Viaggio in mali 2

Prefazione: Penso che la vera opportunità non sia stata prevalentemente l’occasione di poter effettuare un viaggio nel Mali, un posto stupendo, un luogo a dir poco meraviglioso che mi ha permesso di incontrare un amico che non vedevo da 25 anni. L’opportunità vera è stata quella di aver potuto trascorrere un momento della mia vita in modo...
Scritto da: obi1knon
viaggio in mali 2
Partenza il: 02/01/2007
Ritorno il: 28/01/2007
Viaggiatori: in coppia
Spesa: 3500 €
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Prefazione: Penso che la vera opportunità non sia stata prevalentemente l’occasione di poter effettuare un viaggio nel Mali, un posto stupendo, un luogo a dir poco meraviglioso che mi ha permesso di incontrare un amico che non vedevo da 25 anni.

L’opportunità vera è stata quella di aver potuto trascorrere un momento della mia vita in modo esclusivo accanto a mio figlio e con lui aver vissuto una parentesi in luoghi dove siamo stati accettati più come amici che come semplici turisti.

Questa condizione, ci ha permesso di conoscere un’altra realtà, totalmente differente da quella in cui abitualmente viviamo.

Poter immergere Nikos in una realtà basata su usi semplici e costumi totalmente differenti dalla quella a cui è stato normalmente abituato, riuscire a farlo entrare in una visione del mondo circostante calata in valori che purtroppo nel mondo occidentale tendono sempre più a allontanarsi dall’uomo, penso gli abbia dato l’opportunità di scoprire e rivalutare una condizione d’esistenza povera materialmente ma ricca interiormente.

Una realtà permeata da un semplice e perenne sorriso, donato incondizionatamente e disinteressatamente. Un’esperienza che spero lo abbia colmato internamente.

02 gennaio 2007 – martedì Con un velo di agitazione, che contraddistingue il momento della partenza, da tempo agognato, attendo Nikos.

Nel frattempo controllo le ultime cose, rovistando nello zainetto giallo e nero che mi porterò in volo come bagaglio a mano e che mi servirà successivamente per ricoverare il necessaire giornaliero.

Controllo per l’ultima volta che ci sia tutto o se per caso avessi dimenticato qualcosa.

Mappe, libri sul Mali, una borraccia in alluminio, un cambio, un cappellino, gli occhiali da sole, il taccuino degli appunti…Richiudo. Quello che c’è, c’è.

Alle 09,30 circa, Nik arriva a casa, accompagnato da sua madre.

Dopo gli ultimi saluti, carichiamo i nostri due grossi zaini, racchiusi in due sacchi in tela Jeans, sulla mia auto e Silvia, alla guida, ci accompagna al volo.

Giunti all’aeroporto della Malpensa, sbrighiamo le prime formalità per l’imbarco e salutiamo anche Silvia.

Raggiungiamo la zona d’imbarco e controlliamo il tabellone delle partenze. Iniziamo già con un ritardo sul volo.

Il decollo previsto è stato posticipato alle 12,45.

Rimaniamo in attesa e quando finalmente chiamano il volo, ci imbarchiamo a bordo di un velivolo della compagnia Alitalia.

Decolliamo e dopo un’oretta circa atterriamo a Parigi, con netto ritardo rispetto alla tabella di marcia, sbarcando nella zona F del Charles de Gaulle.

Una volta a terra ci dirigiamo lungo un corridoio che conduce all’uscita del settore e dopo aver chiesto informazioni su come e dove procedere per raggiungere il terminal “C”, raggiungiamo lo stesso grazie anche all’occhio “lungo” di Nik che ha individuato l’uscita esatta sui monitor, tramite un Bus interno.

Piccola perquisizione alla Sicurezza (Nik ha dovuto togliere le scarpe) e poi via al “Gate” corretto.

Il volo ci stava comunque aspettando. Attendiamo circa una mezz’oretta durante la quale ne approfitto per chiamare Silvia per rassicurarla del nostro arrivo nella capitale francese e Pantera (Stefano), in Mali, per avvisarlo del ritardo accumulato.

Come sempre mi dice “non ti preoccupare” perché si sarebbe informato sull’orario d’arrivo del volo di Air France che avremmo preso e sarebbe giunto puntuale a prelevarci.

Saliti sull’aereo ci troviamo con due posti distanti. Parlo con la hostess, la quale mi dice che a carico effettuato, con molta probabilità ci avrebbe permesso di sederci l’uno accanto all’altro, e così è stato. Il volo passa all’insegna dei videogiochi, proiettati sul monitor incassato nel retro dello schienale del posto anteriore.

Sbarchiamo all’aeroporto di Bamako alle 22,00 circa. Scendiamo dalla scaletta. Nuovi odori penetrano nelle narici mentre la temperatura dolce ci ammanta come un guanto caldo.

Percorriamo la pista a piedi dirigendoci verso l’uscita. Siamo in coda con tutti gli altri, ma all’ingresso vedo Stefano che ci saluta e ci raggiunge.

Consegnamo a lui i passaporti e ci dirigiamo verso l’uscita. Le amicizie maturate nel lungo periodo trascorso in loco ci fanno risparmiare la coda ai controlli.

Espletate le incombenze burocratiche riesco finalmente a completare la presentazione con Nik. Raggiungiamo la vettura lasciata in un parcheggio custodito all’esterno, saliamo in auto e dopo una piccola peripezia in fuoristrada, passando dalla centrale elettrica, arriviamo a casa del Pantera.

Qui finalmente conosciamo personalmente Nené, sua moglie, Leonardo, Giulia e Diana, i suoi tre figli.

Conosciamo anche Giancarlo che con Moglie (Paola) e figlio di 11 anni (Leonardo) sono ospiti di ritorno da Tombouctou. Eccezionale, Giancarlo è una cintura nera di 6°dan di Ju Jitzu e domani probabilmente avremo la possibilità di fare Judo in una palestra di Bamako.

Ceniamo con gli altri che ci hanno aspettato.

Il menù prevede del Platano fritto, pesce, riso e minestra di riso con spinaci. Il tutto accompagnato da un vinello Siciliano. Alcuni dolci chiudono le portate.

Per la notte Stefano ha previsto una sistemazione presso la Croix Rouge Malienne, che ha a disposizione alcune camere. La stanza assegnataci ha un letto matrimoniale con zanzariera ed è fornita di una pala a soffitto e di condizionatore alquanto rumoroso.

Domani è un altro giorno. Quando ci sveglieremo raggiungeremo Pantera & company per fare colazione assieme.

I sacchi a pelo sono già aperti sul letto e Nikos è già in “branda”…Si chiude il libro di viaggio sulla prima giornata…..BUONA NOTTE 03 gennaio 2007 – mercoledì Sveglia alle 09,00. E come d’accordo raggiungiamo gli altri da Stefano.

Ci mettiamo a tavola per consumare una colazione a base di caffelatte, pane, ed un ottimo miele di brousse.

Stefano chiama un tizio direttamente a casa che ci cambia 500,00 Euro, con condizioni vantaggiose poiché prive di commissioni bancarie, poi ci mette a disposizione un autista che ci porta ad un mercato artigianale.

Giungiamo ad un grande spiazzo, occupato da piccole baracche in legno, poste l’una accanto all’altra a formare un dedalo di viuzze interne. Le “Caverne”, come chiamano le singole costruzioni che fungono da negozietti artigianali, sono zeppe di sculture, collane, maschere e quant’altro. Accanto ai negozi artigianali troviamo anche un mercato alimentare a prevalenza vegetariano, con qualche banco di macelleria. Giriamo un’ora e mezza circa. Paola tratta ed acquista due borse in pelle di cammello, a noi per ora basta curiosare. Nik lo vedo inizialmente spaesato, assillato da chiunque voglia vendere qualcosa. Presumo che un paio di giorni di “acclimatamento” a Bamako possano tornargli utili per “svezzarlo” un po’, prima del “Grande Tour”.

Si torna a casa nel primo pomeriggio. La cuoca, “Kadì”, ci prepara per pranzo delle tagliatelle fatte a mano e condite con sugo a base di funghi. Beviamo anche dell’infuso di zenzero diluito in acqua, sempre fatto da lei. Platani e banane fritte non mancano mai.

Dopo pranzo, approfittiamo di un po’ di relax a casa e facciamo conoscenza coi tre cani di razza levriere touareg che scorazzano in giardino e con dei grossi geki intrappolati nella piscina vuota.

Nel tardo pomeriggio, mi ritrovo con il Judoji di Stefano in mano.

Ci rechiamo alla palestra di arti marziali, dove mi fanno tenere un corso, una lezione di judo ai ragazzini.

La cosa che mi ha colpito è il vedere l’impegno profuso da questi ragazzini nell’attività sportiva. La maggior parte di essi, con indosso un Judoji spesso cucito dalla madre, percorre alcuni chilometri a piedi per raggiungere la palestra.

La lezione continua con un corso di difesa personale tenuto da Giancarlo (cintura nera 6°dan di Ju-Jutzu) agli allievi più grandi.

Il tutto si conclude con una cerimonia a cui assiste anche il presidente della Federazione Maliana di Arti Marziali, per la consegna dei diplomi alle nuove cinture nere.

Con grande sorpresa, all’atto della consegna, vengo chiamato in causa. Anche a me viene concesso l’onore di indossare una cintura nera “ad honorem”.

Nikos, per via di una sospetta frattura allo scafoide della mano destra, non partecipa attivamente come atleta nella manifestazione, ma da il suo contributo come fotografo.

Finito il tutto, si torna a casa.

Giunti alla “C.R.M.”, cambiamo camera, e da un letto matrimoniale passiamo a due letti singoli, con zanzariere.

Facciamo una doccia, sempre fredda e ci prepariamo perché più tardi torniamo da Stefano. La sua casa dista poco più di mezzo Chilometro dal nostro “rifugio”.

Le strade secondarie della città, prevalentemente in terra battuta, non si presentano completamente piane ma sono caratterizzate da avvallamenti e sconnessioni. Le motociclette o le auto che transitano lungo queste appendici laterali sollevano la terra rossa creando un effetto “flou” che da un ulteriore tonalità calda all’ambiente, accentuando altresì i colori del tramonto.

Manco a dirlo, l’illuminazione è praticamente nulla, perciò sarebbe consigliabile armarsi di una buona pila per procedere dopo il tramonto, soprattutto per i primi giorni…Poi ci si può anche fare l’abitudine.

Con l’autista andiamo al ristorante “Santoro”, dove rimaniamo ad attendere Stefano che ci raggiunge in loco dopo aver recuperato un tizio dell’associazione (O.N.G.) Terra Nuova, all’aeroporto.

Fuori dal ristorante svolazzano dei grossissimo pipistrelli, volpi volanti, che vanno ad appollaiarsi sugli alberi di mango di cui si nutrono. L’interno del ristorante è in puro stile africano. Le pareti bianche, dalle superfici alquanto rustiche, presentano bordure rosse che evidenziano i varchi arrotondati. Divani e poltrone in legno sono ricoperte da tessuti colorati, mentre ai muri sono appese diverse sculture in legno d’ebano.

Mi servono un aperitivo a base di Mango, mentre a Nik ne viene servito uno a base di Zenzero che pizzica un po’ in bocca, per cui finisco anche il suo.

Ordiniamo della zuppa di pesce tipica “Bozo” ed a seguire degli spiedini di pesce “Capitaine” e di carne di “Boeuf” . Le portate naturalmente vengono accompagnate da banane fritte. Il tutto e innaffiato con della birra o succo di pompelmo. Le crepes concludono la cena. Mangiamo, accompagnati da una musica proveniente da due orchestrali che pizzicano due strumenti a corda, una via di mezzo tra una chitarra ed un sitar indiano.

All’uscita, accanto al ristorante, visitiamo un negozio/esposizione di arte africana. Le cose esposte sono molto belle ma la fattura molto ricercata, evidenzia un non so che di semi-industriale o per lo meno di un artigianato costruito e selezionato ad “oc” per una certa nicchia acquirente.

A mezzanotte circa siamo in branda. Nikos tira fuori il suo sacco a pelo, mentre io preferisco infilarmi sotto le coperte che trovo pulite.

Si spengono le luci dopo circa quarantacinque minuti di peripezie passate da Nikos con la zanzariera e con gli adattatori elettrici per inserire le batterie del cellulare e della macchina fotografica. A domani…Buona notte.

04 gennaio 2007 – giovedì Poiché la sera prima siamo riusciti a capire come funzionano prese ed adattatori, abbiamo messo in carica sia le batterie della macchina fotografica che quelle che il cellulare, con sveglia inserita per le 08,00.

Peccato che quest’ultimo, ancora impostato sull’ora italiana, squilli alle 07,00.

Mi alzo ugualmente e ne approfitto per farmi la barba, prendendo le cose con tutta la calma di questo mondo.

“Cazzeggio” un po’ ed alle 08,30 butto giù anche Nikos dalla branda.

Alle 09,00 dopo aver riempito le nostre borracce in alluminio, con acqua minerale acquistata in un minuscolo spaccio utilizzato dai locali, dall’altra parte della strada, siamo pronti a recarci da Stefano.

Una volta fatta colazione, con l’autista ritorniamo al mercato artigianale, dove ci dovrebbe attendere una guida per accompagnarci in un tour.

Alla fine la guida che ci attendeva si è rivelato un abile venditore.

Lo lasciamo vicino al suo negozio, la sua “caverne” e decidiamo di addentrarci soli nei meandri del mercato.

Passiamo diverse costruzioni osservando la grande quantità e varietà di merce esposta.

Alcune radio trasmettono una dolce litania che ci accompagna per tutta la visita, mentre seduti all’esterno, stesi su tappeti e stuoie, sotto le tettoie di canna o di lamiera ondulata che uniscono i lati opposti dei fronti delle casupole in legno o in mattone, uomini intenti a mercanteggiare, assaporano in piccoli bicchieri del the verde. Oltre alle tipiche sculture, alle tradizionali collane, alla varietà di tessuti esposti, alle pietre lavorate ed ai bronzi ricavati mediante un procedimento di fusione a cera persa, quello che più colpisce ed attira la nostra attenzione è una sorta di artigianato creato ed assemblato con l’utilizzo di materiale di recupero.

Vediamo esposti, su delle mensole aggrappate in qualche modo alle pareti, una quantità infinita di omini, intenti nei loro mestieri, costruiti con bulloni e chiodi saldati tra di loro, una serie di mezzi di trasporto, moto, auto ed aerei assemblati con ritagli di lattine vuote ed una “collezione” di maschere in miniatura messe assieme con l’ausilio di ritagli di plastica colorata.

Tutto questo mi conferma che qui non si butta niente, ma si ricicla veramente tutto. Giancarlo e Paola hanno potuto completare gli acquisti dopo le consuete ed interminabili trattative. Io e Nik abbiamo solo dato un’occhiata in generale, per capire cosa poter acquistare prima di rientrare in Italia.

Il tutto è stato molto divertente, anche perché mentre gli altri si accingevano a comprare e Nikos si sbizzarriva a scattare foto, io ed un negoziante, dopo aver familiarizzato un po’ ci siamo messi a suonare alcuni strumenti musicali.

Lui creava il ritmo con alcuni tam-tam mentre io cercavo di seguire i suoni con l’utilizzo di un Balafon, una sorta di xilofono, battndo l’estremità di caucciù di un paio di bastoncini su delle tavolette in legno rettangolari, disposte in linea e sospese su mezze zucche vuote che fungono da cassa armonica. Una volta concluso il giro e scaricati tutti a casa, con l’autista sono andato a prendere Stefano in ufficio.

Lo stabile che raccoglie gli uffici delle varie O.N.G. Presenti in Mali lo troviamo dopo qualche chilometro, sempre nella zona est di Bamako. Con lui, in ufficio collaborano due Maliani ed una ragazza di Pesaro con contratto a termine fino a tutto settembre 2007.

Il tempo di spedire qualche @Mail ad amici comuni e si ritorna per pranzo.

Oltre a noi, ospiti a tavola troviamo: Izir, il maestro incontrato in palestra, responsabile della sezione Judo di Bamako, il responsabile judo del Mali, il presidente della Federazione Arti Marziali del Mali, un ufficiale della “finanza” Maliana ed il presidente della Federazione judo, Ju-Juitzu del Mali.

Dopo un ottimo ed abbondante pranzo all’italiana (Kadì non si smentisce mai), con tanto di birra, si è discusso dei progetti in corso riferiti all’attività sportiva e si è potuto approfondire la tematica dello sport nel paese e delle attività ad esso correlate.

Verso le 15,30, salutati tutti, siamo tornati al nostro “lodge” c/o la C.R.M. Per buttarci un po’ in branda. Il clima, seppur caldo, considerando ad occhio una temperatura di circa 30°, è mitigato dal vento proveniente da Nord Est, l’Harmattan, che asciuga l’umidità, ma asciuga anche il fisico e quindi bisogna bere spesso.

Ritorniamo, dopo aver riposato un po’, per salutare Giancarlo & company che nel frattempo hanno preparato i bagagli per la dipartita verso l’Italia.

L’orario di decollo è previsto alle 20,30 quindi ci si trova alle 17,15 circa.

