Viaggio di nozze 38

29 giugno 2004 In larghi giri questa bestia d'acciaio si è alzata. Ogni cerchio che disegna nell'aria mentre tutto diventa sempre più piccolo, mi allontana dalla terra, dalla gente, dalle auto, e dalle case che diventano minuscole come briciole. Mi distacco velocemente da tutto, dalle piccole angosce del quotidiano, da quelle minuscole miserie...
Scritto da: Nigel Mansell
viaggio di nozze 38
Partenza il: 29/06/2003
Ritorno il: 16/07/2004
Viaggiatori: in coppia
Spesa: 2000 €
29 giugno 2004 In larghi giri questa bestia d’acciaio si è alzata. Ogni cerchio che disegna nell’aria mentre tutto diventa sempre più piccolo, mi allontana dalla terra, dalla gente, dalle auto, e dalle case che diventano minuscole come briciole. Mi distacco velocemente da tutto, dalle piccole angosce del quotidiano, da quelle minuscole miserie che come tanti sassi nelle tasche mi impediscono di volare rendendomi pesante, incollandomi a terra. Mi allontano dal mio mondo, che ormai nel cammin di mezza vita realizzo che è veramente una selva oscura. Ho camminato, ho corso, ho girato a vuoto, ho ripercorso forse per timore dell’ignoto molte volte gli stessi sentieri, che forse mi hanno cacciato in questa selva, ma non era ciò che mi aspettavo. Nonostante abbia gridato, mi sia dibattuto scalciando e lanciando pugni nel vuoto, mi accorgo che non riesco a cambiarla questa vita, non era ciò che volevo ma sembra che sia quello che il mondo mi ha riservato, è il mio posto libero in un posteggio affollatissimo, e io ho paura di lasciarlo per paura di rimanere senza. Quand’ero più giovane pensavo che la vita fosse come una gara a tappe, non bisognava assolutamente rimanere indietro, per ogni età c’era un traguardo, la scuola, la comunione e la cresima, il servizio militare il diploma e la patente, il lavoro e la carriera, fidanzamento e matrimonio, la casa e poi i figli… e ora forse mi sono seccato, e seduto a lato della strada guardo gli altri correre verso traguardi effimeri, come tanti criceti che corrono dentro le loro ruote. Insieme Anna vorrei che cambiasse. Vorrei che il nostro matrimonio, era domenica, due giorni fa, ci aiuti a liberarci di questi panni, che ne sono convinto, non sono gli unici possibili.

Il nostro è un volo di linea della compagnia tailandese, la sala d’attesa della nostra gate era affollata di asiatici. Ci si abitua a tutte queste facce così diverse e per me inusuali, ai loro caratteri somatici orientali che senza dubbio valorizzano molto più le donne, al punto che specchiandomi nella toilette dell’aeroporto mi aspettavo di trovarvi una persona con gli occhi a mandorla.

30 giugno 2004 Trasciniamo i piedi negli affollati corridoi dell’aeroporto di Bangkok dove siamo costretti per via dello scalo. Cerchiamo di ingannare l’attesa, tra tobleroni e marlboro, creme di dior e profumi di chanel, schermi al plasma della sony e orologi ck. Se non fosse per gli occhi a mandorla della gente potremmo non esserci mai mossi dalla Malpensa. E’ comunque esaltante sentirsi così lontano da casa, non mi è mai successo.

Il viaggio fin qui è stato interminabile, e io sono troppo lungo per quei sedili che andrebbero meglio per un autobus piuttosto che per un volo intercontinentale. Fortunatamente un individuo molto particolare che non ho potuto non osservare e studiare, mi ha aiutato a far scorrere il tempo più velocemente. Forse avendo problemi di vista nonostante la correzione degli occhiali, il mio vicino da cui mi separava solo il corridoio, fin prima della partenza ha iniziato a leggere in modo vorace qualsiasi cosa trovava intorno a lui, avvicinandola talmente agli occhi da sfiorargli il naso; poi con movimenti veloci quanto repentini spostava il capo per riuscire a leggere, in quando avendo i fogli così vicino il suo campo visivo era molto limitato. Viaggiava da solo, si atteggiava con il fare di un grande viaggiatore, indossando un giubbetto di jeans che non slacciò mai per tutto il viaggio tenendone il colletto sollevato come se fosse l’impermeabile di Bogart. Tra le varie stranezze dell’interessante personaggio che ha ingollato tutto quando gli veniva offerto dal personale viaggiante, compreso gin e brandy, è stata molto divertente assistere alla sua preparazione per la notte. Improvvisamente ha estratto un kit da viaggiatore, si è avventato sul sostegno per il collo e con scrupolosa dedizione l’ha gonfiato con la bocca. Completato il gonfiaggio e posizionata quella sorta di metà ciambella dietro il collo, ha indossato una mascherina in tinta con la ciambella, della stessa foggia di quella di un improbabile arlecchino, che al contrario di quella della nota maschera era priva di aperture per gli occhi. Poi a tentoni, perché ormai privo della vista, ha afferrato la coperta che la compagnia aerea ci aveva fornito e coprendosi fino al naso ne ha fatto una sorta di sudario. Ho passato la notte con la riproduzione moderna di una mummia egiziana al mio fianco.

L’orologio segna ancora l’ora di casa, dovrebbero essere le due di notte, qui invece siamo nella piena attività di un mercoledì mattina, alle ore sette. Tra poco prenderemo un altro aereo che ormai in poche ore ci porterà finalmente a destinazione.

Bali ha un’ economia che si basa quasi esclusivamente sull’allevamento dei turisti, che i locali cercano di mungere in mille modi diversi dando prova di molta inventiva e perseveranza, condita da un’astuzia che loro celano con i loro modi sottomessi con i quali si propongono. All’aeroporto di Denpasar ci hanno accolto una folla di persone gesticolante e vociante. Mille cartelli, tour operator, personale inviato dagli alberghi, tutti che vogliono accaparrarsi queste galline occidentali dalle uova d’oro.

Ci sistemiamo in una sorta di Disneyland per turisti costruita ex novo al centro di Nusa Dua, all’estremo della penisola sotto Denpasar. Le mura come le chiamano i locali racchiudono alberghi fantasmagorici che riprendono l’architettura tradizionale del luogo rendendo tutto però innaturale e artificioso. Il nostro albergo è ***no pubblicità***, all’interno c’è praticamente di tutto, i proprietari sperano che i loro clienti non si allontanino e spendano tutti i loro dollari ed euro all’interno della dorata prigione.

Per la cena ci hanno consigliato di mangiare il pesce a Jimbaran e così facciamo. Dall’albergo la signorina chiama il tassista suo amico, che a sua volta ci porta nel ristorante che vuole lui. Tutto però è fantastico. Io e Anna mangiamo il pesce che avevamo prima scelto dai banchi frigo all’interno della cucina del ristorante. Ci accomodiamo in tavolini di plastica sistemati sulla spiaggia. Qui è buio presto, alle otto è già notte. I camerieri frugano nelle loro reminiscenze più nascoste non appena apprendono che siamo italiani, e sfoggiano il loro italiano comunque molto comprensibile. Ci dicono buona sera, buon appetito, mamma mia, banca rotta e altre parole che noi non c’accorgiamo ma probabilmente usiamo ripetere molto spesso. Poi chiamandomi amico, per stupirmi mi elencano la formazione del Milan che qui è la squadra italiana più amata. Gli indonesiani seguono sulla loro tivù nazionale il campionato di calcio italiano, e immaginano che noi, di un paese così vicino a Milano, alla sera si prenda l’aperitivo con Maldini e Costacurta.

E’ bello, anche se ingiusto sentirsi ricco rispetto a queste persone così povere, ti da un senso di onnipotenza, sono sensazioni che non ho mai provato a casa, dove forse è il contrario.

1 luglio 2004 Ci siamo abbandonati in una lunga dormita che è servita a resettare il nostro organismo per poi regolarlo sul nuovo fuso orario. Colazione nel mega albergo. Da mangiare c’è di tutto, ma nel complesso trovo il tutto un po’ triste. E’ come se fossimo rinchiusi in un luogo con uno spazio temporale avulso da tutto il resto dell’isola, un bello spettacolo messo in piedi per noi turisti. Ci sono facce di tutte le razze, naturalmente gli orientali sono la maggioranza. Il tutto mi fa pensare che la disparità di condizioni nell’umanità non è una questione di colore di pelle, di lingua o di religione, ma un problema esclusivamente dettato dalle condizioni economiche e della posizione sociale che con essi si ottiene.

Come d’accordo con Anna ci mettiamo alla ricerca di una nuova posizione per pernottare. L’Albergo è molto caro e già dall’Italia avevamo progettato di cercare qualcosa di alternativo sul luogo.

All’uscita dall’albergo, come da usanza locale, veniamo assaliti da venditori, autisti e persone che offrono di tutto. Tra questi un certo Luigi, qui quasi tutti dichiarano di avere un nome italiano. Dopo varie trattative, dicono che non bisogna mai accettare il primo prezzo, concordiamo per domani un viaggio verso l’interno. Ci siamo dati appuntamento per l’indomani al di fuori del nostro vecchio albergo, poi ci faremo accompagnare presso la nostra nuova sistemazione che cercheremo oggi.

