Viaggio in Tanzania: Parchi Sud e Ovest
La vita, il destino, il succedersi degli eventi, fanno sì che, dopo le bastonate, la necessità di un porto sicuro, della dolcezza che solo l’Africa regala senza riserve, sia urgente, ed eccoci quindi a progettare un nuovo viaggio alla scoperta dei parchi più remoti del Sud e dell’Ovest della Tanzania.
Contrariamente alle nostre abitudini, da quando nasce l’idea alla presunta data di partenza, il tempo a disposizione per organizzare il viaggio non è molto, ma – trattandosi della Tanzania – non è un problema. In passato abbiamo dedicato al Paese ben due viaggi rivolgendoci in entrambi i casi allo stesso operatore locale; non occorre pertanto spendere tempo nella ricerca e selezione dell’agenzia migliore e nella valutazione di proposte, programmi e preventivi che comportano sempre lunghe contrattazioni.
Pienamente soddisfatti dei servizi resi in precedenza, ricontattiamo Hillary ed il suo efficiente staff.
In poco tempo, via e-mail, concordiamo l’itinerario e, pagato un acconto per confermare la prenotazione, non dobbiamo far altro che dare avvio al conto alla rovescia.
Il destino, però, ha in serbo per noi altri colpi di bastone. Improvvisamente c’è un’unica priorità, tutto il resto, viaggio compreso, viene accantonato. E’ andata com’è andata, ma questa è un’altra storia e desidero tenerla per me.
Questa premessa ha lo scopo di evidenziare la grande sensibilità ed il ruolo fondamentale di Hillary nel salvataggio del nostro viaggio e, successivamente, nella concretizzazione della partenza “last minute”. Dubito che, con altri operatori, saremmo riusciti a “salvare capra e cavoli”, come si suol dire.
La cronaca di questo viaggio inizia dunque con un GRAZIE immenso e sentito a Hillary, Stefania ed al personale della sede milanese della compagnia aerea Ethiopian Airlines.
L’itinerario, in breve, prevede le seguenti tappe:
– Zanzibar – 5 notti
– Ruaha National Park – 4 notti
– Katavi National Park – 4 notti
– Mahale Mountains National Park – 3 notti
– Arusha – 1 notte, prima del rientro in Italia
Per tutti gli spostamenti tra una località e l’altra l’aereo fa al caso nostro, permettendoci di sfruttare al meglio il tempo a disposizione.
La scelta di anteporre il soggiorno balneare alla visita dei parchi non è casuale. Certi che dopo l’immersione nella natura più incontaminata nulla possa reggere il confronto e desiderando gustare anche le atmosfere dell’isola di Zanzibar abbiamo deliberatamente deciso di iniziare il tour proprio da lì.
Perché i parchi del Sud e dell’Ovest?
Perché, dopo tanti viaggi e parchi africani, crescono le esigenze, si è alla ricerca di qualche cosa di “nuovo e di speciale”, di remoto e lontano dalle vie più battute, di esclusivo.
Leggere che il Katavi riceve, in un anno, poche centinaia di visitatori contro le oltre 300 e più auto che in un solo giorno d’agosto affollano il Cratere di Ngorongoro è una tentazione irresistibile.
14 giugno 2010
I bagagli sono chiusi, il frigorifero vuoto, la casa pulita e in ordine, l’attesa di un volo serale è, per noi, snervante. Alle 14, stanchi di guardare l’orologio, senza avere più nulla da fare, ci chiudiamo la porta alle spalle e raggiungiamo l’aeroporto di Linate: un viaggio nel viaggio poiché il trasferimento richiede un tragitto in auto, uno spostamento in treno ed infine una tratta in bus.
Alitalia anticipa la nostra partenza imbarcandoci sul volo delle 18, guadagniamo così un paio d’ore da spendere a Fiumicino.Mentre siamo in attesa di volare in Africa, in Sudafrica l’Italia è impegnata nella partita d’esordio e, con grande delusione generale, colleziona il primo pareggio giocando contro il Paraguay…
15 giugno 2010
Con un po’ di ritardo rispetto all’orario tabellare (0,55), su un aereo non proprio nuovissimo della compagnia Ethiopian Airlines, si parte alla volta di Addis Abeba (Etiopia).
Dopo uno scalo notturno, un cambio di aeromobile, altre ore di volo, ci appare la Tanzania, si atterra, infine, sulla costa, a Dar es Salaam. Per una serie di circostanze favorevoli raggiungiamo Zanzibar/Stone Town con circa 4 ore di anticipo, ci troviamo così, già nel primo pomeriggio, a bordo di un’auto, con un driver dalla guida rilassata, ad osservare – attraverso i finestrini – una moltitudine di persone, mandrie di buoi con la gobba che pascolano nei campi ed i colori delle botteghe e bancarelle, degli abiti e della vegetazione lussureggiante.
Lasciata la città, che si estende per diversi chilometri, la folla dirada, la strada, ora meno trafficata, corre diritta attraverso rigogliosi palmeti, bananeti, boschi di manghi e alberi fioriti. Dopo circa un’ora di viaggio, per raggiungere la costa orientale, svoltiamo imboccando una laterale sterrata e piena di buche che termina esattamente dove sorge Kichanga lodge: piccolo resort immerso nella vegetazione, con una fila di bungalow affacciata su una lunga spiaggia candida, lambita dall’oceano.
Dopo 26 ore in totale tra voli, attese e trasferimenti di vario tipo, siamo decisamente stanchi, ma la superba vista panoramica e l’accogliente sistemazione lasciano presagire un rapido recupero.
16 – 19 giugno 2010
Trascorriamo 4 giornate immersi nella quiete più assoluta di questo bel lodge, isolato, in compagnia di pochi altri turisti (da 0 a 4 ospiti nel giorno di massima affluenza). Le nostre “attività” principali si alternano tra un tuffo in piscina e il poltrire su un lettino in spiaggia o sull’amaca in veranda, leggendo un buon libro, con in sottofondo il rumore del mare che ritiratosi per effetto della bassa marea ricorda il rombo di un aereo lontano, mentre la brezza muove i rami delle palme che ci fanno ombra. I soli suoni che si sovrappongono sono il gracchiare di alcune cornacchie ed il ragliare di un asino che pare un lamento triste. Abbiamo altresì modo di apprezzare l’ottima cucina di un cuoco che ci vizia e ci rimpinza di polipi e gamberoni alla brace, carpacci di pesce freschissimo conditi con frutti della passione, pesce in tutte le sue varianti, patate, verdure, riso, squisiti dolci e tanta frutta.
Durante la bassa marea camminiamo per ore percorrendo il tratto di costa che, scoprendosi, mette in mostra calette di sabbia, grotte scavate nella roccia ed il fondale dai bellissimi strati di colore che mutano con il passaggio delle nuvole e con le diverse condizioni di luce e ombra, sfumando dal grigio piombo al turchese, passando per il blu cupo.
Il clima varia con estrema rapidità regalandoci di tutto un po’: dalle giornate ventilate e soleggiate all’afa diurna quasi insopportabile che di notte si trasforma in umidità penetrante tanto da farci raggomitolare sotto le coperte, dagli scrosci d’acqua brevi ma intensi che smorzano la calura, portando refrigerio, al muro di pioggia battente ed incessante dell’ultimo giorno di permanenza.
Non avevamo grandi aspettative da quest’isola molto frequentata, con decine di villaggi turistici dove “all inclusive”, “animazione” e “buffet” sono requisiti irrinunciabili per la maggioranza dei visitatori. Il nostro angolo solitario si è, tuttavia, rivelato un’oasi di pace che abbiamo molto apprezzato e che ci ha permesso di rigenerarci. Tra le tante cose non ci è mancato un vero momento di brivido africano, quando un serpente lungo e sottile ha attraversato un vialetto per poi sparire, con quella caratteristica andatura sinuosa, nel prato del giardino.
20 giugno 2010
L’ultima premura dello staff di Kichanga lodge è la colazione in camera alle 5 del mattino. Alle 6 – salutati tutti – ci avviamo verso l’aeroporto, un paio d’ore più tardi lasciamo Zanzibar, senza rimpianti, certi che da qui in avanti si andrà in crescendo. Breve scalo a Dar, dal clima più asciutto. Veniamo a sapere che le piogge delle ultime 24 ore hanno investito solo la costa orientale dell’isola… esattamente dove stavamo noi…
“Quando piove, diluvia!”
