Viaggio in borneo: la terra sotto il vento
KOTA KINABALU: IL BATTESIMO DELL’ACQUA E’ un’ umida mattina di inizio agosto quando mettiamo finalmente piede a Kota Kinabalu (KK, come la chiamano da queste parti), capitale del Sabah. Finalmente in Borneo! “Le avventure asiatiche di Luca e Viviana”, è il titolo del fumettone che mi scorre nella mente mentre mi accingo per la prima volta a respirare l’afosa umidità del sud-est asiatico. Fuori dall’aeroporto noleggiamo un taxi per raggiungere la nostra prima meta: l’Ang’s Hotel, definito dalla guida Lonely Planet “un’ottima scelta”. Durante il tragitto, cerco di scambiare quattro chiacchiere con il tassista, che una folta letteratura vuole sempre grande conoscitore dei segreti locali: l’uomo mi guarda bovino dallo specchietto, e capisco che l’inglese non deve essere il suo forte…Così mi rassegno a osservare silenziosamente la città che si va disponendo ai nostri lati. Finché i miei occhi non mandano un preciso appunto al cervello: KK è di uno squallore unico! Va bene, sapevo che la città era stata rasa al suolo per ben due volte nel corso della seconda guerra mondiale, e interamente ricostruita…Ma non mi aspettavo tanto sfacelo! La cosa sorprendente è l’alternarsi di edifici fatiscenti e sporchi con palazzi che ostentano ricchezza (marmi rosa e vetri a specchio). Tante banche. Rimaniamo a bocca aperta passando accanto a un villaggio in stile “bidonville”, tutto su palafitte: le case sono cucce di legno e lamiera,unite da un intrico di pontili di legno, in mezzo ai quali si distinguono vestiti appesi e altre amenità. Curiosamente, a pochi metri di distanza sorge un lussuoso resort, con prati all’inglese e immacolati campi da golf. Finalmente arriviamo al nostro hotel, e la prima impressione (presto corroborata dalla seconda, la terza e la quarta) è che si tratti di un posticino perfettamente integrato nel contesto di degrado urbano di KK: in soldoni, fa abbastanza schifo, ma costa poco e la guida dice che è ok. Sarà… Decidiamo di mollare i bagagli e avventurarci verso il molo, per chiedere informazioni su come arrivare alle vicine isole. Per la strada tutti ci osservano, neanche fossimo vestiti da astronauti. In realtà, mi accorgo che di turisti occidentali non si vede l’ombra, e i locali ci squadrano con malcelata curiosità. Le loro facce non sono esattamente raccomandabili, e, attingendo al mio folto bagaglio culturale, decido che sono proprio come i cattivi nei film di Bruce Lee. Ci facciamo coraggio ripassando mentalmente il capitolo che la guida dedica a Kota Kinabalu, nella sezione Pericoli: “nonostante le apparenze, KK resta una città sicura”. Giungiamo in pochi minuti al molo, dove ogni 20 metri c’è un gabbiotto che pubblicizza il proprio servizio barche per le isole. Io e Vivi cerchiamo di essere il più indigeni possibile ma, con macchina fotografica al collo e guida turistica in mano, sembriamo…Due turisti, appunto. Inevitabilmente, i malesiani che ronzano attorno ai gabbiotti ci fiutano da enormi distanze e ci fanno grandi cenni. Uno in particolare si dimostra particolarmente insistente nell’offrire i propri servizi, e io lo ribattezzo fulmineamente “il dentista”, per via dei denti che si dribblano tra di loro. Lo ascolto con scarso interesse per scoraggiarlo, e gli dico che torneremo più tardi. Ma il dentista non molla la presa, ci si attacca alle caviglie e continua a farci proposte in un anglo-malese improponibile. Capisco che si attende una qualche risposta, allora mi fermo e, con tutta la gentilezza che mi rimane sottraendo i postumi del jet lag, gli spiego che non capisco una fava di quello che sta dicendo. Lui sorride mostrando il suo pezzo forte, i dentoni, e riattacca più lentamente. Mi propone uno sconto se vado alle isole oggi e domani…Ma io gli spiego che adesso è tardi, e che forse torneremo domani. Il dentista pare deluso, ma non si scoraggia e ci lascia un bigliettino con il suo nome. Riusciamo finalmente a divincolarci, e torniamo a immergere occhi, naso e orecchie in questo affascinante spicchio d’Asia. Tutti ci guardano incuriositi, ma nessuno appare ostile. Un bambino mi sorride alzando il pollice: ricambio il sorriso anche se non capisco a cosa si riferisca il gesto del pollice. Forse si complimentava per Viviana, o magari gli sembrava un cenno di saluto degno di un occidentale…Chissà. Viviana annuncia di sentirsi in un’ambientazione da film sul Vietnam, con l’allarme antiaereo pronto a scattare da un momento all’altro. Il naso guida le gambe verso un mercatino coperto: dentro è pieno di frutta e verdura assolutamente sconosciuti…Almeno a noi che siamo ai tropici per la prima volta! Ci sono banane di tutte le dimensioni, pesci essiccati di varie forme, peperoncini colorati e radici di ogni tipo. Devo avere un grosso punto interrogativo al posto del cranio, ogni cosa mi incuriosisce, anche se non mi azzardo a spiccicare parola con gli anziani che gestiscono le bancarelle. Ad ogni modo, scandaglio i banconi alla ricerca del mitico durian, il raro frutto tipico della Malesia, le cui caratteristiche principali sono: polpa cremosa e delicatissima, e tanfo di fogna, tanto che è vietato portarne in albergo. Un celebre scrittore definì l’esperienza con il durian in maniera assai efficace: “è come gustare un biancomangiare al lampone in un gabinetto pubblico”. Deve essere mio! Al mercatino, purtroppo, mi va male: do del durian a una grossa zucca bitorzoluta, che in seguito vedrò descritta nella guida come un jack fruit. Accidenti. Per risollevarmi il morale, Viviana propone una passeggiata alla collina panoramica che domina KK, chiamata Sight Hill. Bene, ci incamminiamo curiosi lungo una strada che si insinua tra alberi alti decine di metri, dai quali friniscono all’unisono milioni (centinaia di milioni) di cicale. Il chiasso a tratti è assordante! Arriviamo in cima e scopriamo con piacere che il sole ha finalmente deciso di fare capolino, anche se la zona del belvedere è misteriosamente chiusa. Comunque,anche senza panchine, la vista su KK e le isole è molto bella, e già ci apprestiamo a godere del primo tramonto tropicale della nostra vita. Mentre riempio i polmoni di puro ossigeno malese, il mio sguardo spazia a 360 gradi, fino a intercettare una nube d’acqua in lontananza. Sarà meglio tornare giù, dico a Vivi, ma non ho tempo di chiudere la bocca e già siamo immersi nell’acquazzone. Atmosfera surreale: il sole continua a splendere sulle isole del parco, mentre la collina è avvolta da una nube d’acqua. Siamo zuppi in 12 secondi netti, ma non possiamo fare a meno di osservare rapiti il gioco della natura, con il sole che riverbera sugli alberi una patina d’oro, mentre la pioggia densa e fitta continua ad avvolgerci. Credo che gli alberi amino questo clima, a giudicare da come sono forti e grandi. Una signora con due grandi buste emerge dal diluvio, salendo senza fretta. Ci sorride e prosegue canticchiando. Squish, squosh. Rumore delle nostre Nike zuppe che tornano in albergo.
Ci cambiamo e usciamo a cena. La nostra meta è il Restoran Sri Melata, segnalato dalla guida come buono ed economico. Il menu è incomprensibile, allora Viviana afferra il toro per le corna e chiede alla signora di scegliere per lei. Guardiamo con sospetto l’acqua che ci viene versata e, per precauzione, ordiniamo 2 coche. Ce le portano con dei bei cubettoni di ghiaccio…Tanto valeva bersi l’acqua! Il cibo comunque è buono, e quello che viene servito sugli altri tavoli sembra anche meglio. Di fronte al ristorante c’è una sorta di piazza con un paio di locali dove si mangia all’aperto sotto dei tendoni. Ci sono delle vasche con pesci e molluschi di vario genere, e la proprietaria ci invita a osservare, dandoci spiegazioni sul tipo di pesce e su come viene cucinato (spiegazioni che tralascio di riportare, soprattutto perché non ci ho capito niente). Ci sono anche vasche con grosse tartarughe dal guscio molle e il naso a punta, e poi grandi rospi. Più in là osserviamo un ragazzo che arrostisce su un barbecue il Satay, spiedino di carne e piatto tipico malese. Tornando all’albergo ci imbattiamo in un supermercato, ed entriamo a curiosare. È un iper classico, con la consueta abbondanza di frutta e verdura mai vista, e una serie sconfinata di buste con piatti locali surgelati o liofilizzati. Peccato non avere un surgelatore nello zaino! Buonanotte.
