Viaggi e miraggi: l’islanda
Ci sono viaggi che nascono da un’urgente voglia di scappar via e viaggi che muovono i primi passi su precoci libri di geografia, quando una vertigine di bambino ti coglie pensando ad un’isola lontana, posta lassù in alto vicino al Polo Nord. Quando la cultura è in formazione i punti cardinali sono oggetti misteriosi e le categorie...
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Ci sono viaggi che nascono da un’urgente voglia di scappar via e viaggi che muovono i primi passi su precoci libri di geografia, quando una vertigine di bambino ti coglie pensando ad un’isola lontana, posta lassù in alto vicino al Polo Nord. Quando la cultura è in formazione i punti cardinali sono oggetti misteriosi e le categorie dell’alto e basso, del su e giù omaggiano di maggiori suggestioni le terre remote. Con il passare degli anni documentari e rari film ti precisano meglio l’oggetto di un desiderio nascosto ed inconfessato, perché ancora in nuce: poi un’iperbole fatta di discorsi da pub e suoni che hai iniziato ad amare ti spinge sempre più verso quel posto e quando son cadute tutte le remore ti ritrovi con i biglietti aerei in tasca ad un concerto dei Sigur Ros, con la beffarda arroganza di chi sa che 3 giorni dopo sarà a casa loro. Due ore e passa di musica che ti avvolge morbidamente dall’alto come un’aurora boreale lasciandoti un senso d’evento (d’Avvento?) ti palesano il corto circuito emozionale che si sta realizzando nella tua testa e finalmente ti è chiaro tutto il percorso che ti ha portato all’aeroporto internazionale di Keflavik, Islanda. La terra che ti appare all’improvviso dal mare è la brulla Reykjanes, intenso assaggio dei pavimenti lavici d’Islanda: un po’ ti spaventa e un po’ ti incuriosisce, come la fredda pioggerella che ti accoglie una volta sbarcato a suonarti la sveglia dall’umido torpore cui l’Italia ti aveva abituato. Ma il calore in Islanda è sempre dietro l’angolo: nelle “celesti” acque della vicina Laguna Blu, come nelle centrali geotermiche che alimentano queste piscine e la fame di energia pulita dei 300.000 abitanti di questo paese. Pochi, simpatici ed attivi: questi sono gli islandesi che si concentrano in massima parte nella capitale Reykjavik, sorta di villaggio di pescatori ipertrofizzato con ambizioni (ben riposte) di futuro polo economico e culturale internazionale. Nella città si spende tanto, per tutto, arte compresa. Installazioni e sculture di artisti locali sono ovunque: architetture particolari e fontane ad ogni angolo. Si sentirà molto parlare di questo posto nel futuro, siatene certi. Pochi ed attivi dovevano esserlo anche nel passato gli islandesi: in più erano già democratici, visto che la spianata di Thingvellir li ospitava durante il primo parlamento della storia nel 930 dopo Cristo. Del resto quando devi confrontarti con la potenza ad orologeria del vicino Geysir e la furia del contiguo Hekla comprendi che le decisioni è meglio prenderle oneste e condivise, magari riflettendoci sotto i riflessi dorati della maestosa cascata di Gullfoss. Peccato che la luce latiti spesso da queste parti (pur tramontando, accidenti, alle 23 e 30) perché lo Snaefell sarebbe un bel vedere dalla capitale, posto così com’è alla fine dell’omonima penisola: il vulcano ghiacciato che Verne considerava l’esofago di Gaia, è un’inquietante magnetica presenza dietro le nubi. Sopra, le nubi, quando gli si soggiace visitando la grotta di Songhellir, ed i neri faraglioni di Djupalonssandur: qui giocando con le pietre dei pescatori si riscoprono antichi riti di iniziazione a mestieri difficili, complessi come la dinamiche della furia della lava che crea gli enormi crateri di Holaholar. La natura qui regna, ti schiaccia moralmente come le sue nuvole a non più di 100 metri d’altezza: scopri di continuo terre parallele e misteriose, a tratti te le inventi. Quando sono reali come i remoti Fiordi Occidentali non ti basta il tempo e l’attrezzatura per conoscere il limite di quello che questa terra ti concede di esplorare: quando te le inventi sono Svalbard, Francesco Giuseppe, Severnaya Zemlya. Alla realtà ti ci riporta il bel tratto di Ring Road che ti conduce verso l’altra “metropoli” Akureyri: colline e montagne che quando non incastonano nevai, somigliano tanto nelle fogge alle Highlands scozzesi. Il tempo meteorologico e quello fisico lavorano nella stessa maniera in ogni parte del Nord, addolcendo le alture e tappezzandole di brughiere colorate che le pecore e le seggiovie non sembrano toccare. Zona di sci alpino Akureyri e di golf, anche a mezzanotte: zona di fioriture inconsuete per la latitudine, grazie ad un microclima