Viaggio di nozze alle Seychelles: Praslin e La Digue
Stanchi e intontiti, usciamo dall’enorme ventre dell’airbus partito da Dubai, che ci ha custoditi per le ultime 4 ore di volo, e ci apprestiamo a varcare le soglie di quello che viene da tutti considerato “un angolo di Paradiso”: the beautiful Seychelles. Ma come?! In Paradiso non dovrebbe esserci sempre bel tempo? Un girotondo di nuvoloni grigi sta accerchiando il sole, intaccando la mia assoluta convinzione di una luna di miele meteorologicamente perfetta… Una folata di aria calda e umida ci dà il benvenuto mentre scendiamo dalla scaletta: l’atmosfera fredda e asettica dell’aereo è ormai alle nostre spalle, inizia l’avventura! Dopo il disbrigo delle pratiche di ingresso, veniamo accompagnati da un’hostess del nostro tour operator verso una sala d’attesa, dove aspettiamo il volo interno per l’isola di Praslin. Trascorsa una mezz’ora, ci comunicano che l’aereo è pronto. Nonostante le dimensioni ci lascino un po’ perplessi (sembra un aereo giocattolo rispetto agli enormi airbus fermi sulla pista!) saliamo a bordo, facendo attenzione ad abbassare la testa per raggiungere il nostro posto. Già sento che mi manca l’aria, ma mi consolo che il viaggio sarà breve. Si accendono i motori, inizia la rincorsa per il decollo, il frastuono e la velocità aumentano sempre di più finché – con uno sforzo che a me pare immenso – l’aereo si stacca da terra! Il mio povero stomaco, già provato da più di 10 ore di viaggio intercontinentale, inizia a dare inequivocabili segni di cedimento.. sento tutti i minimi cambiamenti di pressione: mi sembra di essere sulle montagne russe! Per cercare di dominare la terribile sensazione di nausea, provo a guardare fuori dal finestrino. Lo spettacolo è incantato e terrificante allo stesso tempo: stiamo sorvolando dei piccoli cuscinetti verdi punteggiati di case e circondati da un mare turchese.. oddio, e se ci schiantassimo da un momento all’altro? Faccio appello al mio autocontrollo ripetendomi che non c’è niente di cui preoccuparsi, i piloti alla guida sono sicuramente dei veterani, l’aereo è stato certamente controllato e rifornito di carburante prima della nostra partenza e in ogni caso morire in mezzo all’Oceano Indiano circondati da tartarughe marine e delfini rimarrebbe comunque una bella soddisfazione. Come previsto, le mie preghiere sono state puntualmente esaudite e l’atterraggio si è rivelato meno traumatico del decollo. Con le ultime forze raccogliamo i bagagli e prendiamo il taxi che ci porterà alla nostra guesthouse. Attraversando Praslin, noto con meraviglia come i centri abitati siano davvero così piccoli rispetto alla strabordante presenza della natura: qui è tutto così… verde! La strada sembra una strisciolina di cemento che da un momento all’altro potrebbe essere inghiottita dalla foresta. Appena arrivati, la padrona di casa ci offre un dissetante succo di mango e una freschissima salvietta profumata, che ci fanno recuperare momentaneamente le forze.. prima di finire inesorabilmente addormentati nelle poltrone sotto il portico, in attesa della camera. Dopo esserci sistemati, partiamo alla scoperta di Anse Volbert, la spiaggia più vicina al nostro alloggio. Facciamo circa 200 metri e si apre ai nostri occhi una lunga distesa di sabbia bianca, finissima e compatta, circondata da palme che arrivano quasi fino al mare. Non ci sono ombrelloni, né lettini, solo qualche sparuto asciugamano colorato. Ci piazziamo sotto un albero e nel giro di qualche minuto ci abbandoniamo fiduciosi fra le braccia di Morfeo.
