Viaggio in Giappone con bambina
Finalmente, dopo lungo tempo (anni oserei dire) in cui mi baloccavo con l’idea di un viaggio in Giappone, una volta che mia figlia ha avuto un’età congrua (8 anni), che ci avrebbe permesso di girare in libertà, ho rotto ogni indugio e, superando le resistenze di mia moglie recalcitrante, ho iniziato in concreto a organizzare il viaggio. Siamo a novembre 2018 e ho previsto la partenza per giugno 2019, appena finite le scuole.
Indice dei contenuti
La necessità di iniziare così in anticipo era dettata anche dal dover fare i passaporti per tutti e tre. In attesa dei tempi burocratici necessari, ho iniziato a studiare l’itinerario. Utilissima la guida Lonley Planet per iniziare, anche se poi ho scoperto che in quanto a precisione lascia un po’ a desiderare. L’ho integrata con altre guide meno famose e, una volta fatto l’elenco dei luoghi che assolutamente avrei voluto visitare, stimando i tempi necessari, ho stilato l’itinerario vero e proprio, con le varie attività distribuite tra i giorni disponibili. Con quello alla mano, mi sono recato nella mia agenzia di viaggi di fiducia, chiedendo di aiutarmi nelle prenotazioni, ma non volendo in alcun modo aderire ad un pacchetto già organizzato. Bravissima ad aiutarmi, Tania, la mia agente di viaggio (Etlisind Legnano) ha trasformato in realtà quello che avevo sognato prima e programmato poi.
Ricapitolando, con l’agenzia di viaggio ho prenotato:
– Voli di andata e ritorno da e per l’Italia. All’andata ho previsto l’arrivo su Tokyo; il ritorno, invece, poiché ci siamo mossi verso sud (Kyoto), ho preferito partire dall’aeroporto del Kansai (Osaka), vicinissimo proprio a Kyoto. In questo modo abbiamo evitato di perdere una notte per tornare a Tokyo solo per imbarcarci sul volo di ritorno.
– Transfer dall’aeroporto all’hotel prescelto a Tokyo.
– Gli alberghi e Ryokan
– Japan Rail Pass, utilissimo per girare sulla rete ferroviaria nipponica
– Hakone Free Pass, biglietto unico per i vari mezzi di trasporto pubblico dell’area di Hakone.
Da solo, ho prenotato:
– L’assicurazione sanitaria
– Il kit di pocket wifi (ce ne sono diverse compagnie che lo noleggiano in Giappone)
– Gli ingressi al Museo Ghibli, prenotabili (obbligatoriamente) e acquistabili anche online presso la JTA (Japan Travel Agency), sede italiana.
Veniamo finalmente al giorno della partenza
Abbiamo preso un volo Air France, con scalo a Parigi, e diretto a Narita. Siamo arrivati a Tokyo circa alle 8 del mattino ora locale. Dopo aver sbrigato le formalità di ingresso del paese, nonostante fossimo un po’ frastornati per il lungo volo, il fuso orario e il mancato sonno di una notte, abbiamo con facilità trovato il desk della Limousine Bus, compagnia di pullman che collega l’aeroporto con i principali alberghi internazionali della città. Cambiate le prenotazioni con i biglietti, abbiamo preso il pullman, subito lì fuori, che ci ha condotti verso la grande metropoli nipponica. Dopo una lunga autostrada tra prati e arbusti, eccoli i primi grattacieli e poi lo spettacolo di una città futuristica che si dispiegava ai nostri occhi: canali, ponti sospesi, grattacieli, strade multilivello. Siamo arrivati quindi all’hotel, in zona Roppongi, vicinissimo al Tempio Buddista Zojo Ji e la Tokyo Tower. Si tratta dell’Hotel Shiba Park, tipicamente internazionale, ma con gentilissimi addetti caratterizzati dalla tipica cortesia nipponica. Ci hanno fatto subito sentire i benvenuti. All’arrivo, la receptionist, dopo aver ultimato le operazioni di check in, mi ha consegnato i biglietti dell’Hakone Free Pass e il kit di pocket wifi.
Dopo una veloce sistemata, siamo subito usciti per prendere confidenza con il quartiere e un ambiente così diverso da quello usuale. Dopo aver pranzato in un locale tipico, siamo andati in una delle stazioni metro della zona, in cui convergevano diverse linee della tentacolare rete metropolitana di Tokyo, tra cui la stazione Hamamatsucho della famosa linea Yamanote, facile via di collegamento per i principali luoghi turistici del centro. Non bisogna soffermarsi troppo sull’intricatissima mappa multicolore della rete urbana di Tokyo: spaventerebbe chiunque.
Lì, ho effettuato l’acquisto delle tessere SUICA, utilissimo strumento per girare la rete metropolitana. Trattasi di tessere prepagate ricaricabili, che permettono di evitare i laboriosi calcoli tariffari soprattutto quando si cambiano più linee. Le tessere per adulti sono acquistabili direttamente dalle macchinette, versando una piccola cauzione; per quella di mia figlia, avendo la tariffa ridotta, mi sono dovuto recare direttamente allo sportello della JR che gestisce la Yamanote. Munito di passaporto della minore, mi hanno rilasciato la Suica junior, con l’agevolazione tariffaria.
Il primo viaggio in metro ci ha portato al quartiere di Maronuchi, in visita ai lussureggianti giardini del Palazzo Imperiale. Mia figlia si è divertita un mondo a fotografare le coloratissime carpe dalle lunghe code velate simili ad ali di uccello.
Dopo il primo tentativo di utilizzo della metro, sentendoci ormai sicuri di aver appreso il modo di girare la rete (e forti del wifi e di google map) abbiamo rotto ogni indugio e ci siamo buttati a capofitto nell’esplorazione della megalopoli nipponica. Ovviamente avevo in mente di trovare mete che suscitassero l’interesse anche di una bambina, senza per questo abbandonarci al troppo semplicistico Disneyland, che volevo evitare. Per cui la prima meta vera e propria è stata il quartiere di Akihabara, il regno degli otaku e dei cartoni animati. Due otaku stagionati come me e mia moglie e una piccola otaku in erba come mia figlia, hanno trovato qui il loro paradiso. Palazzi interi con piani e piani di fumetti, memorabilia, action figures, poster, magliette e tutto ciò che può ruotare intorno alla fumettistica e all’animazione nipponica. Da visitare il complesso di Mandarake, il più grande store a tema del mondo, sulle cui scale di collegamento tra un piano e l’altro si trovano per la verità più italiani che giapponesi. E poi una imbarazzante scelta di maiden cafè, a tema kawaii, con animali veri da compagnia, a tema fantascientifico,… abbandonando le arterie principali si trovano invece molto più economici ristorantini tipici, in cui si possono gustare tutte le prelibatezze della cucina fast giapponese: ramen, okonomiyaki, gyoza, di cui mia figlia si è scoperta una ghiotta consumatrice. Per chi è meno appassionato basta una mezza giornata per visitare il quartiere; noi abbiamo invece preferito girare con calma e restarci tutto il giorno, gironzolando tra un negozio e l’altro e facendo acquisti; mia figlia ne era veramente deliziata e ricorda la giornata come l’esperienza più bella del suo viaggio in Giappone. Dopo cena, all’imbrunire, le luci si accendono e il quartiere assume ancora di più un’aria fantastica. Su un palazzo svettava per l’altezza di tre piani, un mega poster di Versailles no Bara: mi ha fatto piacere che dopo quarant’anni non solo in Italia ci si ricordi della mitica Lady Oscar.
