Viaggio stampa in Irlanda
E gira gira gira gira l'elica e gira gira che piove e nevica,
per noi ragazzi di terza classe che per non morire si va in America. [ Francesco De Gregori, "Titanic" ]
La proposta per questa primavera, iniziata con entusiasmo e leggerezza tipicamente robiniesca, riguarda l'Irlanda. In particolare andiamo ad esplorare le regioni del sud ovest. Il...
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E gira gira gira gira l’elica e gira gira che piove e nevica, per noi ragazzi di terza classe che per non morire si va in America. [ Francesco De Gregori, “Titanic” ] La proposta per questa primavera, iniziata con entusiasmo e leggerezza tipicamente robiniesca, riguarda l’Irlanda. In particolare andiamo ad esplorare le regioni del sud ovest. Il nostro tour prevede un fitto itinerario nelle contee di Cork e Kerry, tra verdi paesaggi e laghi dai colori variabili come il cielo, che passa in un batter d’occhio dal grigio compatto all’azzurro ceramica, a seconda dei rapidi viaggi delle nuvole. Cielo da cui ci si può aspettare di tutto: dalla cosiddetta Irish mist — paragonabile ad una seduta sotto un enorme vaporizzatore — alla fresca brezza di mare, al sole obiettivamente caldo perché, in fondo in fondo, siamo a fine maggio. E fin qui ci siamo, lo aveva sottolineato a sufficienza la Mannoia. L’equipaggio è della dimensione giusta per essere comodamente contenuto in un van, equamente ed omogeneamente dotato della follia necessaria a rovesciare ironicamente lo spettacolo che ogni viaggio rappresenta, e dell’acume per osservarne i dettagli e non lasciarli scappare via senza averli analizzati almeno un attimo. Inoltre il composito bagaglio socioculturale di ognuno risulta particolarmente utile a cogliere, ad esempio, le infinite similitudini tra il parco nazionale di Killarney e il parco nazionale d’Abruzzo, tra la musica tradizionale irlandese e la taranta pizzicata, tra le cascate irlandesi e quelle nepalesi, tra la mucca irlandese e quella bretone, tra la pecora del Kerry e le altre varietà di pecore che incuranti brucano a tutte le latitudini, dalla Mancha alla Maiella. Il suddetto equipaggio non se l’aspettava di essere accolto, appena messo piede sulla scaletta dell’aereo atterrato a Cork, da un clima così inospitale, ma si è adattato. L’albergo prenotato si chiama Imperial Hotel e si trova in South Mall, nel centro finanziario della città. L’ora di cena è scaduta da un pezzo e dunque il gruppo si tripartisce: il duetto più godereccio degusta beandosene una saporita stout al pub; il più stanco va a nanna e ci pensa l’indomani; il più giovane beve soft drink in un locale notturno e deride gli irlandesi ubriachi. In mattinata l’ottima Jill ci guida a piedi per la città, rielaborata per l’appuntamento con la cultura, di cui è capitale europea nel 2005: in pratica lavori in corso ad ogni angolo di strada, ma niente in confronto a ciò che accadeva nel 2004. Il centro è situato su un’isola, circondato dai due canali del fiume Lee. A nord del fiume vi è la zona di Shandon, la parte storica della città con il vecchio mercato, la fabbrica del burro e un salmone d’oro che sovrasta il campanile della cattedrale. A sud invece c’è la cattedrale protestante, il museo cittadino, il carcere ottocentesco e le fabbriche di birra. Un giro all’English market strabordante di pesci enormi, carni e verdura, dove si può pagare persino con la carta di credito e — impensabile — nessuno urla. La responsabile del marketing turistico della regione ci ragguaglia su chi viene a visitare questi posti e perché: al primo posto ci sono gli americani, attirati dall’interesse per la genealogia e per il whisky, anche se le presenze sono in calo a causa del dollaro in ribasso. Per il resto la maggior parte dei turisti provengono da Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia: per loro festival musicali, cibo genuino, festival, mercati e possibilità di acquistare direttamente nelle farms. Pranzo “leggero” al ristorante della Crawford Art Gallery, accanto all’Opera House. Primo impatto con il salmone e il pane e burro grasso e saporito, giusto per non ingurgitare troppo poche calorie che sennò siamo troppo magri in confronto alle elefantesse locali (per inciso, sui voli Aer Lingus le hostess sono tutte grandi obese). Cork è città “disable friendly”: semafori sonorizzati, passaggi segnalati per ciechi, semafori con il countdown che ti informa su quanto durerà il verde, barriere architettoniche abolite. Sulla strada verso Kenmare ci fermiamo in visita al Mills Inn, dove beviamo un ottimo irish coffee per non arrivare