KK, SECONDO GIORNO: UNA CENA MEMORABILE Il secondo giorno guardiamo sconsolati le nostre creme solari a protezione 700: piove ancora! Comunque, c’è caldo umido, ma non si soffoca, e girare in strada è persino piacevole. Ieri eravamo abbastanza dubbiosi sulla pulizia delle strade, e sull’opportunità di indossare i sandali: ma ora abbiamo già capito l’andazzo, e ce ne andiamo sguazzando nella fanghiglia con i nostri sandali…Che comodità! Il giro alle isole è ancora rimandato: per ripicca contro il destino, decidiamo di cibarci di frutta come scimmie. Al mercatino mi riempio la busta di mini-banane, frutti a stella e curiose palline gialle grandi come piccole prugne. Le banane sono dolcissime, ma i frutti a stella sono deludenti: sanno di buccia di piselli! Quanto alle piccole prugne: sono…Ehm, divertenti. Si toglie una buccia sottile tipo melograno, per rivelare una polpa trasparente e gommosa, come le palline che rimbalzano. Faccio subito la prova: non rimbalzano. Scemo. Adesso pulisci. Nel pomeriggio facciamo finalmente rotta sull’isola più grande, Gaya. Non che ci sia molto da fare, là: ci facciamo un assaggio di trekking nella giungla, e scopro che si suda in maniera allucinante! Tornando avvistiamo quello che ci sembra un varano, o uno stretto parente, che nuota placido sotto le palafitte del resort dell’isola! In barca, scambiamo 4 chiacchere con un malese, e ci facciamo consigliare un buon ristorante di pesce. Segnatevi il nome: Port View, un vero paradiso! Raramente ho mangiato pesce così bene: il locale è quasi pieno, e il pesce fresco arriva direttamente da grosse vasche all’ingresso del locale. Mangiamo un qualche tipo di pesce cucinato alla moda di Hong Kong, ed è buonissimo. Ancora meglio i gamberi al burro, anche se le forchette non esistono, e provateci voi a sgusciare i gamberi con le bacchette! Soluzione: tutto con le mani, e il bon ton lo teniamo per un’altra volta. Unti ma felici, torniamo all’Ang’s per la notte. KK TERZO GIORNO: FINALMENTE MARE! Il mattino successivo splende finalmente il sole: presto, si va a Sapi Island, l’isola più bella per fare snorkeling! Sempre col timore di essere fregati e abbandonati da qualche parte senza che Bruce Lee ci salvi, ci imbarchiamo su una lancia che in pochi minuti ci scarica a Sapi. L’isola è bellissima,con spiagge bianche e sfondo di vegetazione che a tratti sconfina in acqua. Purtroppo, l’acqua non è pulitissima, a causa della vicinanza con Kk e della sua sporcizia che arriva con la corrente. Ma basta allontanarsi di qualche metro dalla riva per gustare la vita marina che pullula sui bassi fondali: pesci colorati di ogni tipo e stelle marine azzurre! L’acqua è a temperatura ambiente, ci si potrebbe stare le ore. Decisi a provare anche qualche altra spiaggia, ci incamminiamo su per la collina, accompagnati da una simpatica coppia di toscani conosciuti in loco. Superiamo un tratto di foresta e scendiamo su una spiaggetta più appartata e bella. Quando arriviamo, i toscani, che ci avevano preceduto, ci raccontano che, mentre facevano il bagno, un macaco era sceso furtivo, aveva trafugato un arancio dallo zaino della ragazza e si era messo a sbucciarlo su una roccia. Io e Vivi vediamo soltanto le bucce, ma il macaco non si fa più vivo. Siamo dispiaciuti e sollevati allo stesso tempo. Impavidi, eh? Alle 18.00 incontro in hotel con il gruppo Intrepid (un tour operator australiano al quale avevamo deciso di aggregarci per la prima parte del viaggio). Nonostante i timori della vigilia, si tratta perlopiù di ragazzi come noi: 2 cugini svizzeri, 2 coppie di inglesi, 1 australiano, 2 svedesi (padre e figlio), e un’altra ragazza inglese. Usciamo tutti a cena, e Johanne, la nostra guida australiana, ci porta a mangiare indiano, al Jothy’s Banana Leaf Restaurant: si mangia con le mani su foglie di banano e sembriamo proprio dei maiali…Ma certo non peggio di ieri sera. Il cibo è buono e paghiamo appena 5000 lire a testa. KK, VIAGGIO ALLE PENDICI DEL KINABALU La mattina successiva, prima di partire per il parco nazionale del monte Kinabalu, ci facciamo un mercatino domenicale. Io e Vivi ci fermiamo a osservare dei frutti strani: il venditore, divertito, ce ne fa assaggiare un pezzetto. Poi, siccome gli faccio capire che gradisco, me ne regala un paio. Che gentile! Il frutto è il langsat, altrimenti detto snake fruit per via della buccia straordinariamente simile alla pelle del serpente. Finalmente partiamo per Kiau, villaggio Dusun alle pendici del monte Kinabalu, dove alloggeremo presso i più antichi abitanti della zona. Un’ora e mezza di minivan, e poi trasferimento su fuoristrada 4×4 per l’ultimo tratto di strada dissestata. Piove a dirotto, ma lo scenario è fantastico! La strada ci porta in cima a colline ricoperte di una fitta vegetazione: la cosa surreale è che l’aria fresca, i monti e la nebbiolina fanno pensare a un paesaggio alpino…Ma intorno a noi ci sono palme e banani! L’alloggio che ci viene offerto presso i Dusun è modesto, ma lo scenario è indescrivibile: da una parte la massa scura del Kinabalu (4095m…E presto saremo in vetta!), grondante di piccole cascate per via della pioggia; dall’altra una verde distesa collinosa che si apre sul mar della Cina! Scattiamo dozzine di foto, ma già sappiamo che niente potrà rendere a dovere la magia del posto. Mangiamo seduti per terra e, dopo cena, i locali si uniscono a noi, invitandoci a bere la loro bevanda tradizionale, il vino di riso. Si tratta di una bevanda composta da acqua e vino di riso, con la quale i Dusun si ubriacano regolarmente ogni domenica. Seduti sul pavimento ci presentiamo ai nostri ospiti. Pian piano si aggiungono nuovi Dusun, perlopiù ragazzi sulla ventina che vengono a conoscerci uno per uno. Sono quasi tutti brilli per via del vino di riso, ma l’alcol li rende più socievoli e, a quanto sostengono…Migliora il loro inglese (ah, basta così poco?!). Nella sala si formano piccoli gruppi: c’è chi balla e chi parla. Capisco che la nostra presenza li rende felici, e li fa sentire meno isolati. Li tempesto di domande sul loro stile di vita. Ma mica mi ricordo che gli ho chiesto…Deve essere colpa del vino di riso! Vado a dormire a notte fonda… La mattina Andry, figlio di Soppingi (la guida Dusun che ci porterà in vetta al Kinabalu) ci mostra una panoramica del villaggio. Non entriamo in nessuna casa: Jo dice che i Dusun si vergognano delle loro case, non le ritengono adeguate a ospiti occidentali. Alle 10.30 siamo finalmente in marcia per il quartier generale del Parco nazionale del monte Kinabalu. Il parco è meraviglioso: le strade che portano dall’headquarter ai vari chalet e sentieri sono bordate di palme di ogni tipo, ma anche felci arboree, orchidee e tanti altri generi di piante tropicali. Siamo a 1588m di altezza, fa fresco e si sta bene. Pranziamo al ristorante del parco, dove spendo appena 2500 lire per un piatto unico di riso, manzo e verdure miste, e un bicchiere di coca cola.