Saliamo tutti sul Toyota di Stefano. Per raggiungere l’aeroporto, ripercorriamo lo stesso tratto che abbiamo fatto un paio di giorni prima, al nostro arrivo ed attraversiamo il “guado” del fiume Niger, quasi asciutto per via della stagione secca.

Il percorso si snoda in una zona di rocce nere, quasi come se avessero origine di provenienza vulcanica, tra le quali si articola un dedalo di canali naturali.

In questo luogo gli Animisti si ritrovano per compiere sacrifici di carattere religioso.

Mentre viaggiamo quasi a passo d’uomo, per via della strada parecchio dissestata, sulla mia destra, giù vicino al fiume, scorgo un gruppetto di persone intento in rituale, a scapito di un montone ed un pollo.

Raggiungiamo l’aeroporto e dopo i saluti di rito, prima di rientrare, passiamo nella zona ovest di Bamako per salutare il responsabile degli aiuti umanitari in Mali, un italiano sulla settantina o poco meno, Enrico Cavagnini, che ci ospita a casa offrendoci dell’ottimo Muller Turgau fresco.

Brindiamo assieme ad un altro italiano di circa una trentina d’anni, Fabio, che attualmente staziona a Gao per seguire un progetto di vaccinazione dei capi ovini degli allevatori Tuareg. Stà aspettando del materiale in arrivo a Bamako e pensa di poter rientrare in sede tra un paio di giorni circa. Lasciamo i due e ritorniamo nella zona est tagliando per il centro, transitando dai quartieri antichi.

Ceniamo con dell’ottimo Sidro francese. Facciamo quattro chiacchiere e rientriamo nell’alloggio, alla C.R.M. Verso le 11,30 ora locale.

Prima di coricarmi faccio un po’ di bucato e lo stendo in camera, poi mi infilo sotto la zanzariera a “buttar giù” due righe sul diario. 05 gennaio 2007 – venerdì La sveglia biologica anticipa come sempre la sveglia “elettronica” del cellulare.

Nikos al contrario pare entrato in letargo.

Inizia la solita prassi di tutte le mattine: occorre uscire ed accordarsi coi locali per arrestare il lavaggio delle auto della C.R.M. Ed una volta chiusa l’acqua esterna, si può finalmente avere un po’ d’acqua per poter far la doccia.

Una volta rinfrescato sotto la doccia fredda, mi vesto e do la desta anche a Nik.

Dopo aver fatto colazione da Stefano, con autista e guida, io e Nik raggiungiamo l’immenso mercato centrale della città.

Il vastissimo mercato, che copre almeno un intero quartiere, si trova in zona centrale a fianco della grande moschea.

Il luogo è una piccola città pulsante di vita propria, che ospita commercianti, venditori, guaritori e ristoratori.

Si vende e soprattutto ripara di tutto e di più.

Il quartiere che ospita gli stabili che ospitano il mercato sono perennemente affollati da un turbinio di gente impressionante.

C’è chi compra, chi vende, chi mangia o chi come noi transita e guarda solamente.

Si passa dai barbieri di strada ai conciatori di pelli di serpente; dai fabbricanti di tamburi a coloro che in maniera “molto artigianale” riescono a ripararti qualsiasi cellulare.

Vengono trattati coltelli e spade, collane e spezie. Al suo interno trovano posto sarti e macellai, ciabattini e tintori.

C’è veramente di tutto.

Visitiamo la costruzione principale, chiamata “la maison rose” che è un’immobile a più piani. La parte sommitale offre una cucina per coloro che gradiscono fare una sosta culinaria. Viste le condizioni igieniche alle quali non siamo purtroppo abituati, dobbiamo desistere dall’assaggiare quanto offerto sui banchi, anche se il profumo di carne alla griglia è alquanto allettante.

Scendendo al piano terreno, sulle scale vediamo dipinto un serpente. La guida ci dice che il rettile in questione è considerato il protettore del mercato.

Anni fa era scoppiato un grosso incendio, che ha semidistrutto tutto quanto si trovava all’interno. Sembra che un guardiano, prima di chiudere le porte dell’immobile rosa, abbia trovato ed ucciso un serpente che si aggirava in loco……

La guida che ci affianca, un nativo di Tombouctou di 27 anni è veramente in gamba.

Ci mostra ogni particolare della merce esposta, facendo da tramite coi venditori che grazie a lui non insistono più di tanto.

Quattro risate con un’anziana venditrice di erbe medicamentali e spezie, due chiacchiere con un conciatore di pelli o un venditore di lame. Un paio di foto con uno scultore e rivenditore di maschere, una foto fatta del commerciante stesso, con l’ausilio del suo cellulare mentre Nik immortala le nostre due teste completamente rasate in primo piano.

Uscendo dal groviglio di gente ci allontanniamo dal mercato, passando dalla stazione ferroviaria, per fare una sortita ad un particolare monumento.

Il monumento altri non è che una fontana con quattro coccodrilli disposti sui quattro punti cardinali.

La guida ci spiega che in Bambarà, lingua nazionale Maliana, BAMA significa coccodrillo e KO riva o dorso.

Quindi, letteralmente BamaKo significherebbe dorso di coccodrillo o riva del coccodrillo.

Accanto alla fontana simbolo della città, fa bella mostra di se una chiesa Cristiana.

La pacifica convivenza tra le religioni del paese, Animista, Mussulmana e Cristiana qui è cosa normale. Formidabile.

Ritorniamo all’auto passando di nuovo dalla stazione ferroviaria. Ci dirigiamo verso casa passando dal ponte “de les Martires” e facciamo le prime foto delle acque del fiume Niger, viste dalla città.

Proseguendo in auto, lungo la strada vedo uno dei tanti mercati di bestiame, per cui colgo l’occasione e faccio cenno all’autista che prontamente accosta. Ci fermiamo ed entriamo a far quattro passi tra montoni e bovini con grandi gobbe di razza zebù. Pranziamo da Stefano e nel pomeriggio, io, Nik e Leonardo, il primogenito di Stefano, con tanto di canne da pesca ci spostiamo in una zona ad una decina di kilometri da bamako, verso sud-ovest, dove, a monte il fiume si “rompe” in variegati bracci, in un posto chiamato “Le Lagon”.

La terra tipica africana, di un bel colore rossastro, si mescola con la vegetazione bassa della “brousse” (savana). Il tutto è contrastato dalle rocce sedimentarie nero pece che orlano le rive del fiume e formano una miriade di isolette.

Dal proprietario di un ristorante, amico di Stefano, ci facciamo dare un boccone di carne cruda da usare come esca per i pesci. Lo stesso pezzo finirà poi in pancia al nibbio che staziona appollaiato all’ingresso, poiché la pesca si rivelerà infruttuosa.

Per raggiungere il posto dove buttare l’amo, occorre traghettare su una minuscola zattera a fune, costruita su bidoni galleggianti.

Giunti lì, Nik e Leo si apprestano a preparare l’attrezzatura mentre io decido di fare quattro passi lungo il corso d’acqua.

Il luogo è delizioso e purtroppo la nostra pesca è stata “disturbata” da un pescatore impegnato a stendere le reti dalla sua piroga.

Forse, a pensarci bene, i disturbatori eravamo noi, e comunque sia, il risultato della pesca non è stato quello sperato.

Pazienza, è stata sufficiente la vista di alcuni pappagalli verdi che svolazzavano qua e là ed il relax dato dallo scorrere delle acque ad appagare il pomeriggio.

Ritorniamo a casa. Nik rimane coi bimbi mentre io vado a prendere Stefano in ufficio.

Con lui vado in un moderno supermercato in centro città, a prendere i regali per i bimbi, per il giorno della Befana. Dopo cena, una volta che tutti sono andati a nanna, prepariamo la sorpresa.

Torniamo nell’alloggio a piedi, tanto per far quattro passi accompagnati da Stefano, e ci “rintaniamo” verso le ore 01,30.

06 gennaio 2007 – sabato La sveglia si svolge come al solito, ma viene presa con un po’ più di calma.

Solita colazione e dopo aver fatto il piano del viaggio con Stefano, ritorniamo al lodge C.R.M. Pe recuperare i bagagli.

Saldato il conto di 12.000 FFA al giorno (48.000 FFA) ci siamo trasferiti per l’ultima notte nella stanza degli ospiti, ora libera, a casa di Stefano.

Gustiamo il pranzo a base di pasta con broccoli e stufato (Qualità e Quantità Kadì).

Nel pomeriggio ci spostiamo ad una quarantina di kilometri a Sud-Ovest di Bamako per cimentarci nella pesca al Tiger-Fish. Passiamo in un villaggio in Bankò (fango misto a paglia) per contattare un piroghiere che ci porti al punto di pesca, ma arriviamo troppo tardi, perché lo stesso è già sul fiume da un po’.

Raggiungiamo in auto la riva del fiume, dopo un percorso accidentato che ha imposto l’uso delle quattro ruote motrici ed un guado al limite delle portiere (e forse oltre).

Arrivati sulle rive, lasciamo l’auto e dopo mezz’ora di camminata a piedi raggiungiamo il posto di “cattura”.

Ci divertiamo a lanciare in continuazione (pesca col cucchiaino) fino alle 18,30, col risultato di non aver preso niente.

Il piroghiere che abbiamo cercato prima, Bamà, tornando al villaggio transita da noi con la sua imbarcazione, ci vede ed accosta.

Rientriamo al tramonto a bordo di una minuscola piroga che contiene tutti noi, una bicicletta e qualche pesce pescato da Bamà stesso. Navighiamo in equilibrio precario fino alla macchina. Tiriamo l’imbarcazione in secca, ripercorriamo il tragitto inverso, guado e pezzo in fuoristrada fino al villaggio dando un passaggio a Bamà. Saluti e Via.

Prima di rincasare, facciamo una sosta in un panificio per recuperare la pasta per la pizza.

Alla sera Nenè ne sforna quattro teglie.

Dopo cena, ci si rilassa con qualche gioco serale, coi bimbi, poi tutti a nanna in previsione del viaggio da intraprendere.

07 gennaio 2007 – Domenica Sveglia alle 07,30.

Dopo colazione si caricano gli zaini sul Toyota.

Partenza con Alaissan, lo chauffeur che è sempre stato a nostra disposizione.

Dobbiamo raggiungere Djenné in serata, ed i kilometri da percorrere non sono pochi.

Dopo qualche chilometro, facciamo il pieno di carburante ed iniziamo a percorrere la direttrice che, tra brousse e villaggi, collega Bamako a Gao.

Durante il percorso, nel paesaggio brullo che ci circonda, osservo il passaggio di parecchi Buceri che attraversano la strada svolazzando da albero ad albero.

Questa specie di corvide, che vagamente ricorda un tucano, ha la caratteristica di imprigionare la femmina durante il periodo di cova e di svezzamento della nidiata, murandola nel cavo di un albero con l’ausilio del fango, alimentandola tramite il becco che la stessa lascia fuori da un orefizio, cosicché rimanga al sicuro con la prole da eventuali predatori. La sosta nel perimetro esterno di San, al Teryia è d’obbligo, soprattutto per poter gustare un’ottima faraona in salsa (Pintade Roti) con contorno di insalata di fagiolini.

Nikos mangia anche un’insalata di pomodori, lasciando però tutte le cipolle nel piatto.

Paghiamo il conto di 5.700 FFA, salutiamo Ya-Ya, il Boss panciuto che ci ha accolti e via verso la prima tappa.

Prima di uscire da San, dopo qualche chilometro dal ristorante Teryia, accostiamo accanto ad uno dei baobab più vecchi dellla regione. Maestoso, ci lascia esterefatti e senza parole davanti alla sua imponenza.

Il suo fusto funge da casa ad una miriadi di grossi geki, che beatamente aggrappati al tronco si lasciano riscaldare dal sole. Proseguendo sulla strada, dopo San, prima di entrare a Fanà, vediamo un tizio che cammina con un gruppo di cani legati al guinzaglio.

Penso sia una cosa strana incontrare un Dog-Sytter da queste parti, ed esprimo il mio dubbio ad Alaissan.

Alaissan frena immediatamente il mio pensiero, spiegandomi che i cani che abbiamo visto sono destinati al mercato di Fana. I Bobo mangiano carne di cane.

Anche se la cosa, nel posto, è vista come una condizione alquanto naturale, io e Nik incrociamo lo sguardo con aria alquanto stupita.

subito calano cinque minuti di silenzio….Proseguiamo il viaggio.

Dopo aver vissuto la diretta di alcuni “incontri” con un paio di volatili locali, una sorta di grosse gazze di un colore verde scuro brillante, finite miseramente sul parabrezza del veicolo in marcia, finalmente giungiamo al bivio con Djenne.

Da li, per proseguire bisogna transitare necessariamente da una “dogana”, fatta di bidoni vuoti e da una rudimentale sbarra in legno.

Per passare occorre pagare una tassa di 2.000 FFA all’addetto di guardia, che staziona in una casupola accanto.

Forse un militare.

Arriviamo con l’auto fin sulla spiaggia, ai bordi del fiume Bani, un affluente del Niger.

bisogna attraversarlo per raggiungere la città, per cui prendiamo un traghetto al costo di 3000 FFA andata e ritorno. Sbarchiamo sull’altra riva e percorriamo alcuni kilometri prima di raggiungere le prime costruzioni, avvisaglia dell’agglomerato urbano, e percorriamo alcune strette vie prima di raggiungere la destinazione, all’hotel Meefia, dove ci stanno già aspettando.

La costruzione è simile ad una sorta di chiostro. Le porte delle camere degli ospiti si affacciano sul porticato interno. Il cortile centrale, più tardi, ci ospiterà per consumare la cena all’aperto.

Dopo aver sistemato i bagagli in camera, ci accingiamo, prima che faccia completamente buio, a far due passi fino nella vicina piazza del mercato.

Dopo pochi passi, notiamo subito i profili scuri della moschea che guardano la piazza adiacente, fiocamente illuminata da qualche lampada funzionante a 110 V, appesa a guisa di lampione.

Nella semioscurità, ravvivata dalla dalla tonalità arancione prodotta dalla fievole luce, notiamo un certo via vai di persone che si accingono a prendere posto per il mercato di domani. Al ritorno, fuori dall’ingresso, incontriamo Michele, che con sua madre ed un amico di famiglia sono “reduci” da un viaggio in pinasse effettuato sul fiume Niger, con partenza da Tombouctou ed arrivo a Mopti. Ci aspettavano, poiché eravamo d’accordo con Stefano che con loro avremo effettuato un cambio vettura. Noi avremmo preso il loro Toyota land-cruiser con panche frontali posteriori ed avremo ceduto il nostro Toyota con posti a sedere tradizionali.

Ceniamo tutti assieme su un unico tavolo. Il menù prevede zuppa Dogon e carne stufata, adagiata su un piatto ndi cereali (foniò), a loro volta cucinati come una sorta di cous-cous, anguria come frutta e the verde Maliano alla fine.

Dopo cena, approfondiamo la conoscenza con chiacchierando seduti al centro dell’agorà, poi sempre con loro ci accordiamo con una guida, che si fa chiamare John Travolta, per organizzare il tour del giorno successivo.

Siccome abbiamo acquistato una scheda telefonica Orange-Mali, che ci permette di risparmiare rispetto al mio contratto Italiano, cerchiamo di eseguire un settaggio al telefono cellulare sul centro servizi Maliano perché con l’acquisto della scheda abbiamo guadagnato circa 100 SMS gratis ma non riusciamo ad inoltrarne nemmeno uno.

Facciamo qualche tentativo a vuoto. Riusciamo comunque a chiamare i numeri telefonici Italiani ma per i messaggi non c’è nulla da fare. Non siamo proprio capaci di farli partire, pazienza.

Chiamiamo comunque casa, rassicurando tutti, poi, come vuole la tradizione, ci sediamo e facciamo tre “giri” di the verde.

Il primo deve essere bevuto amaro, ed è quello dedicato agli uomini, il secondo leggermente zuccherato ed il terzo molto dolce, il giro delle donne.

Ci congediamo dagli altri dandoci appuntamento per le 08,30 di domani mattina.

Entriamo in camera e dopo aver cercati di far piazza pulita di una miriade di grilli che aveva occupato il locale, montiamo le zanzariere, appendiamo al solito cordino il bucato di calze e mutande e ci mettiamo a nanna alle 22,15 circa. Anche se Nikos è un po stanco,poichè non è ancora abituato a nove ore d’auto, noto in lui un crescente impegno a preparare le cose necessarie ed anche se qualche volta si dimentica di qualcosa ad organizzarsi per il giorno dopo. Bravo. Inoltre vedo in lui un cambiamento comportamentale positivo che, mano a mano passano i giorni, vedo che in lui prende sempre più corpo. Perlomeno il periodo di acclimatamento a Bamako sembrerebbe fosse servito a qualcosa.

Rammento ancora i primi giorni, la prima uscita nel mercato artigiano di Bamako, dove vedevo un ragazzo leggermente perso, poiché doveva ancora uscire dalla mentalità comportamentale Occidentale ed entrare nella mentalità, nel modi di vivere, nel comportamento Africano. Pian piano questa esperienza, questo modo nuovo di vivere sta lentamente, ma inesorabilmente penetrando in lui. Mi auguro solamente che di questo ne possa far tesoro in futuro 08 gennaio 2007 – Lunedì Sveglia e colazione alle 09,00, ce la prendiamo con un po’ di calma.

