Viaggio in India 3

Rajasthan, Agra, Delhi
Scritto da: Stefano Campoli
viaggio in india 3
Partenza il: 14/02/2012
Ritorno il: 29/02/2012
Viaggiatori: 2
Spesa: 1000 €
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1° giorno: martedì 14 febbraio 2012

Aeroporto di Fiumicino: sei meno dieci di una fredda serata invernale. Arrivo trafelato, Claudia è già in fila al check-in da dove mi ha già telefonato più volte:”Ma quando arrivi?”. Riusciamo a non imbarcare il bagaglio. Sono quasi le 21 quando decolliamo: l’aereo è per metà vuoto; ceniamo ottimamente. Il volo procede senza problemi e dura quasi 5 ore.

2° giorno: mercoledì 15 febbraio 2012

Atterriamo a Dubai alle 4.30 del mattino (+3 ore rispetto a Roma). Passati i controlli in aeroporto, decidiamo di riposarci visto che è troppo presto per uscire.

Troviamo delle comodissime poltrone dove riposare: verso le 9 andiamo a fare una misera colazione a Starbucks che ci costa un mezzo patrimonio.

Terminata la colazione ci preoccupiamo di chiedere informazioni per uscire dall’aeroporto. I poliziotti ci dicono che ormai siamo fuori tempo massimo: mancano meno di 6 ore alla nostra partenza. Ci mettiamo l’animo in pace e inganniamo l’attesa leggendo, ascoltando musica e visitando uno per uno tutti i negozi del terminal 3.

Alle 2 e 40 finalmente ci imbarchiamo, destinazione New Delhi. Atterriamo nell’aeroporto Indira Ghandi dopo 3 ore di volo.

Cambiamo i primi 100 euro (ci danno in cambio solo 6.000 rupie) e andiamo all’uscita dove ci attende il nostro driver Mahesh. Mahesh è un ragazzone di Jaipur, con una faccia simpatica e un bel paio di baffi. Ci racconta, in un inglese condito da qualche parola d’italiano, che lavora da un anno con Karni, il nostro corrispondente. Andiamo al parcheggio dove troviamo l’auto, una bella e spaziosa Ford.

Per arrivare all’hotel, il Florence Inn, seguiamo la metropolitana soprelevata fino al quartiere di Karol Bagh: l’hotel si trova dietro la fermata della metro.

Sono quasi le 10 di notte: rinunciamo ad uscire per le strade piene di negozi e a cenare perché siamo troppo stanchi.

Fuori dall’Hotel, un carretto addobbato con fiori e trainato da due cavalli bianchi attende la sposa: Mahesh ci spiega che questo è il periodo dei matrimoni.

3° giorno: giovedì 16 febbraio 2012

Alle 7.30 siamo già facendo colazione: a Claudia piace particolarmente una pietanza piccante a base di piselli e patate. Dopo un’ora partiamo diretti all’autostrada per Jaipur in direzione sud-ovest; ripassiamo davanti all’aeroporto.

Il traffico è intenso: Mahesh non riesce a superare i 70 Km/h.

Attraversiamo lo stato di Haryana. Il paesaggio è squallido: la campagna sta lasciando il posto ad una squallida periferia con palazzoni che nascono dal nulla.

Lasciamo l’autostrada e iniziamo a percorrere una strada ad una sola corsia che attraversa piccoli villaggi e i loro mercati. La povertà che vediamo in questi villaggi non è straziante quanto quella osservata uscendo dalla Capitale.

Intorno ai villaggi solo campagna; sulla strada camion, api Piaggio, risciò, autobus, camioncini stracarichi di passeggeri ammassati l’uno sull’altro, carretti trainati da cammelli, qualche trattore.

All’orizzonte ogni tanto si intravede qualche ciminiera delle fornaci dove si producono mattoni.

Facciamo una pausa di mezz’ora in un ristorante, siamo ormai quasi entrati nel Rajastan. Alle 14 arriviamo alla periferia nord di Jhunjhunu: qui sorge il tempio Rani Sati.

Davanti all’ingresso del tempio sostano tanti tuc-tuc, tutti coloratissimi; tutt’ intorno, tante bancarelle dove comprare fiori e dolci da offrire alle divinità del tempio. Entriamo nel primo cortile del complesso religioso: qui si trovano le celle destinate ad ospitare i pellegrini. Al centro del secondo cortile, circondato da altre celle, un tempio di epoca recente.

Da qui si passa ad un terzo cortile dove sorge il tempio antico: purtroppo l’ingresso è previsto solo a partire dalle 15 e manca più di mezz’ora.

Con un po’di rammarico, decidiamo di ripartire subito per Mandawa, evitando di visitare il bazar e le haveli di Jhunjhunu. Il paesaggio nel frattempo è diventato desertico.

Dopo un’ora arriviamo al Mandawa Desert Resort: il posto è bellissimo, una struttura principale con cortile intorno ai quali si aprono le stanze e le suite, e capanne circolari. Il tutto è color terra e riproduce l’architettura dei villaggi della zona. Il nostro bungalow è composto da due edifici circolari: nel primo c’è l’ingresso e la camera da letto, nel secondo c’è il bagno suddiviso in tre zone distinte (ingresso/lavabo, W.C., doccia/vasca).

Alle 16 andiamo a Mandawa: prima di entrare nel paese ci fermiamo in una banca. La banca sta chiudendo: due uomini armarti di doppiette da caccia stanno uscendo dalla saracinesca mezza abbassata. Il cambio che mi offre il direttore non ci soddisfa: decidiamo di cambiare gli euro in città. Mahesh ci porta da un suo amico orafo che ci cambia gli euro senza commissione (1 euro = 65 Rupie).

Sistemata la faccenda dei soldi, possiamo partire alla scoperta delle haveli, le bellissime e signorili abitazioni dipinte che i mercanti locali si fecero costruire grazie ai loro guadagni tra il 1850 e il 1930.

Le haveli hanno cortili a due livelli e tetto piano terrazzato: gli affreschi, di motivo religioso o profano, sono bellissimi anche se spesso mal conservati.

Nelle haveli oggi abitano i custodi, gente povera che campa con le mance dei turisti e con la vendita di pochi souvenir: i proprietari vivono invece lontano, a Jaipur. Le haveli prive di custodi cadono in rovina, altre invece sono state trasformate in hotel.

Ne visitiamo diverse per poi andare al castello, strasformato anch’esso in hotel: dopo essere entrati nel primo cortile, decidiamo di non pagare le 70 rupie a persona per la visita.

Torniamo indietro fino alla porta della città vecchia e al bazar che inizia subito fuori di essa: qui veniamo circondati da parecchi ragazzi locali che, in perfetto italiano, ci offrono di farci da guida o di portarci nel loro negozio.

Proseguiamo la visita di Mandawa da soli entrando in un paio di templi hindu.

Paghiamo l’ingresso solo ad un haveli dove il proprietario cerca di venderci di tutto, persino un libro in francese. Qui visitiamo una stanza affrescata e ricoperta di lamine d’oro.