invidiabile che regala un bel sole quand’è tempo di lasciarla. Il sole e la voce di Emiliana Torrini che canta “Sunny Road” creano un ponte di cultura su cui corrono le emozioni ed il benessere. Corre l’auto verso la “divina” Goddafoss: la simmetrica cascata dove giacciono gli dei norreni, assieme a tanta bellezza. Corrono l’auto ed il viaggio verso il lago Myvatn con le sue meraviglie. Lo stupore sul Myvatn inizia quando metti il naso fuori dalla macchina: inspiegabile che un luogo tanto bello sia infestato da una tale quantità di moscerini, tutti presi ad infilarsi nelle vie respiratorie. Neanche la pioggia può nulla contro queste orde: il vento reca sollievo temporaneo, ma solo i chilometri sono un rimedio contro questa paranoia volante che ti insegue negli pseudocrateri di Skutustadagigar, come tra le suggestioni delle forme di Dimmuborgir. Tra trolls e chiese pagane, letti nella lava dalla fantasia degli uomini, preghi che un gigante si erga e falcidi le inutili creature in attesa che il Generale Inverno le stermini. Per fortuna la cittadina di Reykjahlid, tappa obbligata per le notti, ne è quasi immune: qui l’unico problema sono gli alloggi e così si scopre tutto un mondo fatto di stanze in fattorie e di ospitalità dei loro fattori, che parlano inglese, come tutti del resto nel paese. Reykjahlid è il luogo di partenza di escursioni sulle piste dell’interno dell’isola: a meno di possedere un fuoristrada e di saperlo guidare in alcune delle peggiori situazioni che possano capitare conviene fare per una volta i turisti ed imbarcarsi sui bus. La meta principale è l’Askja, posto che se fosse venuto a conoscenza di Dante avrebbe conosciuto fortune letterarie ben maggiori di frugali leggende su tenaci ladri di pecore: esteticamente è l’Inferno, luogo di una bellezza violenta come i cataclismi che l’hanno creato. Il bagno nella caldera del Viti (“inferno”, appunto) è l’abluzione più strana che possiate raccontare: immersi in calda acqua turchese sul fondo di uno scosceso cratere tutt’altro che rassicurante, mentre fuori ci sono quanto? 5 gradi? Draghi di pietra, artisti scomparsi, storie d’amore e di scienza si intrecciano in questa zona dove la Luna accolse l’invito del pastore errante a posarsi un attimo, per consentire ad Armstrong e soci di prenderci confidenza nel 1969. Lasciare questi posti votati alla contemplazione per tornare alla civiltà sarebbe ancora più dura se la tappa seguente non fosse l’ancora luciferino vulcano del Kafla: lava pericolosa come gli zombie di Ghost and Goblin, ossia hai la certezza che arriverà da sotto ai tuoi piedi ma non sai dove. Sì perché il Kafla è un vulcano anomalo, che erutta da spaccature orizzontali dell’epidermide di Gaia, piuttosto che da coni come siamo abituati. E lo fa pure con un certa violenza e continuità, tale da giustificare l’impianto della bella centrale geotermica. Dopo tanta terra e fuoco la costa regala splendidi scorci ed il miraggio della remota Grimsey, unica terra islandese toccata dal Circolo Polare Artico: le onde poi aumentano la suggestione facendoti immaginare balene che ad Husavik sarebbe davvero possibile vedere. L’acqua, l’altro elemento dominante in Islanda, l’acqua che ha tante forme e colori, sembra quasi che possieda più dei canonici tre stati. In islandese esistono 23 modi diversi per dire “neve”, sarebbe curioso sapere se ne esistono altrettanti per definire l’acqua: come si fa a credere che l’elemento placido, color ciano, che fa da sfondo agli arcobaleni di Bogarnes sia lo stesso che si getta con bianca furia dai salti della selvaggia Dettifoss? L’acqua che viene dal ghiacciaio è pura energia potenziale liberata in cinetica dopo millenni di stasi: ha solo voglia di correre, ipnotizzandoti nel suo volo nella cascata più grande d’Europa ed il canyon che scava termina nel colossale teatro di Asbyrgi, luogo adatto più alle moli dei dinosauri che a quelle umane. Altri moli ed altri umani sono ben presenti nei villaggi dei fiordi orientali: piccole gemme incastonate tra montagne altissime e che immagini isolati per buona parte dell’anno, brulicano di attività che vanno dalla pesca al calcio, dal golf alle gare degli iron-men, espressione di un machismo ironico ed incapace di prendersi sul serio, in un paese dove ormai la pesca la si fa sempre in meno e sempre più con le macchine. Fattorie ed ostelli (che altro non sono che meravigliose fattorie) danno ospitalità in luoghi dove il tempo lo misuri col sudore della terra perché le dinamiche della luce e del clima sono inconcepibili come lo stress metropolitano. Vivere qui, chissà… Tanto dolci sono le rene ed i pendii quanto orridi