E’ più difficile del previsto trovare una sistemazione economica, i grandi alberghi non scendono al di sotto di cifre che sembrano di cartello. Finalmente troviamo una pensione gestita dalla gente locale a Seminyak, costa la metà di quella attuale. Quella che ci hanno mostrato ci è parsa una camera dignitosa e pulita, vedremo domani quando ci passeremo la notte. Ottenuto ciò che ci eravamo prefissati ce ne andiamo in spiaggia, il mare è agitato. Veniamo presi d’assalto dagli ambulanti locali che offrono di tutto, dai vestiti agli orologi, dalla pedicure ai massaggi. Dalla mia sdraio osservo stancamente i quadrupedi che si aggirano sulla spiaggia. Sono cani rognosi nel verso senso dalla parola, girano indisturbati, sono magri e sporchi. Non hanno lo stesso rapporto di sudditanza verso l’uomo che hanno i loro simili europei: semplicemente ignorano la gente e sembrano senza proprietari. Cerco di fare versi per richiamarli, (spero che quelli che si usano in Italia funzionino anche qui), ma loro non se ne curano, si rotolano tranquilli nella sabbia, ululano al vento per poi lanciarsi in corse sfrenate all’inseguimento di invisibili nemici.

Abbiamo già finito i soldi che avevamo cambiato, tra mance e resti che qui cercano sempre di trattenere, le rupie se ne sono volate dalle nostre tasche. I campioni in negativo nel trattenere i resti sono i tassisti. Casualmente sono sempre privi di pezzi piccoli. Ci hanno detto di utilizzare i taxi di colore blu cielo, i famosi Bali Taxi, che usano sempre il tassametro mentre gli altri inventano improbabili quotazioni a forfait; tutti comunque, lo abbiamo subito imparato, in un modo o nell’altro cercano di fregarti. Abbiamo scoperto oggi che esistono anche i taxi verdi, anche loro usano il tassametro, così ne abbiamo preso uno per andare a Kuta la rimini di Bali. L’autista ha poi sbagliato strada, per rimediare si è inventato un’inversione a U tagliando in due un viale trafficatissimo, un vero criminale che non è stato neanche condannato in modo severo dai suoi paesani, solo qualche discreto colpo di clacson. Gli autisti dei taxi ti accolgono con modi mielosamente gentili nelle loro macchine gelide, il condizionatore è sempre al massimo. Con garbo cercano quasi sempre di impostare un discorso, per metterci a nostro agio. Oggi uno di loro si era schiarito la voce e si è subito scusato con un sorry, dopo forte del lasciapassare ottenuto, ha abbassato il finestrino e ha scatarrato sulla strada, un vero lord.

2 luglio 2004 Questa mattina abbiamo lasciato il nostro mega albergo, è vero è pieno di confort, ma fondamentalmente molto triste. Ieri notte abbiamo fatto l’amore, non so come, ma non ho fatto in tempo a tirarmi indietro, l’ho fatto con un piccolo ritardo. Tutti i balinesi non appena scoprono che siamo in viaggio di nozze, in questo periodo tutti gli italiano lo sono, ci augurano di concepire un figlio su quest’isola, chi lo sa? Stamattina ci aspetta il tour all’interno con Luigi, il nostro autista locale, che ci farà anche da guida. Come avevo immaginato ci porta nei negozi con cui si capisce ha intessuto precedenti accordi. Poi per fortuna si va verso l’interno per vedere il vulcano che sovrasta l’isola. Le strade che si arrampicano verso la cima sono strette dalla vegetazione rigogliosa. Si viaggia al contrario, come in Gran Bretagna, le macchine che incrociamo ci sfiorano, i motorini come sciami di insetti, onnipresenti, si insinuano tra le auto, non siamo abituati a questo traffico e non siamo molto rilassati. Viaggiamo su di un micro-pulmino, un Mitsubishi che mi ricorda tanto i nostri Fiat 900 degli anni settanta. Il motore è centrale sotto i nostri piedi, scalda e si fa sentire come un frullatore su di giri. Per fortuna c’è l’aria condizionata, noi sediamo sulla panchetta dietro l’autista, ogni tanto il capo sfugge al nostro controllo, ricade ciondolante e ci lasciamo andare a lunghi pisolini.

A metà strada Luigi ferma la macchina e ci fa scendere, indica una strada scoscesa percorsa da molte donne agghindate e ci invita a seguirle dicendoci che ci porteranno a un tempio induista. Seguiamo le donne che ora scendono una ripida scalinata, dove ai lati sono seduti gli uomini del paese che osservano le ragazze scendere. Fanno commenti, li fanno anche su di noi e ridacchiano, ci trovano ridicoli e stravaganti, Luigi poi ci dirà che fanno così perchè sono friendly. Prima di affrontare la scalinata che porta in fondo a una piccola valle, una donna ci aveva fermato invitandoci a indossare una fascia color senape intorno alla vita. Anna non aveva subito afferrato le parole della donna, e voleva legarsela intorno al collo, scatenando l’ilarità della gente del posto. Si festeggia la luna piena. Tutte le donne portano offerte, enormi ceste cariche di frutta tropicale. Scesa la scalinata per arrivare in fondo alla valle si risale per raggiungere la sommità di un promontorio dove ci appare lo splendido tempio. La folla ci sospinge, chiediamo il permesso ed entriamo anche noi nel luogo di culto anche se non capiamo molto del rito. Le donne sono bellissime, tutte eleganti, nel vestire e nei gesti, regali nell’incedere e gentili nel rapportarsi con gli altri, sembra per loro una cosa innata. Sono carine anche con noi, mentre i loro uomini si tengono in disparte senza dare confidenza.

Penso ai nostri riti cattolici, a come in fondo siano molto simili a questi induisti, colorati e truculenti, ma noi li abbiamo ormai svuotati di significato rendendoli noiosi e polverosi, insignificanti, scollegati dalla nostra vita e dalla realtà in cui viviamo. Penso al mio Dio, a come mi appare lontano da questo mondo, da questa gente. Raggiungiamo Luigi che ci aspetta in macchina e ripartiamo. Dopo lunghi rettilinei in salita e repentini cambi di direzione fatti di curve cieche, ci troviamo in una valle parallela a quella da dove spicca l’altissimo vulcano Gunung Batir. Luigi ci porta a mangiare in un locale con servizio a buffet dalle cui vetrate possiamo osservare la catena di montagne che sostiene il vulcano oggi lambito dalle nuvole. Pioviggina ed è freddo. Le montagne al centro dell’isola sono sempre velate da nuvole che raggiungendo il mare si dissolvono. All’esterno del locale un nugolo di inservienti ci aveva sospinto all’interno mentre una sorta di posteggiatore continuava a sbraitare cercando di stipare la maggior quantità possibile di auto nell’esiguo e affollato posteggio.

Ogni volta che osservo le facce di questi indonesiani, scure e dai caratteri asiatici, ricordo le avventure di Sandokan che tanto mi avevano appassionato da piccolo, nei libri che divoravo ma soprattutto nel film impersonato da Kabir Bedi. Li immagino pirati, pronti a tutto per la tigre di Mompracem.

3 luglio 2004 Un lapsus, avevo scritto 1994 e non 2004, è forse il mio precedente viaggio di nozze giusto dieci anni fa che riaffiora? La prima notte nel nostro nuovo albergo è stata caldissima, penso che il condizionatore non funzionasse granchè bene. Stamattina ci siamo fatti cambiare la camera e questa nuova pur essendo sul lato opposte del fabbricato di due piani, speculare alla nostra precedente, sembra comunque meglio. E’ più luminosa e da questo lato nessun altro edificio copre la facciata, e soprattutto l’impianto di condizionamento funziona molto meglio. Ci siamo trasferiti dalla nuova zona turistica sorta dal nulla a Nusa Dua a quella di Seminyak, molto più vera e caotica, dove potremo vivere più a contatto con i locali sperando che ci permetta di comprendere meglio questo paese. Il nostro è un tipico albergo balinese, con un bel giardino tropicale e una simpatica piscina, non certo confrontabile con quella degli alberghi internazionali, è molto più modesta, ma non siamo certo venuti a Bali per starcene in albergo.

Siamo stati a Kuta, la Rimini dell’Indonesia, surfisti australiani ovunque. Dovevamo prenotare il volo aereo per Lombok la piccola isola a fianco di Bali dove ci trasferiremo per il resto della nostra vacanza. Siamo stati un poco al mare, e devo dire che inizio a non sopportare più gli ambulanti, sono molto insistenti. Qui la maggioranza di turisti è fatta di australiani con il loro immancabili surfs, sono dappertutto così biondi e yankee, così ricchi e perbene, plastici e asettici, le loro figure contrastano con quelle delle scure e simpatiche genti locali.

