminch, con le lacrime agli occhi.

Il ritorno ad Addis Abeba, in totale autonomia, è stato un successo, nonostante la tristezza: non mi sono mai sentita così coccolata da degli sconosciuti. Salita sul van col cellulare scarico e senza nemmeno un birr (li avevo lasciati tutti agli amici appena salutati), mi hanno offerto il caffè, le banane e ad ogni fermata hanno trovato una presa elettrica per farmi caricare il cellulare. Ad Arbaminch sono stata fermata per strada da un ragazzo al quale era stata segnalata da Emanuel la mia presenza in città, con la richiesta di prendersi cura di me soprattutto per aiutarmi a capire quale autobus prendere l’indomani alle 5 di mattina per Addis. Anche su quest’autobus me la sono passata alla grande, facendo amicizia con tutti i miei vicini che mi hanno offerto arance e mango tra tante piacevoli chiacchiere! Esked è stata dolcissima quando mi ha invitata a trascorrere qualche ora con la sua famiglia nell’attesa dell’aereo, ma ho rifiutato per evitare di dare troppo fastidio..tornava a casa per due giorni dall’università, dopo mesi di lontananza.

Dulcis in fundo: durante la lunga attesa in aeroporto ho conosciuto Massimo, un dottore svizzero che aveva fatto la mia stessa esperienza in una città a Est di Addis. Confrontare le nostre avventure e scoprire che entrambi già stavamo pensando “alla prossima volta in Etiopia” è stata una dolce conclusione del mio viaggio. Ci siamo posti una domanda alla quale non abbiamo trovato risposta: “Ma la vita vera, quella densa di sentimenti, è questa o quella?”.



    Commenti

    Lascia un commento

    Leggi anche