Come d’accordo, con la guida usciamo a visitare Djenné con le sue case dei 47 Marabùtt, ornate da finestre in puro stile Marocchino. Raggiungiamo la piazza del mercato, ora in splendida attività, e la troviamo stupenda. La moschea stessa, che sovrasta la piazza, fa da cornice ad un arazzo di colori formato da gente, frutta, verdura, tessuti, manufatti, pesce essiccato e quant’altro. Abbiamo il privilegio di gustarci questo andirivieni policromatico anche dal terrazzo di un’abitazione.

Preferisco però scendere ed amalgamarmi alla folla. Faccio un giro nel suo interno ed acquisto quattro metri di stoffa verde che si trasformeranno in comodo copricapo, utile ad affrontare vento e sabbia durante il viaggio. Il mercante mi mostra come trasformare il tessuto in turbante e subito si raduna attorno un cappello di persone, che divertite vogliono dare il proprio consiglio ad un Toubab inesperto. Con un sorriso, accetto il loro contributo.

Successivamente facciamo un giro sulle rive del Bani, osservando un via vai di persone che giungono da ogniddove per raggiungere il mercato.

Tornando verso il centro della città cogliamo l’occasione per far visita ad un rivenditore di Bogolan, splendidi tessuti, di fattura un po’ grezza e dipinti con colori naturali. Ne acquistiamo due, uno con dei motivi geometrici raffiguranti il fiume ed i pesci, con tinta giallastra caratteristica Bozo, mentre l’altro presenta una fattura tipicamente Dogon, con colorazioni simili al cielo notturno. Giunta l’ora del pranzo, ci facciamo accompagnare da “Chez Babà” fissando l’appuntamento con gli altri per il primo pomeriggio.

Mangiamo “poulet roti”, patate, fagiolini e pomodori. Il the verde, come sempre, chiude le portate.

Dopo aver scambiato qualche impressione con un’americana di Los Angeles. Salutiamo, paghiamo il conto, rientriamo in camera e ne approfittiamo per coricarci al fresco concedendoci una buona mezz’ora di relax.

Alle 15,30 partiamo coi 4×4 per visitare un villaggio Bozo.

Il villaggio è un po’ fuori dalle mete turistiche, e per raggiungerlo, percorriamo circa una decina di chilometri su una pista molto ampia, fatta di sabbia compatta..

Giunti in prossimità delle prime casupole che scorgiamo su una bassa altura oltre il fiume, lasciamo le auto sulla riva.

Una mandria di buoi, controllata da un gruppo di nomadi Peul, pascola attorno a noi.

Raggiungiamo la riva opposta con l’ausilio di una piroga.

Dopo il tour e la visita alla moschea, prima di riprendere l’imbarcazione, ci gustiamo la veduta dell’insieme ,da una sorta di spiazzo rialzato con affaccio sul fiume, seduti con gli anziani del villaggio.

Sotto di noi, donne intente a lavare panni e stoviglie, a trasportare legna, bimbi che giocano, si rincorrono o si tuffano in acqua, uomini affaccendati a dialogare tra loro.

Riprendiamo la stessa piroga, raggiungiamo le auto e torniamo sui nostri “passi”. Incrociamo alcuni carri trainati da buoi che tornano dal mercato. Faccio fermare l’auto e scendo a fare qualche foto, poi proseguiamo verso un villaggio Pehul, a qualche chilometro da li. A differenza del primo, questo è costruito su un terreno completamente piatto.

Le case in bankò, erette secondo i canoni costruttivi dell’architettura Sudanese, sembrano una morbida continuazione naturale del terreno. Il paesaggio attorno è desertico. Il tutto riveste un fascino particolare. La vita trascorre ammantata da tranquillità e nel silenzio, rotto solamente dal vociare di alcuni ragazzini che ci vedono e fanno festa.

Rientriamo per cena e rimaniamo a chiacchierare fino a mezzanotte con Michele, sempre seduti nell’Agorà dell’hotel, dopodichè, il solito bucato e ci si infila nei sacchi a pelo per la notte.

09 gennaio 2007 – Martedì La Sveglia suona alle 07,30. Con gli occhi un po’ arrossati dal sonno ci togliamo dalle “brande”, richiudiamo accuratamente le nostre due zanzariere, ritiriamo i panni asciutti stesi sulla corda piazzata in camera, prepariamo gli zaini e dopo l’ultimo saluto alla miriade di grilli che ormai hanno avuto la meglio su di noi ed hanno preso possesso dell’intero pavimento della stanza, ci trasciniamo a far colazione. Carichiamo i bagagli un po’ lentamente, quasi non volessimo lasciare il posto.

Con un po’ di nostalgia negli occhi, ci allontaniamo da Djenné e facciamo rotta verso nord. Direzione Mopti.

Al bivio per la città, svoltiamo a destra, ad est, verso Bandiagara.

Prima di giungere a Bandiagara, facciamo una tappa al villaggio di Songhò per recuperare Talita, una Brasiliana di San Paolo che con Denise segue un progetto sulla migrazione delle popolazioni in Africa.

Sono alloggiate da diversi mesi in una casa del villaggio, messa a loro completa disposizione.

Dormono in una tenda ad igloo piazzato in un locale largo quanto la tendina stessa.

L’accoglienza è festosa sia da parte loro che da parte del villaggio stesso.

Dopo il consueto the verde, offertoci, con Soumeilà, un ragazzo di 28 anni che ci fa da guida visitiamo il villaggio e proseguiamo arrampicandoci sulla falesia, dove ci viene mostrato l’antro della circoncisione (ancora oggi praticata con l’infibulazione).

Le pareti rocciose che racchiudono il sito sono coperte da innumerevoli raffigurazioni.

I dipinti rupestri raffigurano le cinque famiglie del villaggio, il serpente che assiste al rito ed altre ancora raffiguranti volti e personaggi sia del luogo che della fantasia.

Passiamo accanto alla dimora dei ragazzi che subiscono il rito, che devono rimanere per qualche tempo lontano dal villaggio e proseguiamo su un sentiero che ci porta fino ad uno sbalzo naturale nel vuoto. La vista dall’alto sul villaggio è stupenda. Un monolite di roccia si staglia ad ovest mentre i colori caldi della savana fanno da cornice alle miriadi di abitazioni amalgamate ed accalcate le une sulle altre, quasi fissero un’unica costruzione.

Il tempo di scattare alcune foto ed iniziamo a scendere nuovamente verso i piedi dello strapiombo.

Attraversando il villaggio, passiamo da alcuni artigiani ed acquistiamo due coltelli Dogon. Cerco di trattare anche un acciarino costituito da un pezzo di metallo e da alcune pietre focaie, il tutto inserito in una piccola custodia di pelle, ma non riuscendo a spuntarne il prezzo, desisto, pensando di trovarne altri più avanti. Mi sono sbagliato…..Non ne troverò di simili.

Ripartiamo con gli altri e con Talita a bordo dirigendoci a Sanghà.

A Bandiagara facciamo una sosta, dove ci attende la moglie di un medico italiano, Piero Coppo.

Andiamo tutti assieme a pranzare in un ristorante gestito da un Congolese.

Il pollo alla brace è ottimo mentre l’anguria non è un gran che, però è fresca e disseta.

L’intenzione è quella di farci un caffé italiano.

Con Michele andiamo al fuoristrada per recuperare la moka ed il caffè che ho portato dall’Italia, ma purtroppo il tempo vola e ci accorgiamo che siamo un po’ in ritardo rispetto alla tabella di marcia.

Dobbiamo impegnarci ancora per un paio d’ore su un percorso in fuoristrada per raggiungere Sanghà e non sarebbe consigliabile affrontarlo al buio.

Peccato, sarà per un’altra volta. Salutiamo e partiamo.

La strada che si addentra nel cuore del paese Dogon è fantastica.

Terra rossa, baobab, palme, alberi d’alto fusto colorano il terreno. Il tutto è assemblato e suddiviso da rocce a placche e verdissimi campi di cipolle coltivate a scacchiera.

Giungiamo al campement quando ormai il sole si adagia sull’orizzonte.

Il posto è gradevole, l’organizzazione è ancora un poco carente ma questo non è assolutamente un problema (si organizzeranno meglio in futuro).

Ci assegnano le camere.

Nik fa una doccia mentre io faccio un giro fuori dall’albergo per godermi la fantastica stellata che si apre a 360° sull’orizzonte.

Attendo gli altri seduto sotto una tettoia all’interno della struttura.

Ci raggiunge la guida che avrebbe dovuto accompagnarci nei vari tour, Souliman, che purtroppo ha avuto un incidente e non riesce a camminare molto bene. Ci dice di non preoccuparci perché comunque ci farà trovare un’altra guida fidata.

Con tanto di piantine alla mano, organizziamo intanto con lui i tour dei prossimi giorni.

L’indomani visiteremo un pezzo di falesia, alcuni villaggi ed il tipico mercato di Sanghà.

Successivamente, dedicheremo gli altri giorni di permanenza solo alla falesia per visitare i vari villaggi.

Dopo la doccia, provo a chiamare casa direttamente col telefono dell’albergo perché i cellulari non ricevono.

Pago una tariffa abbastanza cara (3.500 FFA ogni 3 minuti di conversazione), pazienza. Raggiungo gli altri a tavola.

Si cena con un primo piatto a base di brodo di cipolle (zuppa Dogon) ed a seguire, carne brasata di montone con cereali, un po’ filacciosa ma gustosa, contorno di patate fritte.

A tavola siamo in cinque, io, Nik, Talita, Michele e sua madre. Luigi ha preferito la branda.

Beviamo 4 litri d’acqua e 5 bibite (birre o aranciate). Forse si era un po’ disidratati.

Dopo cena, le solite quattro chiacchiere con Michele, Nikos e Talita. Si discorre di tutto e di più in francese, italiano, inglese e brasiliano, poi saluto la compagnia e raggiungo la camera. Stendo il solito cavo, faccio il solito bucato e mi infilo a nanna. Nik mi raggiungerà più tardi.

10 gennaio 2007 – Mercoledì Sveglia alle 07,30. L’appuntamento con gli altri è alle 8,00 .

Dopo aver fatto colazione con acqua calda da trasformare in the con bustine Lipthon o caffelatte con latte in polvere e Nescafé, pane con burro e marmellata ci riuniamo attendendo la guida.

Sekou Ogobara Dolò, il responsabile del “Bureau de Guides” ci manda Gadioulà Dolò, che rimarrà con noi e ci condurrà nei vari tour previsti nel periodo di permanenza in loco.

Percorriamo coi 4×4 il tratto che dal campement arriva al baratro naturale sul plateau sommitale della falesia, passando per campi di cipolle e “barrages” artificiali costruiti dai Dogon. Strada facendo ci fermiamo ad osservare un “veggente” Dogon, che consulta alcune impronte d’animale.

Giungiamo al punto concordato, lasciamo le vetture e percorriamo a piedi un minuto sentiero che dopo aver attraversato un tunnel naturale nella roccia, sfocia sulla sommità di una gigantesca spaccatura verticale che precipita verso il basso.

Ci dirigiamo verso la parte il fondo valle.

Il sentiero è percorso da innumerevoli portatori che con grande eleganza risalgono lo stesso portando sul capo pesi inverosimili.

La cosa che stupisce maggiormente è che la grande maggioranza di queste persone, prevalentemente donne e di qualsiasi età, trasporta sul sentiero accidentato enormi pentoloni pieni di brodo o acqua senza rovesciarne una sola goccia.

Alla base della falesia ci accoglie il villaggio di Bananì.

Sentieri che si insinuano tra grosse pietre dividono qua e là costruzioni coniche o a tronco di piramide allungata, fatte in pietra e fango, con un cappello costituito da rami d’albero. I granai.

Granai maschili, ad unico scomparto e granai femminili a due piani e quattro scomparti per piano.

I villaggi sono generalmente punteggiati da enormi Baobab, che in questa stagione non hanno foglie ma hanno i frutti pendenti.

Comperiamo due frutti esiccati e lavorati, che suonano come due maracas. I nativi estraggono la polpa attraverso alcuni fori praticati sulla corteccia e lasciano all’interno del frutto svuotato solamente i semi.

Mentre visitiamo il centro del villaggio, Gadioulà ci illustra uno dei modi di intendere la vita e la morte nella cultura Animista Dogon.

Il corpo del defunto raggiunge il paradiso o l’inferno mentre l’anima si reincarna in un nuovo membro della famiglia. Il nuovo nascituro prenderà così il nome dell’avo passato a miglior vita.

Per sapere chi è l’avo reincarnato, la famiglia passa da uno sciamano che rilascia le sue predizioni dopo aver letto la posizione delle impronte della volpe che lascia accanto al paletto di famiglia, sotto il quale è stata depositata un’offerta in cibo (solitamente arachidi macinate). Ci mostra dove le salme vengono tumulate, issate con corde in loculi abbarbicati sulla parete rocciosa e ci illustra la storia della penetrazione Dogon negli antichi luoghi dominati tempo or sono degli originali abitanti delle zone, una razza di origine pigmea, i Tellem.

Le generazioni “residue” della popolazione Tellem, allontanata dai nuovi abitanti, ora si trova poco distante a Sud-Ovest, nel Burkina Faso.

Proseguiamo il viaggio camminando sulle alture in costa, fino a raggiungere un secondo villaggio.

Michele ha una leggera diatriba con due donne che pestavano i cereali, che lo accusano di averle fotografate senza il loro permesso.

Sedata la discussione, con strette di mano e sorrisi, raggiungiamo gli altri al centro del villaggio, accanto al Togu-nà, la casa della parola.

I saggi del villaggio sono letteralmente sdraiati nel suo interno, poiché la costruzione è eretta volutamente bassa, cosicché chi discute e si arrabbia, nel momento in cui si alza colto da uno scatto d’ira, batte il capo e necessariamente deve adagiarsi e calmarsi per continuare la conversazione con toni pacati.

Gli altri “anziani” sono seduti all’esterno.

Questi ultimi mi chiedono una sigaretta ed io in cambio chiedo loro di poter accendere la mia con la loro pietra focaia.

Mi fumo una sigaretta accanto a loro, cercando di dialogare seduto vicino al Togu-nà.

Completiamo la visita scendendo verso la pianura, dove le due 4×4 ci aspettavano.

Prima di salire in auto, ci fermiamo in un piccolo ristoro.

Unite tre stanze di una casa, messo un frigorifero alimentato da un generatore a pannelli solari che producono i 110V accumulati in alcune batterie, posate alcune sedie e dei tavoli bassi, sono pronti ad offrirci per 500 FFA una bibita fresca.

Fuori ci saranno circa 35°, l’interno invece è ben isolato ed abbastanza fresco, poiché il fango essiccato lascia all’esterno il calore.

Saliamo quindi sui mezzi e prendiamo la via del ritorno risalendo nuovamente la falesia. Lo spettacolo d’arrampicata dei 4×4 risulta alquanto divertente.

Il paesaggio visto dalla sommità della piattaforma basaltica è da mozzafiato e ne approfittiamo per scattare alcune immagini.

Ripercorriamo i campi di cipolle di Sanghà ed arriviamo al campement per pranzo.

Ci servono melanzana fritta, carne e riso.

Fissiamo l’appuntamento alle 16,00 circa con la guida per visitare il mercato. Ci andremo a piedi.

Il mercato, tutt’altro che turistico, è un’assembramento di gente locale. È un’insieme di persone, animali e prodotti che formano una patchword composta da un’infinità di tonalità cromatiche.

Qui si può trovare di tutto. Dall’uomo che vende rapaci alla donna che espone foglie di tabacco per pipa, da colui che frigge pezzetti di carne in padella a chi commercia tessuti, persino bimbi che vendono succo d’arancia in sacchetti di plastica trasparente, racchiuso a guisa di piccola palla.

Insomma, un grogiuolo fantastico di volti, di espressioni, di mercanzie e di dialetti.

Non essendo un mercato nato per turisti, non siamo l’oggetto principale d’attrazione, anche se percepiamo gli sguardi interrogativi della gente che via via incrociamo. Chiacchieriamo qua e la e giriamo curiosando i vari prodotti in differenti luoghi, perdendoci e ritrovandoci a vicenda.

Usciamo dal groviglio di persone per addentrarci nuovamente in città.

Io e Michele lasciamo andare avanti gli altri, ci guardiamo prima attorno e poi in faccia e decidiamo di lasciare il gruppo per addentrarci verso la savana.

Attraversiamo i campi di cipolle chiacchierando con le raccoglitrici.

Scattiamo alcune foto con un gruppo di bambini vicino ad un pozzo.

Proseguiamo verso il campement e passiamo da una scuola, dove ci vedono e subito si mettono a vociare.

Veniamo allora invitati in classe dal maestro.

La classe è la sesta, un po’ come la prima media in Italia. Il Maestro, Attiè Guinda, patito di calcio italiano, ci dice che sovente segue le partite per radio. Sale un leggero imbarazzo tra me e Michele poiché nessuno dei due ci capisce un gran che di calcio.