Trascorso il pomeriggio in spiaggia, per la serata decidiamo di provare il ristorante della nostra guesthouse, segnalato nelle guide come uno dei migliori dell’isola. E in effetti, non possiamo che confermare: sotto un suggestivo portico in legno, ci tuffiamo in un ricchissimo buffet con il meglio della cucina creola: insalata di mango e papaia, pesce affumicato, verdure, zuppe, riso, ma soprattutto una sontuosa grigliata di pesce e carne. La nostra curiosità è alle stelle, abbiamo voglia assaggiare tutto, sorprenderci con gusti nuovi, abbinamenti insoliti, ma anche riscoprire in chiave esotica cibi noti. Ad accompagnare tutto questo bendidio, la gentilezza di tutto il personale e la cordialità dei titolari contribuiscono a creare un’atmosfera davvero rilassata ed accogliente, che ci fa sentire subito a nostro agio. Assuefatti alla freddezza e ai ritmi frenetici delle nostre città, qui ci stupiamo della spontaneità che ci fa conoscere gente mai vista prima e della naturalezza con cui riusciamo a chiacchierare amichevolmente con gli altri ospiti della guesthouse.
In spiaggia
Il giorno successivo, insieme ad un’altra coppia di italiani, decidiamo di andare alla scoperta di quella che – da molti – viene considerata la più bella spiaggia di Praslin: Anse Lazio. Appena usciti, veniamo subito intercettati da un ragazzo rasta che vende frutta lungo la strada: cocco, mango, papaia, banane, star fruits.. sul banchetto ha un tale tripudio di forme e colori che è impossibile non fermarsi! E poco importa se per tagliarci la frutta usa un coltellaccio sporco e mezzo arrugginito.. al diavolo tutte le raccomandazioni dei medici, finalmente possiamo assaggiare la “vera” frutta tropicale, non quella che sa da supermercato! Orgogliosi del nostro acquisto, proseguiamo fino alla fermata dell’autobus, e lì inizia l’attesa. Dopo circa un quarto d’ora, al terzo approccio da parte di un tassista abusivo, cediamo e iniziamo a contrattare il prezzo. Il tragitto in macchina si rivela più spassoso del previsto: iniziamo a chiacchierando del più e del meno, fino ad arrivare – non si sa come – a parlare di “politica” casereccia, scoprendo insospettabili analogie in campo ludico-sentimentale fra noti esponenti del governo italiano e seychellese.. Fra una battuta e l’altra, finalmente arriviamo a destinazione. In effetti, la spiaggia si rivela un piccolo gioiello, incastonata fra il verde delle palme e i massi granitici che la racchiudono alle due estremità. Il mare azzurrissimo è agitato da onde potenti, fragorose.. è l’oceano che fa sentire la sua voce. Ci sdraiamo sulla sabbia finissima e scopriamo ben presto che dovremo condividere la spiaggia con delle piccole tortorelle grigie, per nulla intimorite dalla nostra presenza, e dei simpatici granchietti bianchi, perfettamente mimetizzati con la sabbia e incredibilmente veloci. Dopo un po’ di sano relax, decidiamo di sfidare le onde di Anse Lazio. L’esperienza si rivela elettrizzante, anche se un po’ traumatica: la forza delle onde è davvero travolgente, ma irresistibile, impossibile cercare di opporre resistenza, l’unica cosa da fare è lasciarsi trasportare dall’acqua – cercando di non berne troppa! – in un gioco temerario, che ci fa tornare tutti bambini.