Alle 18.15 il sole tramonta: raggiungiamo nuovamente il castello, dietro il quale, alla sommità di una vecchia casa, c’è il Monica Restaurant. Rinunciamo a sederci fuori sul terrazzo visto che la temperatura è scesa notevolmente. La cena è ottima: usciamo e troviamo Mahesh ad attenderci. Tornati in hotel, acquistiamo una tipica marionetta del maharaja con testa e mani in porcellana e vesti riccamente cucite.

4° giorno: venerdì 17 febbraio 2012

Dopo colazione, facciamo una passeggiata nel resort: scopriamo alcuni scoiattoli che si infilano all’interno del tetto in paglia del nostro bungalow.

Alle 9 partiamo per Fathepur, distante da Mandawa appena 20 Km. A Fathepur visitiamo diverse haveli tra cui quella di Nadine, museo-atelier. Questa, restaurata da un’artista europea, è la haveli meglio conservata ma anche la meno affascinante. Lungo i margini delle strade sterrate corrono i canali delle fogne a cielo aperto: le vacche e i loro escrementi ci sbarrano spesso il passo.

Ripartiamo per Bikaner: decidiamo di saltare il pranzo per guadagnare tempo.

A Bikaner andiamo subito al Junagarh, l’antico palazzo del maharaja costruito a partire dalla seconda metà del XV secolo con la pietra locale color avorio.

Dopo due ore, terminata la visita, andiamo subito a Deshnoke, a 30 km a nord di Bikaner: la nostra meta è il Tempio dei Topi.

Visitiamo il tempio, architettonicamente niente di eccezionale, mentre i topolini di passano vicino; i fedeli gli offrono quantità industriali di cibo.

La sporcizia e la conseguente puzza sono causati non dai topi ma dagli escrementi che i piccioni depositano nel cortile del tempio. Passeggiare in queste condizioni senza scarpe nel cortile non è proprio la cosa più piacevole del mondo.

Usciti dal tempio, bevo con Mahesh il mio primo “masala chai” (te con latte, ginger e zucchero).

Torniamo a Bikaner e andiamo al tempio gianaista Bandashar. Qui troviamo un gruppo di turisti italiani ai quali un monaco, vestito solo dalla cintola in giù di un telo bianco, sta dando spiegazioni sul gianismo. Il tempio si articola in tre livelli: da quello più alto godiamo un bellissimo panorama della città.

Da qui ci spostiamo ad un vicino tempio hindù dove, per la prima volta, oltre alle scarpe ci fanno togliere anche le calze. Dopo aver visitato altri due templi scendiamo al bazar. Al tramonto dai templi udiamo una musica: Mahesh ci spiega che questa musica annuncia che gli dei stanno andando a dormire.

Il bazar di Bikaner è grande e caotico: qui, come nei mercati del mondo arabo, ogni zona è dedicata ad una particolare mercanzia.

Mahesh ci porta in auto fuori dalla città vecchia al ristorante posto all’ultimo piano dell’hotel Harasar haveli. Davanti all’hotel troviamo il corteo dello sposo: un altro l’avevamo incontrato nel pomeriggio davanti alla casa dello sposo.

Scopriamo che il venerdì è giorno festivo e quindi stasera ci celebrano tantissimi matrimoni. Dalla terrazza del ristorante si sentono musiche diverse provenienti da vari hotel dove sono in corso sfarzose feste nuziali. In cielo si possono ammirare fuochi d’artificio.

Terminata la cena, ce ne andiamo al nostro hotel: questo si trova in un’ala del palazzo che il marhaja di Bikaner si fece costruire con tutte le comodità moderne da un architetto inglese nel 1902.

Nel grande giardino antistante al palazzo è in corso un’altra festa nuziale: sta arrivando il corteo dello sposo e ci accodiamo agli invitati. Nel corteo suonano contemporaneamente la banda (con cornamuse, fiati e tamburi) e il deejay con la sua console mobile. Entrati nel perimetro della festa, vediamo lunghissimi buffet dove i camerieri servono ogni genere di piatto. In fondo al giardino c’è il palco dove lo sposo sta attendendo la sposa. Le persone sono molto gentili, soprattutto le donne che vogliono parlare e conoscerci. Ci offrono da mangiare e da bere.

Alle 23 arriva la sposa: è giovanissima e bellissima con il suo prezioso sari, così come le altre donne presenti alla festa. Non so come possano resistere, abbigliate in questo modo, al freddo della notte. A mezzanotte lasciamo la fredda: infreddoliti, satolli e felici.

5° giorno: sabato 18 febbraio 2012

Dopo colazione, facciamo un giretto per il bellissimo palazzo. L’hotel è vecchiotto: la stanza è fredda, in bagno non c’è acqua calda, la colazione è solo passabile.

Partiamo: la prima sosta è in prossimità di un passaggio a livello. In India in questi posti si conosce tanta gente: infatti tutti scendono dal proprio mezzo di trasporto e si intrattengono con gli altri viaggiatori. Alcuni signori mi pregano di farmi una foto con loro: finora ci era stato chiesto spesso di scattare una foto da donne e bambini ma non insieme a loro. Intorno al passaggio a livello ci sono un caffè-ristorante e vari venditori ambulanti.

La seconda sosta è al villaggio di Kinchan: qui c’è un laghetto dove vanno a nutrirsi le damigelle nubiane. Andiamo al view point del lago ma di uccelli neanche l’ombra.

Da qui ci spostiamo al tempio di Ramdeora. In questo santuario hindu arrivano fedeli da tutta l’India. Per arrivarci, bisogna attraversare il mercato dove compriamo cibo e bandierine da offrire alla divinità.

Fatta la nostra offerta al dio, il bramino del tempio a sua volta ci da del cibo benedetto ma noi ci guardiamo bene dal mangiarlo.

Dopo esserci fermati a pranzo in un ristorante lungo la strada, ripartiamo per Jaisalmer dove arriviamo alle 16.

Dopo il check in hotel, situato come gli altri finora utilizzati lontano dalla città vecchia, andiamo subito al bel tempio gianaista di Loutrava e poi ai cenotafi di Bara Bagh.

Quest’ultimo era un luogo sacro dove in passato c’era un lago che ora non c’è più: qui venivano seppellite le mogli che si erano immolate sul rogo alla morte del proprio marito. I cenotafi sono stati costruiti tra il 1600 e il 1940.

Torniamo a Jaisalmer per ammirare la città al tramonto dal Sunset Point: qui sorgono altri cenotafi meno belli di quelli di Bara Bagh. Il sito è proprietà del Marhaja di Jaisalmer che pretende per accedervi il pagamento di un biglietto d’ingresso.

Tramontato il sole, ci facciamo portare da Mahesh in un centro di massaggi ayurvedici. Qui i prezzi sono altissimi: paghiamo 3.500 rupie per un’ora di massaggi con olio su tutto il corpo.

Dopo la cena, consumata in altro ristorante fuori dalla città vecchia consigliatoci da Mahesh, torniamo nel nostro hotel.

6° giorno: domenica 19 febbraio 2012

Ci incontriamo di buon’ora con la nostra guida in hotel: si chiama Prakash Shripat e appartiene alla casta dei bramini.

Prakash studia italiano da un anno e mezzo; è appassionato di body building e vive con nonna, madre, moglie e tre figlie all’interno del forte di Jaisalmer.

Mahesh ci porta davanti alla porta del forte. Il forte ha tre cinte murarie: la prima, quella più esterna, è molto danneggiata e in via di restauro.