Rompo il ghiaccio disegnando il volto di paperino sulla lavagna, mentre Michele mostra le foto appena scattate alla classe.

Promettiamo al Maestro di spedire le foto scattate all’indirizzo che ci lascia scritto su un pezzo di carta e rientriamo alla base.

Ci ritroviamo con gli altri sotto la ricostruzione del Togu-nà del campement per accordarci sulla cena.

Ceniamo con la solita zuppa di cipolle, montone in salsa e riso.

Si ritorna sotto il Togu-nà per le consuete chiacchiere serali.

La madre di Michele (Elvira) e Luigi si ritirano per primi, dopo i saluti per la loro partenza di domani. Verso le 11,30 Talita ci saluta e cinque minuti dopo, anche Nikos si reca a nanna.

Rimaniango con Michele a “filosofeggiare” in compagnia di qualche sigaretta ed una birretta Castel. Parola dopo parola, ci accorgiamo dell’orario ormai tardo e verso la 01,30 ci salutiamo dandoci appuntamento in Italia. 11 gennaio 2007 – Giovedì Ci si sveglia alle 06,15, praticamente è quasi come fossi in coma, solita colazione e partenza alle 07,00.

Usciamo con la 4×4 da Sanghà e procediamo verso Nord, percorrendo per chilometri una pista che costeggia la falesia.

Troveremo la meta a circa una trentina di kilometri dal villaggio di Bananì. La pista in savana presenta diversi tratti sabbiosi, ma Alaissan è un bravo pilota e non corriamo il rischio di rimanere insabbiati.

Giunti sul posto, lasciamo l’auto, scendiamo ed iniziamo la marcia in salita, per raggiungere i villaggi di Yogo-Na, Yogo-Piri e Yogo-Dogourou.

Ci accordiamo con Alaissan perché venga a prelevarci dalla parte opposta dell’altura.

I villaggi che incontriamo hanno costruzioni di origine Tellem, successivamente occupate dai Dogon. Le persone, come sempre, non gradiscono essere fotografate, ma grazie alla scaltrezza di Nik ed allo schermo mobile della macchina fotografica, per lui non riveste un grosso problema riuscire ad aggiungere scatti di persone al carnet di foto. La morfologia del territorio prevede un percorso che si incunea in faglie verticali a strapiombo dove occorre affrontare alcuni passaggi in strettissimi canyon.

Il tratto che insiste nelle fenditure si snoda attraverso sbarramenti artificiali costruiti dai Dogon nelle gole per trattenere una riserva d’acqua.

Ci si arrampica, nel vero senso della parola, fino a raggiungere il plateau sommitale a circa 600 metri di altezza.

Non basta raccontarlo, bisogna essere li per osservare un paesaggio da mozzafiato. La savana sottostante si staglia all’infinito sotto di noi. L’orizzonte, sfumato dal pulviscolo sollevato dall’Harmattan dona una particolare connotazione al quadro che si presenta ai nostri occhi.

Ci si ferma a contemplare quanto si staglia sotto di noi a 360°.

Seduti su delle pietre piatte, fumo una sigaretta con Gadioula mentre Nikos si sdraia a prendere un po’ di sole.

La discesa impone il valico della falesia da Nord a Sud.

Scendendo, vedo giù in basso su una distesa rossastra un puntino bianco, sotto un’enorme acacia. È Alaissan, che puntuale come sempre, ci stà attendendo.

Saliamo sull’auto e proseguiamo per vedere di riuscire a mettere qualcosa sotto i denti.

Troviamo un posto dove ci cucinano del montone, infilato in spiedini, accompagnato da riso condito con sugo di pomodoro, patate ed immanchevoli cipolle.

Dopo aver pranzato, vista la temperatura elevata, ci concediamo una siesta di un paio d’ore sul tetto della casa, sotto un pergolato di paglia, accarezzati dal vento.

Dopo il pisolino, proseguiamo per andare a visitare i villaggi di Goumon e Nenì.

Solite cerimonie di interminabili saluti, noci di Colà come omaggio, un saluto particolare ai capi villaggio e foto richieste dagli abitanti stessi, che spediremo alla guida, una volta rientrati in Italia, cosicchè possa consegnarle.

Rientriamo al Campement alle 18,00 circa.

Un po’ di relax e solito brodo di cipolle per cena, che Nikos rifiuta e finisce nella mia ciotola. A seguire gustiamo un abbondante cous-cous ed un piatto di banane alla fritte.

La doccia rilassante ed il solito bucato precedono la buona notte.

Domani sarà un’altra “tirata”.

12 gennaio 2007 – Venerdì Ci si sveglia alle 06,15. Colazione e partenza alle 07,00. Sosta a Bananì per acquistare 1.000 FFA di noci di Colà.

Alaissan e Gadioulà fanno colazione in auto con pollo arrostito.

Questa volta si prosegue sempre più a nord su una pista prevalentemente sabbiosa. La prima parte del tragitto è inframmezzata da alcuni passaggi “inclinati” per poter superare diversi carretti trainati da somarelli o buoi, affrontiamo anche diversi guadi asciutti, per via della stagione secca. Il percorso si articola in un territorio tagliato da grosse dune la cui superficie è coperta da una bassa vegetazione ormai appassita. La traccia sul terreno prosegue e si snoda tra zone interamente coperte da sabbia che vanno ad amalgamarsi con fondi di natura rocciosa Raggiungiamo la meta prevista entrando col Land-Cruiser tra due enormi massi. Lasciamo l’auto e ci inoltriamo su un sentiero che percorre terrazzamenti basaltici in una foresta di baobab. Entriamo nel villaggio e notiamo un’architettura leggermente differente da quelli visti in precedenza. Qui le forme sono meno spigolose e più arrotondate. Anche i Togu-nà sono costruiti diversamente da quelli finora incontrati. Eretti con l’utilizzo di pietra ricoperta di fango, hanno la base circolare. Anche i cappelli dei granai non sono costituiti da rami d’albero, ma da fascine fatte con stocchi di grano legati assieme.

Il percorso concordato con la guida si rivela molto appagante poiché esula dai consueti passaggi turistici. Visto dall’alto, Il paesaggio sullo sfondo si presenta contornato da campi, disegnati a scacchiera, dove vengono coltivate cipolle, pomodori e tabacco. Il villaggio si presenta alquanto tranquillo. La maggior parte della gente è riversata in savana a cercare sostentamento o nei campi a coltivare ortaggi.

Torniamo verso l’auto passando per le coltivazioni e chiacchierando qua e la con qualcuno.

Mentre Nikos raggiunge il mezzo con la guida, io proseguo a piedi.

Percorro qualche chilometro nel silenzio, gustandomi il paesaggio da un nuovo punto d’osservazione. L’incanto viene rotto solamente dopo una ventina di minuti circa, al sopraggiungere della vettura che mi carica a bordo.

Tornando sui nostri “passi” decidiamo di fermarci in un posticino accogliente per gustarci del montone in salsa accompagnato da cous-cous.

Si pranza sotto una replica di Togu-nà e dopo aver gustato il cibo, Nikos si butta su un materasso per la siesta, in un corridoio della costruzione, ombreggiato ed arieggiato.

Io scambio quattro chiacchiere col proprietario, che mi mostra un antico fucile ad avancarica. Vuole mostrarmi la sua funzionalità. Carica con polvere pirica l’acciarino dell’arma e me la fa impugnare. Premo il grilletto facendo scattare il cane, col risultato di una piccola fiammata ed grossa fumata bianca. Mi presenta poi una ragazza che vende Bogolan, ed un artigiano scultore che mi mostrano i loro prodotti. Osservo per un po’, poi esco per fare una passeggiata nella savana per un’oretta circa, solo.

Silenzio rotto solamente dal sibilo del vento, alcuni suoni dati dal vociare di qualche uccello e rumore ovattato dei miei passi sul morbido terreno polveroso.

Incontro una mandria di grossi buoi, guidata da quattro Peul. Saluti interminabili ed un vago tentativo di comunicazione, un misto di Bambarà-Franco-Italiano e chissà quale altro idioma. Qualcosa abbiamo inteso e qualcosa ci siamo persi. Abbiamo comunque comunicato. Capisco che devono portare la mandria in prossimità di alcuni pozzi, per l’abbeverata.

La mandria si allontana verso sud, io proseguo verso nord-ovest.

Dopo un paio di chilometri, nei pressi di un albero solitario, un uomo lavora un tronco per poterlo dividere in due con un’ascia rudimentale. Mi fermo e mi siedo accanto. L’uomo parla solo lingua Dogon, qualche parola di francese ed un inglese arrabattato, frutto della sua passata esperienza in Congo. Rimango seduto accanto mentre continua a lavorare. Dopo un po’, mi alzo, saluto e continuo per la mia strada. Il caldo fa salire la temperatura che raggiunge i 35°. Dopo un chilometro circa, giro verso ovest e ritorno a sud. Raccolgo alcuni grossi semi da terra, “staranno bene in un contenitore di vetro nella mia cucina in Italia”.

Arrivo nei pressi del “ristorante” e vengo chiamato dalla ragazza che voleva vendermi i tessuti. Mi invita nel cortile di casa sua, dove faccio conoscenza col resto della famiglia di artigiani. Stanno lavorando e sono impegnati ad assemblare collane. Chiacchiero un po’ seduto con loro. L’uomo che è intento ad affilare una lama dice di avere la mia stessa età e la ragazza è sua figlia di 17 anni. Spiego che anch’io ho un figlio di quasi 18 anni, che stava riposando poco distante da lì. Mi parlano del loro lavoro e la loro condizione, io cerco di spiegare cosa faccio invece al mio paese. Dopo aver sorseggiato un bicchiere di the, saluto e mi dirigo da Nikos, lo sveglio, pago il conto e proseguiamo verso un mercato.

Il posto è un crocevia di gente e costumi differenti. Uomini avvolti in turbanti, donne dagli abiti coloratissimi. Alcune di esse sfoggiano per l’occasione vesti molto eleganti, orlate da gioielli variopinti e da un trucco molto accentuato. La merce esposta è per la maggior parte libagione. Il posto non ha caratteristiche tali da configurarlo come luogo d’attrazione prettamente turistica per cui non troviamo collane o monili in vendita ma tuberi, cipolle, noci, noccioline, verdure, tabacco e spezie. C’è anche una zona riservata alla macellazione, dove dividono e vendono la carne, sia cruda che cotta su grandi griglie appoggiate a dei fusti di cherosene vuoti. La guida acquista dei pezzi di carne per la famiglia, affettata su un tagliere coperto da un foglio di cartone impregnato dagli umori rilasciati dalla carne stessa.

Si ritorna nel campement.

Ci buttiamo sotto la doccia per toglierci di dosso la polvere accumulata durante la giornata e ci avviamo verso la sala da pranzo.

Nik, stufo di cipolle, prima di iniziare a cenare, chiede al cuoco che la sua razione sia cucinata senza.

Mangiamo, saldiamo il conto sia al Capo delle Guide che all’albergo.

Prima di addormentarci, prepariamo con cura gli zaini.

la nostra permanenza tra le falesie del paese Dogon compie il giro di boa. Domani partiremo per raggiungere il fiume Niger.

13 gennaio 2007 – Sabato Sveglia alle 07,30 e partenza con l’idea di raggiungere Mopti.

Lasciamo alle spalle il paese Dogon portando con noi le emozioni che ci ha regalato.

Nik vuole passare da Songhò per salutare Talita.

Molto prima di mezzogiorno, raggiungiamo il villaggio, dove ci accolgono festosi. Sorrisi ed abbracci con tutti. Troviamo anche Louise, una ragazza Portoghese, che ha raggiunto Talita e Denise.

Ci offrono subito un the e Nik contraccambia con un caffé che apprezzano tutti. Contatto Stefano telefonicamente e con lui abbiamo un’idea: chiediamo a Talita, Denise e Louise di aggiungersi alla compagnia in pinasse per la navigazione. L’idea funziona, accettano Talita e Louise, mentre Denise da forfait. Va bene lo stesso, saremo in quattro.

Mentre Nik chiacchiera con gli altri, mi intrattengo a giocare coi bimbi del villaggio. Calcio, pallamano, freccette ed una sorta di Basket. Verso le 13,00 veniamo invitati a pranzo in famiglia. Nik accetta e rimane con gli altri a sperimentare la cucina locale del villaggio, dove tutti mangiano assieme in un unico piatto, utilizzando le mani.

Prudentemente però estrae le sue posate pieghevoli e tra “furti di cibo” e grasse risate, riesce a mettere qualcosa nello stomaco.

Io intanto con Alaissan, raggiungo Mopti, per contattare i piroghieri che ci trasporteranno sul fiume.

Su un terrazzo di un ristorante che si affaccia sul porto, contratto con loro i vari costi da sostenere, tra l’altro già preconcordati anche da Stefano.

Trattiamo il costo dell’imbarcazione, del carburante e dei viveri di base per la cucina.

Conclusa la trattativa, mentre i piroghieri si allontanano per preparare l’imbarcazione, mi gusto un “capitaine grillé” in compagnia di Alaissan, che però si “butta” sul solito cous-cous.

Con una guida locale, organizzo un breve tour lungo il porto e dentro il mercato. Ci incamminiamo. Un grande velo di terra bruna è adagiato su tutta la città.

Perfino le foglie di alcune piante spontanee ne sono coperte e le scarpe assumono una colorazione rossastra. Faccio un giro all’interno del mercato che si affaccia sul porto, scatto alcune immagini, visito la fabbrica delle piroghe e ritorno sui miei passi per raggiungere Hamar ed Hamman che mi mostrano la pinasse, già carica di quanto necessario per il viaggio e già pronta per salpare.

Nella parte posteriore, a poppa, trova posto un barile di carburante, a seguire una struttura di tela grezza che funge da toilette, poi il posto del motorista, la cambusa con le riserve di cibo, la cucina vera e propria con un paio di fornelletti in lamiera funzionanti a carbone, il posto dell’equipaggio e quattro scomparti riservati a noi dei quali uno dovrà essere utilizzato esclusivamente per i bagagli e le scarpe. A prua trovo ancora un altro bidone di carburante, un anfora di terracotta ed un lungo puntone in ferro utilizzato per fermare la barca a riva.

L’imbarcazione è sormontata da una struttura in legno arcuato che funge da tetto, ricoperta in stuoie. Sopra il tetto, sono stati posti debitamente legati, i quattro materassi che verranno utilizzati per la notte.

Lascio 2.000 FFA alla guida che mi ha accompagnato ed altri 2.000 FFA perché vada ad acquistare le noci di Colà, da lasciare a bordo e da utilizzare come dono ai capi villaggio che andremo ad incontrare lungo la navigazione.

Rientriamo a Songhò dopo aver meticolosamente riempito i due serbatoi del Toyota, visto che Alaissan ci precederà con l’auto via terra per poi attenderci al porto di Tombouctou.

Pernotteremo in un piccolo campement poco distante dall’abitazione delle ragazze.

Prima di rientrare, cerchiamo in vari punti di un mercato, di acquistare un sacco da 25 chili di riso per il villaggio.

Dopo vari tentativi a vuoto, lo troviamo in un magazzino posto all’interno di un quartiere di un villaggio, ad un prezzo abbastanza abbordabile.

Raggiungiamo il villaggio, consegniamo il sacco di riso ed andiamo a portare i bagagli nella camera del campement.

Sono passate le 18,00 e dopo quest’ora, i pannelli solari che caricano gli accumulatori, devono servire esclusivamente a produrre energia elettrica per l’illuminazione delle stanze, per cui niente forza motrice per le pompe che servono l’acqua nei bagni delle singole camere, quindi ci si lava con un paio di secchi d’acqua prelevata da un pozzo poco distante.

Visto però che la corrente c’è, ne approfittiamo per ricaricare le batterie del cellulare (anche se qui riceve solo MaliTel e non Orange) e quelle della macchina fotografica.

Siamo gli unici ospiti e mangiamo, sotto un cielo stellato, su un tavolo basso ed illuminato da una lampada portatile. (la luce elettrica c’è solo nelle camere).

Ci viene cucinata dalla cuoca, Couroutoumi, della carne di montone abbinata al solito contorno di cous-cous.

Amadou, il capo, ci mostra la cucina e la sala da pranzo interna. Con orgoglio ci illumina con la torcia elettrica i sei lampadari in cristallo che sono stati piazzati quando la banca mondiale ha sovvenzionato la costruzione della struttura.

Peccato che l’elettricità nei due locali non arriva e quindi, la sala da pranza “giace” abbandonata a se stessa, mentre la cucina viene utilizzata solamente con l’ausilio di torce elettriche.

Aspettiamo che gli altri ci raggiungano dopo cena, e quando arrivano al campement, ci si raccoglie assieme per le solite quattro chiacchiere, dopodiché si va tutti a nanna.

Si procede al solito bucato, steso in camera per il giorno dopo e ci si infila sotto alle zanzariere. Buona notte 14 gennaio 2007 – Domenica Sveglia alle 06,30. Prepariamo i bagagli e raggiungiamo ”l’agorà” del campement, dove ci aspetta la colazione. Ci presentano latte in polvere, nescafé, marmellata, maionese e delle ottime frittelle simili in tutto e per tutto ai “tortelli di carnevale” italiani. Nel contempo arrivano anche Talita e Louise, coi loro bagagli.