Sono sempre molto attento alle auto, è una mia passione fin da piccolo. Quando guardo una foto, un servizio giornalistico alla televisione, oppure un film, cerco subito di individuare se ci sono auto. Attraverso le auto riesco sempre a individuare il luogo e l’epoca in cui si svolgono i fatti e difficilmente sbaglio. Qui l’auto che più mi ha colpito, tra tutte le giapponesi e i micropulmini, è la Toyota Kijang che penso in lingua locale voglia dire cervo, non a caso ne è rappresentata una testa stilizzata a fianco della scritta identificativa del modello. Il Kijang è una sorta di SUV montato sul telaio di un autocarro o di un mezzo fuoristrada estremo, è un modello anacronistico specialmente nei primi modelli degli anni novanta non molto evoluti. Vai sul sicuro, un’auto su due è un Kijang, ce n’è dappertutto, in tutte le versioni, pick-up o a passo lungo, è il sogno di ogni indonesiano. 4 luglio 2004 Il nostro amico Luigi ci ha imbrogliato, sarebbe dovuto venire qui al nostro albergo a Seminyak alle nove di mattina, ci eravamo alzati anche presto per l’occasione e invece non si è presentato. Siamo rimasti delusi, pensavamo di aver instaurato un rapporto di amicizia. Purtroppo è la legge del business a cui nessuno oramai si può sottrarre, anche in queste latitudini: avrà trovato dei clienti che lo pagano più di noi, forse in una posizione più comoda, effettivamente ora siamo un po’ lontani da Nusa Dua, lui abita lì vicino.

Siamo andati lo stesso al tempio di Pura Ulun Danu Bratan sul lago omonimo, dove avrebbe dovuto portarci Luigi. Abbiamo trattato con uno dei primi tassisti che si è fatto avanti offrendo i suoi servizi, e siamo partiti. Forse abbiamo tirato troppo il prezzo, all’andata il tassista non ha acceso il condizionatore dicendo che tanto in montagna sarebbe stato cold, e al rientro lo ha acceso solo quando non poteva più evitarlo, quando eravamo ormai prossimi allo scioglimento. Ha guidato per tutto il tragitto molto lentamente per non consumare, il motore era costantemente giù di giri e nei tratti più ripidi che ci portavano in montagna la macchina arrancava a passo d’uomo. Il luogo che ci si è parato davanti una volta arrivati a destinazione era veramente bello. Hanno costruito un tempio sulle rive di un tranquillo laghetto contornato dalla vegetazione tropicale molto fitta nonostante l’altitudine, mi ha ricordato quei quadri che fisso ossessivamente per ingannare il tempo mentre aspetto che il personale del ristorante cinese “take-away” mi consegni quanto comandato. Al ritorno, sonnecchiante nel taxi, guardo il traffico caotico, motorini stracarichi che sfrecciano tra le corsie, nel caos fatto di autocarri e fuoristrada. Tutti suonano il clacson, rombano soddisfatti con il loro scarichi smarmittati, ma al contrario di quello che succede in Italia, nessuno si incazza. Nessuno grida, non c’è persona che lanci insulti o si lasci sorprendere nel fare gestacci volgari. Rimangono tranquilli, possibilisti, accettano ogni scorrettezza del prossimo, e con aria pacifica cercano di agevolare le manovre degli altri anche se palesemente contrarie a ogni buon senso. In questo bordello mi colpisce la figura di un motociclista. Veste una maglia con la scritta “University of Arkansas”. Chissà se mai chi l’ha stampata ha immaginato dove sarebbe potuta finire o se all’utilizzatore è mai stato sfiorato dalla curiosità di sapere dove sia l’Arkansas.

Sono di nuovo in spiaggia, sulla mia sdraio e penso che devo rivalutare i cani del luogo. Si è vero sono rognosi e sporchi, ma sono veramente liberi. Non devono guadagnarsi la stima degli uomini scodinzolando per farsi vedere riconoscenti, non sono obbligati a esibirsi in stupidi giochetti che inventano i loro altrettanto sciocchi padroni, non sono costretti a contorcersi in acrobatiche evoluzioni per rincorrere legni, palline o chissaché. Dalla mia rilassante posizione li osservo, sono rispettati, dormono sulla sabbia o se gli garba in mezzo alla strada, oppure all’entrata dei locali più alla moda. Nei posti più impensabili ne trovi sempre uno, nessuno li scaccia li spaventa o alza le mani su di loro. Si alzano quando vogliono, senza che nessuno glielo ordini, si sono emancipati dall’uomo.

Le onde nel mare sono sempre alte, la gioia dei surfisti. Mi butto, sicuro di vincerle. Per un po’ così è, mai poi ne sono travolto. Un giro, due, tre, riemergo per respirare, ma subito ne arriva un’altra e poi ancora. Per un momento ho la voglia di lasciarmi andare, di non nuotare più, di farmi trascinare giù in fondo, inizio a bere l’acqua salata. Mi sono spaventato della mia scarsa voglia di combattere, di darmi subito per vinto. Mi sono fatto forza. Raggiungo la riva, dove mille granchietti scavano infiniti buchetti per nascondersi dai miei piedi. Ecco ne ho visto uno, corre velocissimo di traverso, come le dita del musicista su un flauto traverso, e poi via nel primo buco disponibile.

5 luglio 2004 Lontano, non calco le vecchie orme, non devo più fuggire la mia ombra, persa è l’eco delle mie parole.

Oggi giornata di mare, ho noleggiato una piccola tavola per giocare con le onde, altissime e violente. Mi guardo intorno nell’acqua, non riesco a nascondere un’espressione divertita, il mio torace si solleva perché ansimante dalla fatica. Osservo meglio, il mio sorriso si spegne nel constatare che sono solo i bambini che si divertono con questo attrezzo per planare sulle onde: pazienza qui non mi conosce nessuno.

Abbiamo salutato Tony il venditore ambulante dell’isola di Java, domani andremo a Lombok. Lui ci ha placcato marcandoci stretti per tutta la nostra permanenza, nella speranza di venderci qualcosa e io l’ho tormentato con le storie di Sandokan, delle sue navi e dei suoi fidi pirati, delle battaglie sulle navi, e nelle jungla per difendersi dagli invasori inglesi. Purtroppo lui non sa chi sia, è questo è incredibile per me. Io che sono cresciuto combattendo battaglie fantastiche al fianco di Sandokan e del suo luogotenente Yanez, apprendo che in uno stato che annovera tra i suoi possedimenti metà del Borneo dove si svolgevano buona parte delle mille avventure della Tigre di Mompracem si ignori la sua esistenza. Ci siamo scambiati gli indirizzi, ci teneva molto Tony. Una delle prime cose che fece quando lo incontrammo fu di mostrarci la sua agendina fitta fitta di indirizzi di turisti in gran maggioranza italiani. Una volta in Italia cercherò un libro di Sandokan in lingua inglese per spedirglielo nella sua casa di Java.

In serata siamo andati al tempio di Ulu Watu, volevamo esserci per il tramonto, ma siamo arrivati troppo tardi. Era quasi buio, ma siamo riusciti comunque ad apprezzare la bellezza del tempio a strapiombo sul mare, costruito sulla cima di ripide scogliere che mi ricordano quelle di Bonifacio dove sono stato qualche anno fa o quelle di Dover che purtroppo ho visto solo in fotografia. Ci avevano messo in guardia dalle scimmie, che come in tutti i templi induisti capricciose e dispettose la fanno da padrone, rubandoti gli occhiali e cercando di strapparti gli orecchini o qualsiasi oggetto che attiri la loro curiosità. Forse per via del buio, si erano nascoste, solo una ritardataria si aggirava sulle mura, ma si è tenuta a distanza. Su indicazione del tassista, che ci ha fatto da guida fin dentro al tempio, lasciando naturalmente girare il tassametro, siamo corsi a vedere la danza del tramonto che ormai stava per terminare. Nonostante siamo arrivati solo per la fine del rito, siamo rimasti colpiti dalla suggestiva bellezza di quel ballo. Uomini seminudi in movimenti dettati da una rigida coreografia perfezionata da generazioni di esperienza, seduti nella posizione del loto tengono il tempo. Con cadenza ritmata rispondono a un anziano del gruppo che ripete ossessivamente sempre lo stesso suono. Un ballerino si contorce al centro dell’anfiteatro gremito da numerosi turisti dove si svolge la rappresentazione. Indossa una maschera mostruosa che rappresenta nelle fattezze una vecchia donna. Ora accendono i fuochi, il sole è definitivamente tramontato. La gente locale che contornano la pista, gentilmente e molto rispettosamente si scansa, mi fanno largo per permettermi di assistere allo spettacolo in prima fila. Io svetto sopra di loro, sono tutti piccoli qui, e sistemandomi davanti a loro impedirò loro di guardare, ma accetto comunque il loro invito e sono al bordo della pista. Ora posizionano i tizzoni intorno a un altro ballerino in maschera, è inginocchiato, è prigioniero nel fuoco. Improvvisamente si libera, e scaraventa in giro i tizzoni che producono mille scintille che ci raggiungono creando agitazione negli spettatori. Entrano delle bellissime ballerine che iniziano a danzare nei loro vestiti tessuti nell’oro.

