Venezuela, il mondo perduto
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Contattiamo via mail una agenzia di Ciudad Bolivar che si offre di realizzare il viaggio che avevamo studiato e programmato. Definiamo con Cosimo i dettagli del viaggio e concordiamo con lui di partire dall’Italia il 13 gennaio con rientro il 28 gennaio 2012. Da quel momento contiamo i giorni che ci separano dalla partenza e dedichiamo molte cene per organizzare e parlare del viaggio, siamo tutti e tre euforici. Finalmente arriva la fatidica data. Poichè noi tre abitiamo in una cittadina del centro orientale della Sardegna, affrontiamo un viaggio nel viaggio per poter prendere l’aereo che da Roma ci porta a Caracas. La sveglia è alle 3 del mattino, si parte alle 3,30 per prendere in tempo il volo Cagliari-Roma delle 6,30. Alle 9,20 partiamo da Roma e dopo 11 ore circa di volo arriviamo a Caracas alle 14,40. Dall’aeroporto internazionale ci rechiamo a quello nazionale e alle 18,40 partiamo per Ciudad Bolivar. Cosimo è puntualissimo. Durante la cena ci esprime la sua meraviglia per la scelta di Kavac, non essendo molto visitata dai turisti (ma noi siamo viaggiatori!!), e ci conferma la bellezza del posto. L’indomani mattina presto partiamo con una Toyota Land Cruiser 4X4 alla volta della Gran Sabana. Percorriamo 1.400, km attraverso paesaggi mozzafiato nel territorio degli indios “Pemon”. La gran sabana è un susseguirsi di fiumi e cascate che solcano le verdi colline. Ad ogni cascata chiediamo al nostro Jonas di fermarsi, così da poter sentire il fresco dell’acqua, a volte chiara ed a volte “nigra”, ricca di tannino. L’effetto dell’acqua nigra sul nostro corpo è straordinario. Dopo tre giorni intensi e bellissimi ci dirigiamo verso la cascata Cinak meru. Dopo alcune ore di auto e due ore di barca e circa un’ora di cammino arriviamo alla cascata. Il posto è magnifico, solo alcune capanne di indios e natura incontaminata. Utilizziamo un sentiero che ci porta ai pedi della cascata, ci accompagna un giovanissimo indio che parla un po’ di spagnolo. Dopo poco meno di un’ora arriviamo ai piedi della cascata. Il vento, dovuto alla forza dell’acqua, è sostenuto e ci lancia addosso milioni di goccioline, dobbiamo riparare l’attrezzatura cinefotografica, ma è sufficiente spostarsi di 40 metri per potere filmare e fotografare la meraviglia che ci si para davanti. Dopo meno di mezzora, la “guida” ci fa cenno di andare verso un’altra cascata, indicandoci con il dito la direzione, mentre lui si dirige verso 3 elicotteri che stanno atterrando per girare alcune scene di un documentario. Dopo 15 minuti scorgiamo la cascata denominata “pozo escondido”. La cascata non è molto alta al massimo 15 metri ma la scenografia è unica. Tutto intorno a noi pareti ricoperte di vegetazione a formare un anfiteatro naturale, la piccola laguna è fantastica e invoglia un rinfrescante bagno. Nuotiamo fin sotto la cascata e ci facciamo massaggiare da essa. Abbiamo la sensazione di vivere in un altro tempo, quando la natura era ovunque incontaminata. Dopo circa un’ora torniamo alla barca e poi arriviamo all’ultimo accampamento a S.E di Uairén, non proprio un accampamento, piuttosto un lodge. Da qui facciamo un capatina in Brasile, poiché il confine dista pochi km. Affrontiamo quindi il viaggio di rientro e dopo circa 8 ore di auto ritorniamo a Ciudad Bolivar. Dopo una notte trascorsa nella città partiamo con un piccolo cessna 4 posti (compreso il pilota) alla volta di Kavac. Dopo circa 1 ora e 45 minuti di volo atterriamo in una striscia di terra. Già dall’aereo ci rendiamo conto del paradiso che ci attende. Siamo ai piedi dei poderosi contrafforti dell’Auyantepuy, dalla parte opposta rispetto al Salto Angel. Ci vengono incontro Ortensia e Aleandro, indios Camarakotos. Siamo gli unici ospiti. Ci sistemiamo nelle capanne e scorgiamo il fiume a 20 metri da noi, quindi ci precipitiamo per rinfrescarci prima di pranzo. Vediamo una piscina naturale magnifica e ci immergiamo felici. Ma la meraviglia deve ancora arrivare. A pranzo Aleandro ci dice se siamo pronti per vedere Kavac già dal pomeriggio. Ovviamente la risposta è positiva. Ci incamminiamo subito dopo pranzo e percorriamo in leggera salita alcuni km di strada. Ci fermiamo e ammiriamo dall’alto il nostro piccolo accampamento. La natura è dolce, oltre il nostro accampamento si vede la grande pianura verde circondata dalle montagne, la scena che ammiriamo è degna del film Jurassic park. Dopo aver trascorso circa un’ora di cammino arriviamo al fiume. Mettiamo