Il giorno successivo siamo andati nella mega stazione di Shinjuku (dove non perdersi, soprattutto le prime volte è un’impresa improba, viste le innumerevoli linee multipiano che vi convergono). Da lì abbiamo preso una linea che ci portava fuori dal centro di Tokyo, verso il sobborgo di Mitaka. In quest’area residenziale, fatta di casette basse dal tetto a punta, giardinetti, viette tranquille, sorge il famoso Museo Ghibli, voluto dal Maestro Miyazaki, creatore di tanti capolavori, tra cui Nausicaa nella Terra del Vento, Il mio vicino Totoro, S’alza il vento. Anche questo luogo piacerà sicuramente ai bambini: la struttura stessa del museo è particolare e i bambini vi si divertono sulle ripide scale a chiocciola e il ponte che solca il salone di ingresso. L’attrattiva principale, per i bambini, resta il Gattobus di peluche gigante, dove i piccoli si sbizzarriscono a salire e saltare, entrando nella cabina ricavata dalla pancia del peluche e saltando fuori dai finestrini. È stato veramente divertente vedere mia figlia giocare insieme a tanti coetanei nipponici, pur non capendo una parola!
Dopo un pranzo frugale al Museo, abbiamo trascorso il pomeriggio nel vicinissimo parco Inokashira Koen, tipico esempio di parco giapponese: ampi prati, alberi curatissimi e fiumiciattoli placidi che sfociano in laghetti pittoreschi. Su un’isoletta al centro del lago sorge il piccolo santuario shinto dedicato alla dea Benzaiten; poco più in là è possibile noleggiare dei pedalò a forma di cigno per navigare sul lago (cosa che abbiamo puntualmente fatto). Nel tardo pomeriggio siamo ritornati, stavolta a piedi uscendo da un altro ingresso al parco, alla stazione di Mitaka, dove abbiamo preso il treno per Shinjuku. Abbiamo passeggiato nel quartiere in attesa dell’ora di cena; siamo rimasti nella zona commerciale, affacciandoci solamente nell’area di Kabukitcho, quella che può essere considerata la zona “a luci rosse” della capitale. Avendo con noi una minore, abbiamo evitato di gironzolare per quest’area comunque molto caratteristica, ricca di locali, equivoci bagni pubblici e love hotel. Al limitare di Kabukitcho si trova il grande edifico del cinema multisala di Shinjuku. Sul palazzo accanto, occhieggia proprio la statua a grandezza naturale di Godzilla, il re dei Kaiju, altra attrazione che non può non divertire i bambini. Al tramonto, all’accendersi delle luci, il quartiere letteralmente scintillava. Dopo una deliziosa cena a base di okonomiyaki (le frittelle di Marrabbio in Kiss me Licia) siamo rientrati in albergo.
Il giorno successivo lo abbiamo dedicato al quartiere di Haranjuku. Il primo monumento che abbiamo visitato è stato il grande complesso shinto del Meiji Jingu, dedicato alla memoria dell’Imperatore che ha inaugurato l’epoca moderna in Giappone, sconfiggendo l’ultimo shogun, e alla sua adorata moglie, l’Imperatrice Shoken. Il grande complesso si trova immerso in un parco meraviglioso, visitabile come tutti i templi shintoisti, gratuitamente. A pagamento abbiamo visitato l’area dei Giardini dell’Imperatrice, estremamente curati. Essendo in giugno abbiamo potuto ammirare il vasto curatissimo campo fiorito di iris, un vero spettacolo. Nell’immancabile laghetto, mia figlia si è divertita a fotografare le solite carpe portafortuna, in posa per i turisti. Altro aspetto che ha incuriosito mia figlia è stata la vendita dei talismani, un aspetto che abbiamo ritrovato in tutti i templi e santuari che abbiamo visitato successivamente. Questi oggetti di stoffa, dai tenui colori pastello, e deliziosamente ricamati, sono acquistabili per propiziarsi quello che più ci sta a cuore (denaro, lavoro, salute, protezione familiare, successi scolastici, protezione dei bambini, addirittura sicurezza stradale).
All’uscita del tempio, dopo un veloce pranzo in un locale “italiano” Segafredo (anche se mia figlia non ha problemi a mangiare cucina giapponese, ogni tanto la nostalgia degli spaghetti di casa la afferrava), abbiamo passeggiato per il vivace quartiere, ricco di negozietti di souvenir, abbigliamento e oggetti vari. Ci siamo poi portati verso Cat Strett, la via dei negozi più caratteristici, dedicati ai vari stili delle cultura giovanili nipponiche: punk, gothic, lolita,… Tra i vari negozietti non ci siamo fatti mancare una bella merenda in uno dei coloratissimi chioschi di ricche crepes giapponesi.
Lasciato Haranjuku, ci siamo recati, ormai padroni della rete metropolitana, alla stazione di Shibuja, dove si trova l’incrocio più grande e trafficato del mondo. Nei pressi sorge la statua memorial del cane Hatchicko. Una volta giunti all’incrocio, immersi nella folla, ho faticato a trovare il monumento: mi aspettavo qualcosa di molto più imponente, svettante su un’alta colonna. In verità si tratta di una piccola statuetta, sopra un pilastrino di mattoni, posto in un angolo verso la stazione. Così circondata dalla folla era pressoché invisibile. In ogni caso abbiamo fatto anche noi le nostre brave foto di rito, divertiti dal fatto che tra le zampe anteriori del cane di metallo sonnecchiava un carinissimo gattino grigio chiaro, che risultava essere la vera attrazione della giornata. Finite le decine di foto da parte dei turisti, il padrone del gatto, un anziano giapponese, lo ha preso in braccio e se n’è andato, così senza una parola o un sorriso. A parte la folla e i negozi, Shibuja non riserva granché e lo abbiamo lasciato per tornare nella zona dell’hotel.