Carichiamo la 4×4 alle 07,45 e partiamo verso il porto di Mopti.

Arriviamo alla pinasse e traslochiamo gli zaini dalla vettura all’imbarcazione. All’appuntamento, ci attendono anche Sadju la cousinier e le petite Mussà, un ragazzino dodicenne che, nel corso della navigazione, si rivelerà veramente un “tuttofare”.

Saluto Hamman e Hamar (copia esatta dell’attore statunitense Eddye Murphin) e li presento al resto dei naviganti. Nel frattempo, Nik e le ragazze acquistano da un’ambulante i turbanti per la navigazione.

Salutiamo Alaissan e saliamo, lasciando le scarpe a prua, con tutti i nostri bagagli e ci allontaniamo dalla riva. Iniziamo la navigazione sul Niger, chiamato “gher-n-igheran”, il fiume dei fiumi, in Berbero. Togliamo l’amaca dallo zaino e la stendiamo su un lato dell’imbarcazione. Iniziamo la prima tappa verso Youvarou.

Durante il tragitto, contattiamo qua e là qualche pinasse di pescatori Bozo per acquistare del pesce, trovando l’occasione di fermarci a riva per cambiare 3.000 FFA con un bel Capitaine, un persico del Niger, che ci sarà servito a pranzo.

In navigazione, Nik e le ragazze rimangono sul tetto della Pinasse mentre io curioso la pulitura e la preparazione del pesce che verrà prima fritto e poi passato nella verdura cotta e servito assieme al riso.

Rimango un po’ sdraiato ad ascoltare la musica proveniente dalla cassetta della radio-mangianastri di bordo che riproduce i suoni di un artista Maliano che ricorda un po’ Jimmy Handrix. Chiacchiero un po’ con l’equipaggio e continuo a gustarmi il viaggio in compagnia di vecchie canzoni di Bob Marley. Il fiume è orlato ora sulla riva destra, ora su quella di sinistra da erbe acquatiche (Bourgou), utilizzate dagli allevatori Peul come pascolo per le mandrie. La cosa particolare è che quando queste erbe insistono sulla parte destra del fiume, la sponda sinistra si presenta sabbiosa e desertica, mentre quando le stesse crescono sulla parte sinistra allora è la riva destra a mostrarsi arida. Facciamo una prima sosta al villaggio di Sabà e visitiamo una moschea costruita in terra cruda (bankò) che presenta delle tinte strabilianti che tagliano orizzontalmente le pareti esterne della costruzione. I colori vanno dal giallo ocra al verde pastello. Il gioco di luci, creato dalle ombre verticali proiettate dalle palificazioni inserite nelle pareti stesse, quasi fossero colpi di pennello, completa la scenografia grafica della costruzione.

Offriamo cinque noci di Colà al maestro della scuola coranica, come ringraziamento per il permesso concessoci relativo alla visita della moschea, sul terrazzo della sua abitazione .

Salutiamo e risaliamo a bordo, dove ci aspetta un mega piatto di riso, condito con un sugo a base di verdure, cipolle e peperoncino. Sopra il piatto, fanno bella mostra un paio di tranci di pesce.

Banane ed arance per frutta chiudono il pranzo.

Continuando la navigazione entrando in una deviazione del fiume, un ramo laterale abbastanza stretto, i cui bordi sono contornati da erbe e da giunchi. Una miriade di uccelli acquatici svolazza attorno al nostro passaggio. Gruccioni, martin pescatori che, con innumerevoli tuffi ci deliziano la vista, voli di falchi pescatori intenti a perlustrare il nastro d’acqua che scorre sul territorio sottostante, aironi bianchi, grigi e rossi, immobili sulla riva, in posta su qualche passaggio di pesci. Riusciamo a scorgere anche un paio d’aquile.

Navigando osserviamo svariate imbarcazioni che solcano le acque o tranquillamente ormeggiate sulla riva. Semplici piroghe, di legno scuro, con la prua dipinta a colori vivaci, che conducono i pescatori in luoghi propizi per la pesca oppure delle pinasse “commerciali” che percorrono lunghi tratti .

Le imbarcazioni sono generalmente condotte dai Somono, i trasportatori fluviali.

Cariche all’inverosimile, imbarcano di tutto, bestiame compreso. Grosse o piccole, queste hanno in comune una cosa, la costruzione. Tutte e due sono costruite con l’utilizzo di due tronchi scavati ed assemblati tra di loro.

Per la pesca, invece, vengono generalmente utilizzate le reti da fondo ed in alcuni casi gli Arponi o Giacchi, reti circolari che vengono lanciate in acqua con movimenti quasi rituali, ripetuti ormai da innumerevoli generazioni.

Nella pesca “passiva”, vengono utilizzate delle enormi nasse costruite con legno e giunchi intrecciati. Quest’ultime vengono posate quando le acque tendono a ritirarsi ed i pesci seguendo percorsi definiti dall’istinto, si incuneano in canali noti anche ai pescatori stessi.

Notiamo anche le prime vele che leggere fluttuano sul nastro d’argento.

Costruite con l’ausilio di sacchi di cereali aperti e cuciti fra di loro, queste imbarcazioni, con lo scafo identico alle piroghe, sfruttano il vento costante di Nord-est, l’Harmattan, per poter risalire il fiume. Questa particolare condizione del vento, fa si che la navigazione del Niger avvenga a vela percorrendo la strada che conduce a monte mentre la discesa, che si effettua controvento, pur avendo la corrente favorevole, deve essere fatta necessariamente a forza di braccia.

Sono quasi le 17,00 quando approdiamo su un isolotto del fiume accanto ad un piccolo villaggio di pescatori Bozo. Un gruppo di bimbi si avvicina incuriosito mentre montiamo per la prima volta la tenda ad igloo portata da casa, su dei sopralzi in terra battuta utilizzati dagli abitanti del villaggio per stendere il pescato ad esiccare.

Prepariamo la legna per il fuoco, acquistata qualche ora addietro da un venditore su una piroga. Fa buio presto e mezz’ora dopo l’approdo inizia ad imbrunire.

Prima di accomodarmi per la cena, decido di fare quattro passi per raggiungere le prime case del villaggio che si trovano ad un centinaio di metri distante da noi. Proseguo su un terreno la cui consistenza lascia un poco a desiderare, con l’ausilio dell’illuminazione data dalla mia torcia elettrica. Devo comunque fare un po’ d’attenzione perché, nonostante cerchi di far attenzione, a volte lo scarpone affonda nel fango.

Si cena sull’imbarcazione alla luce fievole di una lampada a petrolio, con la compagnia di un pellicano, che per niente disturbato dalla nostra presenza, compie delle volute attorno allo scafo, attendendo fiducioso qualche avanzo di cibo.

Cous-cous con legumi, patate e banane fritte. Ci si trattiene a bordo per le solite chiacchiere in compagnia di un the verde, poi verso le 21,30, dopo aver salutato anche il volatile che placidamente si è allontanato dal gruppo, si entra in tenda.

La notte ci ammanta con una moltitudine di suoni che accompagnano il mio dormiveglia.

Non conoscendo bene l’origine dei rumori, siamo un po’ diffidenti nel prender sonno.

Vediamo comunque di impegnarci a dormire un po’.

15 gennaio 2007 – lunedì Sveglia alle 05,30. Si smonta tutto alla luce delle torce elettriche e si indossano i giubbotti pesanti. La temperatura all’alba è abbastanza rigida e si mantiene così fino alle 09,30 circa. Ci viene preparata la colazione sulla pinasse. Finalmente ritroviamo quell’ottimo miele di “brousse” che ho gustato in precedenza a Bamako. Poco avanti il fiume si apre in un vasto bacino, siamo alla soglia d’ingresso del “Lac Debò”.

Dobbiamo affrontare la vastità dello specchio d’acqua prima che inizi a soffiare forte il vento. La traversata del bacino si rivela un po’ agitata, tanto che occorre coprire gli zaini coi teli per evitare che si inzuppino con gli spruzzi d’acqua delle onde. Oltre al giubbotto, indosso anche il turbante acquistato a Djenné, che fa un ottimo lavoro preservandomi dal vento. Raggiungiamo la sommità nord del lago con vari sballottamenti ed approdiamo a Youvarou per visitare un progetto di un campement realizzato da “Terra Nuova” nell’omonimo villaggio. Ci accoglie il responsabile Maliano, mentre il tecnico delle costruzioni ci illustra la distribuzione degli edifici che constano in sei camere emisferiche appaiate, con foro sommitale sulla cupola e bagno personale. Alloggi e strutture, costruiti con piccoli brik d’argilla, vengono rivestiti in bankò ed anche se funzionanti, in diversi punti sono ancora da completare. I mattoni sono saldati assieme tramite malta cementizia. Questo per evitare che le termiti possano forare un eventuale interstizio effettuato con un semplice impasto di fango ed indebolire la struttura stessa.

I pannelli solari presenti all’esterno, servono invece per caricare gli accumulatori che danno energia a “radio Youvarou”, per poter inviare le trasmissioni, dalle 09,00 alle 12,00 e dalle 18,00 alle 23,00, in un raggio di 105 chilometri di distanza.

Siccome manca lo speaker (l’animateur), mi improvviso come tale e registro dei saluti da inoltrare ai Maliani ed agli Italiani presenti in Mali. Passo il microfono alle ragazze, le quali non si lasciano troppo pregare e replicano in Brasiliano e Portoghese. Nikos con la scusa delle foto, si dilegua dalla postazione microfonica.

Visitiamo poi gli uffici di T.N. Che lì opera anche in collaborazione con alcuni studiosi dell’Acquario di Genova, giunti sin lì a studiare un particolare sirenide caratteristico del luogo, il Lamantino.

Un mammifero vagamente assomigliante ad un tricheco senza zanne, che vive nutrendosi delle piante acquatiche che si trovano sulla riva opposta. Riprendiamo la Pinasse e notiamo con piacere che Sadju è riuscita a trovare mezza dozzina di Capitaine da circa trenta centimetri l’uno ed una carpa altrettanto grossa, da una barca di pescatori che passava accanto alla riva. Ci inoltriamo su un tratto di fiume che va ad allargarsi mano a mano che si prosegue la navigazione.

Nell’aria si sente già un forte odore di spezie.

La cousinier è già ai fornelli.

Dopo qualche chilometro, faccio accostare la barca alla riva destra, per un bagno nel fiume.

Talita, ci dice che in Brasile le hanno sconsigliato di fare il bagno immergendosi direttamente da rive fangose, poiché queste celano un microrganismo che potrebbe causare problemi fisici. Riprendiamo allora il centro del fiume studiando dove la corrente è più calma. Cerchiamo di fermare l’imbarcazione spegnendo il motore. Nik e le ragazze ne approfittano per fare un paio di tuffi, però, mentre Nikos riesce a rimontare tranquillamente a bordo, sembra che l’imbarco di Talita e Louise dia alcuni problemi. Non avevano preso in considerazione quanto fosse alta, in acqua, la sponda dell’imbarcazione, per cui si ritrovano con mancanza d’appoggio per i piedi, utile alla spinta di risalita. Mentre divaghiamo un po’ cercando di aiutare le ragazze, la corrente ci porta inesorabilmente nel Bourgou, in mezzo ai giunchi della riva opposta. Con sguardo impassibile, una mandria di bovini, immersa nelle acque ed intenta a pascolare in mezzo alle erbe di fiume, assiste placidamente alle operazioni di disincaglio della Pinasse. Si continua a forza di remi, fino a raggiungere nuovamente la parte profonda del fiume dove si può riaccende il motore senza pericolo di incagliare le eliche nelle erbe di fiume. Una volta asciutti, prendiamo un po’ di sole sul tetto della nostra casa galleggiante, attendendo il pranzo.

Dopo mezz’ora, siamo nuovamente nello scafo a gustarci riso con Capitaine, con due belle fette di anguria finale.

Il paesaggio varia continuamente, mostrandoci ora la brousse, con qualche scimmia grigia dal muso nero che passeggia tranquillamente sulla riva, ora il giuncheto, con aironi, cormorani, martin pescatori, gruccioni e quant’altro, ora le prime avvisaglie di deserto, con profili di enormi termitai che sovrastano la riva.

Passiamo accanto a villaggi costruiti con capanne in bankò a forma rettangolare con una grossa copertura semi-cilindrica. Sulle rive, bimbi indaffarati a bagnarsi ed a schizzare, donne con abiti coloratissimi che punteggiano i cespugli circostanti coi loro panni stesi ad asciugare, creando una patchword multi cromatica che contrasta lo sfondo dai toni caldi. Decidiamo di fermarci per visitare da terra uno di questi villaggi.

Strade, cortili, pareti esterne delle abitazioni, tutt’attorno è cosparso di sabbia.

Con grande sorpresa, troviamo una bellissima moschea dalle forme morbide ed alquanto irregolari. Un po’ aliena. Le solite cinque noci di Colà donate al capovillaggio e riprendiamo a navigare, accompagnati ora da un the verde ora da un ottimo karkadè servito con aggiunta di foglie di menta, fino a quando il sole tende a scendere alle nostre spalle. Nik ha preso ormai il tetto dell’imbarcazione come sede fissa, e ne approfitta per scattare alcune foto. Io mi diverto ad osservare quanto mi circonda rimanendo in piedi sul tetto, cosicché possa godere di un’altra angolazione del paesaggio che lentamente scorre ai nostri lati. Decidiamo che per la notte, le tende verranno montate lontano dai villaggi e cerchiamo una sponda idonea alla nostra tranquillità. Accostiamo su una riva bassa di sabbia rosso mattone e rosa cipria. Decidiamo dove piazzare le tende e le montiamo. Con Nikos, approfittando ancora della poca luce rimasta, ci arrampichiamo sul bordo interno della riva, verso il deserto e facciamo un piccolo tour all’interno. Il territorio che ci si para di fronte presenta un terreno prevalentemente sabbioso, intervallato da enormi placche di pietra, la cui sommità segue il piatto profilo del terreno stesso. Qualche albero sporadico all’orizzonte, un’infinità di grossi termitai alti qualche metro ed una miriade di buche scavate da chissà quale animale.

Prima che faccia completamente buio, rientriamo per consumare la cena a base di tuberi e verdure, con banane ed arance come frutta. Prima di andare a coricarmi, mi avvicino agli altri, che nel frattempo si sono radunati attorno al fuoco, dicendo loro di voler far “quattro passi” all’interno, per curiosare un po’ e vedere se riesco a scovare quale tipo di animale abita le diverse buche sparse sul terreno. Prendo la torcia, mi arrampico sulla parte interna della riva ed inizio a vagare un po’ a caso. Dopo un quarto d’ora, raggiungo quello che resta di un albero secco, dove qualche ora prima avevamo scattato alcune foto. Proseguo ancora per una ventina di minuti circa, e spengo la torcia per guardare il firmamento, illuminato da un miliardo di nitidissimi puntini bianchi. Cerco di ritornare verso il letto affossato del Niger. Ripasso l’albero secco, proseguo ancora per un po’ cercando due grossi termitai che mi facciano da segnale utile ad indicarmi la giusta direzione, ma non li trovo. Piego un po’ a sinistra, cercando qualche punto di riferimento che possa ricondurmi sulla giusta via, ma forse ho deviato un po’ troppo.

Decido di seguire le impronte lasciate, ma queste muoiono sulle grosse placche in pietra. Giro di 90° a destra e cammino ancora un po’…Niente.

Mi sono perso.

Se solo avessi guardato le stelle alla partenza ed avessi tenuto come riferimento una delle conformazioni celesti presenti sulla volta, tra l’altro nitidissime, invece di curiosare a destra ed a manca in tutte le buche del terreno, forse non mi sarei trovato in queste condizioni. Ma è tardi, quello che è fatto è fatto, troviamo una soluzione e basta.

Non mi perdo d’animo e provo ancora ad orientarmi. Giro ancora qua e là, cercando di ricordarmi la posizione iniziale e mi ritrovo in una zona con una vegetazione mai vista in precedenza. Nulla da fare.

Provo allora a fare qualche fischio ed a puntare la pila a 45° verso il cielo, per vedere se per caso gli altri riescono ad udirmi o a scorgermi, ma niente ancora.

Mi fermo cercando di razionalizzare l’evento, per trovare una soluzione e mi siedo ad ascoltare nel silenzio.

Sento in lontananza un belare di pecore. Mi alzo e decido di dirigermi verso il gregge.

Dopo circa cinquecento metri lo trovo.

Gli ovini sono raggruppati all’interno di una grande recinzione costruita con rovi intrecciati tra di loro, in compagnia di qualche bue accovacciato nel buio. Incontro un pastore che mi rimanda i segnali con la torcia elettrica. Mi avvicino e tento di comunicare. Questi non parla in francese, ma in lingua locale, forse anche un dialetto.