(settima variante di Zymurgy alla Legge di Murphy)
Il cambio di aereo si traduce in una scenetta comica che ci vede impegnati, pur seguendo le istruzioni del personale che ci riceve direttamente sulla pista d’atterraggio, in una sorta di caccia al velivolo su quello che sembra un plastico con tanti modellini disposti disordinatamente. Dopo diversi “di là”, “no, da questa parte”, “laggiù”, “là dietro”… troviamo finalmente il nostro piccolo aereo (10 posti a sedere). Ci accomodiamo, allacciamo le cinture, decolliamo e sorvoliamo per un paio d’ore – a bassa quota – la Tanzania meridionale. La veduta panoramica è formidabile, va tutto benissimo e, ancora una volta, apprezziamo questo mezzo di trasporto tranne che nel tratto finale, quando per una turbolenza si balla e non poco.
Proviamo sollievo nello scorgere la pista di terra rossa, ma dobbiamo pagare ancora pegno. Due virate in rapida sequenza, con inclinazione incredibile, un’ala rivolta al suolo, l’altra verso il cielo, ci “centrifugano”, ma nonostante lo stordimento non ci sfuggono la giraffa ed alcune zebre a bordo pista che sembrano messe lì apposta per darci il benvenuto nel Ruaha National Park.
Ci sentiamo di nuovo a “casa”, nella “nostra” Africa con il cielo azzurro, l’aria tersa, i colori brillanti ed il caldo secco che fa evaporare gli ultimi residui di umidità.Il trasferimento dall’airstrip a Ruaha River lodge avviene a bordo di una jeep scoperta e richiede circa 45 minuti. Fin da subito il paesaggio collinare si rivela spettacolare, così come il fiume disseminato di massi di granito.
Il lodge sorge in una splendida vallata, a ridosso del fiume, ed è composto da una fila di “palafitte” (spaziosi cottage in pietra e legno, tetto di paglia, veranda ombreggiata e bagno circolare). L’interno di ogni abitazione è molto luminoso e arioso, vi sono grandi finestre, senza vetri, protette da zanzariere e tende di cotone bianco. Dalla veranda possiamo osservare la processione di animali che raggiunge il fiume per abbeverarsi: un solo “canale televisivo” che trasmette un documentario senza soluzione di continuità. Difficile stabilire se siamo più estasiati per la bellezza del panorama o per la vicinanza degli animali, di certo non è un’esagerazione considerare tutto questo ben di Dio una meraviglia dentro la meraviglia.
Nel pomeriggio usciamo per il primo di una serie di game drive. Ci spostiamo, in cerca di animali, vedendo sfilare ambienti collinari, vaste zone di bush, immense piane dove si ergono kopje (piccoli rilievi, formazioni di granito), letti di fiumi asciutti, boschi di acacie, insiemi di baobab, palme, euforbie, kigelie africane, tamarindi e molte altre bellezze paesaggistiche.
La prima giornata di safari si conclude con l’avvistamento di elefanti, zebre, impala, kudu, giraffe, una graziosa genetta ed un gruppo di leoni che colonizza il letto sabbioso di un fiume in secca. Quasi tutti dormono e sono sparpagliati un po’ ovunque, ne contiamo 25, ma tra i cespugli e dietro i massi che delimitano gli argini potrebbero nascondersi altri esemplari. Abbiamo un solo rammarico, non riusciamo ad avvicinarci più di tanto ai leoni, ma questo è solo il primo game drive, ci rifaremo sicuramente nei prossimi giorni. L’entusiasmo per la bellezza e ricchezza di questo parco e l’assenza di un televisore smorzano abbastanza la delusione del secondo pareggio della Nazionale contro la Nuova Zelanda… Mondiale fiacco per i Campioni uscenti!
21 giugno 2010
Come avviene in altri parchi, le attività giornaliere sono gestite dalla direzione del lodge che dispone di mezzi propri e guide qualificate.I game drive ci impegnano per circa 7/8 ore ogni giorno: dalle 8 alle 13 del mattino e, nel pomeriggio, dalle 16,30 per un paio d’ore, o in alternativa, optando per la variante “full day”, dalle 8 alle 16, con pranzo pic-nic. Per oggi scegliamo di effettuare due safari distinti, preferendo consumare il pranzo presso il ristorante del lodge e per godere di una pausa schiacciando un pisolino o per osservare, seduti in veranda, ciò che accade sulle rive del fiume.
Alle 8 in punto, dopo una ricca colazione, prendiamo posto sull’ultima fila di sedili di una silenziosa jeep scoperta, insieme ad Anita e Robert, coppia di anziani olandesi con le fattezze e gli stessi modi di fare di Wilma e Fred Flintstone (“Gli Antenati” dei vecchi cartoni animati). Ci sorridiamo titubanti ed imbarazzati, come spesso accade in situazioni simili, ma ben presto, osservando due leoni che sonnecchiano sul ciglio della strada, stabiliamo un buon feeling. Ci fermiamo, poco dopo, in una vasta prateria frequentata da moltissime giraffe, la nostra attenzione è catturata da due maschi che, impegnati nel “necking” (sorta di combattimento per la determinazione del ruolo gerarchico), si esibiscono in un singolare show. I due esemplari incrociano, piegano, strofinano i lunghi colli, si muovono in modo flessuoso e si arrestano assumendo le medesime pose, talvolta si percuotono a suon di colpi di testa producendo un rumore secco. La sequenza dura a lungo e le movenze aggraziate fanno pensare ad una danza piuttosto che ad una lotta. Alle due giraffe se ne unisce una terza e nell’assistere alla stupenda coreografia del sincronizzato trio “danzante” la nostra ammirazione raggiunge l’apice. La guida chiede se vogliamo spostarci altrove, ma, nel vedere le giraffe ancora impegnate nel bellissimo rituale, Anita ed io pronunciamo nello stesso momento un “NOOOO!” risoluto. Sorrido compiaciuta per la spontanea complicità e per il legame che va rafforzandosi. Nonostante la differenza d’età e di condizioni fisiche, diciamo pure che i Flintstones in passato hanno visto tempi migliori, ci accomuna l’entusiasmo per la bellezza del paesaggio, la passione per la ricerca degli animali ed il piacere nell’osservarli a lungo. Terminata l’esibizione, le giraffe si allontanano, solo a quel punto ci riteniamo soddisfatti e possiamo proseguire il safari. Attraversiamo zone paesaggisticamente splendide popolate da tanti animali, impala soprattutto che, in gran numero ed in processione, si dirigono verso il fiume e poi, sparsi qua e là, elefanti, zebre, kudu, bushbuck. Rientriamo al lodge in tempo per il pranzo. Lo staff ci indirizza sulla splendida terrazza costruita in cima ad un alto kopje. La vista sul sottostante fiume e su tutta la vallata è straordinaria, stiamo contemplando uno dei più bei paesaggi che ci sia mai capitato di vedere sino ad ora.Il cielo azzurro, una luce particolare, bianche e soffici nuvolette “spruzzate” a caso e gli enormi sassi rotolati su tutta la valle sono solo piccole gemme che conferiscono al panorama un tocco ancor più prezioso. Ipnotizzati, osserviamo alcuni ippopotami, con diversi piccoli, che disinvolti escono dall’acqua, poco più in là gli impala si avvicinano timidamente al fiume e bevono guardinghi, pronti a scappare al più piccolo segnale d’allarme. Gli elefanti, invece, più determinati, si immergono, si spruzzano con le proboscidi, bevono rumorosamente e si allontanano solo quando hanno soddisfatto tutte le loro necessità. Al contrario, le giraffe, non riescono a portare a compimento l’abbeverata.Costrette a piegarsi sulle lunghe zampe anteriori ed essendo pertanto molto vulnerabili, dopo lunga indecisione optano per una ritirata.Vita dura per le specie più a rischio, la sete è un tormento e nonostante l’acqua sia a disposizione e vicina, per eludere possibili predatori, a volte è necessario rinunciarvi.
Il safari pomeridiano si può riassumere in una serie di soste lungo il fiume. Attraversato un ponte che scavalca un’ampia laguna osserviamo la pacifica convivenza di enormi coccodrilli e ippopotami ritrosi che emergono a sorpresa per immergersi subito dopo senza concederci il tempo di uno scatto fotografico, riusciamo infatti a immortalare solo una serie di spruzzi d’acqua.
Per il resto incrociamo la “solita” fauna: impala, kudu, elefanti, giraffe e volatili di varie specie. La novità di oggi è rappresentata da minuscoli dik dik, sempre in coppia. Proviamo tenerezza per queste graziose creaturine immaginando quanto sia difficile la loro sopravvivenza, considerate le ridotte dimensioni. E poi ancora antilopi e impala in ogni dove che procedono in fila indiana per recarsi a bere o che, numerosi, bloccano il passaggio, affollando la pista unitamente ad altrettanti babbuini o radunati in cerchi compatti per beneficiare dell’ombra di grandi alberi o immobili ai margini della pista che, senza scomporsi, sembrano seguire con lo sguardo il nostro passaggio. Tante scene deliziose, non ci si stanca davvero mai di osservare gli animali nei loro differenti habitat e nei loro molteplici comportamenti. Ha torto chi pensa che a lungo ci si possa annoiare o chi paragona un safari ad una visita allo zoo.