Questo rito ha qualcosa delle cerimonie primordiali dei popoli del nord dell’Europa, anche la posizione del tempio sembra simile a quanto facevano i celti, il culto del sole, dell’alba e del tramonto. E’ stato molto suggestivo. In nottata come al solito abbiamo dovuto discutere con gli avventori del locale dove abbiamo cenato, tentavano di aggiungere bevande da noi non consumate al nostro conto, non volevano mantenere la promessa che avevano fatto per convincerci a mangiare da loro, avrebbero dovuto pagarci il taxi per il ritorno al nostro albergo. Si fa in fretta comunque a chiarire le cose con loro, sono molto ragionevoli. Loro ci tentano, se non te ne accorgi c’hanno guadagnato, altrimenti molto sportivamente ammettono i loro errori e cercano di rimediare.

6 luglio 2004 Volo interno avventuroso su un aereo con le eliche, che ci porta da Dempasar all’aeroporto di Mataram sull’isola di Lombok quella a fianco di Bali.

Scendiamo all’**** di Sengiggi. Sembra di essere in un paradiso terrestre, tutto è perfetto, inserito perfettamente nella natura, palme e piscina, camerieri accomodanti e bibite colorate con ghiaccio, musica di sottofondo e pulizia assoluta, non c’è scampo. Sto cercando dov’è l’albero con la mela per coglierla e farmi cacciare. In serata abbiamo l’appuntamento nella hall con Giuseppe, il corrispondente della Gastaldi qui a Lombok. E’ una sorta di Carcarlo Pravettoni quello di Mai dire Goal, molto nervoso e schizzato contrasta con il carattere calmo dei locali. Ci chiede almeno quattro volte le stesse cose senza ascoltare e questo ci costringe a ripetere spazientiti. Dopo avere elencato i vari tour a pagamento e qualche consiglio di circostanza, ci racconta la storia dell’Indonesia. Storia che affronta dal suo punto di vista, molto personale e coloniale, lui che qui ha trovato il modo di fare i soldi in svariate attività, dal turismo alla ristorazione piuttosto che nel commercio di legname. Anna si distrae perché l’uomo con i suoi modi agitati è molto difficile da seguire, ma io l’ascolto interessato, sono sempre attratto dai racconti del passato. Ci racconta anche dei disordini del duemila, secondo lui fomentati dai militari estromessi dal potere, di quando la folla inferocita bruciava le chiese alla caccia dei cristiani e poi aveva assediato il suo locale (uno splendido ristorante in riva al mare), cercando di fargli la pelle. Narra l’accaduto in modo molto distaccato, racconta di gente che gridava il suo nome cercandolo, recando in mano forconi e tizzoni. Con fare isterico affronta il lieto fine, di quando la polizia intervenne sparando sulla folla lasciando qualche morto sulla strada, ma sembra che la cosa non lo preoccupi di tanto e passa a un altro argomento. Continua parlandoci di come l’Indonesia un ricchissimo paese di più di duecentomilioni di persone sia in realtà governata da ricchi cinesi, i cristiani appunto, che foraggiano burocrati e militari corrotti. E’ tutto felice perché è convinto che le elezioni verranno vinte da un generale che sottopostosi a un vernissage di buone maniere è nelle liste del partito democratico. Secondo lui l’indonesiano non è ancora pronto per la democrazia. Mi risulta un po’ dubbia la sua buona fede, lui è uno di quelli che ha tutto da guadagnarci dalla sottomissione del popolo indonesiano. Alla sera andiamo a mangiare nel suo locale di nome Alberto gestito dalla moglie indonesiana, è molto bello. Ceniamo in riva al mare, sul bagnasciuga alla luce di torce conficcate nella sabbia. Purtroppo ci ritroviamo nella solita situazione nella quale noi siamo seduti a goderci il cibo e intorno i locali cercano di venderci di tutto. Ci si sente in colpa. Offriamo da bere a uno di loro, è mussulmano come la quasi totalità della gente qui a Lombok, per questo gli ordiniamo una fanta. E’ felice, ci parla con quella pronuncia particolare indonesiana dell’inglese, dove la lettera p sostituisce la f. E’ molto naif per noi il suo modo di vedere la vita, nel rapportarsi con la politica. E’ felice anche lui se vincerà questo generale. Ci fa segno tagliando l’aria con la mano che chi sbaglia d’ora in poi pagherà. Sembra convinto delle sue idee, gli dico che spero anch’io che sia la cosa giusta per l’indonesiana, ma sono dubbioso. Forse sono che io non capisco, vengo da troppo lontano, e la democrazia è una bella cosa ma bisogna conquistarsela a gradi.

7 luglio 2004 Nei grandi alberghi internazionali come il nostro qui a Lombok la colazione è a buffet. E’ quasi impossibile trattenersi c’è praticamente ogni bendiddio, ed è proprio qui che la nazionalità dei turisti esce allo scoperto e non c’è possibilità di nasconderla. Chi di noi italiani riuscirebbe mai a mangiare appena sveglio spaghetti fritti o salame piccante? Oggi gita nel sud dell’isola che al contrario del nord che ha spiagge vulcaniche quindi con sabbia nera, ha il dono di avere splendide spiagge bianche e mare azzurro chiaro con un entroterra praticamente allo stato primordiale. Abbiamo visto molti villaggi della gente del luogo, con le famose abitazioni degli sasak il ceppo più antico della popolazione di Lombok. Sembrano poverissimi e negli occhi non hanno la gioia che abbiamo letto in quelli dei balinesi e in minor parte degli abitanti di Senggigi. Abbiamo attraversato la capitale dell’isola, Mataran. E’ un concentrato di moschee dove vivono apparentemente senza problemi di convivenza, mussulmani lombokiani, arabi e cristiani cinesi. Purtroppo sembra una calma apparente perché come ci hanno raccontato non è raro che ogni tanto scoppi qualche disordine, soprattutto si è quasi sempre trattato di proteste contro il potere economico dei cristiani cinesi, che comunque si dice lavorino il doppio dei lombokiani. I cinesi sono come i lupi tra gli agnelli, il lombokiano quando ha il minimo per sopravvivere si accontenta, mentre gli altri non smettono ma di lavorare e di arricchirsi e questo crea grandi scompensi.

La gita è stata l’occasione di incontro con un’altra coppia di Cuneo, anche loro in viaggio di nozze. Anna dice che sono male assortiti a me invece paiono carini, lei professoressa di lettere e lui emigrato in Piemonte da Taranto, camionista e per amore iscritto all’Università per laurearsi in Scienze Politiche.

Appena cala il sole e le temperature sono più accettabili, tutti gli indonesiani più volenterosi, l’abbiano notato anche a Bali, si cimentano in epiche sfide a calcio, tipo quaranta contro quaranta senza arbitro, a piedi nudi, se possibile in spiaggia o nel primo campetto disponibile. Non conoscono tristezza, ne stress da quotidianità, e chi non gioca si riversa in strada, per chiacchierare, guardare le macchine che passano o scorrazzare con quella sorta di motorini che usano loro. La nostra guida, mentre attraversiamo Mataran ci mostra l’ospedale pubblico, dice che ne esistono altri due, uno cristiano e uno mussulmano. Quelli religiosi sono molto più cari ma funzionano meglio, ma ancora meglio, continua, sono gli stregoni. Ci racconta della sua ragazza caduta dal motorino a cui volevano amputare entrambe le braccia fratturate piuttosto che curarle, invece fu guarita dallo stregone con stecche di bambù, infusi e massaggi. Ci spiega che questo tipo di cura è anche molto economica e democratica, lo stregone si accontenta di offerte spontanee, chi è più abbiente chiaramente deve pagare di più. La cosa più buffa è che la nostra guida ci informa anche dell’esistenza di uno stregone per la carrozzeria delle auto. Tu le affidi loro ammaccate e gli stregoni introducendole in una cabina segreta le rimettono a nuovo.

8 luglio 2004 Ahiò! Anche in indonesiano come nella lingua sarda per dire andiamo si dice ahiò. Abituato fin da piccolo a quest’espressione avendo il padre sardo, mi ero incuriosito perché la sentivo spesso dalla gente del posto o alla televisione indonesiana. Il dubbio me l’ha chiarito la nostra guida indonesiana con la quale abbiamo fatto il tour delle Gili Island. Le Gili Island sono tre piccole isolette, (gili vuol dire appunto piccola isola), situate nei pressi di Senggigi. La cosa migliore che puoi carpire da queste guide locali, al di là dei loro compiti ufficiali che svolgono per altro in ottima maniera, è la sensazione, l’odore, il tatto, di come realmente funzioni la vita in quest’angolo di mondo. Io approfitto della facilità di comunicazione, in quanto conoscono l’italiano, per fare loro mille domande. Sulla loro vita o i loro sogni, sul sistema politico piuttosto che sul loro modo di mangiare. E’ sempre molto interessante, anche se tante cose che noi veniamo a cercare qui e troviamo sorprendenti sono perle che abbiamo o avevamo in Italia e ora abbiamo perduto o dimenticato: come l’arte di arrangiarsi, le donne che portano le brocche e i pesi sulla testa, la coltivazione del riso e la lavorazione della paglia per farne cesti, il gusto del tramandare oralmente racconti della tradizione popolare, le feste di paese e le cerimonie religiose. Mi pare a volte che per capire meglio la nostra vita abbiamo quasi il bisogno di andare lontano e vedere il tutto con distacco, per poter comprendere meglio senza esserne coinvolti, per scoprire magari che il mare in tempesta in cui pensavamo di annegare non era altro che una bagnarola d’acqua in cui facevamo il pediluvio.