Nel pomeriggio facciamo un giro nel parco dietro alla spiaggia, dove posso fotografare con calma i miei amati fiori: ibischi e frangipani soprattutto, ma anche banani dalle forme curiose e le immancabili palme da cocco. Mentre io ritorno in spiaggia, mio marito decide di proseguire per un sentiero nella parte interna. Dopo circa un’oretta mi raggiunge, tutto eccitato per la sua nuova scoperta: il Bar dell’Onestà! Si tratta di un baracchino costruito sulle rocce, da un signore di origine tedesca che offre bibite ai turisti di passaggio: ma non è un bar come qualsiasi altro, qui può accadere che il proprietario sia assente perché magari è andato a farsi un bagno in mare o un pisolino nel suo bungalow. In questo caso – avvertono i cartelli posti all’ingresso scritti in diverse lingue – basta semplicemente servirsi da soli e lasciare i soldi in una cassettina. Geniale, no? Solo alle Seychelles può esistere un posto così. Il guaio (per me) è che questa volta il proprietario c’era, e oltre a lui, era appesa in bella vista dietro al bancone, una cartina del posto fatta dagli inglesi negli anni ’60. Perché guaio? Beh, mettete insieme un appassionato di orienteering e cartografia (mio marito), una meravigliosa spiaggia inaccessibile e un sentiero che attraversa una foresta tropicale. La spiaggia in questione è quella di Anse Georgette, piccola insenatura raggiungibile (dai comuni mortali) attraversando il campo da golf di un noto resort, o in alternativa percorrendo un sentiero che parte appunto dal bar di Anse Lazio. Naturalmente, la sola opzione degna di essere presa in considerazione per mio marito è stata la seconda.. Il giorno successivo, sempre in compagnia dei nostri amici milanesi, decidiamo di visitare la Vallé de Mai, una riserva naturale famosa per il Coco de mer -simbolo delle Seychelles – e altre specie di piante endemiche. E’ difficile descrivere a parole lo stupore di fronte a questa meraviglia della natura: l’impressione è quella di essere dentro una cattedrale verde, è tutto così maestoso e strabordante da sembrare finiti nel set di Jurassic Park. E poi i suoni, il rumore del vento che fa sbattere le foglie, così spesse e ampie da sembrare delle coperture in plastica, pronte a scaraventarsi a terra da un momento all’altro.
Nel pomeriggio decidiamo di dirigerci verso la spiaggia di La Blague, nella parte orientale di Praslin. Purtroppo il nostro tentativo di prendere l’autobus del ritorno fallisce miseramente (visto che non riusciamo a trovare la fermata) e così non ci rimane che ridiscendere a piedi. Il tragitto si rivela più lungo del previsto, tanto che ad un certo punto i nostri amici decidono di rinunciare all’impresa e fare marcia indietro. Sul più bello, però, passa un’auto: subito decidiamo di fermarla per chiedere informazioni sulla distanza. I signori, gentilissimi, non solo ci danno retta, ma si offrono pure di dare un passaggio alle ladies, e poi sono anche tornati indietro a caricare i mariti.. Ripeto, certe cose succedono solo alle Seychelles! Purtroppo devo ammettere che tutta questa fatica non è stata poi totalmente ricompensata: la spiaggia si rivela stretta e con molte alghe scure, e pure il tempo inizia a guastarsi. Decidiamo comunque di buttarci in acqua e ci sembra di stare alle terme: una pioggerellina sottile ci solletica il viso, mentre noi stiamo placidamente immersi nell’acqua calda e tranquilla dell’Oceano Indiano… non male! Ma non siamo soli: un ragazzino del posto continua ad andare su e giù dagli scogli alle nostre spalle, tenendo in mano un oggetto misterioso. A un certo punto arriva giù in spiaggia e capiamo che quello che ha in mano è un pezzo di spago trasparente con piccolo amo attaccato in fondo: sta cercando di pescare! E in effetti il piccolo Sampei alla fine ce la fa, anche se – ci spiega con un sorriso furbetto – lo fa solo per gioco perché non sa se il pesciolino bianco che ha catturato sia buono da mangiare, e così lo ributta in acqua. Il giorno seguente ci risvegliamo sotto un cielo plumbeo e così decidiamo di esplorare l’isola in autobus. Esperienza difficile da