Il giorno dopo, ahimè, pioveva a dirotto. Non una delicata pioggerellina di inizio estate, ma un vero e proprio scroscio continuo. Fortunatamente il mio programma di viaggio prevedeva la visita del Museo Nazionale di Tokyo a Ueno. Sperando in un miglioramento del tempo per il pomeriggio, ci siamo diretti alla stazione di Ueno per raggiungere il Museo, ospitato all’inizio dell’omonimo parco. Il Museo raccoglie importanti vestigia della storia dell’arcipelago, incluse le famose statuette Haniwa e le campane di Bronzo dell’epoca Yajoi (note in Italia per le avventure di Jeeg Robot), la misteriosa statua del presunto astronauta, delicati paraventi dipinti, spade e armature di samurai, statue di divinità, demoni e Buddah in varie posizioni. Se la visita delle varie collezioni del museo possono essere alla lunga noiose per una bambina, nel museo si ritrovano dei “kid points” dove i piccoli possono interagire con quanto esposto: ad esempio suonare una campana di bronzo o costruire una statua haniwa come fosse un puzzle in 3D. La visita è durata oltre due ore, ma purtroppo il tempo non accennava a migliorare: rassegnato a non poter girare per il bel parco Ueno o per il vicino quartiere di Yanaka, l’unica area della città rimasta in piedi dopo il grande terremoto del Kanto che rase al suolo la capitale, abbiamo deciso di trascorrere il pomeriggio nel vicino Museo di Storia Naturale. Qui era ospitata una mostra temporanea sui mammiferi, la loro evoluzione nel movimento: ci siamo accodati quindi a diverse scolaresche nipponiche in gita di istruzione e abbiamo visitato la mostra, completamente in giapponese… eppure mia figlia si è divertita, soprattutto grazie alla madre che in quanto biologa le illustrava il senso della mostra. Un po’ meno divertito il padre… ma va beh. Andiamo avanti, per il resto del giorno avevamo a questo punto varie opzioni, tra cui il quartiere di Ginza, ma volendo premiare il buon comportamento della bambina che si è sorbita senza colpo ferire musei e mostre per tutto il giorno, l’abbiamo accontentata e siamo tornati per una capatina rapida e per cenare ad Akiahabara.
Il giorno dopo era una soleggiata domenica e ne abbiamo approfittato per immergerci del tutto nella tradizione nipponica: ci siamo recati nel quartiere di Asakusa, dove abbiamo fatto anche noi la nostra brava visita al tempio buddista di Senso Ji, il più grande della capitale. Per la prima volta abbiamo visto moltissime persone in kimono e non in abiti occidentali: evidentemente la domenica è un giorno che si riserva alle tradizioni. La via di accesso al tempio, affollatissima, è costeggiata da numerosissimi negozietti e bancarelle di souvenir e cibi vari, un vero spettacolo di profumi, sapori e colori. I cancelli di ingresso del tempio sono sovrastati da imponenti lanterne buddiste; da lì si accede al tempio vero e proprio, preceduto dal grande incensiere, dove le persone si accalcano per lavare i peccati tra le volute di fumo dell’incenso benedetto. Il retro del tempio è costituito da un delizioso giardino in cui si trova una bellissima pagoda a più piani; e poi di nuovo un labirinto di bancarelle di cibo da strada e negozi di souvenir e articoli tipici. Un vero divertimento per tutti, grandi e piccini.
Dopo pranzo abbiamo lasciato il vivace quartiere di Asakusa per recarci al mare, come i bravi tokyensi fanno per rilassarsi: siamo andati a Odaiba, il quartiere costruito negli anni 90 sulle isole artificiali della Baia di Tokyo. Odaiba è raggiungibile con la monorotaia che valica il famoso Rainbow Bridge. Per prima cosa siamo andati al parco marino Kahin Koen, sul lungomare, dove si trova anche una spiaggia per bagnanti coraggiosi. Ragazzi e famiglie prendevano il sole e diversi facevano il bagno, apparentemente senza considerare che l’acqua della baia di Tokyo non sia propriamente cristallina. Anche mia figlia voleva unirsi ai bagnanti e così, a malincuore, ho concesso una passeggiata sul bagnasciuga, immergendo i piedi nell’acqua marroncina. Tutto sommato è stato divertente osservare i giapponesi nei momenti di relax del week end, lontano dalla fretta e dallo stress lavorativo dei giorni lavorativi.
Verso sera, dopo alcune foto di rito alla riproduzione in miniatura della Statua della Libertà e al Palazzo della Fuji TV, caratteristico per l’enorme sfera di metallo incastonata nella facciata, ci siamo recati al Tokyo Diver Center, un enorme centro commerciale ricco di ristornati e negozi. Ma la vera attrattiva qui è l’enorme riproduzioni in scala 1:1 del Gundam che sorge all’ingresso davanti al centro. Un vero spettacolo! Fino a poco tempo fa, a campeggiare sulla piazza era il Gundam RX-78 (quello dei nostri tempi per intenderci); ora fa sfoggio invece un gigante bianco, il più recente Gundam Unicorn. Abbiamo cenato nel centro commerciale, per poi lasciare questo quartiere futuristico.
Il giorno seguente era il nostro ultimo a Tokyo. Il tempo era trascorso così velocemente che non potevo negare provassimo già un pizzico di nostalgia. Per ultimo, avevamo lasciato la visita al quartiere in cui abbiamo alloggiato per tutto il tempo, Roppongi. Per prima cosa abbiamo visitato il Tempio Buddista Zojo Ji, il tempio della famiglia shogunale Tokugawa. Abbiamo avuto la fortuna, stando all’ingresso del corpo centrale, di assistere ad una funzione, con il bonzo che suonava un enorme tamburo. Impressionante poi la fila lunga di centinaia e centinaia di statuette votive a forma di bambini (Jizo) protettrici proprio degli infanti morti prematuramente o mai nati. Tutte sono dotate di cappellini rossi all’uncinetto e di girandoline che si muovono all’unisono al minimo soffio di vento. Devo dire un po’ impressionanti quelli che recano oggetti personali dello sfortunato bimbo reale, alla cui protezione celeste sono chiamati: una magliettina con le iniziali, un cappellino, un bavaglino ricamato. Questo, come gli altri templi e santuari, sono stati l’occasione per introdurre mia figlia al discorso della comparazione tra religioni e la riflessione sulla diversità delle varie credenze.