22 giugno 2010
E’ risaputo, e ormai abbiamo anche una discreta esperienza, che nelle ore centrali della giornata gli animali sono meno attivi, cercano riparo all’ombra e sono meno visibili, optiamo quindi nuovamente per un game drive mattutino ed uno pomeridiano. Oltretutto la collocazione del lodge ci permette di beneficiare, nelle ore di pausa, del “documentario” che si svolge attorno al fiume. Oggi ci abbinano ad una coppia di parigini: lui, stropicciato, capelli piuttosto lunghi e coppola indossata al contrario, ricorda un caratteristico pittore di Montmartre, lei, gonna lunga color cachi, anfibi di tela in tinta, cappello a tesa larga, sembra un personaggio uscito da un romanzo di Wilbur Smith, entrambi, in passato, hanno visitato Kenyà, Bostwanà e Namibì… (esatto, con gli accenti sulle “a” e sulla “i”!) insomma non ci vuol molto a sintonizzarci ed a condividere lo stesso “mal d’Africa”. Et voilà, alors, nous allons…
Alle 8 precise, come da copione e dopo il tradizionale breakfast, si parte, ma la “solita solfa” termina entro pochi minuti e con i saluti a tutta dentiera della manager. Lasciato il “parcheggio” ci attendono nuovi percorsi, differenti panorami, scene con gli animali sempre diverse e molto emozionanti. Tanto per cominciare con le sorprese, ecco apparire le gazzelle di Grant, che noi non vedevamo da anni. A seguire, una coppia di sciacalli si contende una zampa di impala, ora serrata tra le fauci di uno dei due. Ci esaltiamo, subito dopo, per una serie di incontri ravvicinati con gli elefanti che, oltre ad inscenare cariche di avvertimento, emettono poderosi barriti.E poi sosta prolungata per osservare una famiglia di leoni, ne contiamo 12, ma non è escluso che tra i cespugli ve ne siano altri. I felini dormono, indifferenti a tutto e tutti, solo il passaggio in lontananza di un piccolo aereo provoca qualche reazione che non esitiamo a fotografare. Passato l’aereo e tornato il silenzio, la scena riacquista immobilità. Incrociamo altri elefanti: un bel branco di adulti con un piccoletto di circa 3 settimane che dorme adagiato a terra. I grossi elefanti, con le lunghe proboscidi, stimolano il cucciolo ad alzarsi e quando, infine, dopo vari e goffi tentativi, lo vediamo ritto sulle zampe, riusciamo a fotografarlo giusto un attimo prima che l’intero gruppo dall’innato istinto protettivo lo circondi per celarlo completamente. Mamma zebra con un piccolo di soli 2 giorni insieme all’elefantino sono la dimostrazione concreta che per assaporare la stessa dolcezza di una poesia non è necessario leggere versi e rime, anche la natura, senza parole e con le sole immagini, trasmette le medesime sensazioni. Prima di rientrare al lodge sostiamo accanto ad alcune zebre che rotolano nella sabbia producendo un gran polverone… Très bien, les jeux sont fait! Pranziamo ancora una volta in cima all’alto kopje, dimenticando spesso il piatto ed il suo contenuto per guardare ora gli ippopotami, ora gli elefanti e tutte le creature che raggiungono il corso d’acqua che scorre nella vallata sottostante. Trascorriamo il resto del pomeriggio in totale relax, leggendo un libro, abbozzando appunti per questa cronaca di viaggio e, naturalmente, tenendo d’occhio un paio di waterbuck che hanno trovato collocazione proprio di fronte alla nostra postazione in veranda, non trascuriamo altresì un gruppo di giraffe incerte sul da farsi. Ci immedesimiamo a tal punto che sembra di percepire a fior di pelle il loro dramma…bere? o non bere?… Morire per una sorsata d’acqua? o vivere con l’arsura della sete?
Alle 16,30, lasciate le giraffe al loro amletico dilemma, si esce per il secondo game drive. Complessivamente vediamo pochi animali, nulla è mai scontato in natura e non incontrarne è una possibilità che ogni tanto si concretizza. In compenso costeggiamo un tratto del fiume particolarmente bello e suggestivo, punteggiato da “isole” di sabbia dall’intenso colore ocra che crea un bel contrasto con l’indaco dell’acqua. Il territorio che attraversiamo è ricco di boschetti di acacie e di enormi baobab, vere e proprie “sculture” i cui tronchi vengono spesso “segati” e “rimodellati” dagli elefanti. Attendiamo il tramonto spostandoci da un baobab all’altro in cerca di quello più fotogenico da abbinare allo sfondo rosso/arancio del cielo ed alla palla di fuoco del sole che sta velocemente calando all’orizzonte.
23 giugno 2010
Full day safari per noi ed anche per i parigini. Soliti colazione, saluti, jeep e via alla scoperta di una diversa porzione di questo immenso parco. Percorriamo un’estesa area ricoperta di bush, incontrando pochi animali. In un simile habitat è difficile trovarli sulla stretta pista che taglia in due la vegetazione alta e fitta, tuttavia un piccolo elefante compare all’improvviso sbarrando il passaggio. Per ovvie ragioni ha diritto di precedenza, attendiamo sino a che decide di ritirarsi nella boscaglia dopo aver emesso un assordante barrito che più che spaventarci, considerate le ridotte dimensioni dell’elefantino, ci diverte. Riconosciamo comunque che il giovanotto ha già un bel temperamento. Il lungo trasferimento attraverso il bush è un percorso obbligato per raggiungere una zona spettacolare dove facciamo una sosta prolungata. Ci troviamo sull’argine, affacciati su un fiume secco, il cui letto sabbioso è molto ampio e ospita alcune pozze residue. Qui sopraggiungono numerosi impala, zebre e giraffe che, dall’alto di alcune rupi, seguiamo avidamente con lo sguardo. Finalmente vediamo le giraffe che, a turno, si piegano a bere. Anche gli elefanti si radunano qui, ma, alle pozze di superficie, preferiscono l’acqua che scorre nel sottosuolo. E’ un privilegio osservarli mentre, con le proboscidi, scavano nel terreno per raggiungere la preziosa risorsa che soddisferà una necessità primaria e che li costringe a lunghissimi spostamenti. Lasciato a malincuore questo eden, risaliamo in macchina dirigendoci nel luogo dove consumeremo il pasto. Lungo il tragitto si materializzano ovunque giraffe, osservandole è evidente che tutte convergono nella stessa direzione. Siamo testimoni di uno spettacolo senza eguali, anche l’argine sabbioso che vediamo di fronte ospita una schiera di giraffe che da lontano ricordano le gru di un molo di carico e scarico merci. Pranziamo all’ombra di un gazebo con un elefante che allunga la proboscide attraverso un cespuglio sin quasi a sfiorarci.
Ripartiamo attraversando differenti ambienti, con la terra che muta di colore sfoggiando il classico rosso argilloso, tutte le tonalità comprese tra il marrone scuro e quello chiaro, l’ocra ed infine il bianco. Il paesaggio varia da boschi di baobab a zone verdeggianti con erba alta, da colline ricoperte di bush a piatte savane dal bel color dorato che contrasta con il rosso del terreno e l’azzurro intenso del cielo. La vista spazia a 360°, il suolo è eccezionalmente vasto ed esteso ed i dettagli di qualsiasi elemento si perdono sino a sfumare nel nulla di un orizzonte tanto lontano e inusuale per chi, come noi, vive in città, circondato da edifici e racchiuso in spazi decisamente più modesti. Assaporo a lungo il senso di libertà trasmesso da tale vastità, ammirando incantata l’immenso “plastico” che si srotola davanti ai nostri occhi e tutto attorno a noi, dove un elefante, un baobab o un kopje, perdendo le loro reali dimensioni, sembrano miniature, poco più che punti lontani o macchie scure. Scendiamo nel letto di un fiume asciutto avvicinandoci ad un gruppo di elefanti, una ventina circa, che, dopo aver scavato nella sabbia e bevuto, si radunano all’ombra di un boschetto di frondosi alberi, avendo cura di circondare i piccoli. Il gruppo si sposta poi compatto e silenzioso ed ancora una volta ci domandiamo come facciano, animali così massicci, a non produrre alcun rumore. Sono incredibili, sembra di assistere alla proiezione di un film muto. Attraversiamo l’ampia spianata fino a raggiungere l’argine opposto lasciando alle nostre spalle 2 profondi solchi nella sabbia soffice. Poco dopo, a ridosso della pista, troviamo una coppia di leoni. Non c’è traccia di resti di cibo e neppure di altri esemplari, quasi certamente – trattandosi di maschio e femmina- sono nella fase di accoppiamento. Sostiamo diverso tempo, ma non accade nulla. La leonessa che è solita dare il via alle “danze” si limita a stiracchiarsi, a rigirarsi appena, socchiudendo gli occhi ed a dimenare la coda per scacciare le mosche. Forse è già scoccato lo scadere dei tre giorni: tanto dura il periodo degli amori. Lasciati i leoni alla loro apatia, in lontananza e tra l’erba alta, quasi indistinto, un branco di bufali si muove dapprima lentamente e poi, man mano che ci avviciniamo, sempre più velocemente fino a sparire del tutto lasciando solo una spessa nuvola di polvere. Transitando nei pressi della pista d’atterraggio vediamo alcune giraffe che allungano il collo per cibarsi scegliendo con cura ogni boccone tra i rami più alti delle acacie spinose. Insieme alle giraffe diverse zebre con un piccolo che ispira una gran tenerezza. Sorridiamo pensando che il caso, a volte, dà l’impressione di essere tutt’altro che casuale e che questi splendidi animali sembrano essere stati ingaggiati apposta per dare il benvenuto ai pochi visitatori che atterrano sulla corta striscia di terra, esattamente quel che è accaduto a noi, giorni fa. Ripercorriamo la pista che riporta al lodge incontrando ancora tanti animali, in particolare elefanti che bevono immersi nell’acqua del fiume e kudu dalle bellissime corna ritorte che saltano sui massi. Con un tramonto dalle tinte delicate termina la nostra permanenza in questo splendido parco, notevole anche e soprattutto paesaggisticamente.