dimenticare, considerato che gli autisti, rigorosamente in infradito, percorrono a folle velocità (e con le porte spalancate!) le strette e tortuose strade di Praslin.. Strade generalmente affiancate da profonde canalette per lo scolo dell’acqua piovana e sprovviste di guardrail o altre protezioni. La cosa incredibile è che questi mezzi non rallentano nemmeno se incrociano un altro veicolo in direzione contraria: hanno una precisione millimetrica! Superato lo shock iniziale, scopro ben presto che adoro andare in autobus e sentire gli odori, osservare i volti, i gesti.. piccoli fotogrammi di vita quotidiana che solamente accettando di immergerti fra la gente puoi notare. Mi accorgo con piacere che qui va ancora di moda l’abitudine di alzarsi e cedere il posto quando entra una persona anziana, così come appare diffusa (forse molto più che da noi) la regola di pagare il biglietto. Dopo aver passato la zona dell’aeroporto, scendiamo nella parte più occidentale dell’isola: purtroppo non c’è molto da vedere, a parte un coloratissimo cimitero che attira la mia attenzione. Questo posto – tutt’altro che lugubre – è completamente immerso nel verde, non conosce cancelli, né orari di chiusura, e riesce a trasmettere una serenità che difficilmente si riesce a cogliere nei nostri cimiteri. Più che un luogo di sepoltura, assomiglia ad un piccolo giardino pieno di fiori, con delle croci bianche poste sopra le lapidi che adornano i fianchi della collina. Riprendiamo l’autobus e ci fermiamo a visitare la zona del porto; purtroppo ricomincia a piovere e così siamo costretti a rientrare ma, invece di attraversare l’isola nella parte più interna, scegliamo di prendere la linea che percorrere la strada costiera. Man mano che passiamo le varie fermate, raccogliamo sempre più gente, tanto che ben presto finiamo stipati come sardine. Ma la cosa peggiore è che il percorso si rivela molto più tortuoso del previsto, e soprattutto molto più ripido: non avevamo mai visto dal vivo cartelli per indicare zone al 30% di pendenza! Il povero autobus arranca, il motore urla, i turisti si guardano intorno preoccupati, mentre i locali continuano tranquilli a chiacchierare fra loro, come se nulla fosse. Terminato il giro sulle “montagne russe” scendiamo nei pressi della nostra guesthouse, dove trascorriamo il resto della giornata. Il giorno successivo abbiamo in programma un’escursione in barca, ma a causa di un malessere, siamo costretti a rimanere a casa. Risparmiamo le forze in vista dell’evento di domani: la conquista di Anse Georgette percorrendo il sentiero che inizia ad Anse Lazio.
Parto come se fossi una giovane esploratrice dell’Ottocento in missione nella foresta tropicale: pantaloni tecnici, scarpe da trekking, maglietta, zainetto. Sulla carta il sentiero non sembra particolarmente duro, certo il caldo e l’elevato tasso di umidità rendono tutto più difficile, ma sono ottimista. Soprattutto faccio affidamento sulle doti orientistiche di mio marito e sulle parole rassicuranti del proprietario del Bar dell’Onestà, che ci ha permesso fra l’altro di fotografare la cartina del percorso (essendo una mappa di oltre cinquant’anni fa non ne aveva un copia da darci, ovviamente). La prima parte non crea particolari difficoltà, a parte alcuni tratti un po’ ripidi, ed arriviamo così ad una zona pianeggiante con una graziosa casetta ed un giardino strepitoso, pieno di fiori colorati. Secondo la mappa, dovremmo prendere un sentiero a fianco della casa e iniziare a scendere: i conti però non tornano perché l’unica strada che si vede è il proseguimento di quella su cui siamo e va in su, verso un resort. Non ci siamo, mio marito prova a chiedere informazioni alla signora della casa e quella risponde che si, c’è un sentiero che scende ed è dietro ai “yellow flowers”. Facile a dirlo, qui è pieno di fiori e comunque non si vede nessun sentiero. Proviamo allora a chiedere ad una coppia di ragazzi del posto, ma loro ci rispondono addirittura che questo sentiero non è percorribile, bisogna per forza salire al resort. Inizio a preoccuparmi e tento di convincere mio marito a seguire