Tra le mille domande con cui ho tempestato l’amico indonesiano che ci guida nel tour, ho posto anche la questione del perché gli indonesiani non vanno mai al mare se non al calare della sera. Mi ha risposto che hanno il terrore di abbronzarsi e diventare ancora più neri, qui sinonimo di bellezza è avere la pelle chiara come gli europei.

Durante questi tour ci trattano come dei pacchi, le tappe sono tutte programmate, bisogna fermarsi nel tal locale a mangiare e comprare i souvenirs in quell’altro posto; ma fa parte del gioco, siamo in vacanza e noi siamo i ricchi turisti occidentali e allora abbiamo il dovere di stare al gioco e giocare.

La barca che ci ha portato da Senggigi alle Gili, si è fermata al largo, per farci ammirare con le maschere i fondali corallini. Siamo stati fortunati, oltre ai numerosi pesci coloratissimi, abbiamo avuto la fortuna di vedere una tartaruga marina. La prima volta l’abbiamo scorta sott’acqua mentre fuggiva da noi e poi in emersione a far provvista d’aria per poi scomparire definitivamente lontana dai nostri occhi.

Mangiamo nella Gili Air, la più piccola delle isole ma secondo noi la più bella e dall’aspetto ancora abbastanza incontaminato. Nel ristorante facciamo la conoscenza del gestore, un italiano di Torino, finito qui non si sa bene come, sposato con una balinese. E’ un po’ giù di morale, si sfoga con noi che non ci sono più turisti. Effettivamente il locale è deserto, ci siamo solo noi. Ci racconta della gente locale, delle loro abitudini e di questo enorme paese che sembra tenuto insieme con lo scotch. Il confronto con l’Italia è inevitabile e scopriamo come in molti cose siano più organizzati in Indonesia, a cominciare dal modo di accogliere i turisti. Anche lui ha la teoria della troppa libertà, su come questo popolo sottomesso per secoli non sia pronto ad amministrarsi in piena democrazia. I conflitti religiosi, e le molteplici rivendicazioni di indipendenza o la richiesta di privilegi da parte di alcune fazioni del popolo non fanno che indebolire una nazione che è una delle più popolose circa duecentomilioni, ma anche una delle più ricche. L’Indonesia ha tutto, petrolio, minerali preziosi, una terra dove cresce praticamente ogni cosa con estrema facilità, dai deliziosi frutti tropicali alle droghe la cui coltivazione pare sia tollerata in alcune isole. Il ritorno lo facciamo in auto, attraversiamo la giungla dove come piccoli ometti le scimmie con le loro strane manine pelose prendono gli arachidi dalle nostre manone glabre. Anche qui c’è un capo, il più grosso e forte, tanto per cambiare, che da solo pretende buona parte delle nostre arachidi che abbiamo precedentemente acquistato appositamente per loro.

Un salto al mercato di Mataran che ai miei occhi europei ha un livello di pulizia inaccettabile. Ci sono mosche ovunque, totale assenza di banchi frigo, il pesce e la carne sono sotto il sole alla mercé di polvere e di numerose mani di curiose massaie locali che tutto tastano. La verdura per fortuna è fresca e ha un bell’aspetto, bisogna solo dimenticarsi che abbiamo visto che gli spinaci, per esempio, vengono coltivati direttamente nell’acqua dei torrentelli che attraversano l’abitato, che altro non sono che fogne a cielo aperto.

Stasera si è annidato un piccolo geco nella nostra camera. Qui i geco li raffigurano in tutti i modi, e ce ne sono veramente dappertutto. Il nostro ospite l’ho visto entrare di soppiatto dalla finestra aperta, muovendosi velocemente con le sue zampine a ventosa. Ho messo a soqquadro la stanza, ho spostato il letto, e lui si nascondeva da un’altra parte, l’unico modo di prenderlo sarebbe stato quello di sopprimerlo. Anna me l’ha rigorosamente vietato, e ora che è anche diventata mia moglie, il suo parere ha acquisito ben altro peso! Mi rassegnerò a dormire con la paura che quella bestia mi possa camminare sul naso durante la notte.

9 luglio 2004 Serata in un locale di Senggigi dove gli indigeni suonano revival di musica country-soul e rock and blues. E’ una musica nata lontano da qui, negli spazi sconfinati americani, creata da altri uomini per persone diverse, ma è arrivata comunque fino a qui, in quest’isoletta dell’oceano indiano. Quelle che cantano però sono le stesse anime che soffrono, gli identici cuori spezzati per donne che si negano, i medesimi occhi velati di malinconia per amori e amicizie perse. Sono musiche e storie nate e vissute lontanissimo da qui che rivivono in persone di lingua e razza diversa, di religioni apparentemente in antitesi. Le freeways, le praterie infinite, le affollate metropoli nordamericane, planano su questi ragazzi che non si sono mai mossi da questa isoletta di Lombok. E’ bello pensare che tra noi europei, gli australiani seduti lì davanti, e tra quest’indonesiani si possa condividere i medesimi sentimenti tamburellando con le mani sul tavolo oppure tenendo il tempo con il piede. Al ritorno passeggiamo nel parco, la musica del bar dell’albergo prima altissima pian piano ci lascia, mentre camminiamo nei vialetti sotto le palme. Le note cedono il posto al fragore delle onde, che regolari si buttano contro l’esigua spiaggia. Il vento che viene da lontano, dal mezzo dell’oceano ora completamente nero, agita la vegetazione incredibilmente rigogliosa intorno a noi. Alziamo gli occhi verso il cielo completamente stellato, che non è quello che abbiamo lasciato in Italia. Nel mare le lampare dei pescatori come ogni notte si avvicinano, stringono d’assedio contro la costa i pesci per poi ghermirli con le loro reti. Il buio copre tutto come un pesante sipario, libera paure non conosciute al sole, cambia le mie idee, trasforma i sogni in angosce e mi rende insicuro e vulnerabile. 10 luglio 2004 Oggi grande lite tra i sellers, come si definiscono loro. Sono gli ambulanti che ci tormentano ovunque, sulla spiaggia, mentre mangiamo, per strada, quando facciamo la spesa, sono praticamente onnipresenti, basta incrociare il loro sguardo e sei spacciato. Ti tampinano nella speranza che tu esausto ceda per comprargli qualcosa, anche una stupidata: quel dollaro che potrebbero ottenere vale una settimana di lavoro di un operaio. Offrono praticamente di tutto, massaggi, pedicure, frutta fresca, orologi, manufatti artigianali, volendo anche la marijuana. Ce n’è parecchi persino nel nostro albergo, ci tendono gli agguati sui gradini che dalla piscina portano all’esterno sulla spiaggia del mare perché dentro non possono mettere piede. Eravamo seduti al Coco Loco, un simpatico locale sulla spiaggia da dove ci arrivavano le grida strozzate di una donna sulla spiaggia che nel frattempo era stata attorniata da un capannello di altri venditori. Il ristoratore ci informa che la lite è scoppiata tra due sorelle. La cosa ora degenera e una delle donne viene portata via in preda a una crisi isterica. Il gestore del Coco Loco è costernato, proprio oggi che nel locale a fianco al suo è presente una star televisiva delle soaps locali. Ce la facciamo indicare, pare proprio una babbiona ma qui deve essere molto famosa, sembra che sia qui per la festa di Senggigi; ci andiamo anche noi dopo pranzo. C’è una sfilata di numerosi gruppi che si portano nella piazza centrale dove si svolge il clou della manifestazione, non riusciamo a capire in base a quale criterio siano divisi, se per famiglie, rioni o magari professione. Riconosciamo però tra i vari gruppi quello degli hotels, c’è anche il personale del nostro l’Holiday Inn ma sono i meno numerosi. In ogni gruppo due o tre persone tengono il ritmo con gran colpi sui pesanti gong che trasportano a spalle, tenendosi in fondo ai rispettivi cortei. Comandano il drappello singole persone che martellano piccoli tamburi con un ritmo dalla velocità doppia rispetto a quello dei gong. Nella metà di ogni gruppo alcuni suonatori di gamelan, una sorta di xilofono, suonano quella tipica nenia ripetitiva in uso anche a Bali, la si sente ovunque, a cominciare dall’aeroporto fin anche nei servizi pubblici. E’ tutto molto coinvolgente, colorato e allegro. Se penso alle feste del mio paese, iniziano sempre dalla chiesa con la banda musicale molto chiassosa e stonata che diffonde nell’abitato le solite note di bassa qualità. Con passo veloce, inseguendo il gruppo di sparuti suonatori, i miei paesani si trascinano rapidamente, sono solo pochi metri, direttamente nel circolo. La stretta apertura inghiotte prima i suonatori, poi gli ex-alpini, i reduci di guerra e i partigiani, poi le loro donne tracagnotte e traballanti. Si siedono soddisfatti nei tavoli di formica colorata e tra un bicchiere e una partita a scopa, la festa è già finita. Questi indonesiani invece la tradizione non l’hanno lasciata morire, sono quasi tutti giovani e c’è una partecipazione molto sentita. Sono molto allegri, non si curano di quella che noi chiameremmo miseria, non si lasciano angosciare dal domani. E’ una popolazione in bilico tra il desiderio irrefrenabile di consumismo all’occidentale e l’attraente spiritualismo dell’oriente asiatico, in contraddizione tra un passato coloniale e una gran voglia di modernizzazione. Vivono in un mondo affollato da mille riti e credenze induiste arrivate direttamente dall’india, su cui un islamismo di etichetta nulla ha potuto fare se non stratificarsi sulle precedenti divinità e sugli antichi riti. Torniamo in albergo sono le sei, mi piace tornare in tempo per gustarmi il tramonto. Adoro vedere il sole che cala sul mare, gustarmi il cielo e l’acqua che sfumano dal giallo all’arancio, salutare quella palla ora rossastra mentre si nasconde dietro il più alto vulcano della poco lontana Bali. E’ un rito a cui prendono parte molti degli ospiti dell’****, e i venditori lo sanno, sono lì con le loro mercanzie. Appena il sole ci lascia, un leggero vento fresco si diffonde nell’aria, portando fino alle nostre orecchie il canto del muezzin che si alza dalla moschea poco lontano. C’è sempre anche il Lupo della Steppa, un signore distinto anche lui in vacanza come noi che ha una certa somiglianza con Hermann Hesse. Facciamo poi amicizia, scopriamo che è austriaco, penso che sia sulla sessantina, sembra molto colto, ha una moglie molto interessante, e sono molto affiatati, come due ragazzini. Gli piace trattare con i sellers, ogni giorno si fa fare un massaggio, gli compra sempre qualche stupidata, loro sono contenti, e lo seguono passo per passo. Chiacchieriamo, un po’ in italiano e un po’ in Inglese, ci lamentiamo degli euri, anche loro hanno questa disgrazia. Mi lancia la frecciata di Berlusconi, io rilancio con Hider, ma lui ribatte con Bossi. Passiamo alla letteratura, mi parla del suo libro è di un famoso scrittore svedese ma io non so chi sia. Gli mostro il mio, tutti i racconti di Hemingway, lo adora anche lui, e io in questo momento mi sento come Ernest, un po’ torero un po’ cacciatore nel Kenya, oppure soldato in guerra sul fronte italiano. Ci salutiamo, ci ritroveremo sicuramente domani all’ora del tramonto.