Domani, insieme ai Flintstones, ci sposteremo nel Katavi dove – si dice – gli animali abbondano. L’entusiasmo e la mimica della manager che accompagnano le descrizioni del parco che stiamo per raggiungere ci fanno presupporre che non si tratta di un’esagerazione.Con questa prospettiva ci addormentiamo trepidanti come bimbi in attesa di Babbo Natale con il sacco dei doni.
24 giugno 2010
Sveglia prestissimo, è ancora buio pesto ed il cielo stellato è meraviglioso. Raggiungiamo l’airstrip in circa un’ora. La jeep aperta non ci risparmia il freddo pungente, ma ci permette di ammirare l’alba. Uno dei tanti fenomeni che a casa ci sfuggono e che diamo per scontati. In poco tempo il cielo nero si squarcia ed una macchia rosata si estende, come un velo, rapidamente.
In fondo il sole sorge e tramonta ogni giorno, motivo per cui non ci soffermiamo mai a pensare alla perfezione e alla complessità dell’universo, ma qui in Africa, in un contesto naturale e selvaggio come quello attuale, il ciclo giorno/notte/stagioni è accentuato da tramonti che incendiano di colori ogni cosa, da notti nere come la pece accese da milioni di stelle, dal chiarore della luna piena, da albe repentine, dal calore dei raggi del sole che con il passare delle ore aumenta progressivamente, da piogge torrenziali che ridonano vita alla terra riarsa. Fenomeni tanto “violenti” da indurre inevitabilmente alla meditazione, andando oltre quel che si vede. Tacitamente ringrazio l’Africa per questo ed altri spunti di riflessione, nonchè per lo stato di benessere che si prova ammirando un cielo dipinto di tutte le sfumature del rosa. Recuperiamo, da sotto una tettoia, un piccolo Cessna (C206) che il pilota sottopone ad accurato controllo, poi, stipati insieme ai bagagli, alle provviste ed ai Flintstones, prendiamo posto adattandoci un po’. “Fred”, omone grande e grosso, viene spinto da tutti noi a fatica dentro l’angusto abitacolo e occupa più spazio di quello previsto per un qualsiasi passeggero di taglia normale, io mi sistemo in coda insieme a 2 borse frigo, Sandro siede al posto del secondo pilota e “Wilma” si rannicchia nel mezzo, a fianco del suo “antenato”. Ce la faremo? Con i finestrini spalancati ci spostiamo per un lungo tratto in mezzo alla savana. Immaginando di essere impegnati in un safari ci divertiamo con una serie di battute. Raggiunta la pista di terra, e chiusi i finestrini, il motore ruggisce spingendo l’aereo in una corsa veloce, infine si decolla. Sotto di noi si snoda il fiume, da un sottile strato di nebbia fanno capolino le colline ed i rilievi. Un paesaggio dalla bellezza struggente che mi cattura. Nonostante le dimensioni ridotte, lo “scatolino” è robusto, non ci sono forti correnti d’aria, si vola senza scossoni sopra il bush e su una estesissima zona verde ricca di alberi. Dopo un paio d’ore atterriamo su una pista di terra rossa:benvenuti nel Katavi National Park!
Una guida,Apollo, ci accoglie sorridente e ci informa che il trasferimento da qui alKatavi Wildlife camp richiederà un paio d’ore. Ci avverte, inoltre, diprepararci psicologicamente, e non solo, all’assalto delle mosche tse-tse.Recepiamo con incosciente leggerezza quest’ultimo avvertimento… non è la primavolta che visitiamo l’Africa… le tse-tse sono un incontro quasi obbligato… sappiamo come tenerle a bada…e altre sciocche considerazioni che sforano nella presunzione. Ci limitiamo, pertanto, ad una spruzzata di repellente, neanche tanto abbondante. Neppure gli “scopini” infilati in ciascuna tasca dei sedili della jeep generano in noi il benché minimo sospetto. Pensiamo anzi… ma come se la tirano in questo lodge, addirittura la scopetta per spolverare il sedile. Vabbè, peggio per noi, ignari!
Si parte, mi concentro sul paesaggio, ma ricordo molto poco del lungo tragitto, giusto i primi “fotogrammi”: il verde dei campi, alcuni piccoli villaggi di capanne, il bush… forse…perché tempo pochi chilometri e, come profetizzato, le tse-tse arrivano a sciami. Rimediamo subito diverse punture anche attraverso il tessuto dei pantaloni, persino delle mutande e delle t-shirt, realizzando così, drammaticamente, che lo scopino non è un “complemento d’arredo”, bensì uno strumento indispensabile per allontanare le mosche. In un assalto senza tregua, i famelici insetti si impigliano nei capelli, pungendoci pure il cuoio capelluto. Trascorse un paio d’ore, il bush dirada aprendosi su una sconfinata piana attraversata da un fiume e frequentata da una moltitudine di animali: branchi di zebre, topi, impala, elefanti e giraffe che affollano i boschetti di acacie. Finalmente e quasi per incanto cessa l’assedio delle tse-tse.
Le premesse di questo parco sono ottime, ma le due interminabili ore di tormento ci hanno messo a dura prova, arriviamo al lodge devastati da decine di bubboni e doloranti in ogni parte del corpo. Non è esattamente quel che ci aspettavamo dal Katavi, tuttavia – se non altro – proviamo sollievo nel venire a conoscenza che l’area nelle vicinanze del lodge è relativamente poco infestata. Non manca molto all’ora di pranzo, ma, prima di sederci a tavola sotto l’ampia struttura con il tetto di paglia, c’è tempo per prendere possesso dei nostri alloggi: enormi tende montate su piattaforme di legno con veranda che si affaccia sulla sterminata spianata e su un tratto del fiume Katuma. All’orizzonte, lontanissimo, si intuisce una serie di alture, non esattamente montagne, dal colore blu violaceo, a far da “corona” alla savana dorata il bush e alti alberi, in poche parole… un paradiso pieno di animali!