questa opzione: sembra che mi dia retta, ma dopo qualche metro ci ripensa e decide di chiedere nuovamente alla signora della casa. Un po’ scocciata, questa esce e ci fa vedere il punto esatto dove parte il nostro sentiero: ebbene, è uno spazietto di erba alta senza nessun segno di calpestio, quasi completamente ricoperto dalla vegetazione. Tento invano di convincere mio marito a desistere da questo tentativo di suicidio, ma lui decide imperterrito di proseguire, “tanto poi sicuramente il sentiero si allarga”. E così, lui davanti e io dietro, tentiamo di farci largo in mezzo a fronde, arbusti, rami di ogni genere. Sto impazzendo, ho la sensazione di nuotare in mezzo al verde e purtroppo di affogare, non posso farcela ad andare avanti, lo imploro di fermarsi e tornare indietro. La sua risposta mi sconcerta: “Ormai siamo qui e ho voglia di arrivare fino in fondo, tu puoi tornare indietro fino al sentiero principale e poi arrivare alla spiaggia attraversando il campo da golf del resort, è facile”. E io dovrei lasciarlo da solo in mezzo a questa giungla, senza sapere esattamente dov’è e senza possibilità di comunicare?! Potrei morire divorata dall’ansia, meglio crepare insieme qua in mezzo, allora! Decido mio malgrado di continuare e la situazione purtroppo non migliora, anzi peggiora alla vista di giganteschi ragni a strisce rosse e nere che penzolano dai rami a 20 cm dal mio naso. Con un eroico sforzo di autocontrollo, mi concentro sul fatto che questi sono i ragni delle palme, descritti nella guida come non velenosi, e faccio scattare l’operazione “controllo zaino”: ogni due minuti mi giro e obbligo mio marito a verificare minuziosamente che sul mio zainetto non si sia appoggiato qualche bestia, pronta a salirmi in testa o peggio ad entrarmi nella maglia. E’ talmente forte il bisogno di proteggermi dalla vegetazione esterna che, nonostante i 30 gradi (45 percepiti, fra umidità, sforzo fisico e agitazione), inizio a coprirmi con tutto quello che trovo nello zaino, compreso un ridicolo cappellino a visiera che fa molto Indiani Jones. Terminata la prima battaglia con gli arbusti altezza uomo, scendiamo nel cuore della foresta tropicale. Assomiglia molto alla Vallé de Mai che abbiamo visto nei giorni scorsi, anche qui ci sono alberi altissimi, con un’unica differenza: qui in mezzo non c’è anima viva, a parte noi due pazzi e decine di uccelli dai suoni strani, accompagnati dal vento che muove le foglie giganti delle palme provocando rumori sinistri. Sembra davvero un viaggio nel cuore verde della terra, forse stiamo osando troppo, non lo so. Nonostante l’ansia che mi attanaglia, avverto che in fondo non si tratta di una natura ostile, ma di una grande madre che ti accoglie nel suo gigantesco ventre, e forse, in un certo senso, ti vuole proteggere dalla vera inquietudine, quella che c’è fuori. Finalmente riemergiamo dall’oblio verde e arriviamo sulla costa: il panorama è bellissimo, ammiriamo alla nostra destra la spiaggia di Anse Lazio da cui siamo partiti e ci concediamo qualche minuto di tregua. Da qui il sentiero non è che un’invisibile traccia sulle rocce, mi inerpico con un po’ di fatica, ma almeno non sono più sommersa dalla vegetazione. Illusa: terminato il tratto più ripido, siamo costretti a infilarci nuovamente in un tunnel di arbusti e rami che ci accompagna fino ai margini del campo da golf. Come due superstiti, sbuchiamo arruffati e un po’ increduli da un margine della collina e saltiamo giù su una delle ordinate stradine che attraversano il resort: ci troviamo di fronte una natura addomesticata, fatta di innocui tappetini erbosi, uccellini che si bagnano sugli stagni e immancabili palme da cocco. Dopo circa un altro quarto d’ora di passeggiata, arriviamo finalmente alla nostra agognata meta: Anse Georgette! Ad accoglierci, il fragore dell’oceano, con le sue onde maestose che si infrangono potenti contro i meravigliosi scogli di granito rosa che racchiudono questo gioiello. Ci sdraiamo sulla sabbia, stanchi ma orgogliosi della nostra piccola grande impresa! (Il ritorno naturalmente l’abbiamo fatto in autobus..)
