Viaggio in Rajasthan… 2
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Ecco l’India: prisma di volti indifferenti e caste in passerella. Dove la miseria più totale si fa spettacolo.Terra di contrasti incredibili. Immondizia umana e meraviglie dei Maharaja, santoni nudi e matrimoni sontuosi, templi affollati e donne sfregiate dall’acido muriatico. Non un viaggio ma un tuffo in un film tridimensionale, un’esperienza senza spina dorsale. Da annusare, toccare, guardare senza certezze, senza coerenza. Sempre in perfetto contrasto. Con spavento e armonia, pietà e ammirazione, brividi di morte e adrenalina del vivere. Sari fluttuanti e coloratissimi, bambini bellissimi e disperatamente felici, hotel 5 stelle ad un soffio dai tuguri, donne-bambine dagli occhi luminosi già prostitute e senza specchio su cui riflettersi. Scene da guardare da dentro, con l’intensità del dolore, la dolcezza del piacere, la paura del nemmeno immaginato. Flash incandescenti per l’anima, frecce di fuoco nelle pupille, soprese ad ogni battito di ciglia, incredule, in un sogno-incubo che batte come tam-tam. Mistero e fede, crudità celebrata dal fasto, povertà adattata al volere del più forte, devozione come destino. E sorrisi e calda ospitalità. Ecco l’India del futuro, con ragazze in motocicletta, cellulare per compagno, Honda come status-simbol, Valentino sulla pubblicità delle divise delle scuole private, macchine digitali nelle giovani mani, e il cielo osserva e volge lo sguardo altrove. E tace. Come il mio pensiero orfano di parole.
30 ottobre 2011
A New Delhi l’aereo possiede già la terra. Non vedo l’ora di annusarne l’odore. Che sa di smog, cenere e spezie. Appena fuori dall’aeroporto, avvolto in una leggera nebbia mattutina, donne accucciate tagliano l’erba con le mani. La guida ci dice che l’ospite da queste parti è un Dio. Ci dona una collana di tagete, gialle come l’intelligenza, rosse come la purificazione. Il colore delle spose. In un attimo siamo a Delhi, 16milioni di abitanti. E’ domenica, il traffico è minore degli altri giorni eppure mi appare caotico. Ai lati, favelas e cumuli di immondizie di plastica. Qui ognuno fa quello che vuole. La prima regola è la NON regola. Polvere e gente ovunque. Qualcuno ha la mascherina sulla bocca. Qualcun altro dorme o chiede l’elemosina. Corvi minacciosi, a frotte, anneriscono il cielo e turbano con il loro gracchiare ghiotto di prede. Clacson impazziti, caos, e poi, improvviso, il nostro hotel. Di lusso, in mezzo alla desolazione di chi non ha nulla, nemmeno un tombino per casa. Donne minute avvolte in sporchi sari, si stendono a dormire, con bambini nudi e vecchi, padroni solo delle loro quattro ossa. La Guida dice che ogni minuto nascono 51 bambini in India. Sottile e incisiva la mia sensazione di disagio. Ma è passeggera. La prima meta è la Moschea di Jama Masjid, ma, per arrivarci, passiamo attraverso un brulicante mercato. Un carnaio fluorescente dove si vendono perfino le immondizie, si fa il bucato in una nera pozzanghera, si fa il pane e lo si attacca alla parete di un muro sudicio. Si fa pipì addosso alla gente. C’è chi contratta, chi dorme sdraiato su stracci e capre, in visioni da cottolengo a cielo grigio. C’è chi cammina come un animale a quattro zampe, chi sfodera piedi da elefante, chi zoppica con gambe forse spaccate da piccolo. Avanza forzando le braccia, per mendicare in modo più redditizio. Cambio di visuale: si va verso il Forte Rosso, del 1638, in pietra arenaria. 