KINABALU: IL GIORNO DELLA SCALATA La scalata ha inizio la mattina seguente, verso le 8.30. Si parte dalla centrale elettrica, a 1866m di altezza. Il nostro obiettivo è raggiungere il rifugio Laban Rata, posto a 3270m, dal quale partiremo in nottata per raggiungere la vetta all’alba. Dalla centrale al Laban Rata ci sono circa 6km di strada da fare, con un dislivello complessivo di 1500m. Un percorso che solitamente si fa in 3 ore, 3 ore e mezza. Curiosamente, i primi 200 m sono in discesa! Il sentiero è bellissimo, largo e con grandi scalini scolpiti nella roccia e nelle radici degli alberi. Incontriamo subito una cascata, poi ci addentriamo nella foresta, che pullula di uccelli e scoiattoli. Ogni km c’è una sorta di bungalow dove riposarsi, un bagno e una fontana. Man mano che saliamo l’alta foresta lascia il posto a un bosco di rododendri nani. C’è il sole ed è tutto terribilmente bello, oltre che un bene: con la pioggia, sembra che i viandanti debbano fare i conti con le sanguisughe! A un punto di sosta, Viviana dà da mangiare delle briciole agli scoiattoli. Uno le mangia direttamente dalla mano: poi, finite le briciole, le addenta l’indice! A tratti, la foresta è talmente bella che sembra di essere in un set finto di Disneyland. Nella vegetazione scorgo le piante carnivore più famose del parco, le nepenti. Mentre ci avviciniamo al Laban Rata la vegetazione si fa più rada, e scende una nebbia sottile. Il paesaggio diventa surreale, una foresta di alberi contorti, grigi e senza foglie, avvolti dalla nebbia. Giungo al Laban Rata assieme a Eddie, lo svizzero, e Gustav lo svedese, in anticipo sul gruppo di circa 45’. Ci abbiamo messo appena 2h50’. Sono abituato a fare trekking sulle Dolomiti, ma questo percorso credo sia stato in assoluto uno dei più belli che abbia mai fatto! Al Laban Rata ci rilassiamo un po’, giocando a carte, e ordinandoci una bella minestra di noodles (gli spaghetti qui li chiamano così). Il panorama è splendido, e a tratti siamo immersi nelle nuvole. Andiamo a dormire presto: la sveglia è fissata per le 2 di notte! KINABALU: ALLA CONQUISTA DEL CIELO Quando ci alziamo, naturalmente, è buio pesto. Il motivo di tanta fretta è che la cima del Kinabalu attira presto le nuvole, per cui la visibilità è generalmente buona solo nelle prime ore della mattina. Dopo un’insolita colazione alle 2 del mattino, ci imbacucchiamo e usciamo sul sentiero per raggiungere la vetta. Abbiamo tutti torce tascabili: portatevi assolutamente pile di ricambio. Il cielo è un tripudio di stelle e stelle cadenti! Il sentiero è tutto sulla nuda roccia, spesso con corde cui aggrapparsi nei punti più difficili. È abbastanza faticoso, ma non mi sembra rischioso…Almeno, non con queste condizioni atmosferiche: Andry, la guida Dusun, mi racconta che l’anno precedente uno scozzese è morto, scivolando sulla roccia resa viscida dalla pioggia. Ci avviciniamo alla vetta e fa sempre più freddo. Ho indosso una dolcevita, un pesantissimo maglione a collo alto in dotazione alla Marina, una giacca a vento, un berretto e una sciarpa…Ho freddo lo stesso! Raggiungiamo finalmente Low’s Peak, la vetta del Kinabalu, a 4095m. Aspettiamo qualche minuto, prima di vedere sorgere il sole sul mar della Cina. Un bello spettacolo, sicuramente…Ma io ho freddo e non me lo godo granché! L’ascesa fino al rifugio Laban Rata resta, secondo me, la parte più bella della scalata. Tornati al quartier generale, andiamo a ritirare il certificato che attesta la nostra impresa: un bellissimo souvenir, con disegni di orchidee e lapenti, sul quale è apposta la firma del direttore del parco e della nostra guida Dusun, Soppingi. Oggi troneggia fiero sopra il mio letto! PORING HOT SPRINGS: LA CASCATA NELLA GIUNGLA Tappa successiva sono le terme di Poring (Poring Hot Springs), dove è imperativo rilassarci dopo la scalata. Anche questo parco è bellissimo: ci sono boschi di bambù grandi come alberi, palme cariche di frutti, orchidee e fiori ovunque! E poi, naturalmente, vasche piene di acqua sulfurea bollente, nelle quali immergersi e rianimare i muscoli. Le vasche sono la parte meno esaltante del tutto, realizzate in pietra e scarsamente scenografiche…Ma il contorno è magnifico! La mattina successiva alle 7.30 sono già sveglio. Mi sento in gran forma e, mentre gli altri si rilassano in piscina, decido di intraprendere in solitaria il cammino che porta alle Lacanan Falls, cascate di 120m nel cuore della giungla! Un percorso di 3.5 km porta dal centro del parco alle cascate. Ben presto mi rendo conto che la foresta di Poring molto più giungla rispetto a quella del Kinabalu: le piante crescono altissime, e le liane si attorcigliano agli alberi, invadendo a tratti il sentiero. Sono solo nella giungla del Borneo. Ci vuole coraggio, è vero. O incoscienza. In ogni caso, io già mi sto cagando sotto. La mia prima preoccupazione sono i serpenti camuffati da liana, ma sento solo strisciare ai lati del sentiero. La mia seconda preoccupazione sono le sanguisughe: Jo mi aveva raccontato che l’anno scorso uno del suo gruppo era tornato dalle Lacanan Falls con un fardello di una cinquantina di sanguisughe appese un po’ ovunque! Sento i rami muoversi a una ventina di metri dal sentiero, sulla sinistra. Figure nere sgattaiolano furtive dalla cima alla base degli alberi, poi si dileguano: il mio primo incontro con le scimmie! Dopo 3km di trekking il sentiero si biforca. Scelgo la strada che va verso l’alto, ma, dopo 200m, il sentiero lentamente scompare. Potrei tentare di proseguire, ma l’idea di perdermi nella giungla di Poring non mi solletica neanche un po’. Torno al bivio e prendo l’altra strada, quella che scende. Il rumore dell’acqua si fa più forte, il mio respiro accelera, finalmente vedo una cascata che colma un laghetto. Mi aspettavo qualcosa di più imponente, per la verità! Un momento…Il sentiero prosegue verso l’alto. Faccio altri 100m e la giungla si apre su un’immensa torre di roccia a 3 terrazze, dalla quale viene giù una montagna d’acqua spumeggiante. Sensazione indescrivibile. Siamo solo io, l’acqua, la giungla…E le sanguisughe! Già, perché quando mi siedo per godermi lo spettacolo, noto per la prima volta un vermetto orripilante che, dal laccio del mio scarpone, allunga la testa in cerca del mio sangue! Resisto alla tentazione di farla saltare via, frugo nello zaino in cerca della macchinetta fotografica e immortalo a tutto zoom il piccolo mostro. Dopodiché mi spoglio, accorgendomi di sanguinare in un punto della caviglia sinistra: è un morso di sanguisuga, ma l’animale non c’è… Mi metto i sandali e corro incontro alla benedizione dell’acqua! Ah, se Viviana fosse qui! Fradicio e felice, torno a prelevare gli scarponi dalla busta e scopro con orrore che la busta pullula di sanguisughe! Dannazione. Resisto alla tentazione di lasciarla lì, la impacchetto e me la infilo nello zaino, così avrò un souvenir da mostrare! SEPILOK: L’INCONTRO CON GLI ORANGHI Il giorno seguente arriviamo al centro di riabilitazione per Orang Utan di Sepilok, una delle sole 4 riserve di orangutan esistenti al mondo. Molliamo i bagagli al Sepilok B&B e ci rechiamo alla riserva. Appena arrivati notiamo due o tre macachi che si aggirando indisturbati nei pressi della direzione, saltando di tetto in tetto, e sgraffignando sacchetti di spazzatura. I macachi si spostano in gruppo, e presto siamo attorniati da una dozzina di queste pesti pelose, curiose ma non aggressive. Mangiamo un boccone al bar-ristorante, e alle 14 siamo pronti per entrare. Emozione. Non so esattamente cosa aspettarmi, che livello di contatto potremo avere con gli orangutan. Seguiamo una passerella di legno che ci conduce dritti alla piattaforma dove alle 15 viene dato il cibo agli oranghi. Durante il percorso non vediamo nulla, neanche un macaco. La piattaforma è deserta. Attesa. Gli oranghi di Sepilok sono perlopiù reduci da incendi, o infortuni vari: lo staff se ne prende cura, e poi li riabitua alla vita allo stato brado. La riserva è molto grande, e alcuni, dopo essere stati accuditi, se ne ritornano nella giungla senza farsi più vedere. Altri, invece, sentono la mancanza del contatto con l’uomo che li ha curati, e, almeno nei primi mesi, tornano spesso al quartier generale, dove sanno di poter contare su un po’ di cibo e un po’ di compagnia. Finalmente la vegetazione si muove: un orango si avvicina spostandosi di albero in albero appigliandosi alle funi appositamente collocate dagli addetti della riserva. Appollaiato su un albero, a 15m dal nostro posto di osservazione, l’orango attende. Noi pure. Finalmente, alle 15 in punto, uno dello staff sale sulla piattaforma tirando posando un casco di banane e del latte. Con lentezza ed eleganza, l’orango copre l’ultimo tratto di fune che lo separa dalla passerella. Mangia le banane e non sembra prestare attenzione alle persone che lo guardano e lo fotografano. Non è propriamente uno showman. Attendiamo altri oranghi, ma non succede nulla. Sta per subentrare la noia, quando ecco che una combriccola di una decina di macachi arriva facendosi largo tra la gente sulla passerella. Il contrasto tra il placido orango e gli scalmanati macachi è uno spasso: loro, piccoli e accelerati, saltano da un ramo all’altro, cercando di strappare le banane all’orango e di fregarsele a vicenda. L’orango è imperturbabile: se un macaco gli ruba un casco di banane, ne prende un altro dal secchio! Le banane finiscono, e l’orango si sdraia sulla piattaforma: sembra pervaso da pensieri esistenziali (essere o non essere?). I macachi sono più divertenti, e si mischiano volentieri alle persone. Molta gente torna alla direzione per vedere un video sul lavoro del centro di riabilitazione. Noi preferiamo restare il più a lungo possibile con le scimmie: chissà quando ci ricapita! E, all’improvviso, la nostra perseveranza viene premiata: dalla foresta un altro orango si fa strada verso la piattaforma. Poi un altro, e un altro ancora. 5 oranghi sostano adesso sulla piattaforma! Mi giro e me ne trovo uno a 2 m, sulla passerella: maledico il fatto di aver scattato tutte le foto del rullino ad Amleto. Adesso 6 oranghi camminano in mezzo a noi! Uno arriva sulla passerella direttamente dalla foresta: mi appiattisco sul corrimano per farlo passare. Cammina a 4 zampe con le mani chiuse a pugno. Qualcuno non resiste alla tentazione di toccarlo, e io li incenerisco con lo sguardo.