Lasciato il tempio, dopo aver visitato il tesoro che custodisce, ci siamo recati alla Tokyo Tower, la versione nipponica colorata della Torre Eiffel. Siamo saliti fino al primo piano panoramico (non il secondo in cima alla guglia che andava prenotata), dove comunque abbiamo goduto di una vista splendida sulla capitale. Il piano inferiore, invece, ospitava una mostra temporanea dedicata al cartone One Piece (All’Arrembaggio).
Dopo un pranzo ad un ristorante cinese, ci siamo recati con un taxi (visti i bagagli sempre più ingombranti ahimé) alla stazione di Shinjuku, dove abbiamo preso il treno per Odawara, sfruttando per la prima volta il ticket globale Hakone Free Pass. Odawara è una cittadina carina, con un famoso castello, capoluogo della prefettura di Kanagawa e punto di partenza per l’esplorazione della regione turistica di Hakone. Per mancanza di tempo non abbiamo potuto visitarla come avrei voluto. Dopo aver chiesto informazioni alle gentilissime addette del banco informazioni turistiche, abbiamo preso il bus giusto per la nostra base in Hakone, il Ryokan Kowakien Miyamafurin, nella località di Horaien, sito circa a un’ora di strada. Soggiornare in un Ryokan, ovvero la tipica locanda giapponese, è un’esperienza unica che da sola merita una visita in Giappone e mia figlia l’ha letteralmente adorata, tanto da affiancarla ad Akihabara tra i ricordi più belli della nostra vacanza.
Il Kowakien Miyamafurin aveva il pregio di essere molto tranquillo e ben organizzato, anche se di contro era molto isolato e lontano dai vari ristoranti e dall’unico combini del paese. Ciò poteva essere un problema considerando che il Ryokan forniva solo una colazione piuttosto frugale ma nessun altro pasto. Al di là di questo, appena siamo arrivati ci siamo sentiti veramente emozionati, immersi in un’atmosfera che avevamo solo visto in cartoni animati come Maison Ikkoku. La receptionist non capiva una parola di inglese e parlava per pochi frasi fatte imparate a memoria, ma non appena ci ha presentato gli yukata color carta da zucchero, che avremmo dovuto indossare durante il nostro soggiorno, ci siamo sciolti. Mia figlia, ovviamente, ne ha avuto uno della sua misura, insieme al suo piccolo obi. Ci ha poi accompagnato nella nostra stanza, una tipica camera giapponese, con il genkan all’ingresso dove togliersi le scarpe e poi, dopo un gradino, la stanza vera e propria, con il tatami pulitissimo. Oltre a due letti bassissimi, si trovava il futon ripiegato per mia figlia, che non stava più nella pelle. La camera era anche dotata di un piccolissimo bagno, in cui si trovava anche una modesta vaschetta da bagno, ma che ovviamente non avremmo mai utilizzato. Infatti, dopo aver letteralmente scaraventato i bagagli in un angolo, elettrizzati come non mai, ci siamo spogliati e, indossato lo yukata, ci siamo recati, non senza imbarazzo alla onsen, il bagno termale pubblico del Ryokan, vera attrazione del luogo. Salutate mia moglie e mia figlia, ho imboccato il corridoio di ghiaia e beole che portava al settore maschile. Mi precedeva un giapponese di mezza età: pur preoccupato per dovermi mostrare nudo davanti a estranei, dall’altro ero sollevato: copiandolo avrei evitato di commettere qualche imperdonabile infrazione al galateo delle onsen, rischio sempre da tenere in considerazione, nonostante avessi studiato sulle varie guide prima della partenza. Copiandolo di sottecchi, ho lasciato la biancheria in una cesta nello spogliatoio e poi, seguendo l’uomo, sono entrato nell’oofuro, tra le volute di vapore caldo. Su una parete, in fila stavano disposti gli sgabelli, ognuno con un catino e sormontati da una doccia. Seguendo l’esempio fornito, mi sono lavato accuratamente e, dopo aver lavato anche lo sgabello e il catino usato, sono prima entrato nella vasca interna all’oofuro e subito dopo, uscendo all’esterno, sono entrato nella vasca di pietra. Credo che un relax così non l’abbia mai provato. Seduto sulle beole, immerso nell’acqua caldissima, cullato dal gorgogliare lento dell’acqua che scorreva da una roccia, mi sono gustato il bagno, circondato dagli alberi ascoltando il cinguettio degli uccellini. Da una parte, una palizzata di bambù mi separava dalla vasca esterna del settore femminile, dove sapevo si trovavano le mie donne, sicuramente sbigottite ed estasiate come me dall’esperienza straordinaria che stavamo vivendo. Ormai ero solo, il mio maestro involontario se n’era già andato e mi sono gustato appieno l’onsen. Dopo una decina di minuti (e assicuro che vista l’elevata temperatura dell’acqua è stato già un bel record di resistenza) sono rientrato nell’oofuro per una sciacquata veloce, prima di asciugarmi accuratamente e tornare nello spogliatoio.
Esperienza grandiosa che ricordo con estremo piacere.
Il giorno dopo, svegliati di buon ora, abbiamo preso il pullman da Horaien e abbiamo iniziato l’esplorazione della regione, uno dei più famosi punti di osservazione del Monte Fuji. Ci siamo recati a Gora, un altro paesino turistico della zona e da lì, con un trenino a cremagliera, siamo risaliti per il monte fino a Sounzan, località famosa per le passeggiate e il trekking. Da lì parte la funivia che permette di raggiungere Owakudani, area tra i monti caratterizzata da solfatare dai vapori sulfurei e sorgenti di acqua bollente. Tuttavia, a causa dell’intensa e insolita attività vulcanica della regione, la funivia era chiusa per i turisti. Ci siamo così dovuti accontentare della navetta sostitutiva, che ci ha portati all’altro capolinea della funivia, Togendai una cittadina sul Lago di Ashinoko. Dalla darsena partono le navi turistiche che solcano il lago, stranamente a forma di galeoni dei pirati occidentali, con tanto di polene dorate e pennoni finti. Il tutto aveva un po’ un’aria kitsch, ma mia figlia ne era entusiasta. Con quest’insolita imbarcazione, abbiamo attraversato il lago, fino al capo opposto del bacino, rappresentato dalla cittadina di Moto Hakone. Il tempo era soleggiato, anche se un po’ velato, ma il paesaggio era veramente incantevole, con le verdissime e incontaminate montagne a picco sul lago. Del Monte Fuji neppure l’ombra. Abbiamo pranzato in un delizioso ristorantino sulle rive del lago, prima di dedicarci alla visita del santuario shinto, dedicato al kami del lago. Suggestivo il tori immerso nell’acqua. Sulla via del ritorno, forti delle mappe per turisti e delle cartoline in vendita, abbiamo capito dove avrebbe dovuto trovarsi il Monte Fuji e dove in verità, aguzzando molto la vista, abbiamo visto un profilo azzurrino tra le nuvole, che si stagliava nel cielo.