200 rupie ( 3 euro) è lo scotto da pagare se si vuole fotografare. Via le scarpe e si entra. Un vecchio bramino intrattiene un gruppo di fedeli affascinati. Noi turisti siamo una sorta di attrazione per gli indiani che ci guardano, ridono, salutano, e si mettono in posa per la foto con noi. Molti hanno la digitale, dai bambini a una bisnonna, rugosa e magra come un’acciuga. Porta India si profila nella sua eleganza alla gente che da quelle parti soggiorna. Come il Presidente che proprio qui ha la sua casa, vicino al Parlamento e al Tempio Sick, il più grande di Delhi. In pieno centro. Nelle cucine centinaia di persone preparano gratis il pane e la zuppa di lenticchie piccanti. La offrono anche a noi esagerando nei ripetuti “Welcome again”. Ogni sera mangiano qui oltre mille persone. I ricchi offrono il cibo, i volontari lo cucinano. Usciti dal tempio, immagini da raccapriccio pugnalano la nostra coscienza. Sotto cumuli di sacchi molte persone dormono sui marciapiedi. Una figura esile si muove leggermente, poi si alza, attratta dalla nostra curiosità e si profila dinanzi a noi. E’ una giovane donna, senza un occhio, la bocca senza labbra. Per mani due moncherini. Ci mostra il viso sfregiato, martoriato, forse con acido muriatico. Ci segue con tutta la sua tragedia nell’unico occhio che ci fissa nell’attesa di un dollaro. Nei 256 chilometri che separano New Delhi da Jaipur, sotto un cielo di corvi svolazzanti, bramosi di prede, ci intrufoliamo in un formicaio di tuk tuk, ricsò, carri trainati da dromedari, mucche zebù, libere di mangiare sassi e plastica. Smog fitto come nebbia non lascia spazio al sole. Donne scopano le strade. Qualcuno è sdraiato lì, dove tutti passano. Superiamo un bus. Bus? Meglio dire un contenitore di ragazzi, tutti in camicia bianca, stretti stretti. E poi moto, e auto, moscerini impazziti avvolti nella nebbia. Improvviso, si profila un tempio Jainista, dove un santone nudo e una santona di 85 anni che da 12 si sta lasciando morire, ci accolgono. Di buon grado si fanno fotografare, a proprio agio, nudi, liberi e puliti. Ovunque le donne, con sprazzi di sorrisi sull’uscio di tuguri orfani di tutto. Con la testa portaoggetti e ai piedi croste di cammino e terra e sterco. Donne, bambine, vendute, buttate. Meno di niente nel metro dei valori. Occhi verdi di mamme bambine, esili come giunchi e la luna nelle pupille. Solitarie umanità in movimento lento. Eccoci a Jaipur, la Città rosa, 4milioni di abitanti. Traffico e visi sorridenti, venditori a frotte. Il pulmino arancione, con “tourist” marchiato sulla fronte, avanza sbuffando. Dal finestrino leggermente appannato assisto con emozione al risveglio del Rajastan. Donne, dai sari coloratissimi, puliscono usci di baracche con fascine a forma di scopa. Qualcuno dorme ancora, come feto abbandonato. E’ il risveglio degli “Intoccabili”, padroni solo delle loro quattro ossa rannicchiabili a esigenza, di un sacchetto di plastica da accendere per scaldarsi, di un posto qualsiasi per liberarsi dagli escrementi. Nel traffico ancor più brulicante l’autista rallenta per evitare brusche frenate. Poi accelera, infiltrandosi in un varco che si apre come per magia proprio quando la collisione sembra inevitabile. Ci siamo. Il cuore della città vecchia di Jaipur è qui, con i maestosi palazzi che i Maharaja fecero dipingere di rosa in segno di ospitalità. Mani tese di bambini mendicanti. Denti bianchissimi e grandi occhi scintillanti, pronti a mettersi in posa per poi chiedere la mancia. L’occhio è indeciso se posarsi sulla meraviglia dei palazzi o sull’umanità tanto misera da togliere il fiato. Lo smog non