La giornata è splendida e calda; da subito capiamo che Prakash è bravo e preparato.

La pietra con cui è costruito il forte al sole assume un colore dorato.

Entriamo nel tempio gianaista: un vero capolavoro; da qui passiamo al tempio hindu. Qui assistiamo ad un rito religioso, il corrispettivo della nostra messa: è breve e tutti i fedeli cantano mentre Prakash suona il tamburo rituale.

Girando nelle viuzze del forte Prakash ci spiega che dentro le mura vivono solo le caste dei guerrieri e dei bramini. In Rajastan, ci spiega Prakash, vige ancora il sistema delle caste anche se ufficialmente abolito da 50 anni.

Prakash si è sposato con una donna della sua casta: si reputa fortunato in quanto ha potuto tener d’occhio la futura moglie in quanto sua vicina di casa. I matrimoni infatti sono combinati e se la futura moglie vive in un’altra città, l’uomo non può avere garanzie sulla sua moralità. I matrimoni hindu, secondo Prakash, seppur combinati dalle famiglie degli sposi funzionano perché prima del fidanzamento vengono studiati meticolosamente gli astri. Non è facile trovare la sposa o lo sposo perché non basta l’affinità astrologica: è necessario infatti rispettare un complicatissimo sistema secondo il quale due ragazzi della stessa casta non possono sposarsi se già è avvenuto un matrimonio tra due parenti stretti rispettivamente del marito e della moglie.

Non senza amarezza e rassegnazione, Prakash ci racconta che al suo matrimonio non ha potuto invitare l’amico della palestra perché questo fa parte della casta degli intoccabili. Qualcuno tra gli intoccabili riesce a studiare e magari diventa insegnante o medico o avvocato ma anche così non azzera la distanza che lo separa dalle altre tre caste.

Prakash ci spiega poi che i matrimoni misti qui in Rajastan sono impensabili; ci mostra una bella casa appena restaurata. Ci spiega che la proprietaria è una donna italiana che, innamoratasi di un uomo di Jaisalmer, ha deciso di investire qui i suoi soldi per aprire un hotel. Purtroppo per lei, la famiglia di lui non ha accettato questa unione. La casa nel forte di Jaisalmer è ora abitata dalla famiglia di lui che, ostracizzato, vive con lei nella lontana metropoli di Delhi.

Passiamo davanti all’abitazione di Prakash: qui troviamo una bambina, è la sua primogenita e ha 10 anni. Prakash ce la presenta e obbliga la figlia a parlarci in italiano. Passeggiamo sui bastioni. Nel forte vivono 4.000 persone: parecchie case vecchie vengono abbattute e al loro posto vengono costruite nuovi edifici nel vecchio stile.

Ci sono ancora valenti scalpellini locali che sanno lavorare mirabilmente la pietra locale: le finestre delle facciate sembrano realizzate in filigrana.

Scendiamo nella città vecchia dove abitano i mercanti: questi sono tutti gianaisti. In passato erano richissimi perché commerciavano l’oppio e altre preziose mercanzie lungo la Via della Seta. Testimonianze della grande ricchezza raggiunta da questa casta sono le cinque opulente haveli costruite qui da cinque fratelli a metà del XIX secolo: visitiamo la prima, trasformata in museo da Indira Gandhi.

Dopo l’indipendenza dell’India, il commercio a Jaisalmer andò in crisi e i mercanti lasciarono la città.

Nel 1978 Indira Gandhi diede impulso al turismo: oggi la quasi totalità della popolazione della città vive di questo.

Andiamo in una cooperativa statale intitolata, guarda caso, a Indira Gandhi: qui si vendono abiti realizzati dalle vedove che così hanno di che vivere visto che sono le reiette della società indiana.

Ci spostiamo fuori città dove ci aspetta nella sua grande casa-atelier un argentiere amico di Prakash: qui Claudia, tra un infinità di monili antichi e nuovi, sceglie un anello antico con una bella pietra.

Ripartiamo alle 16.30: lasciato Prakash al forte, ci dirigiamo a Khuri, il villaggio da cui parte il nostro giro per il deserto con i cammelli. Dopo tre quarti d’ora siamo a Khuri: qui incontriamo gruppi di donne con i loro coloratissimi vestiti e le conche di metallo sulla testa che, a piedi, stanno andando al pozzo a prendere l’acqua.

Due cammellieri, uno giovane e uno anziano, ci portano a dorso di camello fino alle dune da cui ammireremo il tramonto.

Arrivati, troviamo le dune piene di turisti: finito lo spettacolo, aspettiamo che se ne vadano tutti per goderci un po’ di silenzio e ritornare al villaggio.

Claudia chiede al suo cammelliere di poter andare al trotto. Il cammelliere accetta e sale dietro la suo cammello; prende poi la corda del mio, per consentire al mio cammelliere di salire in groppo al mio cammello.

In quel momento il mio cammello si imbizzarrisce e parte a razzo. Sono solo in groppa ad un cammello imbizzarrito che mi ha quasi disarcionato: fortunatamente il mio cammelliere riesce a riprendere in mano la situazione. Torniamo al villaggio al passo, altro che trotto!

Sulla via del ritorno, decidiamo di comprare dall’argentiere una colonna vista nel pomeriggio. Chiamiamo Prakash che avvisa l’argentiere: una volta giunti all’atelier, prendiamo la collana e andiamo a cena.

7° giorno: lunedì 20 febbraio 2012

Iniziamo la giornata con un giro per il forte di mattina presto: senza turisti e venditori il posto è veramente bellissimo. Passeggiamo per un’ora tra le viuzze sporche e gli odori forti. Nel forte possono circolare solo moto.

Due volte troviamo gruppi di uomini per strada e, poco più in là, gruppi di donne: si tratta di veglie funebri. Queste, come ci ha spiegato ieri Prakash, durano 12 giorni e obbligano la famiglia del defunto a svuotare casa per dare ospitalità a tutti i vicini e parenti. In effetti la morte di un parente è la spesa più grande che una famiglia deve affrontare dopo il matrimonio del proprio figlio o della propria figlia. Questi due eventi, secondo Prakash, mettono a dura prova le finanze delle famiglie: lui, con tre figlie piccole, già sta mettendo da parte i soldi. Alla morte di un parente, gli uomini della famiglia si radono a zero i capelli: tutti i familiari dormono a terra per tutta la durata della veglia.

Prima di lasciare il forte saliamo sul terrazzo di un hotel per poter ammirare dall’alto le bellissime cupole del tempio gianaista.

In auto andiamo al Lago delle donne: passeggiamo lungo i suoi argini fino ad avere una visuale completa di tutti i cenotafi presenti nel sito.

Quando ripartiamo capiamo che è troppo tardi per andare a Monte Abu: decidiamo di saltare questa tappa e rimanere due notti a Jodhpur. Chiamiamo Karni ma ci risponde che è occupato e ci richiamerà.

Ci fermiamo per una sosta in un ristorante: un ragazzino si esibisce per noi in alcuni giochi di prestigio. Mahesh ci dice che è uno zingarello.

Arriviamo al villaggio di Osian tardissimo a causa delle pessime condizioni della strada: visitiamo il tempio hindu a cui si accede tramite una ripida scalinata coperta.