Le tende, al posto delle pareti, hanno solo zanzariere, sappiamo che questa peculiarità ci consentirà di osservare, anche durante la notte e in tutta sicurezza, il passaggio dei tanti animali che frequentano quest’area. Non essendoci barriere, recinzioni o confini, il campo, di poche tende, è semplicemente posizionato nel cuore del parco, all’ombra di alberi di tamarindo, in un contesto remoto e selvaggio, a un paio d’ore di strada dal più vicino villaggio. Siamo gli unici ospiti del campo e, non solo, anche dell’intero Katavi National Park. La rivelazione ci fa sentire privilegiati e pronti a godere di questa forma di “lusso”… oltre 4.000 kmq tutti a nostra esclusiva disposizione sono quanto di meglio si possa desiderare. Purtroppo il timore delle tse-tse frena un po’ il nostro entusiasmo e la nostra urgenza di “uscire” dal campo, ma aboliti maniche e pantaloni corti, con un cappello calato sulla testa, abbondantemente spalmati di repellente e sventolando i frustini scacciamosche si parte per il game drive pomeridiano. Costeggiamo il fiume attraversando scenari incredibilmente belli resi preziosi da palme, alberi salsiccia, boschi di acacie. Sui rami degli alberi tanti nidi appesi come palle di Natale. Osserviamo ippopotami che, immobili e con i dorsi scuri emergenti dall’acqua bassa, sembrano macigni ed altri ancora che escono dalle pozze totalmente ricoperti di fango. Il fiume e le sue rive sono anche il regno di enormi coccodrilli, lunghi non meno di 4/5 metri. Tantissimi animali ovunque si giri lo sguardo. Come per effetto di un incantesimo appaiono dal nulla giraffe, uccelli, elefanti, bufali, manguste, gru coronate. Per lunghi momenti siamo imbarazzati, non sappiamo dove guardare esattamente temendo di perdere scene preziose. Grandi branchi di antilopi (impala e waterbuck) si avviano a bere o corrono liberi nella savana mentre il colore rossiccio del manto dei reedbuck, specie che vediamo per la prima volta, si accentua per effetto del tramonto. Apollo si dimostra paziente e abilissimo nel riconoscere da lontano ogni singolo animale che noi neppure vediamo o che ci appare indefinito, come – ad esempio – le iene che individua con sicurezza e che, per noi, si rivelano tali solo dopo averle inquadrate con il binocolo. Il sole che scompare all’orizzonte piatto come inghiottito dalla savana ed il cielo dalle tinte forti chiudono questa lunga, intesa e ricca giornata. Siamo grati all’isolamento del parco ed alla TV inesistente anche qui, non avremmo retto le immagini dell’Italia sconfitta dalla Slovacchia ovvero il ritorno a casa. Per le cattive notizie un SMS è già fin troppo insidioso e stendiamo un pietoso velo sulle battute sarcastiche dei qui presenti olandesi (i Flintstones) e africani (lo staff)… la sconfitta brucia, ma incassiamo le frecciate con una scrollata di spalle. Del resto – detto tra noi – non è che, in questo mondiale, si sia fatta una gran bella figura.
25 giugno 2010
Durante la colazione c’è qualche altra allusione al risultato catastrofico della partita di ieri sera, ma – appena saliti sulla jeep e partiti – dimentichiamo ben presto il mondo del calcio per immergerci nel regno animale. Apollo guida lentamente scrutando lontano alla ricerca di animali, con passione e scrupolo. Branchi di impala corrono, saltando agili e veloci; le giraffe sfoltiscono le chiome delle acacie. Sul ciglio della pista sabbiosa che stiamo percorrendo, alcuni leoni, 6 in totale, si dividono in due gruppi e, nascosti al riparo di alcuni cespugli, presidiano una vicina pozza d’acqua. E’ evidente che sono affamati e pronti a sferrare un attacco ai danni di un insieme di zebre e topi che, cautamente, si stanno avvicinando per bere. Gli erbivori sono però molto diffidenti. Il vento soffia nella loro direzione e, fiutando l’odore dei felini, compiono un ampio giro attorno alla pozza, senza mai avvicinarsi. I leoni mantengono l’immobilità. Nonostante non stia succedendo nulla di sostanzialmente diverso dal nostro arrivo, siamo fermi da un paio d’ore, senza perdere mai la concentrazione, affascinati nello studiare il comportamento estremamente titubante delle prede nonché l’atteggiamento vigile dei predatori. Secondo Apollo non ci sono i presupposti perché la caccia avvenga nel giro di poco, a suo dire zebre e topi se ne andranno entro breve e senza bere, cediamo quindi per primi allontanandoci dalla scena e dirigendoci altrove. La mancata predazione viene compensata da altre belle immagini di elefanti, ippopotami, coccodrilli, impala, bufali, ma, in particolare, proprio mentre stiamo facendo ritorno al lodge per pranzare, da uno splendido leopardo che sonnecchia sul ramo di un albero. Ce lo godiamo per alcuni minuti, poi quando insistiamo per avvicinarci un poco lo vediamo destarsi, scendere a terra furtivo e infilarsi rapido nel bush, perdendolo così di vista. Ci riteniamo molto soddisfatti di questo parco remoto e ricco di animali dove, non incontrando altri veicoli e persone, il safari è una questione intima. Pranziamo scambiandoci le impressioni della mattinata, ci ritiriamo in seguito ciascuno nella propria tenda per un paio d’ore di pausa prima del secondo game drive. Tempo che spendiamo in veranda o seduti sui due lettoni gemelli scrivendo appunti, leggendo un libro o impugnando il binocolo per seguire gli animali che affluiscono nella piana che si estende al di là del fiume.
Terminata la “siesta” ci avviamo verso la zona comune, ma appena fuori dalla nostra tenda, a meno di mezzo metro da Sandro che mi precede di un passo, un grosso serpente nero si muove veloce, attraversa lo stretto vialetto pedonale scavato nella sabbia, si infila tra l’intrico di rami secchi, nascondendosi infine sotto il tronco di un albero caduto. Sandro lo vede distintamente e si blocca davanti a me che, invece, ne intuisco solamente la presenza. Da sempre, a causa della mia fobia, quando sento il fruscio di foglie secche provocato da una lucertola o un piccolo rettile mi immobilizzo. In questo caso il rumore è ben più forte e dura molto più a lungo, capisco che si tratta di un grosso serpente prima ancora di vedere il suo guizzo nero tra i rami secchi. Mi paralizzo spaventata ed il pensiero che siamo soli e lontani dalla zona comune e dalla tenda dei nostri compagni di viaggio si tramuta in panico.
A Sandro occorrono diversi minuti per convincermi a sbloccarmi dalla “paralisi” ed a raggiungere il “centro abitato”. Quando finalmente, con le gambe ancora tremanti, mi incammino, pochi metri più avanti, un altro serpente nero ci attraversa la strada. E’ più piccolo del precedente, ma della stessa specie, lo vedo benissimo e, assalita da una nuova ondata di terrore, non riesco a trattenere né le grida né il pianto. Non so come, raggiungiamo il manager ed il personale dello staff che ingaggiano subito una battuta di caccia ai rettili, ma senza risultato. Dopo una lenta e progressiva “abitudine” ai serpenti, con questo episodio se ne vanno in fumo anni di “training autogeno”, regredisco ai tempi del primo viaggio in terra africana, quando per timore di incontrarne rinunciai ad un walking safari e di conseguenza alla possibilità di vedere il Kilimanjaro nei pochi minuti in cui, la mattina presto, non è coperto dalle nubi. Ancora frastornata dallo spaventoso incontro ravvicinato, lascio il campo con sollievo per il safari pomeridiano. Le tse-tse ora mi sembrano nulla in confronto ad un “faccia a faccia” con un serpente velenoso.
Ritroviamo i leoni esattamente dove li abbiamo lasciati. Al gruppo s’è aggiunto un maschio, salgono quindi a quota 7. Alcuni dormicchiano, ma sappiamo che basta poco, un qualsiasi animale che si avvicini alla pozza d’acqua, per rivederli tutti immediatamente desti. Attendiamo a lungo osservando una scena che, anziché reale, sembra una fotografia, tanto è statica. In primo piano abbiamo i 7 leoni, alcuni cespugli forniscono loro un ottimo riparo, poco oltre c’è la pozza d’acqua, più in là alcune giraffe (ne contiamo 9) che, in fila indiana, stanno per raggiungerla, ma – molto guardinghe – si arrestano puntando lo sguardo nella nostra direzione. Alcuni metri più avanti, due zebre, le prede più papabili, si bloccano allarmate guardando nel medesimo punto. Nessuno si scompone, noi siamo immobili, in attesa di un qualsiasi sviluppo; leoni, giraffe e zebre lo stesso. E’ in corso un gioco di forza, basato sul controllo dei nervi. Tempo un’ora o forse più, le giraffe si allontanano lentamente, seguite dalle zebre. A questo punto, sfumata la possibilità di assistere ad una scena di caccia, abbandoniamo la postazione. I leoni, per sfamarsi, dovranno attendere un’altra occasione o, più probabilmente, cambieranno zona. Concludiamo il game drive costeggiando un tratto del fiume ammirando la leggiadria di diversi branchi di antilopi che si incrociano, c’è chi va a bere e chi invece torna, muovendosi con eleganza. Sulla via del ritorno le gru coronate sembrano un crocchio di comari mentre le faraone si rincorrono sollevando sbuffi di polvere che, al tramonto, si accendono come tanti piccoli falò. Ecco un’altra suggestiva immagine, dolce quanto una poesia.