la macchina fotografica di Mario e la mia cinepresa in una sacca impermeabile portata da Aleandro. Dopo esserci tolti i vestiti attraversiamo aiutandoci con una corda, a causa della discreta corrente. Percorriamo altri venti metri e ci attende un nuovo guado, da qui scorgiamo le pareti di Kavac. Siamo ai piedi di una profonda spaccatura della roccia alta circa 60 metri, le pareti distano circa due metri, guardiamo in alto e scorgiamo il cielo azzurro tra la spaccatura. Ci immergiamo nuovamente in mezzo alle pareti di roccia e con l’aiuto di una corda percorriamo circa 70 metri controcorrente. L’acqua è nera per la profondità e per il tannino, il nostro corpo immerso non si vede, la sensazione è bellissima, nuotiamo e guardiamo verso l’alto la striscia di cielo al termine delle alte pareti, ricoperte, a tratti, dalla vegetazione. Al termine del budello scorgiamo la cascata in tutta la sua magnificenza. Anche qui un anfiteatro naturale ma totalmente chiuso solo in alto… un buco da cui scorgiamo il cielo, la cascata è spettacolare il vento ci trasmette una sensazione di freddo sulla pelle bagnata, ma è emozionante, siamo davvero nel “Mondo perduto”. Il posto è talmente bello e incontaminato che sembra di vivere nell’era dei dinosauri. Nella zona, circa 20.000 kmq vivono poco più di 4 mila indios, erano 400 nel 1940. Precisamente 78 erano i capofamiglia (ricerca effettuata sul finire degli anni 40’ da un antropologo).
Il luogo più bello
Il giorno seguente iniziamo un’altra escursione più impegnativa saliamo per circa tre ore su di una collina, ogni tanto ci giriamo perché il paesaggio ci lascia senza fiato ( non la salita….). Scorgiamo ancora le nostre capanne circolari con i tetti di foglie di palma e poi il fiume, la pianura e le montagne, è il posto più bello e dolce mai visto. I Kamarakotos sono davvero fortunati e se ne rendono perfettamente conto. Arriviamo finalmente alla cascata, ma prima scorgiamo alcune piccole piscine naturali scavate nella roccia, alcune di acqua chiara (sorgiva) e altre di acqua nigra, provenienti dal fiume. Ci immergiamo in ciascuna. Anche questa cascata è spettacolare, la possiamo ammirare solo dall’alto, ma è bellissimo. Possiamo anche fare un scivolo di circa 15 metri che termina a un metro dalla cascata. Patrizia ed io ci asteniamo per paura l’uno dell’altro. Mario e Aleandro provano il brivido. La sensazione di vederli così vicini al precipizio è forte, ma Aleandro ci fa vedere che poco prima del salto l’acqua fa un vortice per la presenza di uno scalino, per cui il rischio di precipitare è pressoché nullo. Rientriamo al campo per il pranzo e dopo aver oziato per circa 1 ora ci viene di nuovo voglia di camminare. Ci dirigiamo verso il Villaggio di Santa Marta che dista circa un’ora e un quarto, si unisce a noi tre anche Aleandro. Trecento persone vivono in territorio molto ampio, al centro una piccola scuola e una piccola chiesa, con un campetto da calcio e uno da pallavolo, tracciati con un bastone che ha solcato la terra. Siamo fortunati, poiché al nostro arrivo i bambini, di circa dieci anni, stanno uscendo da scuola. Li vediamo montare una sorta di rete da pallavolo, allora non perdiamo tempo e sfidiamo loro e il maestro Cesar, un ragazzo di poco più di venti anni figlio di maestri. La partita è entusiasmante e ripresa da una ragazzina a cui ho affidato la cinepresa. Rientriamo al buio al nostro accampamento, guadando l’immancabile e largo fiume. È bellissimo guadare un fiume all’imbrunire con i vestiti in mano e le scarpe a tracolla, mentre si sentono gli animali della foresta muoversi intorno a noi. Migliaia di lucciole e un uno spicchio di luna ci guidano verso il campo. Siamo soli perché Aleandro ha dovuto espletare un bisogno fisiologico. Soli in mezzo al nulla nel buio e a circa un’ora dal campo. Non possiamo perderci perché due solchi di terra collegano Santa Marta al campo. Forse una delle esperienze più belle della nostra vita, si perde la cognizione del tempo e dello spazio. Quelle lucciole poi….. Ortensia sentendo le nostre voci a distanza ci viene incontro preoccupata con una torcia, vista l’ora, ma sentendoci e vedendoci così sereni sorride. La cena è buonissima, riso, purè di patate e carne di vacca. Andiamo a letto con la consapevolezza che l’indomani dobbiamo andare via da quell’Eden. Infatti, l’indomani dopo un lungo bagno al fiume sentiamo il nostro piccolo cessna che ci viene a riprendere. Siamo felici per aver visto un simile posto e la contentezza supera la tristezza per la partenza.