Usciti dal tempio, facciamo le classiche foto con gruppi di amici e intere famiglie e poi passeggiamo nel villaggio: è la solita baraonda di rumore, colori, odori.

Entriamo nel tempio gianista: niente di nuovo rispetto a quanto già finora visto.

Sulla via del ritorno vediamo un cortile di una casa con donne e bambini: ci invitano ad entrare. Li fotografiamo: sono belli e, come sempre, sorridenti.

Alle 15 ripartiamo: dopo un’ora siamo a Mandore, davanti ai giardini pubblici.

Qui, tra i cenotafi realizzati tra il 1560 ed il 1750, vivono colonie di scimmie; saliamo fino al castello. Nel frattempo Karni ha chiamato Mahesh per dirgli che presso il nostro hotel a Jodhpur per la seconda notte è libera solo una suite, per la quale dobbiamo sborsare una bella sommetta.

Da qui partiamo per Jodhpur: l’hotel è la solita struttura di lusso per turisti stranieri, lontano dalla città vecchia. Mahesh ci lascia, indicandoci per la cena il ristorante “On the Rocks” che possiamo raggiungere a piedi.

Ci riposiamo un’oretta; nel frattempo Claudia chiama il primo degli alberghi che ci segnala la nostra Lonely Planet prenotando una stanza per l’indomani.

Il ristorante è bello: si cena in giardino; la parte al chiuso è un pub finto “etnico” molto fighetto e costoso dove un dj sta suonando la sua musica dance commerciale anche se la piccola pista è vuota (così come il locale).

8° giorno: martedì 21 febbraio 2012

Claudia ha mal di pancia: arriviamo con mezz’ora di ritardo all’appuntamento con Mahesh. Andiamo subito al Palazzo del Maharaja. Questo enorme palazzo, situato su di un’altura, in posizione diametralmente opposta al forte, fu costruito da un architetto inglese negli anni ’20 del secolo scorso: oggi, oltre ad ospitare il Maraja, è la sede di un hotel a svariate stelle e di un museo. Scattiamo qualche foto all’ingresso del palazzo e andiamo al forte.

Entrati, prendiamo l’audioguida (è gratuita!) che ci spiega benissimo la storia del forte. Dopo tre ore, siamo fuori: troviamo, come sempre, Mahesh ad attenderci. Fa molto caldo.

Andiamo al Baby Taj (Jaswat Thada): ci riposiamo all’ombra degli alberi del bel giardino e poi entriamo all’interno del monumento risalente al 1899.

I muri in marmo sono talmente sottili che il bianco dei muri, colpito dalla luce che entra dai finestroni, si tramuta in color oro.

Alle 14.30 partiamo per la città vecchia: Mahesh ci lascia davanti alla porta nord del Sandar Market. Pochi passi ci dividono dal Pal Haveli, un’antica dimora che oggi ospita la nostra guest house e un altro albergo.

Saliamo subito in camera: è pulita e spaziosa. Ci riposiamo e dopo un’ora siamo alla reception per registrarci: mi tocca firmare un registro grande quanto un tavolo.

Usciti fuori, andiamo al Gulab Sagar, una grande vasca di raccolta dell’acqua. Da qui ci spostiamo alla Torre dell’Orologio, situato nel mezzo del mercato: da qui ci dirigiamo a ovest al Tambaku Bazar e poi, tornati indietro, percorriamo il caotico viale del Nai Sarak in direzione sud.

Torniamo di nuovo al mercato: qui Claudia fa incetta di braccialetti, la sua passione. Entriamo in un negozio di spezie: lo speziale ci spiega come riconoscere lo zafferano puro dai vari mix che si trovano in commercio. Lo zafferano puro, contrariamente ai mix, se bagnato rilascia il colore giallo lentamente e rimane integro. Ci vengono poi illustrate le differenze tra i diversi tipi di churry.

Acquistiamo un mix di spezie da bollire insieme al tè, allo zucchero e al latte: beviamo poi un infuso rinvigorente che si ottiene bollendo nell’acqua un pizzico di zenzero, due chicchi aperti di cardamomo (quello chiaro che si usa solo per i dolci) e un pezzettino di cannella.

Da qui andiamo in un negozio dove compriamo due pashmine: dopo un’estenuante contrattazione riusciamo ad abbassare il prezzo da 5.600 a 1.800 rupie.

E’ ora della cena: lo speziale ci ha consigliato il Nirvana, un ristorantino disposto sulla terrazza di un tempio hindu. La cena, vegetariana, si rivela buona ed economica: dalla terrazza si ha una bella vista del forte.

Usciti dal ristorante, ripassiamo dal mercato: i negozi stanno chiudendo, sui carretti dei fruttivendoli la merce è già imballata. Nel Sardar Market c’è ora un silenzio impensabile fino a un’ora fa.

Torniamo in albergo e, dopo aver attraversato il primo cortile, andiamo a sbirciare quello dell’altro hotel, l’Haveli Palace. Il cortile è bellissimo con i saloni d’estate che si aprono su due dei suoi quattro lati: mi tornano in mente le case dei mercanti viste a Bukara, Khiva e Samarcanda.

9° giorno: mercoledì 22 febbraio 2012

Stamattina per la prima volta in questo viaggio abbiamo sentito i rumori della città che si sveglia: negli altri hotel, tutti situati in periferia, questo era impossibile.

Ci incontriamo con Mahesh alla porta sud del mercato: dopo 20 minuti ci fermiamo nel villaggio di Kakana. Qui c’è una cooperativa che vende i tappeti con disegni geometrici realizzati dagli artigiani locali.

Ci spiegano che per un tappeto di 1,20 x 1,80 m due persone impiegano un mese di lavoro: i fili colorati vengono infatti intrecciati agli altri tesi sul telaio.

Vediamo tanti tappeti prima che Claudia riesca a sceglierne uno. Delle tre dimensioni esistenti, a Claudia interessano quelli di 1,20 x 1,80 m. Dopo una lunga contrattazione, riusciamo a far scendere il prezzo da 9.500 a 6.300 rupie, corrispondenti a circa 100 euro.

Ripartiti, per strada ci fermiamo per fotografare due contadini che stanno macinando il sesamo con una grossa macina di pietra mossa da un bue. Ci fanno assaggiare un impasto di sesamo e zucchero e poi un foglio sottile di colore giallo che i contadini stanno facendo seccare al sole. Prima di andarcene Claudia mette a segno un altro colpo per la causa della pulizia dal Rajasthan regalando una saponetta ai due contadini.

Alle 13.30 arriviamo a Ranaktapur: ci fermiamo per fare qualche foto al bazar. Da qui percorriamo i 9 Km che ci separano dall’antico complesso di templi gianaisti.

Pagato il permesso di scattare foto (si paga per ogni macchina fotografica), i custodi ci fanno lasciare all’ingresso del tempio principale le bottiglie dell’acqua e le cinte.

Il tempio è enorme, tutto di marmo con varie cupole: tutte le superfici sono finemente cesellate. Visitati altri templi, ripartiamo: per strada ci fermiamo per osservare un vecchio che conduce due vacche che con il loro movimento azionano una macchina che porta in alto l’acqua da un profondo pozzo.