lascia spazio al sole. L’aria è polverosa e secca. Entra nella gola e smorza il respiro. L’assedio di mendicanti mi distrae dalle meraviglie architettoniche e dall’urgente colpo di tosse mentre la nebbiolina s’infittisce e le fisionomie umane si incollano fra loro e a me. Lingue forestiere a cantilena velocissima bombardano le orecchie per vendere penne e cartoline. Giovani maschi si confondono con mamme bambine e neonati semi nascosti dai sari. Tra il frullare di mani e visi, uno attira la mia attenzione e mi fa uscire un “Che begli occhi”. Il resto sparisce d’incanto e rimangono solo loro: due, straordinari, occhi verdi. Due pagine di vita spalancate sul viso di una giovane ragazza. Occhi luminosi e sereni, con un sottofondo di dialogo le cui parole sono il battito di ciglia ed il tremolio impercettibile dell’iride. Mi entrano nell’anima come scheggia bollente. Noto la profonda cicatrice sotto le labbra carnose e l’anello d’argento sulla narice sinistra, i capelli neri orfani di pettine, con riga indefinita sulla testa. Io guardo lei, lei me. Ha la sua bambina di pochi mesi in braccio che le assomiglia in tutto. Ma la tiene indietro, quasi a proteggerla da sguardi indiscreti. Col sari verde e rosa un po’ sciupato, si fa avanti rispetto agli altri e mi dona un sorriso di denti bianchissimi, diradati a tratti, concedendosi alla fotografia. Dopo il mio click la sua mano mi tocca il braccio nell’evidente attesa di alcune rupie. Una saetta nella pancia mi fa guardare meglio quella mano calda sulla mia pelle. E’ piccola, affusolata, ambrata e sporca. Le unghie contornate da un sottile profilo nero. Ma il tocco è dolce e lei mi fissa dalla testa ai piedi con intensità decisa e supplichevole. So che non è giusto darle denaro, che tra quei ragazzi che vendono bracciali c’è sicuramente qualcuno pronto a rubarglielo o a picchiarla. Ma con me ho solo la macchina fotografica e glielo spiego come posso, in un miscuglio di gesti e parole. Lei abbassa lo sguardo, rassegnata e delusa. Un brivido ghiacciato dallo stomaco ai piedi va di pari passo con il rosario di pensieri, ormai padroni della mia razionalità. E sento la mia voce dirle “Sei bellissima”. Mi fissa ancora. Continua a sorridere, con la mano tesa e mille discorsi ingabbiati nell’iride dei suoi occhi verdi. Ad un tratto il suo sguardo si posa sul mio bracciale di perline bianche e luccicanti. Apre la bocca disegnando un “Oooh” di meraviglia, inarcando le sopracciglia perfette. L’idea di darglielo scocca proprio quando sento gridare il mio nome da una voce familiare che mi dice “Sei l’ultima, vieni”. Corro sulle strisce pedonali, schivando auto e moto impazzite. In un baleno salgo sul pulmino arancione già in moto che parte mentre la porta è ancora aperta. Mi siedo al mio posto e con lo sguardo fino all’ultimo finestrino rincorro quella ragazza, la “Mia” ragazza dagli occhi verdi. Ma è già di spalle. Non le interesso più. Di lei mi rimangono una fotografia e un braccialetto di perline bianche e luccicanti che non sono riuscita a regalarle.
A Jaipur ci torneremo la sera. Ora l’obiettivo è raggiungere il Forte Amber, voluto dal Maharaja Man Sing. Qui inizia l’avventura del venire letteralmente accerchiati dai venditori di turbanti, ombrelli, cappelli, marionette. Che non smettono di seguirci nemmeno quando siamo in groppa all’elefante, togliendoci il piacere del panorama e della delizia dell’inedita passeggiata. Nel pomeriggio, altra meraviglia: il Palazzo dei Venti con l’Osservatorio astronomico e la meridiana che indica l’ora, quasi, esatta.