Soddisfatti, abbiamo fatto il viaggio a ritroso, fino al Ryokan. Tutti i mezzi erano ovviamente compresi nell’Hakone Free Pass.
Dopo l’immancabile bagno nella onsen, siamo usciti per cena e ci siamo ritirati soddisfatti della giornata nella nostra stanza giapponese.
Il giorno successivo, dopo aver fatto il check out, abbiamo ripreso il pullman per ritornare ad Odawara, dove ci aspettava lo Shinkansen per Kyoto. Avevo provveduto a convertire i tre abbonamenti della Japan Rail Pass, prenotando i posti sullo Shinkansen, durante uno dei vari transiti a Shinjuku nei giorni precedenti. Senza difficoltà, quindi, abbiamo preso il famoso treno proiettile. In un paio d’ore abbondanti abbiamo raggiunto l’antica capitale del Giappone. Devo dire che l’impressione che ho ricavato dalla città, nel suo complesso, è stata un po’ deludente. Avendo una storia millenaria, mi aspettavo che tale illustre passato fosse immediatamente evidente e costituisse la vera cifra stilistica della città, un po’ come avviene per Roma. Così in verità non è: Kyoto è in fondo, nella sua architettura attuale, una città moderna a tutti gli effetti, ma senza avere quell’aria affascinante e futuristica che ha Tokyo, caratterizzata per lo più da palazzi di mezza altezza, edifici dallo stile ottocentesco e novecentesco, grandi viali trafficati. Nei giorni successivi avrei scoperto i numerosi gioielli che contiene, ma a livello generale la prima impressione che ne ho ricavato mi è rimasta: singole bellezze straordinarie ma il complesso non esaltante, l’esatto opposto di Tokyo. Una menzione a parte merita la grande Stazione centrale di Kyoto, un monumento moderno che costituisce anche un vivace punto di ritrovo, ricco di negozi e ristoranti alla moda.
Il nostro hotel era poco distante, si trattava dell’Hotel Monterey, in stile stranamente vittoriano, dalla grande reception tutta di marmo nero.
Il soggiorno a Kyoto è stata forse la parte meno gradita per mia figlia, in quanto devo ammettere di averla obbligata a un tour de force tra templi e santuari, pur cercando di trovare il modo di divertirla e di non farle troppo pesare i km che macinavamo quotidianamente.
Se il mezzo di trasporto preferenziale per Tokyo è stata la metro, a Kyoto invece è il bus cittadino a farla da padrone: linee di autobus solcano ininterrottamente la città e permette di raggiungere qualsiasi punto turistico, anche sulle colline circostanti. Al contrario, la metropolitana è dotata di poche linee e non molto diffuse. La tessera SUICA era utilizzabile senza problemi anche a Kyoto; l’alternativa sarebbe stata qualla di restituire le tessere prima di lasciare Tokyo, ritirare la cauzione e una volta giunti a Kyoto acquistare la tessera locale, la ICOCA. Ma abbiamo deciso di tenere la SUICA e non restituirla: ci sembrava benaugurante per un futuro ritorno, visto che ha la durata di dieci anni.
Il primo tempio che abbiamo visitato, a poche fermate di bus dal nostro hotel, è stato il Toji, tempio buddista sede della scuola Shingon. Nel complesso vi si trova la pagoda in legno più alta del Giappone. Nel Kondo, la sala principale, si trova un stupefacente complesso statuario, con al centro il Buddah guaritore. Il gruppo è definito una sorta di mandala a tre dimensioni.
In serata, ci siamo invece recati a Gion, il famoso distretto delle Geishe, non lontano dal nostro albergo. Abbiamo imboccato lo Shijo, il grande viale che corre dal ponte sul fiume Kamo e porta al Santuario Shinto di Yasaka, e sulle cui laterali si snoda il riservato e segreto dedalo di case da tè e okiya, le case delle Geishe.
Il viale è ormai una trafficatissima e amplissima via, solcata da numerose automobili. Venendo dal ponte, la prima cosa che si incontra sulla destra è il Teatro Minami Za, il primo teatro Kabuki della città e in cui si tengono, durante la primavera, i famosi spettacoli di danze delle Geishe e Maiko di Kyoto. In cartellone, davano uno spettacolo Kabuki ispirato all’anime Naruto. I lati del viale sono costituiti da portici dove si affacciano negozi e ristoranti esclusivi. Allontanandosi di qualche isolato, sul lato sinistro, si trovano tuttavia ristoranti più abbordabili, dove abbiamo cenato. Proseguendo dritto si arriva dritti al cuore di Gion. Abbiamo visitato il Santuario Shinto di Yasaka: ormai buio, riservava uno spettacolo incredibile, illuminato da moltissime lanterne bianche. Al ritorno abbiamo passeggiato, tra la folla, alla ricerca delle celebri Geishe, esplorando il dedalo di piccole vie su cui si affacciavano piccole casette di legno tipiche, lanterne rosse, giardinetti curati.
E poi, ecco una macchina lussuosa fermarsi davanti ad un ristorantino dalle porte scorrevoli di carta di riso e all’improvviso un’esclamazione di meraviglia serpeggiare tra i numerosi turisti, e uno scattare di flash convulso, tanto da illuminare a giorno la via: eccole le famose geishe di Kyoto, illustri discendenti del mondo fluttuante. Una era vestita in modo più semplice, anche se il kimono era meravigliosamente decorato, i sandali più bassi e il viso tondo delicatamente dipinto di bianco. L’altra più giovane, aveva un kimono ancora più colorato, le maniche lunghissime, il volto una maschera immacolata. Girandosi di spalle, per schermarsi dai flash luminosi, ho notato la scollatura posteriore, il collo scoperto truccato in modo da disegnare una sensuale coda di rondine. Doveva essere una maiko, un’apprendista geisha. Eravamo lì, noi tre, imbambolati, ad ammirare le due donne, trasfigurate in creature quasi mitologiche. Io ero a bocca aperta, quasi non riuscivo a scattare foto. Mia moglie e mia figlia, avvertirono invece una sorta di disagio nelle due donne, così circondate da turisti esosi di rubare un’immagine. Loro, in effetti, quasi infastidite, si schermavano il viso con i ventagli e le borsette. “No picture please” le ho udite mormorare più volte. E poi, velocemente, sono scomparse nella lussuosa automobile per partecipare al successivo ozashiki, la successiva festa che dovevano animare. Di loro mi restano poche foto mosse: il mistero intorno alla loro figura continua.