11 luglio 2004 Il pattino della barca affiora dall’acqua e come se stesse prendendo fiato, si rituffa nuovamente nella schiuma del mare resa ancora più brillante dai raggi obliqui del sole del mattino. Il pattino fa da bilanciere con l’altro parallelo della sponda opposta. Sono collegati tra loro da due strutture trasversali che sovrastano la poppa e la prua della barca. I pattini sono formati da lunghe barre di bambù che garantiscono all’imbarcazione dal fondo quasi piatto, la sicurezza di non rovesciarsi quando l’oceano è agitato. Le barche qui sono tutte di questa specie e a vederle da lontano sembrano quegli insetti che pattinano sugli stagni. Sono verniciate tutte di bianco con contorni dai colori allegri, come l’azzurro, il rosso, il verde o il blu. Mi incanto nel guardare il pattino che ora emerge per poi sparire di nuovo sotto l’acqua, per vederlo di nuovo improvvisamente ritornare in superficie. Si alterna al suo gemello nell’eterno lavoro di mantenere la nostra barchetta stabile nelle onde che la sballottano. Navighiamo costeggiando la costa, da Senggigi verso le Gili Air. Vorrei scorgere la sagoma del nostro albergo, so che gli passeremo davanti, ma è talmente ben camuffato nel folto delle palme, che dal mare non mi riesce di scovarlo.

Abbiamo deciso di prenderci una giornata di sole sulla più piccola delle tre isolette, che è anche quella che più ci aveva più colpito. Appena sbarcati ci accolgono subito quegli strani carrozzini con pneumatici da auto tirati da piccoli cavallini che su quest’isola sono l’unico mezzo di trasporto, come al solito insistono per offrirci il loro servizio, ma Anna assolutamente non vuole, dice che è una barbarie approfittare di quel piccolo cavallino per farci portare a spasso. D’altronde l’isola è cosi piccola che a piedi la si può girare in pochi minuti, così ci incamminiamo. Ci lasciamo andare su una bella spiaggia che al contrario di quelle di Senggigi qui sono bianchissime. Mentre ci facciamo abbrustolire dal sole rovente, un venditore ci abborda, si siede con noi e ci racconta della sua vita. E’ mussulmano, ma non molto convinto, infatti ci dice che ogni tanto gli piace prendersi una bella sbronza. Adora fumare l’erba che pare sia un prodotto locale molto a buon mercato, ma comunque anche qui illegale e la polizia del posto non va molto per il sottile; ci dice che suo fratello è stato ferito alla gamba da un poliziotto mentre tentava la fuga perché sorpreso a spacciare, si è poi fatto un bel periodo in galera. E’ felice perché ha appena avuto un bambino, sua moglie e suo figlio lo aspettano a Lombok, ma per lavoro deve per forza spostarsi, deve battere la concorrenza a Lombok molto numerosa. Ci spiega che ci vuole la licenza per vendere ed è anche molto cara, lui l’ha ottenuta e sembra ne sia molto orgoglioso.

Mangiamo nello stesso ristorante in cui eravamo stati l’altra volta. I piatti sono delle enormi conchiglie, come il lavabo della toilette e questo nella veranda dove ci laviamo le mani dopo la portata di pesce. Ci accolgono due simpatici gatti locali con cui avevamo già fatto amicizia l’altra volta. Qui sono tutti magri, con monconi di coda che paiono spezzate, gli indonesiani ci dicono che nascono così. Sono gatti molto magri, con malattie della pelle e degli occhi, non miagolano in modo dolce come i nostri, quelli che emettono sono versi più acuti, quasi strazianti.

Il ritorno in barca lo facciamo in compagnia del gestore di Torino che avevamo conosciuto la volta precedente. Torna a Senggigi, se può ogni sera. A noi pare tanto bella quest’isoletta, ma per lui è ormai molto noiosa specialmente se non ci sono molti turisti, e poi sua moglie l’aspetta a casa. E’ bello sentire le sue impressioni sull’Indonesia, che poi sono le nostre solo molto più approfondite e motivate grazie anche alla sua conoscenza della gente e della lingua. Lo invidiamo molto, ha lasciato tutto per vivere qui che per noi rappresenta il luogo della libertà e della spensieratezza, anche se lui stesso ci fa capire che non è proprio tutto oro quello che luccica. Anche qui ci sono le tasse, numerose e incomprensibili, l’incertezza e la disorganizzazione, anche se lui sottolinea che non tornerebbe mai alla sua precedente vita in Italia. Si chiacchiera dell’isola, dei vari tour possibili, anche di quello dell’altissimo vulcano che domina l’isola. Nelle foto che abbiamo visto in giro abbiamo appreso che all’interno del cratere si è formato un lago che è quello che da l’acqua dolce al nord dell’isola. Lui ci è stato una volta con suo fratello, ci vogliono due giorni di cammino, e si rischiano imboscate di banditi che cercano di rapinarti il possibile. Sul lago è stato costruito un tempio, e quindi è diventato un luogo sacro. Ci racconta che una volta partiva addirittura un idrovolante dal tratto di mare di fronte al nostro albergo, per atterrare direttamente nel lago all’interno del cratere; poi tutto è stato sospeso perché il frastuono dei voli turbava la sacralità del luogo.

A metà del tragitto ci imbattiamo in un banco di pesci, gli uccelli che gli volano sopra lo annunciano e il ragazzo di Torino che è un uomo di mare lo segnala immediatamente. E’ come se l’acqua ribollisse mentre i pesci nuotano fitti fitti. Il banco è molto esteso, e i conduttori della barca lanciano la lenza, purtroppo non prenderanno niente. Il nostro compagno di viaggio ci mostra una grotta sul mare, lui è un sub dice che l’ha visitata, ma da solo, perché i locali si sono rifiutati di accompagnarlo dicendo che ci viva un drago, che li terrorizza. Ci spiega che sono molto superstiziosi, frequentano stregoni e maghi, che vanno a cercare nelle alture dell’isola dove sembra si ritirino in meditazione, per farsi curare, consigliare e predire il futuro.