Passano circa una decina di minuti, nei quali mi prodigo a far disegni sulla sabbia per far capire la mia situazione. Ogni volta che mi sollevo, attendo da lui una risposta positiva, ma inesorabilemente incrocio solamente un volto che mi mostra uno sguardo un po’ stralunato dal sonno e dal fatto di vedere un “Toubab” che vaga solo nel deserto a quell’ora della sera.

Lo osservo in silenzio, e lui, a tutta risposta mi saluta con un “sevuà” (come va?).

Metto già in conto di passare la notte coricato accanto alle mandrie per poi proseguire il giorno dopo con l’ausilio della luce del sole.

Ad un certo punto, però, il ragazzo ha un’illuminazione. Mi tocca la spalla, mi guarda e parte. Lo seguo. Camminiamo per una decina di minuti, e dopo aver superato alcune basse dune, entriamo in un villaggio. Mi porta dal capo villaggio che per fortuna parla francese. Inizia il processo di interminabili e cordiali saluti e della presentazione allaa famiglia.

Capisco intanto che mi trovo in un minuscolo villaggio, talmente piccolo da non essere segnalato sulla cartografia di cui sono in possesso. È il villaggio di Siboné. Solo dopo aver terminato la cerimonia riesco a spiegare il mio problema. Mi viene chiesto se per caso voglio rimanere li a dormire. Dico che preferirei raggiungere gli altri, per non farli preoccupare della mia assenza ed aggiungo che se avessero solo potuto indicarmi la riva del fiume, mi sarei arrangiato da solo a raggiungere la mia pinasse. Il capo, parla un po’ con gli altri membri della famiglia, infila le scarpe, indossa il turbante e mi fa strada.

Si chiama Simbà, ha 37 anni e mi dice che il pastore di 16 anni è suo figlio.

Mi scuso per il disturbo arrecato ma con un sorriso mi risponde che sono casi della vita dicendomi che è sicuro che anch’io avrei fatto la stessa cosa nei suoi confronti.

Percorriamo circa un paio di chilometri ed arriviamo nei pressi della riva del fiume, ad un centinaio di metri dalla pinasse. Incontriamo Nikos che ovviamente è un po’ arrabbiato. Ha ragione, ma non era mia intenzione preoccuparlo. Lascio Simbà ringraziandolo ed offrendo lui 5.000 FFA per il villaggio.

Rimango con gli altri un quarto d’ora circa accanto alle braci e poi mi infilo nel sacco a pelo.

Il buco sul terreno, in prossimità della mia testa, mi impedisce di dormire bene, comunque cerco di addormentarmi ugualmente. 16 gennaio 2007 – Martedì La sveglia oggi è alle 06,30. Mi sbarbo appoggiando specchietto, sapone e pennello ad un grosso termitaio nelle immediate vicinanze, poi sveglio Nik, lo aiuto a smontare la tenda ed a caricare le varie cose sulla barca. La posizione aperta della piazzola di sosta che abbiamo scelto per la notte, sulla riva destra del fiume, in piena balia del vento, ha contribuito ad abbassare ulteriormente la temperatura al di sotto dei dieci gradi.

Mentre finisco di sistemare le cose, accovacciato a terra, mi giro e vedo Sambà che è venuto a salutarci ed a portarci in dono una “pintade” (gallina faraona) viva. Oggi per pranzo niente pesce ma pintade con riso o cous-cous.

Salpiamo e continuiamo la discesa, durante la quale facciamo un paio di volute per ritornare a recuperare il volatile, messo provvisoriamente nella grossa anfora di prua, che nel frattempo si è liberato e buttato nel fiume.

Dopo un’ora circa approdiamo sulla riva opposta, a Niafounké, per acquistare i rifornimenti della cambusa e per poter fare una doccia in un piccolo campement della cittadina.

La doccia che ci accingiamo a fare, al costo complessivo di 5.000 FFA, altri non è che un rubinetto, un secchio, un sapone e degli asciugamani, il tutto collocato in un locale la cui pulizia lascia un po’ a desiderare.

Ci adattiamo comunque, però, vado da chi ha preso i soldi e ritratto il prezzo, inizialmente pattuito, abbassandolo di 1.000 FFA la cifra.

A turno, prima entrano gli uomini ed a seguire le donne.

Si ritorna al piccolo molo e li si sacrifica la pintade per il pranzo.

Continuiamo la navigazione sulla riva sinistra poiché il vento che nel frattempo si è alzato ha ingrossato le onde del fiume perciò non sembra consigliabile attraversarlo.

Sistemiamo gli zaini coi teli impermeabili per proteggerli dagli schizzi provocati dal forte beccheggio di prua ed arretriamo le scarpe e le altre borse.

I nastri di tela, acquistati in precedenza, fanno il loro dovere trasformati in comodi turbanti.

Attraversiamo il fiume più a valle, dove l’alveo si restringe e forma una curva protetta dal vento.

Sostiamo su una spiaggia per travasare il carburante dal barile di prua alle taniche che fungono da serbatoio a poppa. Approfittiamo della sosta per fare quattro passi ed un paio di foto a terra.

Poco dopo la partenza, chiamo gli altri, che stanno comodamente sdraiati sul tetto, per mangiare un piatto di pintade, stesa su un letto di pasta, forse un po’ troppo cotta, condita con un sugo allettante ed abbastanza piccante. Le solite arance ed il the verde chiudono il pasto.

La curva del fiume ci porta ad est, ed il vento proveniente da nord-est ci impone una traversata sulla sponda sinistra, più coperta.

Inizialmente mettiamo la prua ad ovest, poi con un giro di 180° risaliamo leggermente il fiume prima di ruotare nuovamente verso nord-est. Si continua la discesa.

Seduto sul pavimento dello scafo, riesco a godermi il paesaggio quasi come fosse proiettato su un enorme schermo panoramico in cinemascope, dove la raffigurazione della vita sulle acque e sulle rive scorre con moto lento e tranquillo.

La musica locale, proveniente dal grosso mangianastri portatile, che funge da colonna sonora al documentario, accompagna la meditazione e completa la visione del film.

Più si avanza e meno alberi d’alto fusto compaiono sulle rive.

Le palme, si mescolano alle rare piante che punteggiano il paesaggio circostante.

Di tanto in tanto spuntano sulle rive donne intente a lavare i panni, bimbi che sguazzano, e neri profili di piroghe che contrastano i colori tenui dello sfondo. Il tutto per annunciare di volta in volta uno dei tanti insediamenti Bozo. Tra un villaggio e l’altro, fanno comparsa vacche al pascolo, ovini o i caratteristici somarelli con una striscia nera che parte dal dorso, vicino all’attaccatura del collo e va a sfumare a metà zampa.

Più avanti si intravede anche qualche dromedario intento a brucare qualche foglia di acacia.

Onda dopo onda, giunge l’ora dell’attracco serale.

Questa volta scegliamo accuratamente il posto dove fermare l’imbarcazione.

Un’ansa sulla riva sinistra, coperta dal vento che non potrà così disturbare la sosta notturna.

La piccola spiaggia è delimitata da dune boscose che dividono il fiume dalla zona desertica alle spalle. Seppur arido, i locali non considerano ancora come deserto questo territorio ed in effetti, potrebbe essere assimilata ad una savana sabbiosa e rada.

Montiamo le tendine su una duna che sovrasta la pinasse.

Ceniamo con riso e cipolle, il tutto immerso nel solito sugo piccante. Dopo cena mi soffermo a chiacchierare con Hamar e Hamman.

Le petite Mussà e Sadju non parlano francese, per cui Hamman traduce loro i nostri discorsi. Loro ascoltano interessati e sorridono divertiti.

Hamar mi racconta un po’ la storia della sua vita. Mi dice che non ha ancora una moglie e sua madre sta cercandogli una sposa. Mi mostra una sua foto, con abito tradizionale e mi dice che dovrà incontrarla per meglio conoscerla. Rimane alquanto stupito del fatto che io ho una donna sola e mi fa sorridere quando mi chiede… “e se si ammala cosa fai?”. Di contro rimane basito nell’apprendere che la donna con cui sto non è la madre di Nikos.

Per lui, vista la possibilità di avere più mogli, è inconcepibile pensare ad una separazione, ma si dimostra alquanto tollerante e comprensivo.

Parliamo della tolleranza che Nel Mali permette di far coesistere le varie religioni (Hamar è mussulmano) e passiamo assieme un paio d’ore discorrendo del più e del meno, il tutto accompagnato da alcuni bicchieri di the verde.

Nik e le ragazze invece si accomodano attorno al fuoco, in prossimità delle tende. Do la buonanotte all’equipaggio che si appresta a preparare l’imbarcazione per la notte e scendo a farmi una passeggiata sulla riva. Mi incammino prima a monte e poi a valle.

Mi siedo ad osservare la cupola stellata e mi diverto a far saltare i piccoli pesci sulla riva puntando la torcia elettrica in acqua.

Poco dopo mi raggiunge Nikos, che ha appena dato la buonanotte alle ragazze e si accomoda accanto a me. Rimaniamo un po’ li seduti sulla sabbia.

Facciamo quattro chiacchiere e poi andiamo a nanna.

17 gennaio 2007 – Mercoledì La notte è passata tranquilla, almeno per me. Nik invece, grazie al mio russare, dice di non aver chiuso occhio, o per lo meno di non aver dormito abbastanza.

La temperatura notturna è stata clemente. Ha fatto meno freddo di ieri. Si smonta il campo e si parte.

Latte e caffé in polvere, marmellata di Guayano, formaggio (la vaque qui ride), the e pane scaldato.

Poco dopo, la prima sosta, a Diré, per fare rifornimento d’acqua per cucinare. Nel porticciolo, diamo un’occhiata al motore di una pinasse bloccata da diversi giorni. I suoi occupanti sono dei turisti che ormai da un paio di giorni stanno girovagando nel villaggio in attesa di poter riprendere la navigazione verso Mopti.

Niente da fare. Deve partire un 4×4 per recuperare i pezzi da sostituire o un piccolo motore supplementare che possa permettere loro di proseguire.

Facciamo un giro per il mercato semivuoto perché il giorno di mercato a Diré è il giovedì. Passiamo nel quartiere vecchio e scattiamo alcune foto alla moschea. Al ritorno, passo a curiosare nel piccolo porticciolo commerciale. Gente indaffarata a caricare e scaricare legna e calabasse da una grossa pinasse adibita al trasporto. Cogliamo anche l’occasione di acquistare della legna per il fuoco della sera.

Acquistiamo anche dell’ottimo pane, una corta baguette cotta in uno dei tanti forni costruiti all’esterno delle abitazioni. Si riparte.

La tappa successiva ci rivela una novità. È il primo insediamento Touareg che si incontra sul fiume e scopriamo che Piero Coppo ha lavorato un paio d’anni come medico in questo villaggio.

Si tratta di etnie seminomadi dell’ansa del Gourma, che troveremo dislocati all’interno dell’arco disegnato dall’alveo del fiume a sud di Tombouctou.

Si offre come guida, per la visita del villaggio, un elegante Touareg.

Una figura che a prima vista ci appare un po’ “snob”, si rivela alquanto loquace e simpatica, avvolta nei suoi abiti cangianti con tonalità bronzee, con tanto di occhiali da sole, orologio, anello e bracciale d’oro. Lo stesso sta dirigendo la costruzione di un canale irriguo che taglia in due il villaggio. Entriamo in una tenda costruita con pelli di capra cucite assieme.

La capanna di origine beduina è una costruzione emisferica sorretta da pali in legno. A terra troviamo dei tappeti, appeso ad un lato, in una culla costruita con rami intrecciati, viene accudito, dalla madre e dalle sorelle, un bimbo di quattro mesi.

Tutti sorridono incuriositi dai Toubab.

Alì, il Touareg, mi mostra la spada appesa accanto al suo fucile.

Nella lama sono incisi tre solchi verticali, che partono dalla guardia e sfumano ad un quarto dalla punta. Le spade di prima qualità, assai rare, hanno quattro solchi. Le spade definite ottime ne hanno tre. Le spade buone due, infine le spade mediocri hanno un solo solco.

Lasciamo del burro di karité alla madre perché possa utilizzarlo come emolliente sulle escoriazioni che presenta il bimbo sulle mani.

La visita continua ed Alì ci mostra il lavoro in corso, effettuato dai Bellà, ancora oggi considerati quasi schiavi.

Purtroppo non abbiamo molto tempo, dobbiamo ripartire e dopo una foto di gruppo, lasciamo sei noci di Colà e 1.000 FFA per il villaggio.

Durante la navigazione, accostiamo ad una piroga Bozo ed acquistiamo una quindicina di carpe di circa 25 centimetri l’una.

C’è tranquillità e silenzio a bordo. Si sente solo il rumore ovattato del motore.

Sadju è intenta a preparare il nostro pasto, con riso e cipolle, Nik, Talita e Louise si sono trasferiti in pianta stabile sul tetto, Mussà, sistema il materiale della barca, Hamman riposa mentre io sistemo un po’ i bagagli.

Ad un certo punto, Hamar che è alla guida ci urla qualcosa. Arrestiamo la pinasse al centro del fiume e scattiamo alcune foto ad un paio di ippopotami nell’acqua.

Un’altra coppia di ippopotami riusciamo a scorgerla alcuni chilometri più avanti, intenti a pascolare placidamente immersi nella vegetazione galleggiante.

Fermiamo i motori cercando di far silenzio, per non disturbarli, ma soprattutto per non innervosirli, in quanto questi animali sono ritenuti tra i più pericolosi d’Africa.

Sentendosi in pericolo non esiterebbero ad attaccare e a rovesciare l’imbarcazione, per cui non ci avviciniamo molto e teniamo un debito margine di sicurezza.

La navigazione prosegue fino al villaggio di Toio-Nà, dove consegniamo il grosso vaso di terracotta, che da Mopti ha fatto bella mostra di se sulla prua, alla sorella di Hamman.

Scendo ad accompagnare Hamman a casa della sorella. Mi segue anche Sadju. Gli altri aspettano in Pinasse. Le due ragazze si vogliono cimentare ai fornelli e Nik non ha voglia di camminare.

Nel cortiletto della casa, viene stesa una stuoia per farmi accomodare. Assisto a quattro chiacchiere tra di loro, probabilmente in Bambarà o Touareg, francese no di sicuro e dopo un the verde offertomi, proseguiamo a piedi percorrendo un sentiero che divide le case del villaggio dal fiume.

Gli altri ci precedono con la pinasse.

Usciti dal villaggio, dopo un paio di chilometri, raggiungiamo un istmo che taglia in due il fiume e forma una grande duna. Ci sono alcuni alberi. Pernotteremo li.

Montiamo le tende e saliamo sulla duna per fare in modo che il cellulare abbia una buona ricezione. Un paio di chiamate a casa e poi a “tavola”.

La pasta cucinata dalle ragazze, siccome non è di semola di grano duro, nonostante l’impegno profuso da parte delle due nouvelle cousinieres, risulta scotta, e siccome da un po’ di tempo siamo abituati ai sapori Maliani, leggermente più forti, il gusto della stessa ci appare alquanto insipido. Mangiamo lo stesso.

Anche l’equipaggio butta nello stomaco l’impasto più per cortesia che per fame ma rimedia con un infuso Kali-Kaban, una via di mezzo tra un the ed una tisana, poi, ci viene anche offerto del riso in tazza, dolce e molto cotto.

Si va al fuoco salutando l’equipaggio che inizia a preparare l’imbarcazione per la notte.

Poco dopo ci raggiunge Mussà. Si chiacchiera e si ride per un po’.

Io vado a coricarmi, anche Louise da la buona notte e si ritira, Mussà raggiunge gli altri in pinasse mentre Nik rimane con Talita ancora un poco accanto al fuoco. Domani la sveglia è prevista molto presto, “lo aspetto ancora al varco”. 18 gennaio 2007 – Giovedì Sveglia alle 06,30 e come previsto i soliti “5 minuti ancora” di Nik.

A qualche metro da noi, una miriade di piccoli trampolieri, quaglie azzurre e qualche airone, assistono alla nostra colazione effettuata a bordo della pinasse ormeggiata sulla riva. Si parla delle impressioni della notte trascorsa ad ascoltare il rumoreggiare ed il vociare di un paio di ippopotami, proveniente dalla lanca alle spalle della duna.

Salpiamo e navighiamo per una ventina di minuti circa prima di arrivare a Karioumè, il porto di Tombouctou, dove Alaissan ha traghettato con l’auto e ci attende puntuale come sempre.

Trasferiamo i bagagli sulla 4×4, salutiamo l’equipaggio e ci accingiamo a percorrere una ventina di chilometri su una sorta di asfalto grezzo (godronné) che ci separano dall’ingresso della cittadina vera e propria.

Ci fermiamo sulla strada principale e chiamiamo Aumar, che preavvertito da Stefano, prontamente ci raggiunge a cavallo di una motocicletta per guidarci fino alla nostra dimora.

La casa dove veniamo ospitati è molto accogliente. Un’ala della stessa è praticamente dedicata a noi. È una sorta di piccolo appartamentino, comprendente un paio di camere, un bagno con doccia ed una parte attrezzata con tavolo e sedie.

I muri e le tende hanno tonalità che richiamano i colori tipici del luogo. Il blu e l’azzurro.