Il giorno dopo lasciamo l’isola di Praslin e ci imbarchiamo per La Digue: dopo circa mezz’ora di traghetto arriviamo al porto dove ad aspettarci troviamo un’hostess del nostro tour operator, ma soprattutto un eccezionale taxi a quattro zampe (e due ruote) che ci porta alla guesthouse. Beh, sapevamo che a La Digue ci sono pochissime auto, ma non immaginavamo che avremmo sperimentato un carro trainato da buoi come mezzo di trasporto! Una volta sistemati i bagagli in camera, partiamo subito in bici alla scoperta dell’isola, che si rivela essere – più che un paese – una specie di grande campeggio, per le stradine così piccole e tranquille senza macchine, ma soprattutto l’atmosfera pacifica e familiare che si respira. Iniziamo il nostro giro verso nord, ma a metà decidiamo di fermarci per una sosta: l’acqua è davvero irresistibile, trasparente, calma.. impossibile non fare un bagno! Resistiamo alla tentazione di rimanere a mollo in questo paradiso per tutto il giorno e ci rimettiamo in sella proseguendo per la strada costiera. Ad un certo punto, da lontano, vediamo un enorme sasso proprio in mezzo alla strada: ma è un sasso strano, tutto rotondeggiante e c’è qualcuno che gli tira della roba.. Man mano che ci avviciniamo scopriamo che in realtà è un tartarugone! Siamo arrivati ad Anse Banane, dove facciamo la conoscenza di Jules, dei suoi succhi di frutta strepitosi e soprattutto delle sue tartarughe giganti! Adoro questi animali, la loro pelle rugosa, il loro essere così primitivi, come se arrivassero direttamente da un’altra era.. Ciò che colpisce di questo luogo, oltre alla bellezza del paesaggio naturalmente, è l’armonia con cui riescono a vivere insieme animali così diversi: tartarughe, cani, galli, galline.. e uomini. Tutti insieme, senza bisogno di recinti o cancelli, in una dimensione di pacifica coesistenza nella natura a cui non siamo abituati. Lascio a malincuore questo angolo di paradiso e – dopo aver constatato che la strada non fa tutto il giro dell’isola, ma termina inesorabilmente davanti ad un ammasso di scogli – ritorniamo nella zona del porto e proseguiamo nel nostro giro di perlustrazione verso sud e poi verso la parte centrale di La Digue. Man mano che si lascia la costa e ci si addentra verso l’interno, le case sono sempre più rare e in alcuni punti lasciano il posto e vere e proprie baracche di lamiera che ci lasciano un po’ amareggiati.. Eppure nella loro miseria, anche queste abitazioni – così come chi le abita – sanno comunque trasmettere un senso di dignità, dato da piccoli segni, come possono essere delle tendine alle finestre, dei fiori curati nel giardino.. Forse, avendo la curiosità di mettere il naso fuori da hotel di lusso e resort, ci si accorge che le Seychelles non sono in realtà quella destinazione di lusso che molti dipingono, ma un pezzettino di Africa, nel bene e nel male. Ad un certo punto, mentre stiamo pedalando, improvvisamente salta fuori di corsa da una stradina un cagnolino che decide di adottarci e seguirci fino in spiaggia. E’ una meticcia marroncina tutto pepe, magrissima, che noi ribattezziamo subito Pulce. In seguito, scopriremo che a La Digue di cagnolini più o meno randagi ce ne sono parecchi e che i loro occhioni dolci fanno strage di turisti. Continuiamo la pedalata fino a Grand Anse, un’ampia spiaggia selvaggia, battuta da un vento forte, dove si interrompe la strada. Stiamo lì fermi, ad osservare le onde bianche, in un’atmosfera senza tempo, dove il vento spazza via i pensieri. Il giorno successivo decidiamo di dedicarlo interamente alla spiaggia