troppo deperiti alla cena. Attraversiamo il parco nazionale (Abruzzo puro!), dove scopriamo che si può adottare una pecora: niente di nuovo, in Abruzzo personaggi del calibro di Alfonso Pecoraro Scanio, Piero Pelù, Zucchero hanno già adottato una pecora. Alla fine — dopo un milione di scatti del photographer, perlopiù di pecore di ogni foggia — raggiungiamo Kenmare, quest’anno detentrice del prestigioso “Tidy town of the year award”, ossia il premio per la città più pulita. Questo la dice lunga sui cessi pubblici della zona, su cui ti puoi sedere senza rischiare malattie, e anche su altri aspetti: ad esempio sono quasi inesistenti i manifesti pubblicitari 6×3. Alloggeremo in un meraviglioso castello delle fiabe circondato da un parco, occupato in minima parte da decine di campi da golf. Il personale meriterebbe un reportage a parte, specialmente l’Elton John biondo che ne è il manager. La mia stanza è grande circa il doppio del monolocale dove attualmente abito, e contiene un gigantesco letto a baldacchino con il materasso alto almeno quanto quattro materassi normali, un salotto completo di divani e tavolino su cui sono posizionati biscotti al cioccolato, bottiglia di vino rosso, lettore cd e riviste di fotografie. Il bagno è anch’esso vasto più del doppio del mio attuale bagno e mostra una serie di prodotti per il corpo dalle più delicate fragranze, oltre a pantofole e accappatoio in morbida spugna. Alle 19 in punto mi citofona una cameriera abbigliata come Cappuccetto rosso, con un cestino sotto il braccio esattamente uguale a quello di Cappuccetto rosso in visita dalla nonna e mi fa capire che deve entrare per preparare la stanza per la notte. Io mi sposto dalla porta e la osservo svolgere le seguenti mansioni, nell’ordine: piegare lievemente il copriletto in maniera da facilitarmi l’ingresso sotto le coperte al momento del bisogno (quando probabilmente, secondo l’ottica gaelica, sarò troppo ubriaca per farlo da sola), chiudere le mastodontiche triple tende per evitare che da fuori qualche occhio indiscreto possa sbirciare nella mia intimità, accendere tutte le lampade per controllare se le lampadine funzionano e cambiare appunto una delle suddette lampadine che si è inavvertitamente fulminata. Poi sorride, fa un grazioso inchino e se ne va. A cena si scatena il panico perché io (Becky Sharp) e Maurizio (the photographer) ci scambiamo i piatti, attratti dalla pietanza altrui proprio come nel racconto di Calvino, dove il bambino ricco sbava di fronte alla salsiccia con le rape dell’operaio povero il quale, a sua volta, amerebbe cibarsi per una volta del piatto di cervello del bambino ricco. Ma noi siamo adulti e ciononostante abbiamo l’intemperanza di fregarcene del fatto che non si può mangiare il tonno con il coltello da carne e il filetto con il coltello da pesce, già sistemati al lato del nostro piatto dopo l’ordinazione. I camerieri impallidiscono dalla paura disperata che qualcuno in alto si possa accorgere che hanno portato i piatti al commensale sbagliato; noi arrossiamo rendendoci conto dell’errore commesso. La sera non abbiamo modo di raggiungere Kenmare e godere della vita notturna in compagnia degli ubriaconi locali, visto che diluvia. La mattina al Park Hotel bisogna provare la SPA: è un duro lavoro ma qualcuno doveva pur farlo. Il trattamento (150 euro per gli ospiti dell’hotel, gratis per noi che siamo nel viaggio stampa) consiste in bagno turco, doccia Irish mist, tropical rain e monsoon, piscina riscaldata a 39 gradi all’aperto con vista mozzafiato sul parco, idromassaggio con bolle varie e infine massaggio total body dai piedi ai capelli. Per il pranzo ci attendono al pub Molly Darcys, dove degusto un Irish stew, spezzatino molto abruzzese, perché non c’è la panna e gli abruzzesi odiano la panna. Il manager ci guida nel tour dell’hotel e dei vari ristoranti annessi, tra cui quello dove mangiava George Bernard Shaw (finalmente un po’ di letteratura, mi stava cadendo un mito). Ci fa ammirare tutti i premi vinti: per il miglior cibo, per la miglior musica tradizionale da pub, per il miglior pub. Gli irlandesi vanno in fissa per queste storie di premi: le pareti sono tappezzate di pergamene di riconoscimento, award di qua e award di là. Qui puoi pure acquistare il tuo boccale personale a soli 25 euro incluse due bevute gratis e poi o te lo porti a casa, o lo lasci lì appeso insieme a quelli degli altri. Infine c’è la gara di assaggio del whisky, l’Irish Whisky Challenge, in collaborazione con Jameson, per cui pare gli americani vadano matti. Nel pomeriggio visitiamo Muckross House, nei pressi