Il paesaggio è cambiato: da brullo e arido è ora diventato verde e coltivato. Ora si vedono banani, palme ma, soprattutto, campi coltivati a orzo. Dopo Ranakpur la strada inizia a salire: ora percorriamo una ripida strada di montagna.

Mahesh sta guidando davvero come Schumacker, il pilota a cui, scherzosamente, spesso lo paragoniamo.

Alle 16.15 arriviamo al forte di Kumbalgarh: le mura di questa fortezza sono imponenti e lunghissime. All’interno della cerchia sorgono templi, cenotafi e antiche abitazioni ancora abitate. Sullo sperone più alto di questo enorme complesso difensivo sorge la fortezza vera e propria. Una porzione della cerchia di mura esterne è in via di restauro. Dentro la fortezza troviamo una scolaresca femminile in gita; varie persone, soprattutto giovani madri, ci chiedono di fotografarle insieme ai loro bambini. Non vogliono la foto: si accontentano di vederla dalla macchinetta.

Terminata la visita, partiamo per Udaipur dove arriviamo alle 19.45 dopo due ore di viaggio. La città è meta di un turismo locale di coppia essendo il lago una location molto romantica.

Il nostro hotel sembra una bomboniera: sorge sul lago, a sud della città.

Andiamo a cena al 1559 AD, un ristorante un ristorante chic dotato di un bel giardino. Decidiamo ci cenare fuori al lume di candela: in sottofondo c’è la musica tradizionale suonata da due musicisti, un flautista e un percussionista. Le sale interne sono molto belle, così come il bar e la caffetteria.

Durante la cena appare dal nulla un cameriere non appena un bicchiere o un piatto sono vuoti. La cena, naturalmente, si rivela la più cara del viaggio.

10° giorno: giovedì 23 febbraio 2012

Andiamo al Palace City: prendiamo l’audioguida in spagnolo, visto che in italiano non c’è. Terminata la visita al palazzo andiamo al molo dove in continuazione partono piccoli battelli che fanno il tour del lago Pichola. Da qui partono anche le barche che portano i turisti sull’isola di Jagmandir, nell’hotel ricavato dal palazzo estivo del maharajà.

Il giro è breve: in un quarto d’ora il battello va prima verso la città vecchia, poi vira tornando indietro e fermandosi all’isola di Jagmandir. Qui scendiamo tutti e ci facciamo una passeggiata nei giardini dell’hotel.

Dopo 45 minuti siamo di nuovo al Palace City: di nuovo devo mostrare i cinque biglietti che ci hanno dato all’ingresso. I soldati del maharajà non portano armi: del resto neanche i poliziotti ne hanno, si servono solo di una mazza di bambù.

Usciti dal palazzo, ci addentriamo nella città vecchia fino alla torre dell’orologio: da qui passiamo al bazar davanti ai negozi di orafi e commercianti di tessuti.

Tornati alla torre dell’orologio, scendiamo verso il lago fino alla porta oltre la quale c’è il ponte pedonale. Da qui c’è una bella vista del City Palace: sotto di noi alcune donne stanno lavando i panni nel lago.

Tornati indietro, arriviamo ad un palazzo con una triplice arcata: attraverso questi archi vediamo le acque del lago che, colpite dalla luce del sole, sembrano d’oro.

A sinistra di questo edificio c’è l’Haveli caldamente consigliata dalla Lonely Planet: al suo interno c’è un museo. L’edificio è incorso di ristrutturazione: il museo non è molto interessante e noi siamo stanchi a causa del gran caldo. Facciamo una breve visita del museo e torniamo verso il City Palace. Ci fermiamo un po’ in un bel tempio hindu e poi riattraversiamo il Palazzo mostrando per l’ennesima volta i biglietti.

Alle 17.30 abbiamo appuntamento con Mahesh ma lui non c’è. Lo chiamo grazie alla scheda telefonica che ci ha dato al nostro arrivo in India. Aspettiamo 20 minuti ed ecco il nostro driver: gli chiediamo di portarci al Monsoon Palace.

Mahesh ci dice che il palazzo è lontano, sulla montagna, ma ci accontenta: partiamo a tutta velocità.

Superiamo tutti i tornanti che ci separano da quella che un tempo era la riserva di caccia del Maharaja: arriviamo subito prima del tramonto.

Il palazzo si trova su di un monte che domina tutti il territorio circostante: da qui la vista mozza il fiato.

Tutto intorno al palazzo che il Maharaja donò alla cittadinanza nel 1954 oggi c’è il Sajjan Garh Wildlife Sanctuary. Per accedere alla riserva è necessario pagare un biglietto a persona e uno per l’auto di 130 rupie.

Il palazzo, in via di restauro in quanto davvero mal messo, guarda verso i monti e non verso la città. Nelle miniature dei secoli XVIII-XX, da noi ammirate al City Palace, erano raffigurate moltissime scene di caccia che si tenevano in questa riserva. Qui vivevano orsi, tigri e leopardi: questi animali ora sono estinti.

Torniamo in città dopo il tramonto: chiediamo a Mahesh di lasciarci al ponte pedonale ma rimaniamo bloccati prima di arrivarci a causa del passaggio di una sposa. Scendiamo dall’auto per fotografare il carro d’argento della sposa trainato da due cavalli riccamente addobbati. Il carro è seguito dalle donne con i loro coloratissimi sari che portano in testa giare di metallo.

Siamo nel quartiere aldilà del City Palace: per cena scegliamo un ristorante da cui ammirare il Palazzo illuminato. Questo è il quartiere degli hotel turistici e delle botteghe di miniature, qui nate all’inizio del Settecento.

La serata è calda; la cena buona ma cara; torniamo in hotel in tuc-tuc: per strada vediamo diverse feste di matrimonio.

11° giorno: venerdì 24 febbraio 2012

Alle 8 di una calda mattina lasciamo Udaipur; poco dopo Mahesh si ferma per comprare una nuova ghirlanda da porre intorno all’immagine di Ganesh che sta sul cruscotto della sua auto.

Il paesaggio intanto è di nuovo cambiato: ora è pianeggiante ed è coltivato a oppio. Qui l’oppio è legale: il Governo Indiano preleva tutti i fiori per uso farmaceutico. I fiori di oppio ora sono bianchi: assumeranno il colore rosso in aprile. Le case dei contadini sono costruite in terra cruda: è la prima volta che ne vediamo realizzate in questo materiale.

Arriviamo a Chittorgar: in alto si vede il colle su cui sorge il forte che con le sue lunghissime mura domina la città. Entriamo nel forte: qui sorgono, sparsi tra la vegetazione che cresce in questo sito disabitato, grandi vasche per la raccolta dell’acqua, templi, palazzi e due torri.

La torre più alta (38 metri) risale al 1448: saliamo la stretta e ripida scalinata fino al nono e ultimo livello da cui la nostra vista può spaziare su tutto il forte.

Ci spostiamo in auto da un monumento all’altro anche se si potrebbe fare anche a piedi. E’ passato mezzogiorno quando ripartiamo.

Ci fermiamo lungo la strada per fare il pieno e pranzare: mangiamo un’ottima zuppa di verdure e formaggio e beviamo il nostro primo lassi. I locali bevono il lassi salato (con “garlic” o “onion”): noi invece assaggiamo la versione dolce.