Il giorno successivo abbiamo visitato una delle più celebri attrazioni di Kyoto, il castello Ninjo Jo. Appartenuto allo shogun Tokugawa, è detto dell’Usignolo. In effetti, una volta entrati, era chiaro il motivo: camminando scalzi per il corridoio centrale, che si affaccia sulle stanze meravigliosamente dipinte, lo scricchiolio delle assi centenarie del pavimento produceva un delicato e armonioso suono simile al cinguettio degli usignoli. E poi pareti di legno dorato, dipinti di gru, tigri, alberi fioriti. A tutti è sembrato una dei monumenti più belli che avessimo mai visto. Terminata la visita degli interni, abbiamo proseguito per i curatissimi giardini (immancabili i laghetti, regno incontrastato delle carpe multicolori). Siamo arrivati quindi alla Sala da tè del castello, dove non ci siamo fatti mancare un salto. Mia figlia lo ha adorato. Immersa in un’area riservata del giardino, dove scorreva placido un ruscello tra prati curatissimi e alberi sapientemente disposti, la Sala da tè offriva vari tipi di tè verdi e pasticcini tipici, oltre a scenografiche e giganti coppe di gelati e granite. Seduti sulle ginocchia sul tatami, abbiamo optato per il tè matcha freddo (visto la canicola che imperava a Kyoto) e pasticcini di riso, che ci sono stati serviti in una scatola di lacca meravigliosamente decorata. Atmosfera incredibile, assolutamente da vivere.
Nel pomeriggio, abbiamo visitato il grande complesso del tempio Tufokuji, sede del buddismo zen. L’area è molto grande, ma visitabile non ci sono molte cose; assolutamente da non perdere il giardino zen custodito nello Hojo, il monastero dove vivevano i monaci. A pagamento si ha l’occasione di passeggiare su una passerella di legno che si affaccia su immacolati giardini zen, dove ogni piccola pietra, albero o roccia, tra la ghiaia accuratamente arata a motivi geometrici, assume un preciso significato filosofico e meditativo. Armati di una piantina, abbiamo coinvolto la bambina a identificare di volta in volta, la roccia tartaruga, che simboleggia l’eternità, l’albero gru, le pietre orso, ecc.
Certo, non è stato semplice cercare di far comprendere a una bambina di otto anni il significato, a volte ostico, di ciò che stavamo vedendo, ma è stata comunque un’esperienza stimolante.
Al termine, sfidando il caldo sempre più intenso, prendendo un altro bus, ci siamo diretti al famosissimo Kinkaku Ji, il celeberrimo Golden Pavillon, il tempio d’oro. Purtroppo all’interno non è visitabile, ma la vista della pagoda rivestita di lamine d’oro, che si specchia nel laghetto sulla cui riva si erge, è veramente uno spettacolo da lasciare a bocca aperta. Un vero gioiello.
Il giorno successivo lo abbiamo riservato interamente alla visita di Hagashiyama, l’area che sorge sulle colline intorno alla città e ricchissimo in templi e santuari. Ammetto che per mia figlia sia stato il giorno forse più pesante: per vedere il più possibile, avevo stilato una ferrea tabella di marcia. Per prima cosa ci siamo recati a visitare il Tempio Nanzen Ji, dall’enorme portale di ingresso che permette di salire al secondo piano. Meravigliosi i giardini dello Hojo con una piccola cascatella che si dice possieda poteri curativi.
Abbiamo quindi preso il bus e ci siamo recati dal capo opposto di Harashiyama, dove sorge il tempio Gingaku Ji, il tempio d’argento. Prima di cimentarci nella visita, abbiamo pranzato scovando un delizioso ristorante tipico, vicino alla salita al tempio, che offriva cucina kaiseki a prezzi abbordabili. Serviti da una cameriera in kimono ci siamo deliziati con un pasto gourmet, scandito dalle portate tipiche di antica tradizione. La cameriera in kimono, dal servizio perfetto, ci ha anche scattato delle foto, mentre impugnavamo, seduti composti, le bacchette.
Il tempio Gingaku Ji è un altro complesso molto visitato e interessante. Quasi all’ingresso sorge un curatissimo e vastissimo giardino di sabbia candida, perfettamente arata in volute geometriche e un grande cono perfetto che rappresenta il Monte Fuji. Il Padiglione principale è veramente impressionante; da lì parte il sentiero per la collina prospiciente il complesso. Arrancando dietro giapponesi in kimono, che senza sforzo apparente, saltellavano sul sentiero di pietre con sandali infradito e tabi immacolati, siamo arrivati al belvedere. E lì, la didascalia di un cartello ci metteva al corrente di una curiosità che ci ha colpiti: con una freccia indicava infatti il punto esatto in cui, nel 1945 fu piantato un albero proveniente da Hiroshima e sopravvissuto all’esplosione atomica. Un piccolo brivido ci ha attraversato.
Dopo il tempio d’argento, muniti di un cono gelato ai gusti tipici (matcha, patata dolce) ci siamo avviati per il sentiero della filosofia, una via pedonale lunga che parte dal Gingaku Ji per arrivare fino al Nanzen Ji che avevamo visto la mattina. La via è detta così perché è talmente bella che permette allo spirito di meditare: costeggia un lungo canale dalle acque placide, solcato di tanto intanto da ponticelli di legno; circondata da arbusti è fiancheggiata da alberi di ciliegio. Indubbiamente, durante l’Hanami, quando questi fioriscono in un tripudio di colore rosa, lo spettacolo deve essere mozzafiato. Devo ammettere che, nel pieno di giugno, tra le verdi foglie non l’ho trovato così eccitante, come avrei voluto (forse anche le mie aspettative erano troppo elevate). Inoltre, per un luogo dal nome così altisonante, mi aspettavo qualcosa completamente avulso dalla realtà quotidiana: in verità, il sentiero è completamente immerso nella realtà urbana e casette, negozi e bar lo fiancheggiano per tutto il percorso lasciando (almeno per me) poco spazio alla meditazione. La cosa strabiliante è che dal sentiero della filosofia, se lo si percorresse per intero, si raggiungerebbero decine di templi e santuari che punteggiano Harashiyama. Abbiamo dovuto fare una scelta: consigliati dalla Lonely Planet abbiamo visitato il piccolo e isolato tempio Hoen Ji e il più grande e visitato Eikondo. Quest’ultimo è stato veramente una piacevole scoperta: moltissimi i padiglioni visitabili, immersi in un bosco lussureggiante, ai piedi del quale si trovava un lago solcato da ponticelli giapponesi e salici rigogliosi. A questo punto mia figlia cominciava a dare segni di cedimento e abbiamo rinunciato a visitare altri templi; oltretutto dopo una giornata molto calda, eravamo sotto costante minaccia di temporale e quindi non abbiamo più ripreso il sentiero della filosofia. Siamo scesi più a valle, sull’ampia strada parallela dove abbiamo preso il bus per l’hotel. Purtroppo è stato più veloce il temporale. Un acquazzone ci ha sorpresi sulla via.