e inospitali appaiono i tentacoli del ghiacciaio che lambiscono la Ring Road. Se l’Italia ha un cuore verde, l’Umbria, l’Islanda ne ha uno delle stesse dimensioni e completamente bianco: è il Vatnajokull, la terza calotta glaciale del pianeta. Se pensate al mezzogiorno di un paese come alla zona più calda ed ospitale siete fuori strada come lo sareste in Argentina. I luoghi più pericolosi del paese sono qui: stretti tra oceano e lingue di ghiaccio, dove il cataclisma è sempre possibile ed inarrestabile, ma anche dove puoi veder pulsare la strana vita di un ghiacciaio fatta di piccoli rumorosi passi. Il ghiacciaio non è solo bianco orrore, è anche un mosaico fatto di icebergs dai colori bellissimi e dalle trasparenze inedite: nella laguna di Jokusarlon si scrivono continuamente pagine di bellezza che l’uomo può solo fissare su pellicola o carta. Che è poi l’unica azione possibile (la contemplazione è azione o sentimento?) davanti a Svartifoss: la ninfa che la accudisce è tra le più fortunate, potendo godere in eterno di questa cascata ammantata di perfetti esagoni di basalto che ne esaltano il canto e la luce. Skaftafell, che la ospita, è il più bel parco del paese perché ha trovato l’equilibrio tra fruibilità e contaminazione: luogo perfetto per confrontarsi con la natura, conoscerla, amarla e temerla. Temerla. Qui più che altrove, qui dove dominano i sandur, distese di sabbia spoglie e secche come un grido: JOKULHLAUP! Una parola che si presta solo ad essere gridata con forza e violenza: le stesse caratteristiche della colossale inondazione che descrive. La commistione di terra, acqua e fuoco non crea solo bellezza: spesso porta tragedie che gli uomini hanno imparato a sfuggire, evitando di costruire qui dove si riversano le furiose acque dei ghiacciai sciolti da eruzioni sub-glaciali. Se nel museo dei ghiacciai di Hofn sembrano cinema le riprese dell’eruzione del 1996 del Grimsvotn, vederne gli effetti su travi contorte, lasciate a futura memoria vicino alla Ring Road, comporta rispetto e timore. Passare di qui è sempre giocare con la fortuna. Fortuna che bacia altre ninfe, quelle che presidiano i faraglioni di Vik ed il suo incredibile organo di basalto che suona da millenni sinfonie di risacca, accompagnato dai canti dei gabbiani e delle pulcinelle di mare che dallo scosceso promontorio spiccano il volo. Alle spalle di questo mare il Vatnajokull è finito da un pezzo, ma altri ghiacciai fanno capolino dalle montagne che costeggiano l’oceano: il Myrdalsjokull e l’Eyjafjallajokull sono meno sfrontati del loro fratello maggiore, ma fanno comunque una certa impressione. Un buon modo per ammirarli sarebbe un bel trek che parte da Thorsmork arrivando fino alla cascata di Skogar, ma il tempo infame che spesso accompagna il viaggiatore per giorni impedisce di affrontarlo senza buscarsi una polmonite, a meno di non essere esperti ed attrezzati trekkers, ruolo a cui questi paesaggi tentano… La cascata di Skogar la si vede comunque perché è sulla Ring Road, ma è arduo trovarci niente più che un alto e grosso muro d’acqua buono solo a zupparti. Tutt’altro effetto fanno le grotte di Raufarholshellir, dove oltre la suggestione poco si può vedere a meno di possedere torce potenti ed un buon feeling con gli antri: poco frequentate e pericolose per via di massi che minacciano dal soffitto come dal pavimento iniziano con una spettacolare serie di oblò che precipitano la luce, per poi addentrarsi nel ventre della terra. Fa un certo effetto pensare che pur essendo un luogo turistico non ci sia niente e nessuno a sorvegliare: perdersi qua dentro è facilissimo e mai si saprebbe. A pensarci bene è cosa comune in Islanda e nasce da una riflessione che in molti fanno appena presa confidenza col paese: con un territorio grande un terzo dell’Italia e solo 300.000 abitanti, in massima parte concentrati a Reykjavik, non si riesce a capire come facciano a mandare avanti tutto. Hanno ristoranti e televisioni, alberghi e case editrici, compagnie aeree e centrali elettriche, artisti e distributori di idrogeno, compagnie di cellulari e la scena musicale più attiva del pianeta. Questo strano popolo che ha l’elenco telefonico ordinato per nome (di battesimo), che lavora solo dalle 10 alle 17, che il venerdì notte perde ogni inibizione, che la sera nei pub compone musica sui laptop, per niente riservato, spesso simpatico: ben lontano dal tipo immaginato da Leopardi nelle Operette morali che fuggiva la natura, gli uomini e gli oggetti ed i piaceri. Forse farà la sua stessa fine, ma intanto vive in uno dei posti più belli del mondo godendosi con pienezza la vita in armonia con la Natura.