Il volo di rientro è spettacolare, il pilota si avvicina alle pareti dei Tepuy da dove scorgiamo una infinità di piccole e grandi cascate, le pareti sono ricoperte da fitta vegetazione e scorgiamo un volo di Ara Macao.
Poi la foresta lascia il posto alla savana e la savana al lago e arriviamo a Ciudad Bolivar. Cosimo, puntuale al nostro arrivo. Alle 13,00 con la solita Toyota e, questa volta, con Jonny lasciamo Ciudad Bolivar alla volta del delta dell’Orinoco circa 6 ore di auto. Prima ci fermiamo in un supermercato e compriamo pane, companatico e nel chiosco di fronte l’immancabile frutta (ananas, lecciosa e banane). Arriviamo al ranch S. Andrea alle 19,00 circa. Si tratta di un ranch di 1.000 ettari appartenente ad un francese che ha realizzato una ventina di camere per gli ospiti e una graziosa struttura centrale. Peccato per il personale scadente e per gli animali in gabbia (Pitone, anaconda, scimmie e pappagalli). Dovrebbero saperlo che il viaggiatore li vuole vedere solo in libertà. Anche in questo ranch siamo solo noi tre e Jonny. L’indomani partiamo di buon mattino verso un piccolo porticciolo che raggiungiamo dopo circa due ore di auto. Dopo pochi minuti scorgiamo una piccola lancia che ci viene a prendere e con il “comandante” ci inoltriamo tra i dedali del delta dell’Orinoco. La superficie del delta è di circa 25.000 Kmq e vi abitano gli Indios Warao. Arriviamo con la lancia nei pressi di un eco-lodge, utilizzato in quel periodo da ragazzi europei facenti parte di un programma teso alla piantumazione di piante da frutto. Da qui prendiamo una piccola curiara condotta con un remo da un indios. L’esperienza è superlativa. Nel massimo silenzio sentiamo le scimmie urlatrici e il verso di molti animali. I canali si fanno sempre più stretti e sembra che la vegetazione ti abbracci. All’improvviso un acquazzone ci investe e bagnati come pulcini, ma fatta salva l’attrezzatura, rientriamo alla struttura in legno. Si tratta di una piattaforma rialzata sull’acqua, posta all’incrocio di due canali, parzialmente coperta e con delle amache e alcuni divanetti. Da qui si può spaziare per circa 50-60 metri, oltre vegetazione inebriante. È bellissimo vedere e sentire la pioggia battente sull’acqua e sulle piante. Terminata la pioggia ci infiliamo degli alti stivali (quelli di Patrizia un po’ meno) e riprendiamo la lancia che dopo pochi minuti di navigazione si ferma e con il “comandante” ci addentriamo nella foresta. La più inospitale mai incontrata, eppure siamo stati nelle rain forest del Gabon e della Guyana Inglese e di altre rain forest del Venezuela. Le zanzare sono a migliaia sulle poche zone scoperte del nostro corpo, entrano nelle orecchie e perfino sotto gli indumenti, il fango a tratti è profondo 40-50 cm., Patrizia sprofonda bel oltre gli stivali. Dopo poco più di 15 minuti e dopo aver bevuto dalle liane e dalle noci tagliate con il machete, chiediamo di tornare indietro. Prima volta nella nostra storia di viaggiatori. Torniamo alla struttura in legno e mangiamo. Dopo poco facciamo rientro al ranch dove arriviamo giusto in tempo per una escursione a cavallo al tramonto. Cena e dormita fino all’indomani. La mattina presto Jonny ci accompagna all’aeroporto di Maturin. Da qui prendiamo un aereo che ci porta a Caracas e dopo circa due ore di attesa da Caracas prendiamo il volo per Porto Ayacucho nello stato dell’Amazzonas. All’aeroporto viene a prenderci Mario, il gestore di un graziosissimo lodge posizionato strategicamente su di un ansa molto larga dell’Orinoco, di fronte a noi si vede una piccolissima isoletta ricoperta di vegetazione che alla fine della stagione si può raggiungere anche a piedi. La vista è stupenda, dall’altra parte del fiume largo circa 500 metri, si trova la sponda Colombiana. La natura è molto particolare il paesaggio è formato da verdissime pianure costellate di collinette che formano delle gobbe alte anche 200 metri. Sono di origine granitica ma i batteri di cui sono ricoperte le rendono di colore nero. Quindi in mezzo al verde della pianura si ergono numerose gobbe nere. Saliamo con i due Mario (il gestore del lodge e il nostro) su una di queste, chiamata la testa della tartaruga. La salita è molto impegnativa poiché è ripidissima e si deve affrontare con una tecnica ben precisa che ci spiega Mario. Saliti in cima godiamo di una vista a 360 gradi superlativa, con l’Orinoco proprio sotto di noi e la savana verdissima con le gobbe nere disseminate qua e la. In questo territorio la foresta è chiamata di “Galeria”, poiché segue il corso dei fiumi e non si distacca da essi se non per alcuni metri, proprio a formare una galleria di alberi in mezzo alla savana. Vediamo, in una pozza d’acqua, migliaia di pesciolini, che io riconosco subito perché sono un acquariofilo, sono scalari, pesci neon, cardinali e altri ancora che non distinguo. Trascorriamo tre bellissime giornate con Mario facendo varie escursioni nei dintorni.