Sotto sera, tuffo nel caotico traffico di Jaipur, a bordo del risciò. L’esile uomo che pedala si gira verso di noi e ci spiega che ha tre figli ma non vive a Jaipur perchè è troppo difficile stare qui. Il brulichio della strada, con lo slalom tra lamiere, mucche e cammelli e carri è pittoresco. Alla fine l’omino ce la fa ad arrivare al punto di discesa. Ansima e chiede la mancia. Poi veniamo assaliti letteralmente da tanti presunti negozianti, orafi, venditori di tutto e di più. Fino allo sfinimento e alla rinuncia ad entrare in qualsiasi bazar, poco più grande di scatole in disfacimento. Sulla strada del parcheggio del bus un giovanissimo padre chiede l’elemosina. Traina una specie di carriola. Dentro c’è un bambino di cinque anni, visibilmente ammalato. Ha un moccolo chilometrico, denso come budino putrido. No, non riesco ad essere indifferente a questa immagine. Ci ripenso mentre guardo fuori dal finestrino, nei 240 chilometri da Jaipur ad Agra. Vedo donne accovacciate sul tetto delle capanne mentre vi spalmano lo sterco delle mucche. Altre sono chine sui campi di riso o lavano i panni su piccole piattaforme o su grandi sassi. Altre fanno fascine con le canne. Sono scalze, sotto il sole, in fila indiana. Regine di un cubo d’eternit fatiscente o di un sacco sotto la luna perduta nel cielo. Sfrecciano “scuolabus” ovvero tuk tuk zeppi di studenti in divisa azzurra, in piedi e pigiatissimi. Ci fermiamo davanti al villaggio delle prostitute. Esce una ragazzina, sui quindici anni, truccata, e seguita da un nugolo di bambini seminudi e molto piccoli. Si avvicina al pullman con un “Hello” e mi appare triste sotto il sorriso forzato, i capelli neri ben raccolti. Un bue umano, braccia dietro la testa, steso di profilo su un letto di bambù, guarda la scena e pregusta il facile guadagno grazie ad una bambina in pasto ad animali a due gambe. In nome del denaro che a lui non costa fatica. Provo rabbia per quello che ho appena visto mentre il bus prosegue verso la Città Fantasma, costruita dall’Imperatore Jakubar per le tre mogli. E poi ad Agra, per ammirare il Taj Mahal, di indicibile bellezza. Costruito da 20mila muratori in 22 anni di lavoro, fino al 1648, con 45 tipi di marmo. Una delle sette meraviglie del mondo dedicata dall’imperatore Moghul Shah alla memoria dell’amatissima moglie, Mumtaz Mahal.