Dopo questa memorabile esperienza ci attende una cena altrettanto memorabile, presso il nostro Bed&Breakfast: pesce alla brace, riso, pannocchie e la meravigliosa birra Tiger (una marca di Singapore che ho scoperto in Borneo, e che ha vinto diversi concorsi internazionali). In un piatto ci sono granchi grossi quanto una mano: non ne ho mai mangiati prima, e decido di tentare. Porca Paletta, sono buonissimi! Mi riduco in uno stato orripilante mangiando i granchi con le mani dopo averli sconocchiati a morsi…Yum, ancora me li sogno! Oltre alla strepitosa cena, al Sepilok B&B servono anche strepitosi succhi di anguria e, soprattutto, di ananas…Imperdibili!
JUNGLE CAMP: NEL CUORE DELLA GIUNGLA! Il giorno successivo raggiungiamo in minivan il fiume Kinabatangan, dopo un percorso lungo e spossante su una strada sterrata e polverosa, circondata da palme da olio. Il tragitto ci da modo di osservare il Sabah che cambia: la giungla viene pian piano bruciata per far posto alle piantagioni di palma da olio. Questo spiega anche i problemi nei quali incorrono i poveri oranghi, costretti a fuggire dalla giungla in fiamme, e spesso rimasti orfani proprio a causa degli incendi. L’olio di palma viene usato in cucina (il governo malese spinge molto in questa direzione), e si sta anche tentando di sfruttarlo come carburante. Giunti al Kinabatangan, risaliamo il fiume su lunghe imbarcazioni di legno, fino a raggiungere il nostro spartano alloggio nella giungla: il jungle camp. L’impatto con il campo non è dei migliori. Il lago è marrone, l’unico “bagno” disponibile è un recinto all’aperto senza tetto, dove si usa un secchio per scaricare. Comincia a piovere a dirotto, non c’è un cavolo da fare e l’odore di vernice fresca del legno della baracca mi dà allo stomaco. Penso di dover vomitare, dopo un po’ mi riprendo. Un varano di un metro e mezzo scorazza indisturbato attorno alla baracca. Sembra inoffensivo e ha occhi bovini, non da rettile. È molto lento. Non si tratta di un varano vero e proprio: i locali lo chiamano lizard. Alla faccia della lucertola, vorrei sapere che steroidi usa… Presto ci abituiamo alla loro presenza: la capanna ne è circondata e devono trovarsi a loro agio nel lago. La cena fa abbastanza schifo. Mi chiedo come farò a sopravvivere un altro giorno in questo posto. Di notte, sentiamo le scimmie rincorrersi sul tetto della capanna. Io ho il mio animale personale: un pipistrello che dorme sopra la mia zanzariera, a un metro dalla testa.
La mattina successiva la sveglia è alle 5.20: si fa trekking nella giungla. Alle 6 siamo in marcia, come automi, dietro una delle guide del campo, uno gnomo filippino, vestito come uno gnomo filippino nella giungla. Per un’ora e mezzo vaghiamo senza vedere un fico secco. Chris, lo gnomo, ci fa attraversare a guado un fiumiciattolo, consentendoci di inzupparci scarponi e calzini. Bene così. Ho l’impressione che in questo campo si cerchi di dare ai turisti l’impressione dell’avventura, costringendoli a trekking all’alba e facendoli infangare quando probabilmente non ce ne sarebbe bisogno. Ma le cose belle arriveranno. Chris ci conduce ai piedi di un albero, e comincia a percuoterne il tronco con un bastone. In alto sentiamo i rami frusciare. Knock, knock. Finalmente scorgiamo un orango che scende dal suo giaciglio per controllare la situazione. È una madre con un figlio! Manifesta il suo apprezzamento per il genere umano rovesciando un po’ di escrementi. Vedere un orango in libertà è praticamente impossibile, dice Lonely Placet: abbiamo avuto una fortuna sfacciata! L’orango scende ancora. È molto grosso e temo che lo gnomo l’abbia fatto incazzare a furia di battere col bastone. Per fortuna non scende fino a terra, si ferma a 5/6 metri da noi, poi decide di saltare su un altro albero e dileguarsi. Torniamo al campo per la colazione e troviamo ottime bombe con lo zucchero, tè e frutta fresca. Jungle camp comincia a piacermi! Dopo colazione prendiamo due barchette e ci dirigiamo verso il centro del lago. Io e Paul remiamo, Vivi, Clare e Susy cercano di bilanciare la barca malferma. Finalmente nel cuore del lago, saltiamo tutti in acqua, per un bagno forse malsano ma divertente e rinfrescante. Sembra di nuotare nel caffelatte! Tornati a riva perdiamo tempo in attesa del pranzo. Chiacchiero con la signora che gestisce il campo e la osservo mentre prepara degli ottimi involtini primavera. Nel pomeriggio è prevista un’escursione in barca lungo il Kinabatangan, alla ricerca della scimmia foglia d’argento e della rarissima Nasica del Borneo (o scimmia dal naso a proboscide). Il cielo si annuvola, comincia a piovere e io inveisco contro il creato. Ma non piove come ieri, ci si mette il k-way e si è pronti per l’escursione. Vediamo una tonnellata di animali! Le nasiche sono stupefacenti: con quel naso così particolare sembrano personaggi di un racconto fantasy. Saltano di albero in albero con sorprendente agilità, viste le dimensioni non certo ridotte. Le femmine hanno il naso all’insù e sono più piccole e aggraziate, mentre i maschi hanno un vistoso nasone che gli arriva sino al mento. Sono animali spettacolari, ed è strano pensare che vivono solo in Borneo. Avvistiamo anche diversi, splendidi hornbill (grandi uccelli simili a tucani, tipici della Malesia), nonché un paio di coloratissimi martin pescatori. Ci fermiamo a visitare una grotta abitata da pipistrelli, poi, sulla via del ritorno, le guide spazzano la superficie dell’acqua con le torce, alla ricerca degli occhi brillanti dei coccodrilli. Ne avvistiamo 4 o 5, tutti molto piccoli e schivi. A cena inventiamo il Mabuk, che sarà il vero e proprio tormentone del gruppo: tutti battono le mani ritmicamente e, cominciando da una persona a caso, tutti devono dire in ordine il numero successivo a quello detto dalla persona precedente. Il primo dice 1, il secondo 2, il terzo 3 e via seguendo il cerchio. Però, tutti i multipli di 7 e i numeri che contengono il 7 (7, 14, 17, 21, 27, 28…) devono essere sostituiti da una parola particolare, nel nostro caso…MABUK! Chi sbaglia deve bere (Mabuk, in malese, vuol dire “ubriaco”). Spunta una chitarra, e la sera si conclude in riva al lago, cantando tutti a squarciagola canzoni delle quali non conosciamo il testo. William, una delle guide, rivela insospettate virtù canore, e conosce a memoria tutto il repertorio di Frank Sinatra. Anche John, gallese di sessant’anni, è ubriaco perso e ci da dentro. Facciamo notte.
