Viaggio di nozze nella protesta
Benvenuti in Myanmar, la terra d’oro. Ad eccezione delle pagode di oro ce n’è ben poco però. La gente muore di fame. Il primo impatto che ci ha fatto capire qualcosa sulla Birmania è stato a Kengtung, nel nord est dello stato Shan. Lì abbiamo visitato una missione cattolica che accoglie numerosi bambini orfani. Parliamo con la nostra guida al riparo da orecchie indiscrete, e lui ci dice subito la sua opinione sul fatto di boicottare la dittatura evitando di recarsi come turisti nel paese.
Ci dice che l’unico modo di farsi conoscere nel mondo è tramite i turisti…”tornate in Italia e dite che abbiamo bisogno di aiuto, noi abbiamo solo le nostre mani vuote, loro hanno i fucili”…La suora cattolica a cui chiedo se pensa che la situazione potrà cambiare in meglio mi guarda sbarrando gli occhi e facendo una gran risata…”non ci credo”, mi dice…”solo Dio potrebbe fare qualcosa in un paese come questo”…Già con il cuore triste mi faccio commuovere dai canti dei bambini, e gli occhi mi si riempiono di lacrime. La giornata mi lascia un segno profondo. Già i monaci avevano iniziato a scendere in piazza pregando a piedi nudi, e i militari avevano già picchiato. La guida ci dice che proprio quello è stato il grande errore della dittatura. In un paese così religioso toccare un monaco è un sacrilegio. Vediamo bambini costretti a lavorare, sporchi, senza istruzione. Gente che chiede solo di avvicinarti per poter sperimentare il suo inglese, e se cercano di venderti qualcosa ma tu non compri niente ti salutano comunque con un gran sorriso. A Mandalay mi è capitato proprio questo, e dopo due ore, ripassando per lo stesso negozio la proprietaria si sbracciava salutandomi per nome, anche se la sua merce io l’avevo solo guardata. Taxisti che restano giorni senza lavoro aspettando un turista, o che per un campioncino di profumo ti portano gratis dove vuoi. Donne per la strada che spaccano pietre, tutto è fatto a mano, come un secolo fa da noi. A Yangon capitiamo nella prima manifestazione che si tiene alla pagoda Shwedagon. I monaci camminano scalzi pregando, reggendo un grande cartello con scritto in inglese” la pace e l’amore devono vincere qualunque cosa”. Poi si siedono davanti all’oro scintillante della pagoda, e quando la preghiera termina tante persone, spinte da un impulso da tempo represso, si alzano in piedi ed iniziano ad applaudire. Io sono lì in mezzo a loro e ancora una volta in questo viaggio gli occhi mi si inumidiscono e la pelle mi si alza. E’ solo l’inizio di quello che succederà poi. La gente ci dice che non ha più paura dei fucili, ha solo fame. Forse in parte si sta realizzando quello che Aung San Suu Kyi diceva :“dobbiamo essere liberi dalla paura”. Alla pagoda Sule adesso ci sono i militari, con i mitra spianati. Mi si stringe il cuore. La gente rivolge le spalle a Budda e fissa i militari. L’aria si fa pesante e andiamo via. Dobbiamo ripartire, per arrivare in aeroporto siamo bloccati da una fiumana umana che sta manifestando. Stiamo lasciando il Myanmar, e ci viene da piangere perché sappiamo che nessuno farà niente.