La persona che ci ha accolto, inutile dire che è gentilissima, ci mette anche in contatto con una guida per la giornata.

Dopo diversi giorni, riusciamo finalmente a farci una doccia tiepida.

Dopo aver lavato qualche capo d’abbigliamento ed averlo steso nel cortile di casa, usciamo per la visita alla città. Prendiamo l’auto e parcheggiamo in una piazza al cui centro si erge una scultura di marmo bianco rappresentante un uomo velato, che monta una sorta di ippogrifo. Il suo nome è Al Farouq ed è considerato il “patrono “ di Tombouctou. La leggenda vuole che il cavaliere si innalzi in volo tutte le notti per proteggere la città. Proseguiamo verso il quartiere antico che si presenta con case adornate da porte e finestre in stile marocchino. In alcune zone del quartiere sono accampati i Bellà, che ancora oggi vengono considerati una sorta di schiavi da parte dei Touareg.

Raggiungiamo il museo antropologico, dove ci vengono spiegati gli usi ed i costumi della gente del luogo. Vediamo esposti molti strumenti ed attrezzi usati dai locali. Addirittura una piccola tavola in legno lavorata con inserti metallici, tonda e pieghevole per poter essere trasportata agevolmente dai nomadi.

Ci viene spiegata anche la storia, tra leggenda e realtà, riguardante la nascita della città e scopriamo che la parola Tombouctou significa Bouctou che guarda il pozzo.

Dal museo antropologico, passiamo alla biblioteca dove è custodito in antichi manoscritti, il sapere della civiltà arabo-mussulmana. Mentre gli altri entrano per la visita, io rimango fuori, mi faccio due passi attorno e scopro con Alaissan che due piccoli passeri, dal corpo rossastro, hanno deciso di costruire un nido trai due serbatoi dell’auto. Escono ad ogni sosta e rientrano prima che la macchina si metta in marcia.

Proseguiamo il tour entrando a Le Grand Marché, il mercato coperto, dove acquistiamo del pane dolce (frittelle) da gustare e le dividiamo con un paio di bimbi.

Ci gustiamo una un succo di pompelmo ed un succo di mela freschi in un piccolo bar sulla sommità della copertura dello stabile e verso le 14,00 ci accingiamo a rientrare 14,00 per pranzare.

Rientrando passiamo dall’ampio spiazzo che ospita la moschea di Sankorè.

Ci si ferma giusto il tempo per poter osservare la scenografia data dalla costruzione in bankò avvolta in una sottile nube rossastra, formata dal terreno sollevato dall’harmattan.

dalla gente che transita in ogni direzione, con gli ampi abiti che ondeggiano come bandiere al vento.

Scatto qualche foto e ci reimmettiamo sulla strada che ci porterà alla vettura.

Dopo un centinaio di metri, incrocio un Touareg con cui inizio a parlare.

Mi dice che deve rientrare al villaggio, che dista un paio di giorni di cammino.

È andato al mercato a vendere alcuni manufatti in argento. Chiedo se ha ancora qualcosa da mostrarmi, ma osservando quel poco che gli è rimasto, non vedo nulla che mi potrebbe interessare. Noto invece che ha una vecchia spada al fianco ed una spada più recente. Gli chiedo se posso vederle. Inizialmente è reticente, ma poi me le mostra. La più vecchia ha tre solchi. Armato di tempo e pazienza riesco a mercanteggiarne il prezzo e ad acquistarla. A casa, la cucina di Aumar ci offre della pasta corta con taglio simile alla trofia genovese, condita con bocconi di carne e pezzi di patata dolce. Un piatto molto gustoso. Un vassoio con verdura cruda in insalata, che assaggio appena, ci fa da contorno. Alla sera Aumar mi chiederà se il dromedario che ci ha servito è stato di nostro gradimento. Dopo pranzo, in attesa della guida, mentre Nik è in camera con le ragazze a parlottare, io sfrutto l’occasione per sdraiarmi un po’ sul materasso posato a terra nella mia camera. Parto secco nelle braccia di Morfeo. Mi svegliano alle 16,00 circa, dicendomi che è arrivata la guida. Con l’auto usciamo dalla città proseguendo fino alle porte del deserto. Incontriamo alcuni Touareg e ci accingiamo ad effettuare un Tour a dorso di dromedario. Dopo circa un’ora di camminata a bordo della nave del deserto, entriamo in un accampamento. Visto che sono il più vecchio del gruppo, mi riservano l’onore di farmi accomodare al posto riservato agli ospiti di riguardo. Si chiacchiera un po’ e poi Trattiamo alcuni bracciali ed un girocollo d’argento. Torniamo verso la 4×4 dopo il tramonto, col buio.

Rientriamo a casa e ci concediamo una doccia tiepida, ci sediamo a tavola e ceniamo con un piatto tipico di Tombouctou, il “Tokasou”. Grosse palle di morbido pane fritto, annegato in un sugo a base di carne, dove fanno bella mostra dei pezzi di bovino. Il un vassoio a parte, la solita insalata mista che ignoro.

Notiamo che il piatto offertoci, pur avendo il tipico sapore Maliano, non contiene tutte le cipolle che hanno caratterizzato la cucina della pinasse e non è neppure molto piccante. Un giusto equilibrio di sapori che contribuisce a caratterizzare il gusto armonico del piatto.

Dopo cena, nel solito giro di telefonate, mi accordo con Stefano, che mi chiede se son disposto a portare con noi in auto, presumo fino a Sevaré, due passeggeri che recupereremo in città l’indomani. Nessun problema. La sera, Nik, Talita e Louise decidono di farsi un giro nel cento di Tombouctou.

Li lascio fare mentre io rimango seduto nel giardino della casa a rilassarmi guardando le stelle. Poco più tardi, esco a fare i miei soliti quattro passi. Torno in camera verso le 11,00 e dopo una mezz’ora circa rientrano anche i ragazzi.

Si dorme 19 gennaio 2007 – Venerdì Sveglia alle 07,00 con un’abbondante colazione. Si caricano i bagagli, si salutano e si ringrano tutti per la consueta cortesia riservataci.

Andiamo all’appuntamento coi due nuovi passeggeri, che poi porteremo fino a Bamako. Si tratta di una ragazza ventiseienne di Tombouctou, che si chiama Karoumà, che deve accompagnare una bimba di circa sei anni dai suoi parenti nella capitale.

Si lascia il centro e ci si dirige verso il traghetto per attraversare il Niger ed iniziare la discesa verso sud. Attendiamo un po’ all’imbarcazione, che ovviamente parte quando ha fatto il pieno carico.

Dopo aver navigato per una mezz’ora circa, scivolando accanto ad alcuni villaggi da dove spuntano le “torri” di alcune moschee, approdiamo sulla sponda destra del fiume. A sud.

La prua accosta alla riva, il ponte del battello si appoggia sul bagnasciuga e ci scarica su un’accenno di pista in un mare di sabbia.

La 4×4 davanti a noi, si insabbia subito. Immediatamente un nugolo di persone aiuta a spingere il mezzo per farlo proseguire.

Alaissan invece si rivela molto abile e come al solito, con un paio di scodate da l’indirizzo corretto alla vettura che può così acquistare la giusta velocità per poter galleggiare sulla sabbia.

Affrontiamo il viaggio su circa 250km di pista con gli occhi sgranati dal fascino del paesaggio circostante.

Siccome la sabbia finissima riesce ad entrare lo stesso da tutte le parti, nonostante i finestrini chiusi, decidiamo di spegnere l’aria condizionata e proseguire coi vetri abbassati, indossando il turbante a protezione.

La sabbia la sentiamo tra i denti, nel naso ed in gola. Beviamo poco e sovente per sciacquarcela da dosso.

La pista che seguiamo è un nastro nel nulla di tole ondulèé, una sorta di microdossi continui che fanno entrare in vibrazione il mezzo ed allentano le viterie. Per viaggiare abbastanza tranquilli, bisogna raggiungere una velocità di circa 80km orari, cosicché si possa letteralmente galleggiare sulle continue asperità del terreno. Decidiamo allora di proseguire sulla variante laterale. Due solchi di sabbia che sovente spariscono nel nulla. Puntiamo inizialmente verso sud-est per poi girare a sud dopo diversi chilometri e proseguire successivamente tenendo la rotta di sud-ovest.

Si balla parecchio sul percorso alternativo e dopo un po’ la bimba non ce la fa più e vomita.

Sostiamo a pulire il tutto e proseguiamo.

Ancora una ventina di chilometri ed incontriamo un villaggio sparuto, che dista qualche centinaio di metri dal bordo pista, composto da poco meno di dieci capanne costruite in legno, paglia, tela e qualche pelle di capra. Le abitazioni sono circondate singolarmente da una sorta di recinzione, eretta con l’ausilio di rami d’albero, recuperati da chissà dove.

Mentre gli altri aspettano nei pressi dell’auto, mi avvicino ed entro nel villaggio, contatto una sorta di capo spirituale che mi accompagna all’interno di una recinzione, in una di queste abitazioni.

Faccio qualche foto ad una famiglia seduta all’esterno, intenta a pulire alcune manciate di granaglie. Mi raggiunge Nikos e mi fa cenno che vuole proseguire. Torniamo verso la vettura e partiamo. Passiamo il punto critico della pista all’altezza di Bambarà Maoundé, un altro villaggio poco più grande del precedente. La pista si fa leggermente più morbida, ma solo in apparenza poiché si “ballerà” fino a Douenzà, dove probabilmente ho intenzione di effettuare una piccola deviazione di un paio d’ore per vedere se riusciremo ad osservare alcuni elefanti stanziali in una zona più ad est.

A circa 70/80km da Douenzà, sento uno strano rumore sulla ruota posteriore destra. Abbiamo forato. Tutti giù. Con Nik ed Alaissan ci prodighiamo a cambiare la ruota ma , sorpresa, il crick non funziona. Effettuiamo alcuni tentativi per forzare l’ingranaggio bloccato, bagnandolo anche con dell’olio, ma non succede niente. Il risultato che otteniamo è quello di bloccare definitivamente il martinetto e di avere le mani sudice, cosparse da una miscela di sabbia, grasso ed olio motore. Il pistone non esce. Animo, chiedo un cacciavite ed una pinza ad Alaissan, smonto il crick, risistemo le sferette d’acciaio, che permettono al reggispinta di ruotare correttamente, uscite dalla loro sede e rimonto il tutto.

Miracolo, adesso funziona. Possiamo cambiare la gomma.

Ripartiamo e raggiungiamo Douenzà con un paio d’ore di ritardo rispetto alla nostra tabella di marcia. Sfuma la visita agli elefanti.

Per la riparazione ci fermiamo da un gommista, un po’ improvvisato ma abile,. Lo stesso ci mostra il danno e notiamo che la camera d’aria è tagliata in più punti grazie ad un pezzo di ferro entrato nella carcassa.

Decidiamo allora di sostituirla con un’altra nuova, o perlomeno in buone condizioni, al costo di 7.000 FFA.

Mentre il gommista fa il suo lavoro, cerchiamo nei dintorni qualcosa da mangiare. Entriamo in un paio di ristorantini improvvisati per vedere cosa possano offrire, ma non troviamo niente che possa stuzzicare l’appetito più di tanto.

Giriamo un po’ e vediamo un mercatino di frutta e verdura. Ci avviciniamo e comperiamo manghi, papaye e guayave.

Lo stato in cui sono ridotte le nostre mani, impone che Le ragazze coi nostri coltelli preparino la frutta.

Con Nik stanno sedute in macchina, io preferisco rimanere fuori.

Sono circondato da un gruppo di bimbi e da qualche venditrice di noccioline, sacchetti di siero o latte. Sorrido e faccio cenno di no con la testa. Non insistono più di tanto e si allontanano. Rimangono solo i bambini incuriositi.

Mi passano una fetta di mango dall’auto. Mangio la polpa e butto la buccia per terra.

Un bimbo, fulmineo la raccoglie e la porta alla bocca.

Vista la scena, decido allora di mettere gli avanzi in un sacchetto, Mi faccio dare un paio di manghi, li taglio e li distribuisco ai bimbi, che mangiano avidamente. Non sarà un gran che ma almeno non succhieranno la sabbia.

La gomma è a posto, aspettiamo la ragazza e la bimba che nel frattempo erano andate a mangiare qualcosa e ripartiamo verso ovest, in direzione di Sevaré, dove le lasceremo per la notte da un amico di Stefano. Lasciata la ragazza e la bimba a Sevaré, dopo un breve tratto verso sud, in prossimità del bivio per Mopti, riprendiamo verso est, direzione Songò. Prima di arrivare al villaggio, fermo Alaissan in un mercato ed acquisto circa 40 kg di riso per i bimbi, riuscendo a spuntare allo stesso prezzo della scorsa volta una qualità superiore.

Arriviamo al villaggio ed è una festa.

È commovente come tutti quanti, dal più giovane al più vecchio, si ricordino di noi e ci accolgano con un sorriso.

Lasciamo Talita e raggiungiamo il campement per scaricare i bagagli. Anche li gran festa.

Il “capo responsabile”, Amadou, mi abbraccia. I guardiani mi stringono la mano con un sorriso, chiedendomi se il viaggio fosse andato bene. È una strana sensazione, è come se fossi rimasto ospite in quel posto per un anno invece che per un solo giorno.

Nell’agorà, un gruppo di francesi che sta mangiando mi guarda un po’ sbigottito.

Prendiamo possesso delle camere e dei secchi d’acqua per lavarci. Nik si lava per primo, poiché è stato invitato a cena come la scorsa volta. Io aspetto che lui finisca, non ho molta fame, la frutta di oggi a pranzo è stata sufficiente. Lo aspetto al campement.

La famigli che ospiterà Nikos, gli offrirà, nel solito vassoio comune, del riso bollito e condito con un sugo di foglie di patate dolci.

Con un paio di secchi d’acqua mi rimetto a nuovo e rimango ad aspettare tutti gli altri, che dopo un’ora circa mi raggiungono.

C’è il capo famiglia, qualche parente, Talita, Louise, Denise.

C’è anche Soumeilà, la guida di 29 anni.

Chiacchieriamo del più e del meno, e dopo un po’ lascio gli altri per andare a fare il solito giro al buio, per osservare la volta stellata.

Ritorno dopo una mezz’oretta circa, rimango ancora qualche minuto con loro e poi saluto tutti che rientrano a dormire.

Mi fumo un’ultima sigaretta e riesco a scorgere una volpe che quatta quatta attraversa una piazzetta laterale del villaggio. La volpe Dogon. Penso che andrà a cibarsi delle offerte.

Rientro in camera a dormire dando la buonanotte all’ultimo gruppetto, composto da Nik e dalle ragazze, che sta ancora seduto nell’agirà centrale.

Stendo il bucato e mi infilo sotto la zanzariera.

20 gennaio 2007 – Sabato La sveglia anticipa di circa un’ora la partenza fissata alle 07,00.

Facciamo colazione, leghiamo gli zaini sul portapacchi e salutiamo tutti.

Portiamo anche con noi anche Soumeilà, che dovrà raggiungere Bamako per accogliere e riaccompagnare a Songhò il marito di Denise.

Ritorniamo sulla strada percorsa il giorno precedente, questa volta puntando verso ovest.

Recuperiamo la ragazza e la bimba a Severé e proseguiamo raggiungendo il bivio per Mopti che lasciamo alla nostra destra, proseguendo verso sud, direzione San.

La sosta da Ya-Ya ci permette di gustare nuovamente la solita faraona arrosto.

Dopo aver pranzato, facciamo una piccola deviazione verso il centro della città. Non è giorno di mercato, che generalmente si sviluppa nella piazza antistante la moschea, ma la visita merita ugualmente qualche scatto fotografico all’edificio in bankò. Compiuto il periplo della moschea stessa, ci accingiamo a risalire in auto per proseguire.

Durante il tragitto, decidiamo di far sosta per la notte a Segou, visto che non sarebbe consigliabile proseguire col buio sulla strada per Bamako.

Un paio di telefonate e Stefano ci riserva una camera da un suo amico libanese che gestisce l’Auberge.

Visto quello che abbiamo passato, il posto ci sembra assolutamente paradisiaco.

Ci sembra di essere entrati in un altro mondo, fatto da reception, giardino con ristorante all’aperto e piscina.

Le camere sono staccate dall’unità centrale. Occorre proseguire parallelamente al fiume per circa cento metri per entrare in una costruzione dove gli alloggi sono disposti attorno ad un cortile, che ospita i mezzi dei clienti.

La camera assegnataci, con due letti, ha un vecchio condizionatore perfettamente funzionante, la TV, il frigobar ed il bagno con elettricità ed acqua calda continua, 24 ore su 24 ore.

Sistemiamo Soumeilà in una camera a fianco del locale adibito a guardiania. Alaissan come sempre sistema la sua branda in auto.

Ci buttiamo subito sotto alla doccia ed aspettando l’ora di cena, facciamo un piccolo tour al porticciolo, sulle rive del Niger.

Passiamo per le viuzze caratteristiche, fatte in terra battuta.

Il porto è un via vai di gente indaffarata a scaricare sabbia dalle piroghe, a trasportare cose di ogni genere, a caricare legna e carbone, a lavare stoviglie a riparare le imbarcazioni o semplicemente a far toeletta.