Siamo ad Ajmer alle 16.30: il traffico in città è incredibile. Con difficoltà arriviamo al tempio gianaista: è ancora aperto nonostante l’orario di chiusura sia fissato alle 16. In un enome salone su due livelli vediamo tramite spesse vetrate la ricostruzione ideale del mondo ultraterreno per i gianaisti. Il plastico sembra un’enorme giocattolo per bambini però è tutto d’oro. Il tempio vero e proprio invece non è visitabile dai turisti.

Da qui andiamo al santuario islamico più importante dell’India. Per arrivarci bisogna attraversare le strette stradine della città vecchia e quindi ci serve un tuc tuc. Troviamo un’autista sikh che per 200 rupie ci accompagnerà alla moschea e poi ci riporterà alla nostra auto. Il nostro autista si rivela un asso del volante: attraversiamo le viuzze a velocità folle schivando animali, persone, carretti, moto, tuc tuc e tutto ciò che ci si para davanti.

Arrivati davanti alla moschea, le guardie non mi fanno entrare perché ho la macchinetta fotografica: torno indietro e la lascio al nostro sikh. La sorveglianza del sito da parte della polizia è molto forte: qui infatti nel 2007 ci fu un attentato.

Il complesso religioso è cresciuto intorno alla tomba che custodisce le spoglie di un mistico sufi che qui morì. I fedeli hanno tutti in testa cappelli e fazzoletti bianchi; gli edifici sono tinti di verde, il colore sacro dell’Islam.

Nel primo cortile che incontriamo ci sono due enormi forni: non capiamo cosa ci cuociano. Prima di entrare nella tomba del santo ci fanno compilare un registro con i nostri dati e poi ci fanno lasciare un’offerta.

Entrato all’interno della stanza dove c’è la tomba (completamente rivestita d’argento), esco subito a causa della calca di fedeli.

Ripartiamo per andare a vedere il tramonto a Pushkar: arriviamo dopo mezz’ora al Sunset Point del Ghat. Una volta ammirato il tramonto, andiamo in hotel e poi ci facciamo un giro in città.

Pushkar è piena di turisti occidentali giovani e fricchettoni. Percoriamo la via parallela al lago sacro e ai Ghat: i negozi vendono abbigliamento esotico che si trova in qualsiasi negozio occidentale, poster e dipinti fricchettoni, sigarette e snack europei. Insomma c’è tutto quello che serve a soddisfare i gusti del giovane turista occidentale. Anche i ristoranti si sono allineati a questa tendenza: infatti offrono cucina internazionale oltre che locale. Troviamo ristoranti italiani, israeliani, forni tedeschi, caffè. Noi scegliamo il Sixt Sens: un ristorante che sorge all’ultimo piano di un hotel. Il cortile è molto bello: al centro c’è una fontana piena di rose rosse. La cucina è al piano terra: le vivande vengono trasportate tramite una carrucola e una fune. Dopo una cena insapore, torniamo verso l’hotel: ci intrufoliamo in una festa di matrimonio. C’è poca gente: alcuni ragazzini stanno cantando su una canzone di Shakera sparata a tutto volume. Passiamo ad un’altra festa nuziale: dopo aver assaggiato un dolce, torniamo in hotel.

12° giorno: sabato 25 febbraio 2012

Alle 7.45 già siamo camminando verso il Ghat: dopo un quarto d’ora arriviamo al Sunset Point. Pushkar è già sveglia: i baba con le loro vesti arancioni hanno già fatto sparire i loro miseri giacigli nei quali la notte dormono all’addiaccio; i negozi sono tutti aperti, i fedeli si stanno bagnano nelle acque del lago sacro. Nelle altre città del Rajastan questo sarebbe impensabile.

Percorriamo tutti i ghat, rimanendo sempre nella parte più alta oltre la ringhiera metallica, quella dove ai non fedeli è consentito passare e non togliersi le scarpe. Arriviamo così al Tempio di Brahma, l’unico in India dedicato a questa divinità.

Ogni ghat ha un nome differente: alcuni non sono accessibili a tutte le caste.

Più volte uomini provano invano a darci un fiore (qui è un portafortuna) in cambio di un’offerta in denaro.

Alcuni predicatori stanno tenendo i loro sermoni a gruppi numerosi di fedeli; sui ghat ci sono parecchi inservienti che hanno il compito di non far durare il bafno dei fedeli più del dovuto. Gli uomini s’immergono in mutande nelle vasche che sorgono ai bordi del lago; le donne vi s’immergono completamente vestite. Quando escono dal lago le donne riescono a spogliarsi e cambiarsi di vesti con un’abilità tale da non mostrare alcuna parte nuda del loro corpo: le vesti bagnate vengono lavate di nuovo nelle sacre acque del lago.

Nel tempio di Brahma ci fanno lasciare fuori non solo le scarpe ma anche le macchinette fotografiche. Rispetto ai templi hindu che finora abbiamo visitato, saltano subito all’occhio le lastre commemorative dei defunti presenti sia nel pavimento che alle pareti del tempio.

Alle 10 siamo in hotel: possiamo partire per Jaipur, dove arriviamo dopo tre ore di viaggio su una strada trafficatissima. Fatto il check-inn in hotel, andiamo subito sulla montagna fuori città per visitare il tempio delle scimmie. Intorno al tempio sorgono una serie di vasche dove i fedeli si fanno il bagno.

Saliamo fino al Tempio del Sole: da qui si vede tutta la città. Da qui si può scendere a piedi fino a una delle porte della città vecchia: noi invece torniamo indietro dall’altra parte per raggiungere Mahesh.

Durante la passeggiata ci accompagnano le scimmiette dal sedere rosso e il manto marroncino: sono più docili di quelle incontrate in precedenza.

Tornati in città, ci facciamo lasciare da Mahesh nella piazza centrale della città vecchia. Mahesh se ne torna dalla sua famiglia, nel suo villaggio che si trova a 25 Km da Jaipur.

Attraversare la strada a Jaipur è pericolosissimo: qui il traffico è maggiore e più rumoroso di qualsiasi città finora visitata.

Giriamo per il Chalopi, frastornati dalla caos: gli edifici del mercato sono tutti di recente costruzione. Tutti gli edifici sono intonacati di rosa, così come le mura della città. Le porte della città sembrano appena costruite. Lasciata Claudia a vedere gli ennesimi negozi di bracciali, vado a piedi fino all’Albert Hall ma sia il palazzo che testimonia il dominio coloniale inglese sia il retrostante parco sono deludenti.

Alle 18.30 ci ritroviamo alla Porta di Ajmer: da qui prendiamo un risciò che ci porta al cinema più grande e bello di Jaipur, il Raj Mandir.

Lo spettacolo è già iniziato da 10 minuti: acquistiamo i biglietti per il box, la parte più alta che costa molto più della platea dove stanno gli spettatori più poveri. In platea il pubblico commenta ogni battuta del film, applaude, urla; nel box ci sono poche posti, occupati da noi e un paio di famiglie benestanti: l’aria condizionata è fortissima. Il film è solita commedia musical-sentimentale, ricca di canzoni, danze e colori, come tutte quelle prodotte a Bollywood: la trama è semplice, si tratta di una classica commedia degli equivoci. Nonostante sia solo in hindi e duri due ore e mezza, seguiamo il film senza problemi. Nel secondo tempo scendiamo in platea: qui il pubblico segue con grande partecipazione la trama fino all’annunciato lieto fine. Dal cinema andiamo a piedi, schivando tutte le madri e i bimbi mendicanti, il ristorante Niro’s. Questo locale, consigliato dalla Lonely Planet, è molto trendy: le cena è discreta.