NOTTE A SANDAKAN Se volete sapere da cosa Salgari abbia tratto ispirazione per il nome del suoeroe più noto, puntate lo sguardo verso una cartina del Sabah orientale: vi troverete Sandakan, la nostra prossima tappa. In confronto, KK è roba da ricchi. Allo squallore e alla povertà delle costruzioni, nonché la sporcizia delle strade, si aggiunge però un lezzo di fogna ributtante. Viviana resta in albergo febbricitante, io mi avventuro tra i banconi del mercato del pesce, sfidando il tanfo insopportabile. Con il mio look trasandato mi sento abbastanza integrato con i locali, che mi guardano e io ricambio sorridendo. Mi sento bello e forte. Un po’ di autostima la perdo quando mi accorgo di avere la bottega dei pantaloni completamente aperta! Cerco di rimediare con nonchalance, ma la chiusura è a bottoni, e armeggiare con i bottoni nei pressi dei gioielli di famiglia non è molto onorevole, specie in piena zona mercato. Risolvo nascondendomi dietro a un furgone. Poi compro in farmacia miracolosi rimedi malesi per la febbre e il mal di gola. Le pasticche sono per Vivi, la misteriosa polvere verde è per il mio maldigola. Mentre attendo il mio succo di arancia e ananas, provo a spruzzarmi in gola un po’ di poverina, e credo di morire! Si tratta di un qualche tipo di muffa verde, con un saporaccio che rende inservibili le papille gustative per ore. Proprio mentre arriva il mio succo…Acc! In serata Vivi sta meglio, e usciamo a cena con gli altri. Sul marciapiede c’è un beltopone morto: chissà che i miasmi di Sandakan non abbiano fattomele persino a lui. Mangiamo pesce fritto in una sorta di ristorante all’aperto, in una piazza. La cameriera indossa il velo, le si vedono solo gli occhi…E sembra una gran bella ragazza (cosa rara, da queste parti!). Finita la cena, Vivi mi precede in albergo, io mi attardo a curiosare in un supermercato. Sulla via dell’albergo c’è il consueto tanfo: in più ci sono dei sacchetti di spazzatura buttati sul marciapiede, dai quali provengono rumori e sinistri squittii. Accelero il passo. In albergo Viviana mi attende in lacrime: avevamo lasciato la porta aperta, per sbaglio, e qualcuno è entrato e si è portato via la macchina fotografica. In realtà siamo stati molto fortunati: avevamo lasciato i soldi in cassaforte, presso la direzione dell’albergo, e il ladro si era portato via soltanto la macchinetta, con un rullino appena cominciato. Sandakan è una città molto povera, non c’è da meravigliarsi per piccoli furti come questi. Se mai ci capitate, fate attenzione a dove lasciate le cose! PULAU SELINGAN: L’ISOLA DELLE TARTARUGHE La mattina successiva ci imbarchiamo per Pulau Selingan, anche conosciuta come Turtle Island. Il perché lo immaginate: si tratta di un parco nazionale dove decine di tartarughe vengono a deporre uova tutti i giorni dell’anno! Ci si arriva dopo un viaggio di 40’ in barca veloce. L’isola è piccolissima, ma magnifica: sabbia bianca, palme da cocco, sole e mare (finalmente pulito!). Il pomeriggio lo passiamo in spiaggia a prendere il sole e a fare il bagno. Ci sono tanti pesci colorati, ed è un piacere fare snorkeling. A un certo punto, però, mi accorgo che l’acqua dove prima nuotavo ora mi arriva poco sopra le ginocchia. Che accidenti…!? Mi alzo in piedi e scopro che l’acqua si è improvvisamente ritirata. Sembra il preludio a uno Tsunami, ma si tratta semplicemente di bassa marea. Verso le 17.30, io Eddie e Pruce ci aggreghiamo ai membri dello staff del parco per una partita a calcio in un’improbabile conca di erba e sabbia (con porte in legno quasi regolari). Ai malesi non piace passare il pallone, il gioco è solo fisico e i falli sono praticamente aboliti: le punizioni esistono solo per falli di mano! Malesia-Resto del Mondo finisce 3-4, vinciamo grazie a una super-prestazione di Eddie, l’ostico svizzero. A cena si fanno scommesse sull’orario di arrivo della prima tartaruga: 5 ringitt a testa. Il mio intervallo è tra le 22.25 e le 22.35. Alle 22.16 suona l’allarme tartaruga: porca paletta, ero il prossimo! Si va tutti in spiaggia,dove la grossa tartaruga ha già deposto una sessantina di uova. I ranger ce ne passano un paio: sembrano uova di gallina, però piccole e tonde. La tartaruga ha il carapace lungo un metro,ed è un vero spettacolo. La tartaruga depone le sue uova, senza curarsi del fatto che, dietro di lei, i ranger prendono le uova e le portano nella nursery. Si torna a tavola, in attesa della schiusa delle uova: ogni giorno, un migliaio di uova custodite nella nursery si schiudono, e le piccole tartarughe vengono condotte in spiaggia per la loro corsa verso il mare! Arriva un ranger con una cassetta brulicante di tartarughe neonate. Possiamo tenerle in mano. Sembrano meccaniche, agitano le pinne avanti e indietro. Si torna in spiaggia, e il ranger rovescia la cassetta lungo una striscia di sabbia, a un metro dalla riva: le piccole tartarughe cominciano la loro folle corsa verso l’acqua! Secondo le statistiche, solo 1 su 100 riuscirà a sopravvivere ai predatori, e tornerà sull’isola a deporre le uova, tra 7/8 anni. Un’esperienza davvero memorabile.
IL DURIAN: LA RESA DEI CONTI Il tour con Intrepid finisce con il ritorno a KK. Dopo aver visto Sandakan, Kota ci appare una città di rara bellezza! Stavolta alloggiamo al Wah May Hotel, un posto gestito da cinesi che ci appare decisamente più bello e confortevole rispetto all’Ang’s, con un costo solo lievemente superiore. Il giorno seguente io e Vivi partiamo in autobus per Beaufort, da dove vogliamo prendere il trenino che porta a Tenom: un percorso consigliato dalla guida Lonely Planet, con il treno che passa dentro alla giungla. Arrivati a Beaufort ci dirigiamo alla stazione e facciamo amicizia con Alex, gioviale impiegato della stazione, che ci rivelache il treno per Tenom ha un ritardo di un paio d’ore. Ne approfittiamo per farci un giretto. Scoviamo un mercatino e…Meraviglia delle meraviglie, dei durian in vendita! Veri durian! Torno alla stazione e parlo ad Alex dei durian: lui si offre di accompagnarmi a sceglierne uno buono. Guardo Vivi che mi fa un cenno di no categorico. Ma l’occasione è da non perdere: do una pacca sulla spalla ad Alex, “Ok, let’s go!”. Alex sceglie per me uno spinoso durian di 1kg, che costa 8 ringitt: difficilmente troveremo qualcosa di più costoso in tutto il mercato! Dice che si capisce quando è buono perché quando si scuote si sentono i semi muoversi dentro. E poi deve profumare. Profumo?! La busta nella quale il durian è contenuto inizia immediatamente ad emanare un tanfo dolciastro. Chiudo la busta dentro un’altra busta, e faccio un doppio nodo. Ma anche così l’odore è pungente. Quando arrivo alla stazione devo escogitare un nuovo stratagemma per lenire il lezzo di durian. Scaltro come una faina, mangio un mandarino e metto le bucce all’interno della busta più grande! Ne risulta una miscela venefica, al cui confronto il gas nervino deve sembrare eau de toilette… Finalmente arriva il treno, con il suo carico di locali, polli e buste. Il percorso fino a Tenom è carino, ma non memorabile: 2h15’sono decisamente tanti a bordo di un trenino che va con un motore a diesel e che ci affumica tutti! Aspetto positivo: il fumo annienta l’odore del durian che nascondo furtivo sotto il sedile! Arriviamo a Tenom a tarda sera, e sembra proprio una città fantasma. Andiamo a cena in un ristorante indiano, una bettola dal nome tipo Islam, dove il cameriere non spiccica una parola di inglese. Rivolge un cenno al corpulento gestore del locale, che ci viene incontro sorridendo e ci sciorina un repertorio di interessanti frasi in una lingua arcana. Vado con il cenno internazionale: ok, fate vobis, basta che ci fate mangiare!ci accordiamo per un piatto di cibo qualsiasi. Dopo un po’ arriva con due ciotole di riso misto a piselli, uova e pollo (con tanto di ossa!) e una broda salata sul cui contenuto decido che è meglio non indagare. I vicini di tavolo assistono rapiti alle immagini di wrestling, boxe e film poliziesco sparate a tutto volume da tre tv dislocate nella bettola. Mi chiedo che idea si faranno costoro dell’occidente, se quello che gli arriva sono programmi come questi… Torniamo in albergo, ed è finalmente l’ora di fare i conti col durian. Purtroppo non ho con me il coltellino. Rovisto nel beauty di Viviana e ne esco vittorioso con un paio di forbicine. Raccatto la busta col durian e mi chiudo nel piccolo bagno. Con le forbici in pugno, sono pronto ad affrontare il nemico. Ma, nonostante sia armato, è il durian a colpire per primo, esalando una zaffata di gas tossico non appena lo libero dalle buste. Santi numi! Ripiego tossendo, e Viviana, dall’altra parte della porta, mi chiede preoccupata sesto bene. Ma oggi è giorno da eroi: affronto nuovamente il durian, immobilizzandolo con la sinistra e affondando le forbici lungo le “cuciture”. Ci siamo, si apre! La parte commestibile è costituita da due fagotti cremosi che racchiudono i due grandi noccioli. In pratica, pochi grammi commestibili in un durian di 1kg! ChiamoVivi per l’assaggio. Il gusto è straordinariamente delicato…Purtroppo il retrogusto aggredisce le narici con la stessa forza del tanfo del frutto. La macchina del tempo esiste: se un domani, tra 50 anni, dovessi assaggiare di nuovo un durian, sarei immediatamente catapultato nel piccolo cesso di quell’alberghetto di Tenom. Una sensazione unica, senza timore di smentite! Infagottiamo quel che rimane della bestia, e ce ne andiamo a nanna.