Anche stasera partecipo al rito del tramonto, ora il sole è sparito dietro al vulcano di Bali. La gente scatta le ultime fotografie e si allontana, i bagnanti raccolgono gli asciugamani dalle sdraio intorno alla piscina, le mamme radunano i bambini estraendoli con forza ancora recalcitranti dall’acqua, il personale riordina in modo che tutto sia perfetto per l’indomani, le prime luci si accendono, e cala l’oscurità; le giornate sono veramente corte. 12 luglio 2004 E’ dura da ammetterlo per noi che vorremmo essere dei turisti avventurosi, ma è bello godere delle comodità, farsi servire, rimanere sdraiati tutto il giorno a sonnecchiare, di fronte al leggero sciacquio di questa splendida piscina, tra le palme che sopra le nostre teste si scompongono leggermente per la lieve brezza del mare. Ovunque camerieri nelle loro irreprensibili divise a nostra disposizione per esaudire ogni nostro piccolo desiderio. Qui **** il lusso si spreca e la devozione del personale verso i clienti a volte ci imbarazza, non siamo abituati a questa vita in patria.

Ci sono altri italiani qui che soggiornano, ma facciamo il possibile per non far sapere che siamo loro connazionali, e quando purtroppo lo scoprono, (pare sia inevitabile nascondere che si è italiani all’estero), cerchiamo di evitarli. A volte ci prendono alle strette come hanno fatto oggi, e ci vediamo costretti a fare conversazione. Si scatena allora una sorta di competizione, su chi ha visitato più luoghi, oppure si cerca di stabilire chi sia stato il più furbo ad ottenere le condizioni più vantaggiose dall’agenzia viaggi, piuttosto su quale sia stato il più scaltro a scegliere la migliore compagnia aerea. C’è anche l’aggravante che qui siamo tutti in viaggio di nozze, e queste coppie di italiani non parlano che di matrimonio, vestiti, e regali. Poi inevitabilmente la conversazione scivola sul mangiare: solo in Italia si mangia bene, qui in Indonesia sono sporchi, come rimpiangiamo la cucina di mamma ecc. Incontriamo a volte gente che non ha mai avuto l’iniziativa di andare da sola in paese per assaggiare i cibi locali o per bere qualcosa ed assaporare l’atmosfera dell’isola. Ogni volta dopo questi incontri ravvicinati rimaniamo con l’amaro in bocca, e ci ripromettiamo per la prossima volta di rimanere sulle nostre, d’altronde non siamo mica in guerra che abbiamo bisogno del sostegno dei nostri compatrioti, siamo andati così lontani appunto per scappare da tutto questo.

Avanza qualche foto nel rullino della macchina fotografica tradizionale, ho voluto approfittarne per cercare di cogliere i momenti di vita quotidiana della gente locale, mentre scorrazzano sui loro motorini, o quando si radunano al calare del sole oppure quando si servono per spostarsi, di quegli strani veicoli che chiamano Bemo. A volte li usiamo anche noi, ne prendiamo uno anche oggi. Per la gente del posto ci pare che il prezzo sia fisso, noi invece dobbiamo contrattare il prezzo. Non vogliamo approfittarne e chiediamo di pagare un importo più basso di poche rupie rispetto a quella che ci praticherebbe un Lombok Taxi. Sono dei piccoli furgoncini con sedili a panchetta paralleli alle sponde del cassone. Ci si siede nel cassone coperto, con piccoli finestrini sui lati, che rimane separato dall’autista: ci si sente come sacchi di patate stivati qui dietro. Lui raccoglie tutti quelli che incontra per strada, fino a quando gli è impossibile farci stare altre persone nello spazio limitato del suo Bemo. Ci si ferma dove capita, perché non ci sono fermate predefinite, basta schiacciare un pulsante sul soffitto del cassone, e l’autista inchioda. Si guarda fuori dal retro che è aperto, si vede la strada che sfugge veloce, lontano, mentre il veicolo romba e fuma nell’affrontare le asperità della strada della costa, che sale e scende di continuo ricalcando probabilmente antichi sentieri. I gas di scarico ritornato nel cassone, e tra il caldo e il fumo l’aria è alquanto malsana, ma qui ancora non si da molta importanza a queste cose.

13 luglio 2004 Non pensavo, ma oziare negli agi di questo albergo, crogiolarsi nella spensieratezza della vacanza mi stanca. Alzarsi senza l’impegno di dover fare per forza qualcosa, essere servito come un principino senza l’ansia del lavoro riesce comunque ad affaticarmi. Da quando sono qui ho abbandonato tutte le mie attività sportive, ogni tanto mi ricordo di fare qualche flessione sulle braccia, ma è niente. Non ho più messo le scarpe e giro sempre in ciabatte con passo pesante, quasi strascicato. L’inattività mi pesa, mi sfianca. Forse l’ideale sarebbe avere un lavoretto che mi occupi almeno metà giornata, mi farebbe ricordare la fatica del lavoro senza stancarmi e desiderare di conseguenza la rigenerazione del riposo, allora anche una vacanza di mesi sarebbe sopportabile, altrimenti penso che non ce la farei.

Anna si è fatta fare i massaggi dai locali sellers che instancabili sono sempre appostati sulla porta che da verso il mare. Hanno costruito delle insospettabili baracche addossate alla recinzione che divide il parco dell’albergo dalla spiaggia libera. Questi ripari si possono vedere solo dalla spiaggia, e dall’albergo non se ne suppone neanche l’esistenza. I locali passano lì le ore più calde proteggendosi dal sole, oppure consumando i loro pasti approfittandone per socializzare tra colleghi e scambiarsi le strategie di vendita. Ogni tanto anche qualcuno del personale dell’Holiday Inn si avvicina a loro e chiacchiera del più e del meno, magari si unisce a loro nelle casupole bevendo o mangiando qualcosa. Sembra sempre che lo faccia però con un certo timore, probabilmente questo non è ben visto dalla Direzione. Le strutture costruite fungono anche come una sorta di ambulatorio o studio dove i sellers si dedicano ai massaggi, che effettuano in aperta concorrenza con l’albergo che chiede quasi il doppio del loro compenso; anzi qualcuno di loro si è procurato un listino su carta intestata dell’Holiday Inn e te lo sventaglia sotto il naso quando cerchi di trattare il prezzo. Ero intenzionato anch’io a farmi massaggiare, ma una sorta di inconscio pudore mi impedisce di lasciarmi andare, ritengo una cosa troppo personale permettere che delle mani a me sconosciute mi massaggino il corpo, probabilmente non riuscirei a rilassarmi e godere dei benefici che si ottengono da queste pratiche, oltretutto mi darebbe molto fastidio avere la pelle unta da questi oli così odorosi che usano le massaggiatrici.

Come mi capita spesso da quando sono qui, medito anche oggi sul perché questi indonesiani siano sempre così sereni rispetto a noi che ci riteniamo più fortunati di loro. E’ quasi irritante vederli sempre così sorridenti, sempre così ben disposti verso la vita, mentre noi siamo sempre così frenetici, aggressivi nel tentare di raggiungere traguardi sempre più lontani e ambiziosi, sempre destinati a rincorrere una felicità che non si concede mai, tanto che ci capita di dubitare della sua esistenza. Ma è semplice, perché non ci ho pensato prima. In fondo di cosa devono temere questi uomini, cosa possono perdere domani, tra un anno, nella loro vecchiaia, se praticamente non hanno nulla? Con i privilegi che pensiamo di esserci guadagnati e che tentiamo strenuamente di difendere, nelle nostre occupazioni quotidiane all’interno del nostro sistema di civiltà occidentale, che cosa abbiamo ottenuto? Siamo diventati delle persone migliori, più ricche interiormente, più sagge o serene, oppure ci siamo in realtà legati? Penso che siamo zavorrati con tutto ciò che è materiale e ora abbiamo il terrore di perderlo, viviamo nell’ansia che qualcuno un domani ci porti via la nostra auto nuova, che ci privi del nostro ipertecnologico cellulare, che la nostra donna possa scegliere un uomo che gli offra più ricchezze e possibilità di noi… la verità è che siamo prigionieri, che sono prigioniero! Non riuscirò mai a volare, quella lunga rincorsa che ho iniziato nei giochi da bambino non sfocerà mai in un volo liberatorio! Ho barattato la mia libertà, la gioia di vivere, la mia spiritualità per una gamma di cose rumorose e frastornanti che vanno dalla posizione sociale ai beni materiali, ma che non riescono a darmi la felicità. Avrei già dovuto capire da molto, che è inutile accumulare ricchezze e privilegi per essere felici, ma che forse per esserlo dovrei fare proprio il contrario. D’altronde è quello che dicono da sempre le grandi religioni, i filosofi, i poeti, e la prova ce l’ho davanti a me, negli occhi di questi indonesiani.