13° giorno: domenica 26 febbraio 2012

Partiamo per l’Amber Fort, accompagnati da una guida locale, Raji.

Dopo 20 minuti di auto arriviamo al complesso le cui mura sono lunghe ben 12 Km.

Sulla montagna sopra l’Amber Fort si vede il forte di Jairghur.

Saliamo a piedi sul forte, accompagnati dagli elefanti che trasportano i turisti.

Visitiamo con calma il palazzo del Marahjà dentro al forte: la nostra guida non sembra molto preparata e a Claudia sta antipatica.

Torniamo in città, fermandoci prima a fotografare il Palazzo dell’Acqua, fatto costruire al centro di un lago artificiale dal Mahrajà nel 1799. Al momento il palazzo è in via di restauro: verrà trasformato in un hotel di lusso. Ci fermiamo qualche minuto a giocare a biglie con tre bambini.

Andiamo a visitare il Palazzo dei Venti, in realtà più bello all’esterno che all’interno: la visita comunque si rivela interessante.

Da qui passiamo a piedi all’Osservatorio astronomico. Qui Raji ci spiega con dovizia di particolari il funzionamento delle gigantesche meridiane e degli altri enormi strumenti astronomici costruiti nel 1728.

La tappa successiva è il City Palace, dove vive ancora la famiglia reale. Il maharajà è morto da poco: avendo solo una figlia, l’erede è il nipote che però ha solo 14 anni.

La famiglia reale vive sei mesi qui e i sei mesi più caldi a Londra: ha 600 dipendenti, insomma è un’azienda solida. Evitiamo la visita alle stanze della famiglia reale: costa 3.000 rupie!

Usciti dal Palazzo, Raji ci porta in una gioielleria enorme (ha quattro piani di esposizione!) che vende molto ai grossisti italiani. Ci viene mostrato come si lavorano le pietre preziose: queste arrivano qui da tutto il mondo. Le pietre vengono incastonate in gioielli d’oro e d’argento o rivendute sfuse.

Da qui andiamo in un negozio di stoffe: qui ci viene mostrata la tecnica tipica di Jaipur della stampa dei tessuti con colori naturali. Sullo stesso tessuto vengono effettuate, successivamente, cinque stampe ognuna di un colore diverso. Proviamo a fare la stampa su un tessuto con uno stampo in legno di tek dove è intagliato un elefante.

Ci spostiamo al bazar della Città vecchia perché Claudia vuole comprare altri braccialetti: quelli comprati ieri infatti si sono rivelati una fregatura visto che si sono rotti subito.

Lasciata la nostra guida che millanta di commerciare in gioielli e di avere una socia italiana che vive a Mestre, andiamo a conoscere Karni. Abita in un bel quartiere periferico di Jaipur: per arrivari in auto impieghiamo mezz’ora. All’inizio l’imbarazzo regna sovrano anche perché è molto riservato e non parla bene l’italiano: ci vengono offerti birra e salatini.

Ci chiede com’è andato il viaggio: ci lamentiamo di come lui abbia gestito il nostro cambio dell’itinerario e quindi della prenotazione della seconda notte a Jodhpur.

A questo punto arrivano altri due turisti clienti di Karni: sono due cantanti lirici italiani, marito e moglie. Hanno lavorato per venti giorni a Mumbai portando in scena le opere “I Pagliacci” e “Cavalleria Rusticana”: affermano, con orgoglio, di essere stati i primi cantanti lirici ad essersi esibiti in India. Dopo aver terminato il lavoro sono andati nel sud-ovest dell’India a trovare una bambina adottata a distanza e ora stanno facendo un breve tour di una settimana che li porterà fino a Varanasi.

Dopo esserci scambiati reciprocamente le impressioni sull’India, iniziamo a cenare: Karni, sua moglie e le due figlie di 11 e 13 anni non mangiano con noi. Al termine della cena ci vengono offerti dolci al cocco e whisky indiano: ora passiamo a parlare d’affari.

I due cantanti lirici si lamentano con Karni che il safari con l’elefante fatto oggi all’Amber Fort era in realtà una breve passeggiata di un quarto d’ora. Dopo un tira e molla, la guida gli fa uno sconto di 20 dollari. Prima di congedarci, la moglie di ci regala un copriletto matrimoniale in tessuto stampato.

Quello che ci ha colpito di Karni è stata la sua aria indifesa e timida. Noi ci aspettavamo come un arrogante business man: invece ci siamo trovati davanti una persona tranquilla e umile. Ultima annotazione della serata a casa sua: nel bagno c’era il bagno “alla turca” e un secchio d’acqua ma non la carta igienica. E’ proprio vero quello che c’è scritto sulla guida: gli indiani si puliscono il sedere con la mano (sinistra)!

14° giorno: lunedì 27 febbraio 2012

Alle 8 del mattino siamo già in viaggio: dopo un’ora ci fermiamo nel paese di Dausa, davanti a un tempio dedicato a Shiva realizzato con lo stesso stile del Sud.

A metà mattinata arriviamo a Fatherpur Sikri: Mahesh ci lascia in un centro turistico pieno di negozi di souvenir. Da qui prendiamo il bus navetta che ci porta al sito archeologico. Gli edifici dell’antica città di Fatherpur, abitata per soli 17 anni e poi abbandonata alla morte dell’imperatore Akbar, sono realizzati tutti in arenaria.

Cominciamo la visita del sito con il Palazzo Reale: molte guide locali ci offrono con insistenza i loro servigi ma rifiutiamo. Uomini e ragazzi cercano, senza successo, di venderci di tutto: libri, souvenir, cartoline, oggetti di antiquariato.

Anche se abbiamo passato solo da pochi chilometri il confine dello stato dell’Uttar Pradesh, avvertiamo subito che non siamo più in Rajastan.

Dal palazzo andiamo alla bellissima moschea ancora in uso: usciamo dalla sua porta che si apre sopra il villaggio di Sikri. Scendiamo la bella scalinata, attraversiamo il piccolo bazar, arriviamo alla Torre dell’Orologio e poi proseguiamo a piedi per l’Agra Road. Troviamo il centro turistico e il parcheggio poco più avanti.

Ripartiamo stanchi e accaldati per la vicina città di Agra: arriviamo in meno di un’ora. All’interno di Agra il traffico è infernale: per la prima volta vediamo Mahesh teso.

La strada per l’hotel è bloccata a causa delle elezioni politiche dello Stato: rimaniamo bloccati un’ora nel traffico. Decidiamo di andare subito all’Itimad-Ud-Daulaf, più comunemente noto come Baby Taj: questa splendida tomba in marmo sorge sulle rive del fiume Yamuna ed è circondata da un bel giardino.

Mangiamo qualche samosa, fritti ripieni di verdura e peperoncini verdi piccantissimi.