Il durian non dorme con noi: lui resta fuori dalla finestra, dato che temiamo seriamente ci possa uccidere nel sonno.
ROTTA SUL GUNUNG MULU L’aereo della Malaysian Airways ci scarica a Miri. Siamo approdati in Sarawak! Il nostro obiettivo è visitare il famoso parco nazionale di Gunung Mulu, esplorare qualche caverna, fare un po’ di trekking e poi dirigerci a sud, verso la splendida Kuching, ultima tappa del nostro viaggio. Già da qualche giorno abbiamo lasciato la sicura sponda di Intrepid per avventurarci raminghi nel mare aperto del viaggio fai-da-te, e abbiamo scoperto che la cosa è tutt’altro che impossibile, con una buona guida e un po’ di spirito. Ormai i Dayak ci fanno una sega: potremmo cibarci di topi vivi, se necessario. Ma faremo in modo che ciò non accada: siamo pur sempre animalisti. A Miri non facciamo altro che scendere da un aereo e attendere la partenza dell’altro, per il Gunung Mulu. Si tratta di un aereo talmente piccolo che io e Vivi dobbiamo farci piccini come Barbie e Ken per starci dentro tutti e due. Invero, credo tuttora che fosse radiocomandato! La Lonely Planet esorta i lettori a chiedere ai piloti di infilarsi radenti in mezzo alle montagne, che è più spettacolare. Noi, però, teniamo alle nostre coronarie e ci guardiamo bene dall’immolarci in nome dello spettacolo. Atterriamo sani e salvi. Fa un caldo bestiale, qui in Sarawak. Ci dirigiamo immediatamente al quartier generale del parco e chiediamo di Sandra Ramei, un guardaparco cui la nostra simpatica Jo di Intrepid ci aveva raccomandati. Sandra è un vero vulcano, simpatica e sorridente. Cercherà di organizzarci quanto prima l’escursione ai Pinnacoli, uno dei percorsi di trekking più famosi del Borneo malese, che porta ad ammirare una foresta fatta di spunzoni di rocce calcaree levigate dal vento. Ci sarà da attendere qualche giorno. Nel frattempo, io e Vivi ci dedichiamo a imprese meno proibitive, tipo esplorare la Wind Cave e la Clear Water Cave (due spettacolari caverne a pochi km dal quartier generale). Quello che ci interessa davvero, però, è lo spettacolo della Deer Cave, una grande caverna dalla quale ogni sera escono un fiume di pipistrelloni in cerca di cibo. Ci si arriva con facilità seguendo uno dei percorsi del parco, bello pianeggiante. Alle 16.30 ci installiamo, binocolo in mano, in una delle panchine dell’osservatorio, posto poco più in basso dell’ingresso alla caverna. Il tempo passa. Alle 17.30 è quasi buio, e disperiamo ormai di riuscire a vedere le volpi volanti uscire per la loro abbuffata serale. Che siano a dieta? In compenso, mi giro indietro e assisto a un vero spettacolo della natura: nubi nere di pioggia avanzano velocissime verso di noi. Neanche il tempo di fare un cenno a Vivi che gli alberi iniziano a piegarsi sotto il soffio impetuoso del vento. In pochi secondi si scatena il diluvio. Così abbiamo anche capito perché gli astuti pipistrelli hanno rinunciato a uscire: se si chiamano volpi volanti…Un motivo ci sarà! Ci ripariamo per una mezz’ora sotto la tettoia dell’osservatorio. Poi, visto che non spiove, indossiamo le mantelle e facciamo ritorno al nostro chalet, accompagnati dal sinistro gracidare delle rane wot wot (dal verso che fanno, simile al guaito di un cane…Ma possente!) In serata incontriamo Pruce, il ragazzo australiano del tour di Intrepid, che è appena tornato dal tour dei Pinnacoli. È entusiasta ma sfinito: gli offriamo un letto nel nostro chalet, che tanto di letti ne ha ben 3. Purtroppo, il mattino successivo il buon Pruce deve già partire per Kuching, per cui ci dobbiamo salutare molto presto. Noi, in compenso, abbiamo ancora un giorno prima di affrontare i Pinnacoli. Così, ci fidiamo della simpatica Sandra, che ci consiglia un tour delle caverne dal nome evocativo: adventure caving. ADVENTURE CAVING: VIAGGIO AL CENTRO DELLA TERRA Detto fatto, partiamo in canoa assieme al marito di Sandra, Bian, anch’egli guardaparco, carico di un’astrusa cianfrusaglia che presto diverrà la nostra croce. Raggiungiamo in canoa la Wind Cave: il nostro obiettivo e calarci furtivi nell’entroterra del Gunung Mulu, e attraversare il tunnel che conduce dalla Wind Cave alla Clearwater Cave. Un percorso di appena 8 km, e non esattamente pianeggiante! Prima di partire, Bian ci consegna un paio di elmetti da minatore, collegati a due recipienti di plastica da tenere in vita. I recipienti contengono un materiale che, a contatto con l’acqua, sprigiona un gas che, attraverso un tubicino collegato all’elmetto, alimenta una fiammella. La nostra unica fonte di luce. Bian ci spiega che, a differenza delle lampade, che emettono un fascio di luce più forte ma localizzato, la fiammella consente di avere un’illuminazione più allargata, anche se meno forte. Io e Viviana ci guardiamo e siamo già preoccupati. Seguiamo per un certo tratto il percorso che conduce all’interno della Wind Cave, poi varchiamo una recinzione e ci incamminiamo verso l’abisso. L’odore di guano è a dir poco pungente, e bisogna stare attenti a dove mettiamo i piedi, dal momento che il terreno è ricoperto da una fanghiglia scivolosa. Si scende, si sale, si cammina, ci si arrampica. A volte il tunnel è così grande che non si riesce a scorgerne le pareti. Altre volte bisogna stare rannicchiati perché lo spazio è a dir poco esiguo. Io, Vivi e Bian. La fiammella del mio casco ha l’interruttore difettoso: se si spegne, l’unica speranza è avere qualcuno vicino che mi passi la sua fiammella sul casco, in modo da riattivare la mia. Ma Bian ha la disdicevole tendenza a lasciarci indietro, e io mi immagino non so quante volte la scena di lui che si rompe l’osso del collo scivolando in qualche anfratto, e io e Vivi a brancolare nelle viscere della terra con due caschi, una fiammella difettosa e due tramezzini al burro di noccioline. A proposito, ora di pranzo. Mi sembra di aver trascorso gli ultimi 79 anni della mia vita sottoterra, mentre Bian ci annuncia gioviale che siamo a metà percorso. Rumino il mio panino nel buio della caverna, avvolto dall’odore del guano e dalle esalazioni di gas provenienti dal recipiente che ho legato in vita. Ci rimettiamo in marcia. Pelle di serpente abbandonata su una roccia. Brrr. A un certo punto, per passare, dobbiamo mettere le mani vicino a un grosso ragno peloso. Bian ce lo indica e dice che si chiama “housewife”, casalinga. Gli chiedo il perché, anche se non sono certo di volerlo sapere: si chiama così perché non fa la ragnatela, aspetta che la preda gli passi vicino e gli salta addosso. “Pericoloso?”, chiedo a Bian. “No”, risponde lui, “però non mettergli la mano troppo vicino”. Mamma mia. Per scacciare i cattivi pensieri, io e Vivi troviamo il modo di procurarci dei souvenir dell’avventura: nel tentativo di aiutarla a scalare una parete, le ustiono con la fiammella del casco un punto dell’avambraccio. Viene fuori una bolla gigantesca, che fa coppia con un’altra ustione che si era procurata da sola qualche metro prima. I segni di quelle ustioni li porta ancora con orgoglio, come cicatrici di guerra! Intanto, però, il percorso si stringe. A un certo punto c’è da affrontare un passaggio in discesa, su una parete dove bisogna stare aggrappati, puntellarsi con la schiena sulla roccia e ripassare i primi 98 santi del calendario. Bian va avanti spedito: conosce tutti gli appigli, il maledetto. Io devo trovarmeli da me, e indicarli anche a Viviana che mi segue spaurita (ma non più del sottoscritto, parola). Tra l’altro, Bian è bello piazzato, e riesce a puntellarsi bene con la schiena sulla roccia. Io e Vivi siamo due grissini delle caverne, e neanche ci arriviamo a toccare la roccia con la schiena. Sono impiantato in posizione a stella già da qualche minuto, il mio piede sinistro non riesce a trovare un punto d’appoggio. Vivi è qualche metro in alto a destra, che mi chiede dove appoggiarsi. Bian è già arrivato. Lo sento da sotto che mi chiede, con scarso senso di opportunità: “vuoi che ti faccio una foto?”