più conosciuta di La Digue: Anse Source d’Argent. Per arrivarci è necessario attraversa l’Union Estate, un antico possedimento britannico dove si possono osservare piantagioni di vaniglia e vecchie testimonianze della lavorazione della copra. Ma ai nostri giorni la vera attrazione del parco sono le tartarughe giganti, raccolte in un grande recinto ai piedi della big rock, un enorme ammasso di granito nero che troneggia in mezzo alla tenuta. Dopo un giro veloce nel parco, puntiamo dritti alla spiaggia, che ci accoglie con un mare incredibilmente calmo e dall’azzurro incredibile. La distesa di sabbia bianchissima è interrotta da scogli di granito, scolpiti dal vento nelle forme più bizzarre, alcuni sono talmente grandi da formare al proprio delle vere e proprie “stanze” da esplorare. Dicono che proprio questa sia la spiaggia scelta come location per una nota marca di prodotti solari.. beh, non faccio fatica a crederci, in effetti qui è tutto talmente perfetto da lasciare senza fiato! Trascorriamo la giornata a riempirci gli occhi e il cuore di tutto l’azzurro che c’è e, tra un bagno e l’altro, arriva in fretta l’ora di ritornare in guesthouse e prepararsi per la cena. Nelle giornate successive rivisitiamo alcune spiagge già viste – in particolare Anse Sevère e Anse Banane – e ne scopriamo alcune di nuove – Petite Anse e Anse Cocos – che purtroppo non riusciamo a gustarci appieno a causa del tempo nuvoloso e del mare molto mosso. Uno degli ultimi pomeriggi, decidiamo di salire al Bellevue, il punto panoramico dell’isola, situato a circa 300 m s.l.m. La passeggiata, nonostante sia sempre su strada, si rivela molto più impegnativa del previsto per i lunghi tratti in salita, con pendenze che non perdonano. Ma la vista spettacolare che si ha, una volta arrivati, ci ripaga da tutte le fatiche! Purtroppo la giornata non è limpida, ma il panorama rimane comunque molto suggestivo, con i raggi del sole che filtrano fra le nuvole e proiettano delle macchie di luce sulla superficie del mare, accendendo il grigio dell’acqua. Concludiamo la nostra avventura alle Seychelles con un’escursione – questa volta guidata – alla spiaggia di Anse Marron. Partiamo con una coppia di ragazzi alloggiati nella nostra stessa guesthouse e arriviamo a Grand Anse, dove facciamo la conoscenza di un’altra coppia di italiani che fanno parte della cordata e soprattutto incontriamo la nostra guida: ci si presenta un giovane del posto, rigorosamente scalzo, con un curioso cappellino allacciato sotto il mento. Il fatto che abbia una specie di macete attaccato allo zaino non mi dice nulla di buono e temo di dover ripetere l’esperienza traumatica vissuta la settimana precedente nella foresta tropicale di Praslin. Una volta partiti il percorso si rivela molto più facile del previsto e quasi quasi penso che tutto sommato potevamo anche risparmiare i soldi e arrangiarci senza guida.. Peccato che ad un certo punto il sentiero finisca proprio davanti ad una montagna di scogli. “Allora, tenete in alto gli zaini e uno alla volta, quando si ritira l’onda, passate dietro alla roccia!” Si, divertente, ma dov’è poi il sentiero? “Proseguite ancora un po’ e poi sulla destra infilatevi sotto la roccia. No, no dovete proprio strisciare a terra, altrimenti non ci passate. e attenti alla testa!” Ok, adesso ho capito perché consigliano una guida del posto: il sentiero di fatto termina e gli ignari turisti devono proseguire facendo un misto di speleologia, free climbing ed equilibrismo. Attraversiamo passaggi fra un masso e l’altro – e non stiamo parlando degli