Il giorno successivo ci siamo di nuovo allontanati dal centro di Kyoto per raggiungere la zona di Arashiyama: qui si trova il celeberrimo bosco di bamboo. Devo ammettere che anche qui sono rimasto un po’ deluso: a parte la ressa di turisti, il caldo soffocante, la foresta non è una vera “foresta”: non ci si può incamminare tra le verdi e altissime canne di bamboo, ma si può passeggiare solo per i larghi sentieri di terra battuta, mentre le piante restano inaccessibili e racchiuse tra bassi cordoli, come fossero delle grandi aiuole. Da una parte, dopo il passaggio a livello, si arriva subito alle case del paese; dall’altra la vegetazione prosegue per maggior lunghezza ma non è certo la vasta estensione che un po’ ingenuamente mi aspettavo, forse condizionato dal film “La foresta dei pugnali volanti”. Abbiamo anche visitato (a pagamento) i giardini della casa Okochi Sanso, che apparteneva a un famoso attore del cinema giapponese in bianco e nero, Denjiro Okochi. Bellissimo il sentiero che correva su per la montagna, dove si aveva una vista meravigliosa dell’intera vallata. Decisamente un colpo d’occhio a mio parere migliore rispetto al bosco di bamboo.
Abbiamo lasciato quindi frettolosamente Arashiyama per raggiungere la stazione di Kyoto e da lì prendere il treno per Inari, a due fermate di distanza. Dopo pranzo, abbiamo infatti visitato il celeberrimo Santuario shinto di Fushimi Inari Taisha, dedicato al dio volpe Inari. E questo, è stato uno dei luoghi che abbiamo preferito dell’antica capitale. L’area del santuario è vastissima, si spinge su fino alla vetta della montagna sacra di Inari. Tutta la zona è abbellita con decine e decine di statue del dio, una volpe sorniona con una chiave in bocca. Ma la cosa più famosa e impressionante è senza dubbio la lunghissima galleria di torii arancioni, vista anche nel film “Memorie di una geisha”. Il sentiero che porta alla vetta, infatti, è circondato da centinai di questi portali in legno, con scolpite le preghiere e frasi votive. Uno spettacolo mozzafiato. Mia figlia non ce l’avrebbe fatta a percorrere i lunghi km in salita fino alla vetta, per cui abbiamo compiuto la passeggiata più breve, ovvero l’anello inferiore. Dopo il primo tratto, infatti, il sentiero biforcava: da una parte proseguiva verso la cima, dall’altra riscendeva a valle.
È stata veramente un’esperienza fantastica.
Di rientro in città, abbiamo ricavato il tempo per visitare il Museo Internazionale del Manga. Mentre eravamo in stazione, armati di cellulare per cercare il percorso migliore, siamo stati avvicinati da un gruppo di studentesse di inglese che, per fare pratica, ci hanno aiutato a imboccare il tunnel giusto della metro. Carinissime, di loro ci resta una foto di gruppo.
Il Museo Internazionale del Manga è ospitato in un vecchio edificio scolastico e racchiude collezioni inestimabili di manga, ovviamente quasi tutti in giapponese. Solo al piano terra si trova una raccolta di manga in diverse lingue, tra cui l’italiano. Il Museo ospitava anche una mostra temporanea sulla mangaka Keiko Takemiya, autrice del famoso Poema del Vento e degli Alberi, il primo shojo manga a tematica yaoi (amore tra ragazzi). Incorniciati, i disegni leggiadri degli androgini protagonisti del manga erano veramente splendidi. Una delle ultime sale, invece, ospitava le riproduzioni in gesso delle mani di famosi mangaka, tra cui Monkey Punch (Lupin III), Yoshiyuki Tomino (Gundam), Testuya Chiba (Rocky Joe). Molto carino anche il book shop del museo.
Il giorno successivo lo abbiamo dedicato interamente ad un’escursione fuori Kyoto, per la precisione a Nara, antica capitale. Con il treno della JR (sfruttando quindi il Japan Rail Pass) abbiamo proseguito sulla linea che passava da Inari e dopo circa un’ora abbiamo raggiunto la stazione JR di Nara. Con un Bus facilmente identificabile, abbiamo raggiunto il grande parco centrale della cittadina, dove migliaia di cervi vagano liberi passeggiando placidamente tra i turisti e cercando continuamente cibo. Il cervo è l’animale sacro della città e appositi chioschetti vendono i biscotti per i cervi. Mia figlia era letteralmente elettrizzata, non si stancava mai di accarezzarli e giocare con loro. Io li trovavo anche piuttosto invadenti: abituati com’erano a interagire con gli umani, non esitavano a infilare il muso in borse o zaini di malcapitati visitatori, in cerca di cibo. Nel parco, sorge il grande complesso buddista del Todai Ji. Il portale di accesso con statue lignee giganti di dei protettori è veramente impressionante; ma la cosa che merita in assoluto una visita è il padiglione centrale dove si erge la grande statua del Buddah gigante, il Daibutsu, alto 15 metri. Assolutamente imperdibile. Dopo pranzo, ci siamo recati passeggiando tranquillamente tra i cervi all’altro angolo del parco, dove si trova un altro gioiellino di Nara: il santuario shinto di Kasuga Taisha, noto anche come il Santuario delle Lanterne. Vi si trovano oltre 3000 lanterne di bronzo, che vengono accese una volta l’anno durante la festa del santuario. Per avere un’idea dell’effetto, i visitatori vengono condotti in una stanza buia, dietro spessi tendaggi dove brillano accese decine di lanterne. Le pareti della stanza sono rivestite di specchi e così l’effetto si propaga all’infinito e si ha l’impressione di migliaia di luci che brillano nel buio.