. Solo quella ci manca. Poi la si mette sulla mia lapide. Bian dice che mi manca poco, di scendere ancora con il sinistro. Io gli do retta, ma non trovo appoggio e scivolo. Il piede tocca terra ma scivola ancora e cado in un’apertura laterale. Riesco a bloccare la caduta con braccia e gambe, ma sono pieno di tagli e ho il ginocchio girato tipo marionetta. Eppure, miracolosamente, riesco a rimettermi in piedi e non ho neanche una distorsione! Solo un bel taglio sull’indice. Ringrazio i 98 del calendario. Ancora qualche metro e arriviamo al punto di non ritorno: un passaggio ripido e stretto in discesa chiamato “one way passage”, passaggio a senso unico, perché una volta scesi di lì, non si può più tornare indietro. Incontriamo vita: due o tre esploratori ci precedono, e io e Vivi dobbiamo aspettare, per passare, perché nel passaggio ci si infila rigorosamente uno per volta. Siamo accovacciati in una nicchia grande si e no quanto l’abitacolo di una Smart. La fiammella dell’elmetto sfiora il soffitto, ed è il momento in assoluto in cui avrei più voglia di piangere. Ma c’è Viviana, che diamine, non posso proprio lasciarmi andare! Sento la claustrofobia che mi attanaglia il collo, ma finalmente tocca a noi. Riusciamo a superare indenni l’ultimo scoglio, adesso tutto è più facile. L’ultimo tratto è addirittura piacevole: il percorso si snoda accanto a un fiume sotterraneo. Possiamo scegliere se seguire a nuoto il fiume oppure percorrerlo ai lati. Io e Vivi, stanchi di arrampicate, optiamo per il fiume. Impressionante, per la verità: così nero e vivo, in una caverna muta e assonnata. Ma immergersi, dopo la fatica, è una vera goduria! Cerco di non pensare a quale sorta di animale potrebbe annidarsi nelle acque di un fiume sotterraneo, preferisco concentrarmi sulla bella sensazione dell’acqua sulla pelle, deliziosamente fresca. Ci lasciamo trasportare dalla corrente per un bel tratto e, dopo alcuni minuti, vediamo finalmente la luce balenare all’orizzonte: la Clearwater Cave! E quindi uscimmo a riveder le stelle… Stanchi, sporchi, insanguinati. Ma con l’euforia dei sopravvissuti! Cazzo, no che non lo rifarei. Ma a ripensarci, è stata una delle esperienze più forti che abbia mai fatto. C’è un laghetto appena fuori la Clearwater Cave, benedetto dal sole della sera: io e Vivi non esitiamo a tuffarci. TREKKING AI PINNACOLI: LA FORESTA DI ROCCIA Un nuovo giorno. Oggi è tempo di battezzare il trekking ai Pinnacoli. Io e Vivi ci uniamo a un gruppo di 5 turisti inglesi per dividere la spesa totale: Peter, Kevin, Libbie, Charlotte e Fiona, persone simpatiche e gradevoli. Si parte con un lungo pezzo in barca, molto scenografico. Purtroppo siamo nella stagione secca, e il fiume è basso: di conseguenza, la barca urta spesso il fondo in legno contro il letto del fiume, e siamo costretti per 5 o 6 volte a scendere tutti in acqua per spingere la canoa oltre la zona di secca. Dopo circa 1 ora arriviamo al sentiero che ci condurrà al Camp 5, il campo base per le partenze verso i Pinnacoli e verso il sentiero dei Cacciatori di Teste. Percorriamo 8km e 700m nella giungla, tutti in piano, prima di raggiungere finalmente la nostra meta, uno spartano rifugio collocato in una posizione incantevole, incastonato tra il monte Gunung Api e la foresta, in riva a un fiume d’acqua limpida (nel quale non mancheremo di tuffarci). Non c’è molto altro da fare: si attende la sera pregustando la scalata del giorno dopo, si mangia e si cerca di dormire costruendo qualcosa di simile a un giaciglio, con un materassino da palestra e lo zaino per cuscino. Si dorme (?) in camerate da 20 posti, su lunghe panche di legno. Al mattino la sveglia è alle 6, colazione alle 7 e partenza per i Pinnacoli mezzora dopo. Il sentiero è lungo 2.4 km, ed è completamente in salita: a tratti bisogna arrampicarsi a quattro zampe, tanta è la pendenza. A circa 400m dal traguardo iniziamo ad attaccare la parte rocciosa del tracciato, e le cose si complicano ulteriormente, con ferrate, corde e scale che si susseguono in continuazione. Finalmente ci si diverte! Arriviamo in cima dopo 3 ore e 30: la meta è un punto di osservazione dal quale è possibile ammirare il raro spettacolo di una foresta di roccia calcarea, i Pinnacoli, che si staglia nel verde della foresta. Mangiamo un panino gustandoci il curioso orizzonte che ci siamo faticosamente guadagnati, poi è tempo di scendere: contiamo di arrivare giù nel primo pomeriggio, perché da queste parti nel tardo pomeriggio piove…E venir giù con la roccia scivolosa è un’impresa che nessuno vuole tentare! La discesa è anche più ardua della salita: ogni passo va misurato, calcolato, per evitare di ruzzolare giù. Giungiamo al Camp 5 dopo 3 ore e mezza: lo stesso tempo che ci abbiamo messo a salire! Siamo stanchi, affaticati e accaldati: per fortuna c’è un bel sole e l’acqua del fiume che ci chiama scintillando: non la facciamo aspettare.
SI SCRIVE GATTI, SI LEGGE KUCHING! Kuching, capitale del Sarawak, è considerata una delle città più belle e pittoresche del sud est asiatico. Non ho visto granché del sud-est asiatico, ma posso affermare che, in effetti, Kuching è una città estremamente piacevole. La città è attraversata dal fiume Slungai Sarawak, e il lungofiume è un piccolo paradiso, fatto di un largo percorso pedonale, aiuole, piante tropicali, fontane e panchine: un posto incantevole per farsi una passeggiata, sedersi a osservare il traffico fluviale, scoppiare in lacrime…Ehm, quella ve la racconto dopo. In malese Kuching significa “gatti”: c’è chi dice che il nome derivi da un albero di frutta diffuso nella zona (il Mata Kuching), i cui frutti ricordano gli occhi dei gatti; ma alcuni sostengono che la città sia stata così battezzata per via dei numerosi gatti selvatici che vivevano lungo il fiume al tempo dei Rajah bianchi. Sia quel che sia, di gatti a Kuching ne abbiamo visti ben pochi (mangiati…Forse!): in compenso, la città è piena di piazze e piazzole dove troneggiano statue di gatti, alcune deliziosamente kitsch. Per non parlare del museo del gatto, unico al mondo, interamente dedicato all’agile felino! A Kuching abbiamo trascorso gli ultimi giorni del nostro viaggio in Borneo. Appena scesi dall’autobus, abbiamo camminato a lungo in cerca di un hotel che incontrasse il nostro gradimento. Alla fine, ci siamo accasati al Fata Hotel, un posto tranquillo, spazioso e pulito. Ma, con il senno di poi, mi sento di consigliare a tutti quelli che hanno in mente di sostare a Kuching di prenotare al Telang Usan Hotel, unico albergo del Sarawak che appartenga e sia gestito da Orang Ulu, diretti discendenti delle antiche tribù del Borneo. Un luogo davvero speciale, splendidamente arredato e dal costo contenuto: non per niente, Vivi e io non abbiamo trovato camere libere: prenotate prima! Oltre a essere un gran bel posto per rilassarsi, bere succhi di frutta e fare shopping, Kuching è anche la base di partenza per escursioni interessanti allo splendido Bako National Park, e al Gunung Gading National Park. Iniziamo da quest’ultimo: il Gunung Gading è famoso soprattutto per la possibilità di ammirare il fiore più grande del mondo, la celebre Rafflesia, che fiorisce tutto l’anno, ma in punti sempre diversi del parco, e, una volta sbocciato, dura al massimo una settimana. Potrete avere informazioni esatte sull’ultima fioritura al Visitor’s Informations Centre, nei pressi del Sarawak Museum. Purtroppo, noi non siamo stati fortunati: una volta sbocciata la Rafflesia, non abbiamo trovato posto sugli autobus che andavano al Gunung Gading: muovetevi con buon anticipo! Del Bako posso dire che è un parco molto bello, dove convivono insieme tipi di vegetazione molto diversa, e dove è possibile vedere diversi tipi di scimmia, tra i quali la Nasica. Io e Vivi siamo andati e tornati in giornata, ma ci siamo pentiti di non aver pernottato almeno una notte: c’è tanto da vedere! Ricordi di Kuching: gli straordinari alberi di Padang Merdeka (Piazza della Repubblica, in malese); gli strepitosi succhi di frutta del Seattle Bar (vicino a Padang Merdeka); il sapore indimenticabile del mangostano, frutto scoperto per caso su una bancarella del mercato; l’impronunciabile bar Katulistiwa, in splendida posizione sul fiume; una serata all’Hornbill’s Cafe, con cena Steamboat (sorta di fonduta con self service di pesce e carne); i negozietti di artigianato lungo la via principale. E poi, il meraviglioso Life Cafe, un localino a gestione familiare dove servono ravioli cinesi preparati sotto i vostri occhi, e una selezione di squisiti tè freddi e succhi di frutta, veramente da non perdere. E, ancora, una cena di pesce all’aperto, al Top Spot Food Court, con decine di banconi di pesce dai quali scegliere, e un acquazzone per dessert. E ALLA FINE… E alla fine, siamo io e Vivi seduti su una panchina del lungofiume. È il giorno della partenza e mi sento pesante dentro. Triste. Osservo la gente passare, le piante che non rivedrò, rivivo gli odori, le sensazioni, le emozioni di un viaggio bello e unico. Siamo sempre io e Vivi, fotogrammi in movimento di un film già vecchio: il gelo di Low’s Peak, gli occhi di un baby orango, il buio delle caverne, la folle corsa sotto un temporale improvviso, Viviana che urla e ride. E, improvvisamente, le guance mi si rigano di lacrime. Sono io il fiume, adesso! È buffo che la tristezza possa, improvvisamente, condensarsi in lacrime. E allora mi viene da ridere, rido e piango, e Viviana ride dietro a me. Chissà se i passanti avranno pensato che ero matto. Kuching si allontana così, scorre via velata dal pianto, dai finestrini del taxi che ci porta all’aeroporto. Sei molto più che un mese della mia vita. Addio, Borneo. Arrivederci.