Raggiungiamo il ristorante dell’albergo e decidiamo, anche su consiglio di Stefano, di gustare alcuni piatti libanesi.

Propendiamo per un insieme di assaggi che troviamo tipici, ricercati e di qualità.

L’humus è addirittura cosparso da un buonissimo olio di origine italiana, proveniente addirittura dalla Toscana.

Rientriamo in camera dopo il dolce.

Nik e Soumeilà escono per recarsi in un locale dove suonano qualcosa. Prima di entrare nel locale, Nik offre da mangiare a Soumeilà che non aveva ancora cenato. Io faccio il mio solito giro solitario. Incontro qualcuno e scambio quattro chiacchiere.

Incontro gente che arriva addirittura dal Burkina Faso, dal Congo e dalla Sierra Leone.

Con Alaissan poi andiamo a recuperare un pezzo dell’auto da un tizio alla periferia della città. Questione di un’oretta circa.

Rientro in camera verso le 11,30 e dopo un po’, verso mezzanotte, rincasa anche Nikos, raccontandomi di essere andato in una sorta di locale dove c’era della musica e si ballava, di aver incontrato e conosciuto molta gente, amici di Soumeilà.

Ci addormentiamo….. 21 gennaio 2007 – Domenica Ci svegliamo con calma, visto che il tratto tra Segou e Bamako non è lungo.

Facciamo un’ottima colazione con miele di baobab e succo di frutta.

Alle 08,30, leghiamo tutto sul tetto dell’auto ed alle 09,30 recuperiamo la ragazza, che con la bimba ci aspettava dalle 09,00.

Alaissan ha dormito come al solito nell’auto, trasformando la parte posteriore in comodo giaciglio, Soumeilà ci dice che il ricovero per la notte, passata nella camera del guardiano, è stato di suo gradimento.

A confronto delle tappe precedenti, il viaggio risulta molto comodo e tranquillo e non dura molto.

Nik si addormenta sdraiato sulla panca destra mentre gli altri stanno seduti su quella sinistra.

Entriamo nella capitale e riconosciamo le strade percorse in uscita. Lasciamo prima la ragazza con la bimba in un quartiere a sud di Bamako. Saluti ed abbracci. Mentre ci si allontana, Alaissan sorride dicendoci che la famiglia nella quale abbiamo lasciato i primi passeggeri, altro non è che un gruppo di “rapper” maliani.

Soumeilà invece ci guida alla sua destinazione in una zona ovest.

Rimarrà per qualche giorno in attesa del marito di Denise e farà rientro con lui a Songhò.

Ci si saluta e ci si abbraccia per l’ultima volta.

Proseguendo verso est giungiamo a casa di Stefano alle 13,00 circa. Scarichiamo i bagagli nella camera messaci a disposizione e facciamo una doccia.

Nik si stende sul letto, preferisce riposare un po’ poiché la stanchezza del viaggio per lui inizia a farsi sentire. Io e Stefano usciamo dalla città ed andiamo a vedere il cantiere dove è in corso la costruzione della sua nuova casa. Una serie di semisfere costruite con brik d’argilla cotta, quasi come se fossero dei giganteschi igloo. Andiamo anche a vedere la “fabbrica di mattoni”, che si trova ad una decina di chilometri ancora più a monte del Niger, verso Sud-Est, lungo il fiume, dove il terreno è più argilloso e contiene alte percentuali di ferro, caratteristiche utili a renderlo più adatto alla costruzione di mattoni di buona qualità. Lasciamo l’auto e facciamo qualche passo nell’area di costruzione. Un forno per la cottura, una specie di pergolato per l’essiccazione all’ombra, un plateau per la formazione dei mattoni in speciali casseri in ferro ed una fossa d’estrazione del materiale primario.

Una montagna di pula di riso, utile alla combustione, giace accanto al forno.

Proseguiamo la passeggiata addentrandoci verso le rive del Niger, dove troviamo un gruppo di lavandaie intente nel loro lavoro. Accanto Ad alcune roccie scorgiamo una piroga e chiediamo loro di darci un passaggio su un isolone dall’altra parte del fiume. La proprietaria acconsente e ci fa montare a bordo, in compagnia di un paio di ragazzini. Inizia a pagaiare dirigendosi verso l’altra riva, ma quando le chiediamo di seguire un ramo secondario per giungere al posto voluto, rimane un po’ titubante e dopo qualche secondo si butta in acqua. Io e Stefano ci guardiamo stupiti mentre la osserviamo nuotare verso la riva opposta. Ci arrangiamo a raggiungere la destinazione voluta remando con l’aiuto di una pertica, della pagaia ed un barattolo per buttare l’acqua che entra copiosa dal fondo delloo scafo.

Tirata in secca la piroga, mi volto e vedo che la ragazza, ormai giunta sulla sponda opposta, fa strani cenni ed urla qualcosa sia a noi che ai ragazzini rimasti a bordo.

Domando a Stefano se per caso vi fosse qualche problema di sorta, poiché la ragazza mi sembrava alquanto spaventata.

“non è che per caso entriamo in un luogo considerato tabù, dove eseguono sacrifici rituali animisti?” Dalla faccia allibita di Stefano, comprendo che anche lui è rimasto basito dal fatto.

Salutiamo i ragazzini e proseguiamo a piedi e saltando di roccia in roccia raggiungiamo un ramo del fiume abbastanza stretto, dove si formano delle rapide. Ci guardiamo e decidiamo di farci un tuffo. Una sorta di saluto al Niger.

Quattro bracciate, un po’ di relax dove l’acqua forma una grande ansa e risaliamo sulle rocce.

Ci asciughiamo all’ultimo sole della giornata chiacchierando con un pescatore che aveva gettato le sue reti poco distante da noi, ci rivestiamo e ritorniamo alla piroga.

Non c’è più nessuno. La barca è stata abbandonata lì. Tra mille peripezie e difficoltà, riusciamo però a ricondurre il mezzo al punto di partenza.

Non ci sono più neanche le lavandaie. Se ne sono andate tutte lasciando i panni stesi sui cespugli ed secchi abbandonati Mistero.

Ritornando sui nostri passi, verso la vettura, incontriamo un tizio che dopo i consueti saluti, si intrattiene con Stefano in un discorso in Bambarà.

Grazie a ciò, scopriamo l’arcano delle sparizioni.

Il tizio ci ha detto che nei giorni scorsi, hanno trovato lungo il fiume dei ragazzini morti, e si pensa che questo fatto sia imputabile a strani riti propiziatori effettuati da qualcuno per guidare la sorte delle elezioni politiche che si effettueranno tra qualche mese nel paese. A tal proposito, la TV, divulgando la notizia, ha raccomandato di prestare molta attenzione a persone non conosciute.

Parrebbe quindi che questa notizia abbia suggestionato le ragazze a tal punto da far loro vedere due Toubab armati di lunghi coltelli.

Sorridiamo un po’ per la vicenda accaduta a noi ed un po’ meno a quello che disgraziatamente è capitato ai ragazzi e raggiungiamo l’auto. Torniamo a casa.

Nik è a letto, preferisce non mangiare. Ha un po’ di febbre data dallo strapazzo.

Lo lascio tranquillo e salgo sulla terrazza. Lì trovo Luigi, un tecnico italiano, che sta portando a termine la costruzione di una strada che da Bamako, proseguendo verso nord, entra in Mauritania.

È di Como e lavora per un’azienda romana che ha vinto la gara d’appalto per la direzione dei lavori. Si parla di tutto e di più, persino della soluzione alle coliche della sua piccola bimba nata da qualche mese.

Nenè ci porta della pizza, che consumiamo con della birra fresca. Verso mezzanotte ci si saluta, scendo da Nik e gli misuro la febbre. 38 e mezzo. Paracetamolo per abbassarla, salvietta umida in testa e bottiglie d’acqua sul comodino, per bere molto. Stefano mi da del CO-Rinate (antimalarico) da usare nel caso in cui la temperatura dovesse aumentare, dicendomi di chiamarlo a qualsiasi ora della notte nel caso in cui le cose dovessero peggiorare. Per fortuna la diagnosi di febbre da strapazzo è stata corretta. Durante la notte la febbre cala notevolmente.

22 gennaio 2007 – Lunedì Ultimo giorno. Ci svegliamo presto. Mi faccio una doccia. Seconda pastiglia di paracetamolo a Nik che comunque si è ripreso e pare gran forma. Lo si capisce dalla fame dimostrata durante la colazione. Sicuramente ha buttato fuori la stanchezza di venti giorni.

Andiamo al mercatino artigianale per fare gli ultimi acquisti.

Stefano che rimane con noi, fa da tramite coi venditori, riuscendo a trattare al meglio la merce ed a strappare dei buoni prezzi.

Passiamo poi dal suo ufficio ONG. Nikos non l’aveva mai visto. Salutiamo tutti e lasciamo Stefano al suo lavoro.

Con Djallò, l’altro chauffeur, carichiamo i nostri sacchi preparati fin dalla sera prima ed andiamo a fare il ceck-in a le bureau de l’Air France in città. Lasciamo i bagagli e ritiriamo le carte d’imbarco.

A casa Nik si sdraia ancora un po’ sul letto. La febbre è passata ma rimangono i residui di una notte insonne.

Vado allora con Leonardo alla palestra di Judo, cosicché possa approfittare per salutare gli amici del Dojo.

La sera sopraggiunge con la tranquillità e la calma tipici del paese africano, mentre il cielo e tutto quanto attorno si colora di rosso.

Arriviamo all’ora di cena, che salutiamo con uno stufato di carne e patate. Siccome nik pensa di sentire dei disturbi all’intestino, preferisce mangiare del riso in bianco.

Facciamo qualche gioco coi bimbi, poi un saluto a tutti e via in aeroporto.

Ci arriviamo passando dalla stessa strada percorsa al nostro arrivo.

All’aeroporto, contrariamente a quanto successo quando abbiamo accompagnato Giancarlo, Paola e Leonardo, Stefano riesce ad entrare con noi e grazie alle sue conoscenze, ci facilita notevolmente tutte le operazioni di controllo.

Ci sediamo al bar, ci facciamo servire del “pomplemousse” per Nik e della Castel per noi. Facciamo l’ultimo brindisi, accompagnato da un’ultima foto. Nikos scatta.

Dopo qualche minuto, due soldati si avvicinano chiedendoci di mostrare i passaporti asserendo di essere stati fotografati.

Contestiamo il fatto e tentiamo di mostrare le foto scattate sullo schermo della digitale. Uno dei due militari, quello che ha iniziato il discorso, rifiuta addirittura di guardare nel monitor insistendo perchè lo seguissimo al posto di comando militare.

Stefano si oppone, cercando di spiegare che non è stata fatta alcuna violazione e vista l’insistenza dei due, asserisce di voler chiamare la polizia perché possa aggiustare correttamente le cose.

Io insisto con uno dei due riuscendo a mostrare la foto scattata, che ritrae solo due amici su uno sfondo completamente nero, a causa del colpo di flash che è rimbalzato sulla vetrata posteriore.

Interviene a nostra difesa anche un signore che si presenta come avvocato e redarguisce il comportamento non proprio ortodosso del militare.

Si aggiunge al gruppo, in nostra difesa, anche il gestore del bar.

Vistosi tutti contro, il militare si fa convincere da un mio ulteriore tentativo di dissuasione, saluta e si allontana.

Quasi sicuramente, con la scusa della foto, avrebbe voluto condurci nell’ufficio del comando militare aeroportuale ed avrebbe cercato di spillarci una lauta mancia solo per lasciarci andare evitando così di perdere il volo.

Una risata finale, conclude la vicenda.

All’imbarco, sulla pista, incontro nuovamente i due militi. Faccio quattro chiacchiere con loro dalle quali sortisce una stretta di mano ed un sorriso, accompagnato da un saluto.

Saluto stefano a bordo pista, dicendogli in tono scherzoso che non m sembra il caso che ci accompagni fino alla scaletta.

Passiamo un ultimo controllo dei bagagli proprio sotto l’aeromobile, su due tavolini piazzati alla bell’e meglio vicino alla scaletta d’accesso e finalmente prendiamo posto a bordo. Voleremo tutta la notte per arrivare a Parigi il giorno seguente.

Nik chiude gli occhi, io mangio qualcosa e poi seguo il suo esempio.

23 gennaio 2007 – Martedì Arriviamo a Parigi ed atterriamo al terminal “C”. Sbarchiamo e, con l’ausilio di un Bus interno, ci spostiamo al terminal “F”.

Entrati al secondo terminal, seguiamo i lunghi ed interminabili corridoi interni che ci conducono al primo posto di controllo dei passaporti.

Praticamente un “cul de sac”, un imbuto vero e proprio che addensa la folla su un’unica uscita.

Gli addetti ai controlli non sono stati predisposti in numero sufficiente e questo mi preoccupa un po’ per il volo di coincidenza ma, un tizio francese ci rassicura dicendoci che il volo attenderà i passeggeri di transito.

Dopo mezz’ora d’attesa, si passa.

Arriviamo nella zona dedicata alle uscite d’imbarco. Altro controllo. Mi fanno vuotare la borraccia in una bottiglia di plastica che lascio a loro. Passo il metal detector ed un’addetta, subito dopo mi fa accomodare per un ulteriore perquisizione al bagaglio a mano.

Lascio le creme solari, il sapone da barba e saluto.

Nik arriva scalzo, poiché gli hanno fatto togliere anche gli scarponcini. A lui hanno visto un coltello nel suo zaino, che prontamente smontano senza però trovarlo. Nikos stesso allora, per non perdere ulteriore tempo, suggerisce ai controllori che l’oggetto misterioso, rilevato dal metal detector, potrebbe essere il suo set di posate pieghevoli Gli addetti asseriscono compiaciuti, ma io gli apro le posate e lascio solo la parte col coltello. Mi riprendo l’altra con cucchiaio e forchetta e la rimetto nella sua custodia infilando il tutto nuovamente nella sacca laterale dello zainetto. Ora si può andare.

E pensare che nel mio zaino ho trasportato tranquillamente lo stesso set di posate.

Chiamano il volo per Milano. Passiamo il “gate” mostrando i biglietti ed arriviamo al bus.

Fuori fa abbastanza freddo. Vediamo il fumo di condensa del respiro. Ci accomodiamo sull’aereo della compagnia Air France e decolliamo.

Atterriamo alle 09,25 all’aeroporto della Malpensa. Il tempo necessario per ritirare i nostri bagagli e poi usciamo.

Non vediamo però sfilare sul nastro di consegna i nostri sacchi. Dopo un po’, guardando in giro, li vediamo depositati in un angolo riservato ai bagagli fuori misura.

Finalmente passiamo l’ultima porta.

Fuori, la Mamma di Nikos ci attende per portarci a casa.

Il cielo e grigio e pioviggina, attraversiamo il piazzale dell’aeroporto, reggiungiamo il parcheggio, ci avviciniamo all’auto carichiamo tutto il bagaglio e partiamo.

A Legnano abbraccio Nikos e saluto Ornella.

Salgo in casa ad aspettare che Silvia torni dal lavoro.

Il ringraziamento principale e particolare é sicuramente dovuto a Stefano, che ci ha ospitato e che per motivi di lavoro purtroppo non ha potuto viaggiare con noi, ma si è sempre e comunque prodigato quotidianamente a nostro favore ed è stato sempre presente come un grande fratello Maliano, che col suo “lungo” occhio ha vegliato perennemente sul nostro viaggio.

Una serie di ringraziamenti vanno anche: Ad Alaissan, un eccellente e paziente autista.

Ad Oumar di Tombouctou, che ci ha fatto sentire come a casa nostra.

A Gadioulà Dolo, un’ottima guida professionista che ci ha introdotto nel mondo Dogon.

A Soumeila Karambé, la giovane guida Dogon che ci ha accolto in famiglia e ci ha permesso di approfondire un’amicizia.

A quel simpaticone di Hasseye Siniyobo di Djenne, o meglio conosciuto come Jonh Travolta.

Ad Amadou, il responsabile del campement di Songhò.

A Talita e Louise che hanno condiviso con noi il viaggio sul fiume fino a Tombouctou.

A Denise, che ci ha fatto da tramite per poter entrare in famiglia a Songhò.

All’equipaggio della Pinasse, Hamar, Hamman Sadju ed il piccolo Mussà, che ci hanno fatto trascorrere quattro giorni meravigliosi.

All’ospitalità di Sekou Ogobara Dolo, il capo delle guide di Sanghà ed al grande e perenne sorriso del proprietario del campement, un dogon in doppiopetto, papillon e berretto di lana con pon pon.

A tutto il gruppo di atleti della palestra di Judo di Bamako che ci ha accettato con un sorriso.

A Giancarlo e Paola, che purtroppo ho potuto frequentare solamente per un giorno.

A Michele, Mamma Elvira e Luigi, che sicuramente rivedrò in Italia Per ultimo e non in ordine di importanza, un grazie al MALI, che, col suo territorio, con la sua gente, coi suoi profumi, con la sua cucina, con le sue usanze, ci ha accolti, cullati, accompagnati e soprattutto immersi nella sua cultura.

Marino



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