scogli di Jesolo, ma di enormi rocce di 5 e passa metri! – facendo attenzione a non cadere negli spazi (anzi, nelle voragini!) fra uno e l’altro. La cosa pazzesca è che mentre noi ci muoviamo con l’agilità di un bradipo intorpidito, la nostra guida si arrampica come un gatto, sa sempre il punto migliore dove mettere i piedi, dove si può trovare un appiglio sicuro per le mani, come se fosse nato in mezzo a quelle rocce. La cosa funziona così: indica al primo della fila la direzione da prendere e cosa deve fare e poi si sposta un po’ più in alto per osservare se qualcuno di noi è in difficoltà, mentre nei passaggi più difficili ci aiuta uno per uno. A pensarci adesso, siamo stati davvero una banda di incoscienti ad avventurarci in un percorso di questo tipo senza aver quasi nessun allenamento o preparazione tecnica.. poteva bastare perdere un attimo l’equilibrio, o mettere male un piede e.. boh, come sarebbe andata a finire? Eppure lì, in quel momento non ci pensi, trasformi tutto in una sfida e al limite ci ridi sopra, con un po’ di scaramanzia. Finalmente, dopo circa un’ora di “cammino”, arriviamo a quella meravigliosa piscina naturale che è Anse Marron. I possenti scogli a qualche metro dalla riva frenano le forti onde dell’oceano, creando dei piccoli bacini dove l’acqua riesce ad essere tranquilla e piacevolmente invitante. Basta indossare un paio di occhialini per scoprire sott’acqua decine di pesciolini colorati.. Ad un certo punto, arriva la nostra guida con la merenda: frutta fresca del posto tagliata a pezzetti e servita in una grande foglia verde in riva al mare.. cosa chiedere di più?? Dopo esserci riposati e aver scattato decine di foto – consapevoli che comunque non avrebbero recato giustizia alle mille sfumature di quell’angolo di paradiso – riprendiamo la via del ritorno e trascorriamo il resto della giornata a Grand Anse. Scende la sera sull’ultima giornata a La Digue.
La mattina seguente il tempo è molto instabile, si alternano rapidi acquazzoni ad improvvise schiarite, e così siamo costretti a rinunciare alla spiaggia, optando per una passeggiata nel centro del paese per gli ultimi souvenir. Inesorabile, arriva l’ora della partenza: mi sforzo di ringraziare e salutare nella maniera più calorosa possibile la proprietaria della guesthouse, ma non è facile quando hai gli occhi lucidi e un nodo alla gola che ti soffoca le parole. E’ un’emozione inaspettata, che mi coglie di sorpresa, non mi è mai capitato di commuovermi nel lasciare un luogo. Amo viaggiare, ma alla fine sono sempre contenta di ritornare a casa, ritrovare paesaggi e volti familiari. Questa volta però è diverso, questa volta avverto la lacerazione profonda di un distacco forzato… e non si tratta certo della frustrazione di dover riprendere il lavoro e la routine quotidiana. E’ il distacco da un luogo dell’anima, un luogo in cui sono riuscita a trovare la mia dimensione più autentica, forse “il mio posto nel mondo”. Sono partita pensando allo stupore che avrei provato trovandomi di fronte alle spiagge più belle del mondo, ma ho trovato molto di più: una sensazione di armonia profonda, arcaica, con la natura e con gli uomini. Impietoso, ecco il taxi (questa volta motorizzato) che ci porta all’imbarco per Praslin. Durante il tragitto, non ho voglia di parlare e rimango incollata al finestrino, mentre cerco di rubare con gli occhi ogni possibile scorcio, ogni viso che incontro. Voglio riempirmi il cuore e la mente con le ultime immagini di questa meravigliosa terra, capace di sorprendermi con mille colori e infinite sensazioni.