26 giugno 2010
Accogliamo con entusiasmo la proposta di tentare – all’alba – una nuova sortita con la speranza di rivedere il gruppo di leoni. Sveglia alle 6, è ancora buio e la luna piena si riflette in uno specchio d’acqua. A oriente l’orizzonte nero schiarisce, la macchia di luce, dai colori sempre più intensi, si espande a vista d’occhio, il sole fa capolino e sale velocemente, le stelle si spengono e, di fronte, la luna – tinta di rosa – tramonta. Penso che tale spettacolo abbia, da solo, reso speciale questa nuova giornata e se, per oggi, non succedesse altro o non dovessimo avvistare animali, ci sentiremmo ugualmente molto appagati. I leoni si sono spostati altrove, li cerchiamo nei dintorni, ma le loro tracce si perdono nel bush. Senza indugiare oltre raggiungiamo il fiume. In lontananza, sulla riva opposta, vediamo centinaia di bufali, sopra la massa scura del branco compatto volano stormi di aironi bianchi. Tra le tante belle scene, quella che più ci colpisce e ci diverte riguarda un bufalo che sulla schiena reca una dozzina di uccelletti e che – guadando un corso d’acqua – sembra traghettare i propri “passeggeri” da una riva per scaricarli poi su quella opposta.
Il paesaggio è costituito da savana dal bel colore ambrato, attorno crescono boschetti di acacie, palme, Kigelie africane, tamarindi e alberi dall’insolito tronco bianco oltre a diverse altre piante che non siamo in grado di identificare. Molte le specie animali che popolano questo stupendo parco, particolarmente numerosi gli impala. Grandi branchi di elefanti attraversano la spianata, il gruppo più consistente che tentiamo di avvicinare conta non meno di 80 esemplari. E poi il fiume che in tutto il suo corso e nelle pozze fangose ospita ippopotami sbadiglianti ed un’esagerazione di enormi coccodrilli. Alcuni dormono con la bocca spalancata dove non è raro intravedere un uccellino. Pur non avendo rivisto i leoni torniamo al campo molto soddisfatti e, “ciliegina sulla torta”, un bushbuck femmina ed un cucciolino vengono a farci visita in veranda. Il manto di questa specie di antilope è rossiccio con macchie bianche. Viene spontaneo ricordare Bambi, le fiabe e la tenerezza di quel passato. Con le tse-tse e gli accorgimenti adottati sta andando più o meno bene, abbiamo imparato a nostre spese che se soffia un filo di brezza e nelle zone aperte, prive di boscaglia, se ne incontrano poche, mentre invece abbondano nel bush o in assenza di aria.
Il safari pomeridiano è disastroso da questo punto di vista. Non c’è un alito di vento, siamo quindi sottoposti ad un assalto incessante, sventoliamo il frustino per inerzia, la mano che lo impugna sembra muoversi indipendentemente dalla nostra volontà, come un automa. Ma il tedio è ripagato dall’incontro molto ravvicinato di un branco di elefanti e da una delle più belle immagini dell’intero viaggio: una fila compatta di un migliaio di bufali il cui fronte, molto vicino a noi, sembra un muro, mentre la coda dell’immenso branco si perde in lontananza e sfuma tra la polvere ed in controluce. Surreale effetto, difficile da fotografare, che immagazziniamo nella memoria. Siamo così presi da questa sorta di apparizione, di miraggio che, dimentichi delle mosche, posiamo il frustino. In pochi minuti collezioniamo diverse nuove e fastidiose punture che, come un brusco risveglio, interrompono un bel sogno. Ammiriamo la palla infuocata del sole tramontare dietro un boschetto di alberi spogli, nere sagome stilizzate che si stagliano, creando un bellissimo contrasto, sullo sfondo cremisi del cielo.
Tornati al campo, la nostra tenda è visitata da molto vicino (non più di 2/3 metri) da un elefante solitario che allunga la proboscide verso di noi. E’ bellissimo con quel suo faccione rugoso e le orecchie pigramente sventolanti. Cerchiamo di scattare un paio di foto giusto perché abbiamo la macchina fotografica tra le mani, l’elefante però è troppo vicino, impossibile fissarlo rilassati attraverso il mirino. Le foto risultano mosse, ma l’emozione per questa visita inaspettata è davvero tanta. Mentre ceniamo, una genetta si rivela molto interessata al tavolo del buffet. E’ uno spasso osservare come si intrufola e si aggira furtiva, ma anche spavalda, tra i vassoi che conservano ancora qualche razione di cibo. Con agili balzi salta da terra al tavolo, da quest’ultimo alle travi che reggono il tetto di paglia e così via, offrendoci una simpatica e del tutto spontanea esibizione. La serata è piuttosto fresca e durante la notte la temperatura si abbassa ancor più, dalle zanzariere spira aria fredda, si sta meravigliosamente bene sotto i piumini. Amo dormire all’aperto, perché è esattamente tale la sensazione che si avverte con una tenda di questo tipo che garantisce, inoltre, la massima sicurezza e comodità. Provo lo stesso infantile piacere di quando, bambina, adoravo i temporali notturni gustandoli rannicchiata nell’accogliente rifugio del mio lettino. Mi addormento così, senza far ritorno al presente, crogiolandomi nel ricordo delle perone care e delle cose che appartengono a quel tempo, “dimenticando” – anche solo per poco – il dolore di un presente ancora troppo recente.
27 giugno 2010
Il sole sorge e cancella le tenebre, portando calore e colore, siamo – come ogni mattina – pronti ed eccitati per il primo game drive della giornata iniziato con l’avvistamento di moltissimi elefanti che, dopo essere sfilati davanti al muso della jeep, si dirigono verso la piana. Sono bellissimi così schierati su un ampio fronte, con i piccoli al centro, mentre si allontanano silenziosi rivolgendoci il posteriore, sollevando solo qualche sbuffo di polvere. Superato un ponte, ci spostiamo per la prima volta sull’altra riva del fiume costeggiandolo sino a riconoscere, anche se ben mimetizzato, il nostro campo che vediamo di fronte e molto lontano. Anche in questa zona abbondano coccodrilli, bufali, elefanti, impala, giraffe, ippopotami, uccelli di differenti specie tra cui spiccano i trampolieri e le immancabili faraone. Ci fermiamo ad osservare un nido che ospita vocianti piccoli gufi e, poco distante, un’aquila pescatrice che reca tra gli artigli un grosso pesce, bottino di una fruttuosa pesca. Assaporiamo, graziati dalla quasi totale assenza delle tse-tse, la quiete e la bellezza del paesaggio che caratterizza questa porzione di parco. Facciamo una lunga sosta nei pressi di un boschetto che si specchia in un’ansa del fiume, abbastanza estesa da sembrare un laghetto, dove una coppia di waterbuck ed i trampolieri sembrano assorti in contemplazione del placido scorrere dell’acqua e dei caldi colori del bosco che ricordano quelli autunnali, mentre il sottobosco, con chiazze di erba verde, macchie scure di muschio e gialli fazzoletti di arbusti secchi, ci fa immaginare che qualcuno abbia gettato a caso una manciata di tessere di un puzzle ancora da comporre.
Il percorso lungo il fiume ci premia anche con lo spettacolo di 7 leoni ben svegli che bivaccano all’ombra dei cespugli. Riusciamo ad osservarli e a fotografarli da molto vicino. Si allontanano, solo di poco, offrendoci nuove pose per altri scatti, quando Mister Fred Flinstone non riesce a trattenere un poderoso starnuto. Ridacchio senza farmi notare pensando a quanto questo omone grande e grosso riesca a “pesare” in natura poiché sino ad ora ho visto i leoni, generalmente indifferenti a tutto e tutti, scomporsi solo dopo il passaggio di un aereo. Siamo grati al nostro amico “antenato” per averci offerto, anche se involontariamente, l’occasione per qualche buono scatto fotografico.
Prima di rientrare al campo per il pranzo attraversiamo il ponte a piedi, provando a tener conto dei coccodrilli, davvero giganteschi, che colonizzano gli isolotti di sabbia emergenti o che nuotano nelle torbide acque del fiume insieme alle tante famiglie di ippopotami. Ci domandiamo se, cadendo di sotto, il tempo di sopravvivenza prima di essere divorati dai coccodrilli, potrebbe essere superiore o inferiore al minuto… scegliamo la seconda ipotesi, riconoscendo – ancora una volta – la nostra piccolezza e inadeguatezza in questa natura straordinariamente bella, ma crudele allo stesso tempo, che non perdona imprudenze o errori. In previsione, per domani, di una lunghissima giornata di trasferimento, Signora e Signor Flintstones rinunciano al safari pomeridiano, optando per una mezza giornata di totale relax. Per noi il pomeriggio si rivelerà un tormento senza tregua, le tse-tse sono più fastidiose che mai, vediamo pochi animali e le sole immagini degne di essere annotate si riferiscono ad una lunghissima linea scura in lontananza che corrisponde ad un’altra enorme mandria di bufali e a un branco di elefanti che incrociamo prima di far ritorno al campo. Un piccolo curioso si stacca dal gruppo e si avvicina a noi che non disdegniamo l’iniziativa, poi però bisogna fare i conti con mamma elefante che ci mostra il lato peggiore del suo carattere. Bellissima sequenza!