Terzo giorno
La mattina del terzo giorno prendiamo il volo per Caracas e dopo alcune ore di attesa in aeroporto prendiamo il volo che ci porta a Barinas e da qui con un furgone proseguiamo per gli Llanos, zona formata da pianure alluvionali. Ci colpisce da subito il numero di caimani e capibara che ci attraversano la strada. Alloggiamo in un struttura al centro di un proprietà di 53.000 ettari dove arriviamo la notte. La mattina partiamo per la prima escursione su di un camion adattato. Il numero di animali è impressionante. Vediamo da subito centinaia di capibara, decine e decine di caimani, tartarughe e cervi. Scorgiamo una anaconda con la testa mozzata, probabilmente da un caimano. Il numero degli uccelli è impressionante, sono molte migliaia. Ibis neri, bianchi e rossi, oche, cicogne, e tanti altri uccelli di palude. Trascorriamo la mattina in camion e il pomeriggio in barca attraverso i molti canali ricoperti di fitta e alta vegetazione, intorno a noi sugli alberi scorgiamo aquile e falchi intenti a “pescare”. I caimani si avvicinano curiosi alla piccola imbarcazione a motore che ci ospita. Negli Llanos ci facciamo una idea di quanti animali popolavano anche il nostro continente alcune centinaia di anni fa e come dovrebbe essere la natura nel mondo. L’indomani decidiamo di trascorrere a cavallo la giornata. Alle 8 sellati i cavalli iniziamo l’escursione, in mezzo alle miriadi di animali che si fanno insolitamente avvicinare. Guadiamo un fiume e improvvisamente a circa due metri da Jesu, il nostro llaneros, vediamo saltare fuori dall’acqua un delfino d’acqua dolce, chiamati in Venezuela “tonina”. Passeggiamo a cavallo per circa 3 ore in questa magnificenza fino a quando non troviamo la strada percorsa in camion il giorno prima. Finalmente possiamo mandare i nostri cavalli al galoppo. Anche Mario, che non ha mai montato un cavallo in vita sua, preso dall’euforia, lascia le redini e inizia il suo primo galoppo. In venti minuti rientriamo al lodge, giusto per il pranzo. Il pomeriggio ripetiamo l’esperienza e riusciamo ad osservare i delfini nelle loro evoluzioni acrobatiche. Il tramonto nei Llanos a cavallo è sublime e si sprecano le fotografie ad effetto. Siamo davvero felici di essere in quel posto con tutti gli animali intorno a noi, e noi sopra dei bellissimi cavalli criolli, la mente è serena riusciamo a non pensare a nulla, non sappiamo chi siamo, da dove veniamo e cosa facciamo per vivere nel nostro paese. Rientriamo al galoppo all’imbrunire e togliamo le selle ai cavalli al buio. La cena ci serve per rifocillarci ma soprattutto per raccontarci l’esperienza vissuta. Anche in questo caso siamo al contempo euforici per quello che abbiamo visto e tristi perché consapevoli che luoghi così belli sono davvero pochi nel mondo. Noi, che pure abitiamo in una zona della Sardegna tra le più belle e selvagge, posti simili possiamo vederli solo affrontando lunghi e faticosi viaggi, poiché nella nostra regione gli animali sono quasi scomparsi. Andiamo a letto con la consapevolezza che l’indomani si dovrà affrontare il lungo viaggio di rientro che, dopo circa 30 ore ci porterà a casa.