Al termine della visita, siamo tornati col bus alla stazione, per poi fare ritorno a Kyoto.
L’ultimo giorno a Kyoto ci avrebbe riservato una visita all’ultimo tempio buddista in programma, il Kiyomizu Dera ed è stato quello preferito da mia figlia per le diverse attività che vi abbiamo svolto.
Può apparire un vasto complesso come tanti altri che abbiamo visitato; in verità superata la scalinata di ingresso ci siamo trovati in un ampio piazzale con una bellissima pagoda a tre piani arancione. Subito dopo siamo arrivati allo Zuigo Do, dove abbiamo avuto una delle esperienze più significative visitando i templi di Kyoto. Mia figlia l’ha adorato. Dopo aver pagato l’ingresso e aver tolto le scarpe, come di consueto, abbiamo sceso una ripida scalinata verso i sotterranei rivestiti di legno, immersi nell’oscurità più completa. Per non sbattere e per seguire il percorso, ci si aggrappava a un rosario buddista dai grossi grani, appeso alla parete. Ecco il significato del percorso nell’oscurità: meditare sul mistero della morte e della rinascita, secondo la credenza della reincarnazione. Il percorso, per nulla lineare, non permetteva di vedere nulla e solo affidandoci completamente ai grani del rosario era possibile avanzare. E poi, all’improvviso, ecco una lama di luce piovere dall’alto, giusto a illuminare una grossa pietra levigata rotonda con scolpita una “ohm”. Girando la pietra, si poteva girare la ruota del destino e meditare sul proprio futuro. Un’esperienza davvero indimenticabile. Lasciato questo edificio, abbiamo raggiunto il grande Hondo che sorge a picco sul dirupo che domina Kyoto. Qui si trova una grande statua del Bodhisattva Kannon, dalle cento braccia, davanti al quale si prega accendendo un cero e suonando un tamburo rituale.
Proseguendo in salita, si arriva all’area shinto del complesso, ovvero il santuario Jishu, dedicato al dio shinto dell’amore. Il buon cupido nipponico, molto somigliante ai soldati haniwa di Jeeg, anche se dall’espressione mite e sorridente, viene sempre ritratto accanto al suo animale messaggero, la lepre. Qui, oltre che pregare per cercare il vero amore, ci si può cimentare anche in una sorta di ordalia. Vi si trovano due pietre sacre, distanti circa 20 metri: chi riesce a effettuare il percorso tra le due a occhi chiusi, di sicuro troverà il vero amore. Se lo farà aiutato, avrà bisogno di un aiuto anche per trovare il vero amore. È stato divertente vedere i giovani studenti giapponesi in gita cimentarsi nella prova d’amore. Qui siamo stati avvicinati da un professore di inglese di una scuola superiore di Kyoto che aveva accompagnato alcune sue studentesse, rigorosamente in divisa stile sailor, per chiacchierare con i turisti occidentali e impratichirsi con l’inglese. La domanda principale che ci hanno posto riguardava i motivi che ci hanno spinto a visitare il Giappone.
Anche di questo felice incontro conservo gelosamente una fotografia che ci ha scattato il sensei.
Infine, scendendo di nuovo verso valle, proprio sotto l’Hondo si trova la grande fontana sacra a tre zampilli, la cascata Otowa. Mettendosi in coda, si può bere da una dei tre getti con mestoli dai lunghi manici che ci si passa l’un l’altro (ma tranquilli, tra un passaggio e l’altro vengono sterilizzati in apposite celle a raggi ultravioletti). Ogni zampillo ha differenti virtù miracolose: c’è quello che propizia la buona salute, quello della lunga vita e quello della buona riuscita in affari. Ma guai a bere da tutte le fontane! L’avidità è punita dagli dei e si incorrerebbe nella malasorte. Noi abbiamo bevuto dalla fontana centrale, ma onestamente ignoro quali benefici abbiamo acquisito.
Con nostalgia abbiamo lasciato il Kiyumizu Dera, sapendo che il giro di Kyoto era orami pressoché terminato e il ritorno in Italia era ormai prossimo.
Dopo aver pranzato nei pressi del tempio con un buonissimo ramen con tofu fritto (bisogna assolutamente mangiare il tofu a Kyoto; a ragione si dice che sia il più buono del mondo con una consistenza vellutata e una cremosità unica, simile alla nostra burrata), siamo tornati in centro città, dove abbiamo passeggiato per il grande mercato coperto. Abbiamo avuto così il tempo per acquistare gli ultimi souvenir e passeggiare per il settore degli alimentari, dove abbiamo gustato odori e sapori della cultura giapponese. Che meraviglia i banchi con la vendita di alghe, pesce fresco e katsobushi!
L’ultima cena l’abbiamo trascorsa in un’altra zona tipica, Pontocho, altro distretto di Geishe, caratterizzato da viette strette illuminate dalle tipiche lanterne di carta rosse e bianche, sede di numerose okiya e case da tè. Abbiamo trovato un ristorante non proprio economico, ma abbordabile, dove ho gustato un delizioso sukiyaki, preceduto da un piatto di sushi, mentre mia figlia ricorda ancora con piacere il suo tofuburger con l’insalata. Mia moglie è stata l’unica scontenta, avendo preso del pesce alla griglia, ma intero e non eviscerato…
Il giorno dopo, alzandoci all’alba, abbiamo fatto il check out e con un taxi abbiamo raggiunto l’ormai familiare stazione di Kyoto. Attraverso il treno Hikari, decorato sia all’esterno che all’interno con grandi disegni di Hello Kitty, abbiamo raggiunto l’aeroporto di Osaka, il Kansai International Airport. Lo scalo sorge su un’isola ed è raggiungibile attraverso un lungo ponte sospeso. E così, con quest’ultima meraviglia, è terminato il nostro viaggio in Giappone.
È stata un’esperienza grandiosa ed emozionante e averla gustata in età adulta, con mia moglie e mia figlia, l’ha resa ancora più speciale.
Si è trattato certo di una realtà così diversa e per certi versi aliena, ma nello stesso tempo l’abbiamo sentita così vicina e familiare essendo cresciuti con le storie giapponesi e avendo condiviso lo stesso immaginario. Aver toccato con mano ciò che si è desiderato ci ha lasciato quasi senza fiato.
A ognuno di noi è piaciuto qualcosa in particolare; mia figlia ha ovviamente apprezzato la parte più ludica e divertente (oltre che la cucina), ma di una cosa siamo certi: quando siamo decollati con l’aereo per tornare in Europa, tutti e tre abbiamo pensato “questo non è stato un addio, è solo un arrivederci”.