Lasciati gli elefanti, scorgiamo in lontananza un “gregge” di umani… proviamo un’ondata di gelosia nel vederli seduti nella “nostra” savana, di fronte al “nostro” sole che sta per tramontare… da dove sbuca questa comitiva? Solo avvicinandoci riconosciamo i nostri compagni di viaggio, il manager ed un paio di ragazzi dello staff. Ci uniamo alla combriccola e brindiamo allegramente, ma anche con un velo di malinconia, a quest’ultima giornata nel “nostro” Katavi. Il sole scende rapidamente all’orizzonte mentre il rosso del cielo si riflette nelle tante ramificazioni e pozze che il fiume ha creato in questo punto. Non ci sono parole adatte per descrivere la magia di tale esplosione di rosso su fondo scuro: fuoco liquido, è l’associazione elaborata dal mio cervello.
28 giugno 2010
Mi sveglio nel cuore della notte, forse per istinto, attraverso le zanzariere e grazie al chiarore della luna piena noto una grossa sagoma scura, guardo meglio e metto a fuoco un elefante, poi un altro e ancora…fino a contarne sei. Sono vicinissimi, si stanno cibando strappando i rami degli alberi che circondano la nostra tenda. Avendo la visuale libera su tre lati, li osserviamo incantati senza neppure uscire dal letto. Sandro ed io ci scambiamo taciti sguardi che esprimono emozione e felicità per questo nuovo omaggio africano. Il Katavi ci saluta così, gettandoci un seme di nostalgia che – ne siamo certi – germoglierà e crescerà tanto da farci desiderare di tornare tra qualche tempo. Ci riaddormentiamo, ma il nostro sonno non dura tanto a lungo, alle 6 ci aspettano al tavolo della colazione. Siamo in partenza, tuttavia non proviamo ancora quel senso di distacco ormai ben noto perché il viaggio continua.
Qui, al campo, per diversi giorni, non ci saranno altri ospiti. Il Katavi tornerà ad esclusivo beneficio dei soli animali. Incontenibile la soddisfazione mista a commozione per essere stata parte integrante, anche se minuscola, di questo luogo e del documentario che vi si svolge continuo. Coperti sino ai denti per prevenire il freddo, ma anche e soprattutto per far fronte all’assalto delle tse-tse,partiamo alla volta dell’airstrip. Mentre viaggiamo al buio rabbrividisco, non solo a causa dell’aria pungente, bensì per la rivelazione del manager che, prima dei saluti, ci ha raccontato d’aver stanato, ieri, in “ufficio” (struttura aperta con copertura di paglia), il serpente che giorni fa ci ha tagliato la strada. Ebbene il mio terrore non era del tutto immotivato poiché si trattava di un cobra nero sputatore della lunghezza di circa 2,5 metri… un nuovo brivido mi percorre la schiena ripensando all’affermazione “non s’era mai visto prima un esemplare così grosso e lungo!”… non riesco proprio a compiacermi di tale onore! Nonostante 2 ore di viaggio, delle tse-tse non si vede traccia, non ci par vero d’essere scampati ad una nuova raffica di punture. Grazie e ancora grazie, Katavi, per questo abbuono.
Salutiamo il pilota che già conosciamo per averci condotto sin qui, anche l’aereino è lo stesso, ma, non imbarcando altro che i nostri bagagli, viaggeremo un po’ più comodi. Apollo lancia il fuoristrada a velocità sostenuta, percorrendo la pista in un senso e nell’altro più volte. Non è impazzito come si potrebbe pensare, sta solo allontanando gli impala che innumerevoli affollano la rossa striscia di terra battuta.Come non provare già una punta di nostalgia di questo straordinario parco? Dopo 40’ di volo piuttosto turbolento e un atterraggio da brivido su una corta pista, incastonata tra le montagne e che termina sulla riva del lago Tanganyika, eccoci giunti all’ultima tappa del nostro viaggio:
Mahale Mountains National Park
Con una vecchia imbarcazione a motore scivoliamo sull’acqua trasparente del lago, vedendo sfilare piccoli villaggi di pescatori, massi di granito modellati dal vento come sculture, spiagge di sabbia chiara e le pendici di montagne verdissime. Entro i limiti del parco non vi sono insediamenti umani, fatta eccezione per un paio di lodge, il quartier generale dei ranger ed una stazione di ricercatori giapponesi che da decenni studiano i primati, endemici, di questa area naturalistica. In circa un’ora raggiungiamo Kungwe beach lodge, lo staff al completo è allineato sulla spiaggia pronto a riceverci. Il comitato di accoglienza ci imbarazza non poco, ancor di più la notizia che siamo gli unici ospiti. Come di rito, dopo le presentazioni (ricordassimo un solo nome!), ci accompagnano al nostro alloggio: una spaziosa tenda montata su palafitta di legno, con magnifica vista sull’intera spiaggia, di sabbia bianca, a forma di mezzaluna. Pranziamo insieme alla giovane coppia che gestisce questo bellissimo campo tendato. La nostra soggezione si scioglie in poco tempo discorrendo del perché ritirarsi a lavorare qui, nell’isolamento più totale, per tre anni consecutivi, di scimpanzè e di molto altro. Apprezziamo, inoltre, la disponibilità al dialogo di entrambi pur con i limiti del nostro inglese, non esattamente da “college” e, non ultimo, condividiamo la passione africana beandoci dei racconti di un passato trascorso quasi esclusivamente in Africa, scambiandoci impressioni sui luoghi che anche noi abbiamo visitato e amato.
Nel pomeriggio, con una facile passeggiata di un paio d’ore, prendiamo confidenza con la foresta circostante. Ci fanno compagnia un ranger ed una guida che ci mostrano piante, semi, fiori, impronte ed escrementi degli scimpanzè e di altri animali, illustrandoci, di volta in volta, le abitudini di ciascuna specie. La lezione didattica è molto interessante e ci introduce, per oggi solo teoricamente, nel regno degli scimpanzè che vedremo domani e dopo, nel frattempo ci “accontentiamo” di seguire una femmina di facocero con piccolo e diverse scimmie.
La prima giornata in questo remoto parco, incastonato nel cuore dell’Africa, termina con una serie di eventi che non hanno nulla di sensazionale, ma che ci infondono un senso di pace ed un appagamento assoluti. Si tratta, nell’ordine, di quanto segue: una velvet monkey che mi osserva e mi tiene compagnia mentre annoto alcuni appunti, un tramonto che in Africa non è mai scontato, la squisita cena seguita da amichevoli chiacchiere attorno al fuoco che ci scalda, sotto un cielo nero dove brillano milioni di stelle e dove, tra le tante costellazioni, sono facilmente riconoscibili la Croce del Sud e Scorpione e, per finire, il velo del sonno che si sovrappone al rumore dello sciabordio delle onde ed al coro delle cicale fino a spegnere tutto avvolgendoci nelle ombre e nel silenzio.
29 e 30 giugno 2010
Trascorriamo questo speciale finale di viaggio, che potremmo considerare una seconda (o terza, quarta, quinta… ogni nostro viaggio in fondo lo è) luna di miele, impegnati, durante il giorno, a cercare gli scimpanzè o in barca a pescare e, la sera, a gustare la cena a lume di candela e sotto le stelle o il barbecue con il pesce che noi stessi abbiamo pescato, il calore del falò ed il sonno cullati dalla brezza e dai suoni delle creature notturne che vivono nella foresta e che, talvolta, si spingono fin sulla spiaggia. Prima d’ogni altra cosa ci dedichiamo alla ricerca degli scimpanzè, attività più impegnativa di quel che immaginavamo. Il gruppo più vicino da raggiungere e seguire si trova sull’altro versante della montagna. Occorre un trasferimento in barca di un’ora per arrivare all’imbocco di un sentiero che risaliamo a piedi e che, seguendo le indicazioni trasmesse via radio dai ranger, abbandoniamo inoltrandoci nella boscaglia con la vegetazione a tratti talmente fitta da rendere necessario l’uso di un macete per aprire un passaggio. Siamo abbastanza fortunati da individuare una famigliola di scimpanzè dopo poco più di un’ora di cammino, purtroppo non è facile fotografarli in quanto stanno accovacciati sui rami più alti degli alberi, si muovono veloci, si nascondono tra il fogliame, girano il muso mostrandoci spesso solo il “lato B”. Pensiamo di avvicinarli e di osservarli con più agio quando, scendendo lungo il tronco degli alberi, toccano terra, ma non si fermano che pochi secondi. Se ne vanno, infilandosi rapidi in una galleria di rami e arbusti secchi, lasciandoci con un palmo di naso. Li seguiamo, strisciando dapprima sotto il basso intrico e poi issandoci su un alto terrapieno non senza l’aiuto dei nostri accompagnatori.