Viaggio al centro della terra.
Detto fatto, partiamo in canoa assieme al marito di Sandra, Bian, anch’egli guardaparco, carico di un’astrusa cianfrusaglia che presto diverrà la nostra croce. Raggiungiamo in canoa la Wind Cave: il nostro obiettivo e calarci furtivi nell’entroterra del Gunung Mulu, e attraversare il tunnel che conduce dalla Wind Cave alla Clearwater Cave. Un percorso di appena 8 km, e non esattamente pianeggiante! Prima di partire, Bian ci consegna un paio di elmetti da minatore, collegati a due recipienti di plastica da tenere in vita. I recipienti contengono un materiale che, a contatto con l’acqua, sprigiona un gas che, attraverso un tubicino collegato all’elmetto, alimenta una fiammella. La nostra unica fonte di luce. Bian ci spiega che, a differenza delle lampade, che emettono un fascio di luce più forte ma localizzato, la fiammella consente di avere un’illuminazione più allargata, anche se meno forte. Io e Viviana ci guardiamo e siamo già preoccupati. Seguiamo per un certo tratto il percorso che conduce all’interno della Wind Cave, poi varchiamo una recinzione e ci incamminiamo verso l’abisso. L’odore di guano è a dir poco pungente, e bisogna stare attenti a dove mettiamo i piedi, dal momento che il terreno è ricoperto da una fanghiglia scivolosa. Si scende, si sale, si cammina, ci si arrampica. A volte il tunnel è così grande che non si riesce a scorgerne le pareti. Altre volte bisogna stare rannicchiati perché lo spazio è a dir poco esiguo. Io, Vivi e Bian. La fiammella del mio casco ha l’interruttore difettoso: se si spegne, l’unica speranza è avere qualcuno vicino che mi passi la sua fiammella sul casco, in modo da riattivare la mia. Ma Bian ha la disdicevole tendenza a lasciarci indietro, e io mi immagino non so quante volte la scena di lui che si rompe l’osso del collo scivolando in qualche anfratto, e io e Vivi a brancolare nelle viscere della terra con due caschi, una fiammella difettosa e due tramezzini al burro di noccioline. A proposito, ora di pranzo. Mi sembra di aver trascorso gli ultimi 79 anni della mia vita sottoterra, mentre Bian ci annuncia gioviale che siamo a metà percorso. Rumino il mio panino nel buio della caverna, avvolto dall’odore del guano e dalle esalazioni di gas provenienti dal recipiente che ho legato in vita. Ci rimettiamo in marcia. Pelle di serpente abbandonata su una roccia. Brrr. A un certo punto, per passare, dobbiamo mettere le mani vicino a un grosso ragno peloso. Bian ce lo indica e dice che si chiama “housewife”, casalinga. Gli chiedo il perché, anche se non sono certo di volerlo sapere: si chiama così perché non fa la ragnatela, aspetta che la preda gli passi vicino e gli salta addosso. “Pericoloso?”, chiedo a Bian. “No”, risponde lui, “però non mettergli la mano troppo vicino”. Mamma mia. Per scacciare i cattivi pensieri, io e Vivi troviamo il modo di procurarci dei souvenir dell’avventura: nel tentativo di aiutarla a scalare una parete, le ustiono con la fiammella del casco un punto dell’avambraccio. Viene fuori una bolla gigantesca, che fa coppia con un’altra ustione che si era procurata da sola qualche metro prima. I segni di quelle ustioni li porta ancora con orgoglio, come cicatrici di guerra! Intanto, però, il percorso si stringe. A un certo punto c’è da affrontare un passaggio in discesa, su una parete dove bisogna stare aggrappati, puntellarsi con la schiena sulla roccia e ripassare i primi 98 santi del calendario. Bian va avanti spedito: conosce tutti gli appigli, il maledetto. Io devo trovarmeli da me, e indicarli anche a Viviana che mi segue spaurita (ma non più del sottoscritto, parola). Tra l’altro, Bian è bello piazzato, e riesce a puntellarsi bene con la schiena sulla roccia. Io e Vivi siamo due grissini delle caverne, e neanche ci arriviamo a toccare la roccia con la schiena. Sono impiantato in posizione a stella già da qualche minuto, il mio piede sinistro non riesce a trovare un punto d’appoggio. Vivi è qualche metro in alto a destra, che mi chiede dove appoggiarsi. Bian è già arrivato. Lo sento da sotto che mi chiede, con scarso senso di opportunità: “vuoi che ti faccio una foto?”. Solo quella ci manca. Poi la si mette sulla mia lapide. Bian dice che mi manca poco, di scendere ancora con il sinistro. Io gli do retta, ma non trovo appoggio e scivolo. Il piede tocca terra ma scivola ancora e cado in un’apertura laterale. Riesco a bloccare la caduta con braccia e gambe, ma sono pieno di tagli e ho il ginocchio girato tipo marionetta. Eppure, miracolosamente, riesco a rimettermi in piedi e non ho neanche una distorsione! Solo un bel taglio sull’indice. Ringrazio i 98 del calendario. Ancora qualche metro e arriviamo al punto di non ritorno: un passaggio ripido e stretto in discesa chiamato “one way passage”, passaggio a senso unico, perché una volta scesi di lì, non si può più tornare indietro. Incontriamo vita: due o tre esploratori ci precedono, e io e Vivi dobbiamo aspettare, per passare, perché nel passaggio ci si infila rigorosamente uno per volta. Siamo accovacciati in una nicchia grande si e no quanto l’abitacolo di una Smart. La fiammella dell’elmetto sfiora il soffitto, ed è il momento in assoluto in cui avrei più voglia di piangere. Ma c’è Viviana, che diamine, non posso proprio lasciarmi andare! Sento la claustrofobia che mi attanaglia il collo, ma finalmente tocca a noi. Riusciamo a superare indenni l’ultimo scoglio, adesso tutto è più facile. L’ultimo tratto è addirittura piacevole: il percorso si snoda accanto a un fiume sotterraneo. Possiamo scegliere se seguire a nuoto il fiume oppure percorrerlo ai lati. Io e Vivi, stanchi di arrampicate, optiamo per il fiume. Impressionante, per la verità: così nero e vivo, in una caverna muta e assonnata. Ma immergersi, dopo la fatica, è una vera goduria! Cerco di non pensare a quale sorta di animale potrebbe annidarsi nelle acque di un fiume sotterraneo, preferisco concentrarmi sulla bella sensazione dell’acqua sulla pelle, deliziosamente fresca. Ci lasciamo trasportare dalla corrente per un bel tratto e, dopo alcuni minuti, vediamo finalmente la luce balenare all’orizzonte: la Clearwater Cave! E quindi uscimmo a riveder le stelle… Stanchi, sporchi, insanguinati. Ma con l’euforia dei sopravvissuti! Cazzo, no che non lo rifarei. Ma a ripensarci, è stata una delle esperienze più forti che abbia mai fatto. C’è un laghetto appena fuori la Clearwater Cave, benedetto dal sole della sera: io e Vivi non esitiamo a tuffarci.