Ma ci vuole tanto, troppo coraggio… e se poi non fossi felice, se mi pentissi di ciò che ho lasciato e non potessi più riottenerlo? Oggi c’è stato un bel temporale, ci ha sorpreso nella piscina, ci siamo dovuti rifugiare nella nostra camera dell’albergo, e mentre fuori l’acqua cadeva abbiamo fatto l’amore, sentendo la pioggia fra le palme.

Ora guardo le pozzanghere numerose, il cielo grigio e triste. Mi rabbuio, il sole mi ha lasciato, questo tempo mi ricorda troppo quello del Nord Italia.

14 luglio 2004 E’ un’ordinata e composta cavalleria che serra i ranghi man mano che avanza. Sono le onde che portano i loro attacchi alla spiaggia, sono eroiche e ostinate. Dopo ogni attacco sono pronte a riorganizzarsi per portarne un altro. Il trombettiere instancabile continua a intonare le note dell’attacco per infondere coraggio ai combattenti, e sempre nuove truppe arrivano ancora più agguerrite, incuranti del fallimento di quelle che le hanno precedute. I morti non si contano, ma è come se le truppe fresche che si susseguono avessero pena dei loro morti e con inesauribile ostinatezza, ogni volta ne seppellissero le spoglie straziate nella schiuma. Così ad ogni attacco segue sempre una pausa, il mare si ricompone, piange i suoi caduti e si riorganizza attaccando con rinnovato coraggio.

Siamo seduti sui gradini che dall’albergo portano alla spiaggia. Le nostre orecchie sono assordate dal fragore della battaglia e gli occhi colmi dello spettacolo della impari lotta che queste onde incuranti del pericolo ingaggiano con la spiaggia. Sono impotenti, e nulla possono contro la trincea di sabbia che le attende. Muoiono sempre tutte, vittime ad ogni attacco della strenue resistenza che incontrano; non si fanno prigionieri, la costa non ha pietà, vuole una vittoria indiscutibile.

Ora guardiamo davanti a noi, le solite lampare che come ogni notte nel buio lentamente si avvicinano. Sperano, questi poveri pescatori di sorprendere i pesci e di spingerli verso la costa per poi approfittarne. E’ la storia di ogni notte, che si ripete chissà da quanti anni, da quante generazioni. E’ la storia delle onde contro la costa, dell’uomo contro la natura, contro la fame e la morte, una battaglia sempre persa come quella delle onde.

Ogni tanto distogliamo lo sguardo, per guardare in alto questo cielo di infinite stelle, che sembra ci schiacci a terra.

E’ l’ultima notte.

Abbiamo anche voglia di tornare a casa… ma ho paura di dover riaffrontare la solita vita, il lavoro soprattutto, vorrei che qualcosa cambiasse, naturalmente mi augurerei in meglio. Quando si è in vacanza si fanno mille propositi, che poi si infrangono morenti come queste onde, contro la realtà che ci ha aspettato con pazienza a casa, senza cambiare, cinica e spietata come l’avevamo lasciata. Basta una settimana della solita routine e si viene inghiottiti dal gorgo del quotidiano e tutto è dimenticato. Forse sono solo io che penso così, eppure mi sembra di avvertire negli occhi della gente che incrocio tra le scrivanie, nelle facce prigioniere delle auto bloccate nel traffico delle ore di punta, sotto i neon nauseanti dei centri commerciali, l’imbarazzo di persone che non riescono più a stare in un gioco che ormai ha stancato: è un gioco che non diverte più e che non serba ormai più sorprese. L’illusionista è stato sbugiardato, ormai il trucco è scoperto. Se rimaniamo ad applaudire stancamente è solo per cercare di nascondere la delusione di aver pagato un biglietto così salato per assistere a uno spettacolo così scialbo. Si vive di inerzia, fino a quando la spinta ci manda avanti, nella speranza che una nuova inaspettata ci dia ancora un po’ di energia. Magari un nuovo lavoro, un figlio, un nuovo amore, lecito o meno, la casa di proprietà, una nuova auto con le rate da pagare… Dallo scrittoio della nostra camera d’albergo, metto giù questi pensieri. Alzo gli occhi e mi specchio in una faccia molto più scura, sembra rilassata e molto più tranquilla di quando è partita. Sullo sfondo Anna che dal letto guarda Rai International il nostro contatto quotidiano con l’Italia, e tutta la solidarietà va ai nostri connazionali emigrati, se questo è quello che gli arriva dalla loro nazione devono avere una visione molto misera della loro patria lontana.

15-16 luglio 2004 E così è finita. Preparati i bagagli, che quando si riparte sembrano sempre raddoppiati, ci siamo avventurati in questo viaggio di più di 30 ore se si calcolano anche le varie ore di attesa tra Lombok, Bali e Bankok. Stretti nei nostri sedili attendiamo il passaggio delle Hostess e degli Steward che con quel sorriso dipinto ci propongono in modo ammiccante un bicchiere alla volta, una caramella o il pasto in microporzioni rinchiuse in piccole scatole. Allora bisogna mantenere la calma, il tavolino è piccolissimo, e una volta aperta la scatola del pranzo le scatoline e le confezioni si moltiplicano, bicchieri e posate, tovaglioli, e come se aprissimo quelle scatole per gli scherzi che quando le apri salta fuori il mostriciattolo per spaventarti… trangugio tutto per noia, sperando che alla fine del pasto le lancette siano andate un bel po’ avanti. Il personale si cambia d’abito per ogni occasione e noi dipendiamo da loro sperando che inventino qualcosa, che estraggano ogni volta un coniglio sempre più sorprendente dal loro cilindro, per farci passare queste ore interminabili. Cerco di stare tranquillo, in questo spazio veramente angusto. Vorrei dormire ma è molto difficile, mi è impossibile trovare una posizione che sia comoda per più di mezz’ora. Leggo di tutto, estraggo il possibile dalle tasche ricavate nello schienale del sedile che mi sta davanti, disperato mi rileggo più volte anche le istruzioni di come bisogna comportarsi in caso di ammaraggio. Purtroppo su questo aereo della Thai si proiettano solo film in inglese e non riesco a capirci niente. Alla fine spengono tutto, luci e televisori ed è come se ci mandassero a nanna. Ogni tanto guardo giù da questo piccolo oblò, guardo le luci lì sotto, mi ricordo di quando alcune notti alzo lo sguardo e osservo le luci lampeggianti di un aeroplano nell’alto del cielo, forse qualcuno laggiù sta facendo lo stesso. Decido d’alzarmi per fare quattro passi e scongiurare i rischi di embolia, ma l’unica destinazione possibile è la toilette e allora ci entro. E’ come chiudersi in un armadio, immagino che sia la stessa sensazione che provano gli amanti quando vengono nascosti dalle mogli adultere per paura del marito che è tornato improvvisamente. Tiro l’acqua, e dal buco del water una forza ultraterrena aspira ogni cosa, potrebbe toccare anche a me, è meglio che mi tengo lontano. Mi viene in mente che ogni tanto, in quegli stupidi programmi televisivi dove fanno le ospitate quegli individui di dubbio valore che si fanno chiamare Vip, gli si domanda qual è il posto più strano dove hanno fatto l’amore. Ogni tanto qualche sgualdrinella risponde indicando la toilette dell’aereo come una delle zone più erotiche, mi pare di averlo sentito dire anche dalla Zanicchi. Vorrei vedere come si possano destreggiare due persone in questo spazio, soprattutto la Iva che è già tanto se riesce a entrarci lei da sola qua dentro. Ci sono turbolenze, l’aero balla come l’autobus che prendevo quando andavo a scuola, fuori piove, vedo l’acqua che lava le ali del nostro aeroplano. Strano pensavo che questi apparecchi riuscissero a volare al di sopra delle perturbazioni, secondo i miei calcoli stiamo sorvolando l’India. Ora dagli oblò vediamo anche i lampi, la hostess con una sorta di sari se ne accorge, e con una faccia che mi pare terrorizzata e non mi rassicura per nulla, ci intima di tirare giù lo schermo dei finestrini. Cosa non ci vogliono far vedere? Io guardo lo stesso fuori, siamo dentro le nuvole, le luci della coda dell’aereo si rifrangono nella nebbia creando una luminosità irreale. L’apparecchio balla ancora, ma la situazione non mi pare così preoccupante. Mi addormento.

Finalmente riaccendono le luci, ci portano degli straccetti umidi che il personale maneggia con apposite pinze: sono tiepidi, e piacevoli al contatto con la pelle, ci rinfrancano dalla notte molto pesante. Ci stiamo avvicinando a casa.

Si ostenta indifferenza ma si è tutti tesi quando i motori sono al massimo per il decollo o quando si precipita dai diecimila metri per l’atterraggio, poi qualcuno applaude, per sciogliere la tensione.

Speriamo di non dimenticare presto questa vacanza, che mi serva da corazza per affrontare di nuovo la mia vita quotidiana che come un avvoltoio mi ha aspettato appollaiata a Malpensa per sistemarsi di nuovo sulla mia spalla. Nigel Mansell



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