Una gola stretta e profonda ci impedisce di proseguire, nel vedere gli scimpanzè risalire sul versante opposto è chiaro che per oggi la “caccia” finisce qui. Sudati fino all’inverosimile non ci resta che tornare in riva al lago ad aspettare la barca che ci riporterà al lodge. Possiamo trarre la conclusione che l’esperienza è analoga a quella che, qualche anno fa, ci vide impegnati nella ricerca dei gorilla di montagna che vivono nell’area dei vulcani a cavallo tra Uganda, Rwanda e Congo. Fatica e difficoltà nell’avvicinare gorilla e scimpanzè sono pressoché simili, c’è, tuttavia, una sostanziale differenza: stabilire il contatto visivo con i gorilla, che può avvenire dopo diverse ore di duro cammino, equivale anche alla fine della fatica fisica. Ci si ferma, infatti, ad osservarli per un’ora, con buone opportunità fotografiche. Ciò è possibile in quanto i gorilla sono generalmente molto vicini, immobili o quasi e indifferenti all’uomo, nel senso che alcune famiglie sono state gradualmente “abituate” e tollerano la presenza di piccoli gruppi di osservatori, continuando indisturbati a svolgere le loro abituali attività. Al contrario, trovare gli scimpanzè corrisponde all’inizio delle fatiche poiché si rende necessario rincorrerli, avanzare nella vegetazione intricata, scivolare, graffiarsi, impigliarsi nei rami spinosi, scendere o risalire su terreni niente affatto agevoli. Il tutto a passo sostenuto, altrimenti se ne perdono le tracce.
Il tempo a disposizione anche in questa occasione è pari ad un’ora e decorre dal primo avvistamento, ma non si spende tale tempo in sola e totale osservazione e, soprattutto, non è garantito il risultato fotografico.
Nonostante il mancato “tete-a-tete” con gli scimpanzè, siamo contenti dell’esperienza, ma anche determinati a non ripeterla nei prossimi giorni. Decidiamo quindi di goderci questo parco da un’altra prospettiva: il lago Tanganyika!
Le uscite in barca offrono l’opportunità di vedere tantissimi uccelli e regalano plurimi incontri con gli ippopotami. Grazie alla eccezionale trasparenza dell’acqua, possiamo per la prima volta osservarli mentre nuotano o camminano sul fondale sabbioso. Proviamo, inoltre, a pescare, con la sola lenza, un piombo appeso nella parte finale e 5 o 6 ami… I pesci abboccano presto e, cosa incredibile, senza esche. Attratti da questa nuova e proficua “attività” decidiamo di dedicarci alla pesca a tempo pieno, uscendo in barca mattina e pomeriggio per il resto della vacanza, tornando ogni volta soddisfatti e con un bel bottino, oltre che con le immagini di splendidi tramonti. La tecnica di pesca è semplicissima: si srotola il filo (lungo circa un centinaio di metri) sino a che il piombo tocca il fondale, badando a tenerlo teso e soppesandolo. Si solleva e si abbassa il filo, con movimenti lenti, quando si avverte un peso maggiore significa che i pesci hanno abboccato. A quel punto si recupera la lenza e quasi sempre ad ogni amo è attaccato un pesce, vale a dire 5 o 6 per ogni recupero. Ci divertiamo per ore insieme al timoniere ed all’”equipaggio”, non abbiamo una lingua in comune, ma i gesti, le risate e la buca che si riempie di pesci ci uniscono più delle parole.
L’Africa, quale ultimo dono, ci omaggia di una fila di babbuini che a turno, uno per volta, vengono a bere alla spiaggia, sono molto guardinghi, è quindi verosimile che la zona sia frequentata anche da predatori, come il leopardo. Anche gli africani hanno una sorpresa per noi…è l’ultima sera, stiamo cenando sotto le stelle, da molto lontano sentiamo un canto, o meglio ci pare di sentirlo, il buio totale cela le figure, ma il coro di voci si avvicina sempre più, poi – come un’apparizione – sfilano uno ad uno tutti i componenti dello staff sorprendendoci e salutandoci con le dolci note di un inno locale… melodia che arriva al cuore e ci commuove.
1 luglio 2010
Trascorriamo la mattinata in spiaggia, sforzandoci di non lasciarci travolgere dalla malinconia per l’imminente distacco da questa porzione d’Africa che ci ha regalato tante emozioni ed il privilegio di assaporarle in solitaria. Facciamo provvista dei colori, della bellezza e della quiete che qui abbondano, a casa avremo sicuramente bisogno di attingervi per rifugiarci, anche se solo mentalmente, nel magico caleidoscopio africano.
All’incirca verso mezzogiorno lasciamo il “nostro” lago, la “nostra” romantica capanna ed i compagni di tante avventure (non più genericamente “lo staff”!) schierati sulla spiaggia a salutarci.
Saliamo sulla barca con gli occhi lucidi, ci allontaniamo sempre più, ma gli amici africani restano là, ci sbracciamo scambiandoci saluti sino a che l’imbarcazione svolta, seguendo il profilo della costa. Sandro ed io non ci parliamo per non scoppiare in lacrime. Quanto rivediamo scorrere – le montagne, i villaggi, le casine ordinate, i bimbi sorridenti, i pescatori, le barchette colorate, le reti stese al sole, le ceste ricolme di panni lavati, etc. – ora è ancora più dolorosamente bello rispetto a qualche giorno fa. Facciamo il pieno delle ultime immagini con ingordigia, esattamente come chi sa di non potersene “cibare” per molto tempo.
Un pilota donna, con un aereo un po’ più grandicello (12 posti), in sole tre ore ci riporta ad Arusha. Di quest’ultimo volo ricordo solamente la bellezza e la trasparenza del Tanganyika e, poco prima di atterrare, il bacino del lago Manyara. Tutto ciò che è passato sotto di noi nel mezzo me lo sono perso facendo l’inventario dei tanti ricordi, sensazioni, emozioni. Temevamo di mal sopportare il passaggio dall’isolamento dei parchi che abbiamo appena lasciato al traffico vivace di Arusha, alla moltitudine di persone che ne affolla le vie, ai colori delle botteghe, delle piantagioni di banane e caffè. Ci facciamo, invece, catturare da tanta vitalità ed il nostro umore ne é contagiato positivamente tanto che fantastichiamo di ricominciare il tour visitando i Parchi del Nord. In città abbiamo appuntamento con Hillary, che rivediamo con rinnovato piacere.
Possiamo, così, a caldo, esprimere la nostra totale soddisfazione ed i nostri ringraziamenti per l’accuratezza dell’organizzazione del viaggio, ma soprattutto per l’aiuto spontaneo reso in un momento drammatico.
Lasciata Arusha, raggiungiamo Kia lodge che dista poco meno di due chilometri da Kilimanjaro Airport. E’ tuttora una struttura accogliente, le “capanne” circolari sparse nel giardino lussureggiante sono sempre molto curate. Il ristorante, invece, ci delude un po’, ricordiamo d’aver cenato meglio qualche anno fa, ma poco male, quest’ultima è soltanto una tappa obbligata, in attesa del volo di rientro in Italia.
2 luglio 2010
Spendiamo il poco tempo che ormai ci resta bighellonando in giardino, sottoponendoci ad una serie di massaggi e saggiando la comodità dei lettini a bordo piscina. Alle 13,30 il trasferimento in aeroporto, poi i controlli, l’attesa, il decollo in orario e l’Africa che, sotto di noi, ci saluta con una visione eccezionalmente nitida del Monte Kilimanjaro. Durante lo scalo ad Addis Abeba un boato festoso annuncia che il Ghana ha segnato il primo gol contro l’Uruguay e ci fa ben sperare che l’ultima squadra africana rimasta in gioco acceda alle semifinali.
Siamo certi che, in questo momento, anche l’intera Africa sta esultando, ma il secondo gol, segnato dall’Uruguay, riporta tutti con i piedi per terra. Il calcio di rigore assegnato al Ghana alla fine del secondo tempo supplementare crea un silenzio irreale e l’unanime grido di dolore quando il pallone colpisce la traversa è una pugnalata. Si va ai rigori, ma vince l’Uruguay e l’intera Africa si affloscia nell’amarezza della sconfitta.
Pur non vedendo le immagini riusciamo a seguire, attraverso le radioline e gli umori delle persone che affollano l’aeroporto, le varie fasi di questa interminabile e sofferta partita. Felicità e sconforto sono collettivi, coinvolgono tutti, indistintamente, ed il dolore per la disfatta è palpabile. Insieme alla speranza di una finale africana termina anche il nostro viaggio: uno splendido arcobaleno comparso dopo il passaggio della tempesta!