di Killarney, città elegante, piena di hotel e B&B. Killarney attira turisti di tutto il mondo da centinaia di anni ma fu soltanto la visita reale della regina Vittoria nel 1861 che la fece diventare una vera mecca del turismo. Per ospitare degnamente la regina e il suo entourage infatti il proprietaro di Muckross House andò in rovina: la regina aveva sì promesso di recapitargli una lauta ricompensa, ma purtroppo il marito morì di lì a poco e da allora la povera donna non fu più in grado di rispettare gli impegni presi. Killarney è circondata da scenari naturali spettacolari ed è la base ideale per esplorare i dintorni provando le più svariate attività ricreative come bici, spiagge, pesca, visita delle fattorie tradizionali. Il parco nazionale di Killarney, creato nel 1932, ha 3 laghi, 26000 acri di foresta naturale e dal 1981 è riserva della biosfera tutelata dall’UNESCO. Il giorno dopo siamo costretti ad un’altra massacrante mattina nella beauty farm. Leggevo in aereo di questi poveri americani, che organizzano la festa delle coccole. Ossia: si pagano 30 dollari, ci si riunisce in casa di questo abile uomo di marketing che ha saputo leggere il bisogno inespresso e, indossato il pigiamino, ci si coccola. Vietato togliersi il pigiama. Riferisce una colombiana che ha provato l’esperienza: io pago 30 dollari – che sono un’enormità visto che mi hanno offerto solo pop corn e aranciata in una casa privata – per avere coccole, cosa che non mi manca poiché noi siamo abituati ad abbracciarci. Ho ripensato a tutto ciò durante il massaggio ai piedi con tanto di ciotola piena di fiori e tazza di tè. Gli americani dal portafogli gonfio amano farsi coccolare in questi manieri da 400 euro a notte, dove gli preparano il letto e li massaggiano dalla testa ai piedi e giocano a golf e mangiano e bevono bicchieroni di superalcolici pieni di ghiaccio nei lounge tutti in legno lucido, con il pianoforte a coda. Per il pranzo ristorante di pesce con aragoste in acquario e poi visita di Bantry House, una villa in decadenza circondata da un meraviglioso parco che abbraccia tutta la baia. L’attuale proprietario è anche addetto allo sbigliettamento — piuttosto scarso sembrerebbe — ed ha un viso adatto ad un film di vampiri. Visitiamo anche Glengariff, villaggio da cui è raggiungibile l’isola di Garinish in traghetto. La caratteristica di questi posti — tutti pensiole e baie, penisole e baie — è il clima che, grazie alle correnti calde del golfo, rende la vegetazione sub-tropicale. Per questo a Glengariff ci sono le palme. E poi ci sono negozi che vendono capi in lana, anche lana cotta (proprio come in Nepal, ma costano 15 volte di più). L’ultima sera ceniamo a Killarney, gomito a gomito con un gruppo di finte hawayane grasse che stanno festeggiando un addio al nubilato. E a seguire scatta il giro dei pub, dove bevo due stout per non fare brutta figura con i bevitori locali e soprattutto con un gruppetto di femmine (ovviamente ciccione) scalmanate, elegantemente agghindate con dei cazzi di paillettes rosse in testa, ebbre a festeggiare anche loro un ennesimo addio al nubilato. Ed eccoci all’ultimo giorno, quello della partenza, prevista nel primo pomeriggio da Cork. I fuori programma, chiosa the photographer, solitamente sono una sventura. La nostra è l’eccezione che conferma la regola. Siamo arrivati a Cobh sotto un cielo azzurro popolato di nuvole bianche tra cui il sole aveva tutto l’agio di illuminare il mare da cui partì il Titanic prima della tragedia, di rendere i colori delle case e delle botteghe più squillanti che mai e di impreziosire la torre della cattedrale che domina il paese. Abbiamo avuto il tempo di visitare l’exhibition dedicata ai milioni di irlandesi che emigrarono negli Stati Uniti proprio da questo porto, a 25 km da Cork. Da qui partì anche il Lusitania, altra sfortunatissima nave protagonista di una tragedia. Il museo è interessante: si rappresenta a livello sonoro il contesto drammatico che doveva accompagnare gli emigranti prima dell’imbarco, ci sono pannelli esplicativi sulla carestia, il virus delle patate, i galeotti condotti in Australia. C’è la ricostruzione di uno spaccato della nave che evidenzia la differenza tra la prima classe che costa mille lire, la seconda che costa cento e la terza dove regnano dolore e spavento, puzza di sudore dal boccaporto e odore di mare morto. Anche se il paragone sembra sproporzionato, non si può non pensare a un parallelo con l’Abruzzo, altra terra di emigranti. Sicuramente se ne parlerà più diffusamente su «La voce dell’emigrante», pubblicazione militante abruzzeze doc.