Sono le 16.30 quando andiamo al Moolight Garden (Mehtab Bagh). Prima di entrare nel complesso ci fermiamo in un bar all’aperto: alcuni avventuri si alzano liberando tre sedie per farci sedere. Mangiamo patatine bevendo chai; nel frattempo il proprietario del bar insieme alla moglie cuoce in una grande padella noodles in condizioni igieniche precarie.

Appena entrati nel Moolight Garden, il Taj Mahal ci appare sullo sfondo in tutta la sua bellezza: restiamo ad ammirare il monumento fino a che non scende la notte.

Il cielo purtroppo non è limpido: vediamo il Taj Mahal illuminato nella sua parte destra. Oltre il filo spinato che delimita il giardino c’è il letto sabbioso e secco del fiume Yamuna e, subito oltre, il Taj Mahal. Nel letto del fiume passano donne con cataste di legna sulla testa seguite da bambini cenciosi. Pochi metri alla nostra destra, parecchi turisti stanno scattando foto al monumento aldilà della recinzione del giardino.

Ci si avvicina un ragazzino magro, sporco e vestito di stracci. Ci si siede accanto e con una flebile cantilena ci chiede caramelle, cioccolata, soldi, penne. Al nostro secco no non se ne va: rimane con noi a rimirare il fiume; dopo un po’ tira fuori uno smartphone e mette la musica a volume alto.

Chiediamo al ragazzino di spegnere la musica: lui ci accontenta subito, rimane accanto a noi qualche altro minuto e poi se ne va: il suo sguardo non ha né rabbia né paura né tristezza.

Andiamo in hotel e, dopo una veloce rinfrescata, ci facciamo accompagnare da Mahesh al quartiere Taj Ganj. Mahesh ci lascia in una piazzetta lontano dalla nostra destinazione, il Joney’s Place.

Percorriamo strade poco illuminate chiedendo più volte indicazioni stradali: alla fine arriviamo al nostro locale. Si tratta di una stanza con soli 5 tavolini al piano terra di un edificio malmesso. Gli altri avventori sono tutti turisti come noi armati delle guide Lonely Planet o Routard; la cucina è in strada, collegata al ristorante da una finestrella. Mangiamo riso con verdure, uovo fritto e formaggio (una versione personalizzata del biryani) e crocchette di patate al sugo; concludiamo la cena con un lassi alla banana. Dopo cena ci facciamo un giro nel quartiere: dietro il Joney’s Place c’è un’antica porta che conduce ad una via poco illuminata; torniamo allora indietro e compriamo un po’ di frutta in una strada piena di negozietti.

Torniamo in hotel con un tuc-tuc: il conducente non sa leggere e quindi si deve fermare più volte per mostrare il biglietto da visita dell’hotel; ci addormentiamo subito con il sottofondo musicale dance proveniente da una festa di matrimonio.

15° giorno: martedì 28 febbraio 2012

Quando usciamo dal nostro hotel è ancora notte: andiamo subito alla biglietteria del Taj Mahal. Spendiamo la cifra esorbitante di 750 rupie a testa ma almeno ci danno un sacchetto di carta contenente una bottiglietta d’acqua minerale e un paio di copriscarpe di plastica per accedere al monumento. Percorriamo quasi di corsa i 400 metri che ci separano dall’East Gate: gli altri turisti prendono tuc tuc e bus navetta.

Davanti all’ingresso dobbiamo dividerci perché c’è una fila per i turisti di sesso maschile e femminile; altre due file sono per i cittadini indiani dei due sessi.

Dopo un po’ la mia fila inizia a scorrere: quella di Claudia no. Una volta dentro devo aspettarla più di mezz’ora: scopro che la poliziotta che incaricata di ispezionare le donne della sua fila era scrupolosissima.

Partiamo subito con le foto di questo sito meraviglioso nato dall’amore dell’imperatore mogul Shah Jahan per la propria moglie defunta. Dopo aver visitato il giardino, saliamo sull’alto podio su cui poggia il Taj: qui c’è un bel venticello. In lontananza si vede l’Agra Fort. All’uscita incontriamo i nostri amici cantanti lirici.

Torniamo in hotel in ritardo per la colazione: grazie all’insistenza di Claudia i camerieri ci fanno accomodare a tavola e riusciamo a mangiare qualcosa.

Dopo aver fatto i bagagli, andiamo all’Agra Fort. Le strade della città oggi sono stranamente vuote: lo strano evento è dovuto alle elezioni dell’Uttar Pradesh.

Il Forte è enorme e bellissimo anche se molte delle sue parti sono inaccessbili perché di proprietà dell’esercito.

A mezzogiorno usciamo da Forte e partiamo verso nord, diretti a Delhi.

Dopo 10 minuti vediamo lungo la strada un bellissimo portale monumentale in marmo e arenaria. Mahesh ci dice che è una moschea: in realtà scoprirò più tardi che quello è il portale di accesso al Mausoleo dell’imperatore mogul Akbar. Claudia è stanca e non vuole fermarsi: proseguiamo verso Delhi.

Ci fermiamo a pranzo in un ristorantino lungo la strada. In televisione c’è l’ennesima partita di cricket: stavolta la sfida è tra le nazionali di India e Sri Lanka.

Mangiamo un ottimo “thali”, varie pietanze contenute in ciotoline e servite nel vassoio circolare di metallo che dà il nome al piatto.

La strada è priva di traffico fino all’ingresso nello stato di Haryanna: qui le cose cambiano e siamo costretti a ridurre la nostra velocità a causa dell’intenso traffico.

Lungo la strada si susseguono villaggi agricoli sostituiti, man mano che ci avviciniamo alla Capitale dell’India, da grattacieli e strutture industriali.

Sono le 16 quando entriamo a Delhi: andiamo subito a vedere la tomba dell’imperatore mogul Humayun. Il complesso di edifici realizzato in arenaria rossa nel 1562 dall’architetto persiano Mirak Mirza Ghiyath e commissionato dalla moglie dell’imperatore è la più antica tomba-giardino dell’India.

Lasciamo il complesso che è quasi notte e andiamo di corsa all’Old Delhi. Ci fermiamo brevemente all’India Gate, atratti dal monumentale arco di trionfo tutto illuminato e dalla tanta gente che si sta godendo la serata sul prato dell’enorme piazza circolare.

Da qui andiamo di corsa alla Grande Moschea che troviamo chiusa: ne approfittiamo per farci un breve giro nel bazar. Le strade del bazar sono più pulite degli altri finora visitati: la cosa si spiega col fatto che questo è un quartiere musulmano.

Vorremmo cenare da Karim’s, vicino la moschea, ma qui cucinano solo carne e Mahesh è vegetariano. Andiamo perciò in un ristorante nel quartiere del nostro hotel: è un posto fighetto. La cena è ottima: rinuciamo agli alcolici perché Mahesh è anche astemio.

16° giorno: mercoledì 29 febbraio 2012

Partiamo alle 6.20 dall’hotel: una fitta nebbia avvolge la città. Lasciamo Delhi a malincuore: non l’abbiamo scoperta come avremmo voluto. Dopo 20 minuti siamo già in aeroporto: salutiamo Mahesh e ci mettiamo in file per il check-inn. E’ mezzogiorno quando decolliamo: lasciamo l’India, il nostro viaggio è terminato.



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