In treno verso GWALIER
Ad ogni battito di ciglia un’immagine incide l’anima come film tridimensionale. Distese ordinate di campi, covoni di paglia, trattori addobbati a festa con ghirlande di fiori, terra coltivata a distesa, capanne di paglia per il riposo, poderi isolati, piccoli villaggi dalle case quadrate, tratti di palude, laghetti artificiali. C’è una malinconica serenità nei vasti paesaggi che sfilano veloci tra “canjon”, campi coltivati, alberi ad ombrello, carri trainati da elefanti, mucche nere al pascolo. Il treno si ferma alla stazione di Morena. Persone accucciate fanno po-po su cumuli di immondizie. Bimbi si lavano con due dita e capre bevono nell’acqua stagnante. Una donna zappa sui binari e due vecchie, sedute sul ferro delle scine, la osservano. A Gwalier, nota per i templi di Palazzo Manci, bambini ci vendono cartoline. Il piccolo “capo” dice “Io parlo perfettamente italiano, francese, spagnolo e alemanno. Io dico di comprare cartoline perchè capo è furbo e, se non vendiamo, niente commissioni. Niente di niente. E botte, sì. Promiso tu compra me cartoline? Dopo?”. E dopo, verso l’uscita, i bambini sono tre. Il più piccolo mi segue e mi dice “Cartolina, tu promiso me compra cartolina. Cartolina, cartolina, cartolina… “ Vorrei comprare tutte le cartoline ma so che non faccio così il suo bene. Mi fa tenerezza e pena. Istinto e ragione duellano nella mia mente. Arriviamo al palazzo del Maharaja Jiwaji Rao Scindia. All’interno i due lampadari più grandi al mondo, il trenino d’argento e il salotto realizzato con 560 Kg. d’oro. Sulla strada il consueto traffico, con mucche libere, risciò e tuk tuk, trattori, dinosauri, carretti con verdure, sari fluttuanti, ragazzi su bici con manubri dritti, uomini pigri e vecchi dalla lunga barba bianca. Concerto di clacson su immondizie in cumulo, pronte per il fuoco suicida, asfalto caldo buttato con il secchio mentre vicino un bambino cammina scalzo. Auto contromano si sfiorano, vicino a mucche e persone, indifferenti allo smog, alla diossina della plastica bruciata, al ragazzo con i piedi da elefante e a quello coi moncherini al posto delle braccia. Indifferente a chi dorme per terra al mercato, con la terra per giaciglio.
5 novembre 2011
Il cottolengo a cielo aperto si ripresenta anche sulla strada verso New Delhi, per l’ultimo giorno in terra d’India. All’ora del risveglio, gomitoli a forma di feto indicano che lì c’è qualcuno che dorme. Spunta un piede per caso o una testa. Mucche e maiali a passeggio si fermano a mangiare immondizie. Tante persone fanno po-po ovunque, sull’erba, sul pantano, parlando tra loro, mani sotto il mento. Viste da lontano si fissano nella memoria, in quel gesto infantile, che racchiude tutta la loro religione ed il senso dell’esistere. Colorati sari attirano l’attenzione nella città di Mathura. Sono pellegrini, a piedi nudi, che percorrono da 50 a 200 Km per sacrificio a Dio Krisna che qui è nato. Alle nove tutto è compiuto. Ognuno al proprio posto: vecchi a gomitolo, pentole sul fuoco, letti al sole, tuk tuk zeppi di corpi appiccicati. E’ l’India in piedi, con l’odore di sterco umano e animale, di verdure fresche sui carretti. L’odore è una presenza, un alito, una febbre e l’animo si piega al raccapriccio e all’attrazione dello spettacolo quieto della lugubre miseria. Lo smog di New Delhi irrita gli occhi e impasta la gola. Di nuovo nel traffico caotico per arrivare al Complesso Gutuminar, con la torre e la prima moschea nell’India musulmana. Di nuovo povertà alla ribalta mentre andiamo a pranzo. Bambini truccati ballano, fanno capriole e suonano tamburi. I loro occhi esprimono la delusione del non aver ricevuto nulla da noi, certi di dare così un messaggio di speranza. Tradotto, forse, in botte per loro. Dopo il pranzo, visitiamo il complesso di cento tombe dove veniamo invasi allegramente da sorrisi di zucchero di studentesse con la divisa della scuola privata. Ci danno la mano, con “Hello” radiosi, sperando di essere fotografate. Ci fermiamo a Porta ‘India, costruita dagli inglesi nel 1931 e all’epitaffio di Gandhi, sul posto dove fu cremato. Compro petali di tagete posati su foglie secche cucite, per 20 rupie. Li poso sulla “tomba”. E’ l’ultima tappa di una breve ma intensa calata in terra d’India del nord. E’ il tramonto quando saluto il grande pacifista e lo ringrazio per ciò che ha fatto per il mondo. Nugoli di indiani pregano. Studentesse sedute mi salutano agitando giovani braccia. Un arrivederci perfetto, al tramonto. Senza accorgermi che l’India mi ha rubato l’anima.