Vacanze a zanzibar…benvenuti in paradiso
All’esterno, altri volontari in cerca di qualche dollaro o spicciolo di euro, si sono prodigati a caricare le valige sul pulmino che ci attendeva, circondato da venditori di anacardi.
Eddy, una volta concluse le operazioni di carico, in perfetto accento romanesco ci ha detto che potevamo partire in direzione del Blu Marlin Village, dove saremmo giunti circa 40 minuti dopo, una volta attraversata l’isola da ovest in direzione est.
Il tragitto è piacevole soprattutto perché si prende contatto con il posto che è veramente notevole dal punto di vista paesaggistico, con gente affaccendata in tutto e nulla, bambini e animali che giocano e scorrazzano ai bordi della strada incuranti del passaggio delle auto, vicini a case di terra e fango con tetti fatti con le foglie di palma.
Il Blu Marlin Village è situato all’inizio della spiaggia di Kiwengwa, 12km. Di sabbia bianchissima affacciata sull’oceano Indiano; alle spalle dell’hotel, un villaggio di pescatori di circa un migliaio di abitanti, fa da corona alla spiaggia, con tanto di moschea, negozietto locale di generi alimentari e pozzo per l’acqua. Alcune abitazioni, ma sono davvero poche, sono dotate di energia elettrica, mentre la maggior parte dopo il tramonto si attrezza con piccoli lumi a petrolio.
Antonio, per tutti Tony, è il proprietario del Blu Marlin: ci riceve porgendoci un cocktail fatto con mango, ananas e rum, mentre Hatibu ci assegna le camere, che sono tutte e 8 a tema, ispirate agli animali: scimmia, giraffa, tartaruga, elefante, rinoceronte, ippopotamo, delfino, coccodrillo.
A me e Luisa tocca l’ippopotamo, al piano terreno, con tanto di affresco su una parete a rappresentare ippopotami al bagno, mentre Gianni e Marina salgono al piano superiore nella camera rinoceronte.
La piscina si trova al centro del piccolo complesso, sulla quale si affacciano tutte le camere, separata dalla spiaggia grazie ad una semplice recinzione in legno; a fianco della piscina si trova una salotto coperto, l’angolo bar di Iuma e la sala ristorante, regno del simpaticissimo Said, di Nofisa e Marta, che si affaccia direttamente sulla sabbia bianchissima della spiaggia adiacente.
Un piccolo paradiso, semplice ma accogliente, all’interno del quale operano una serie di ragazzi del posto, che parlano discretamente l’italiano e sono sempre disponibili per ogni piccola cosa, dalla raccolta del cocco da consumare al momento per la quale Ame è sempre pronto, alla passeggiata nel villaggio per guidati da Hatibu in mezzo ai bimbi che ancora giocano con aquiloni di carta e rincorrono copertoni di bicicletta.
In cucina Charles è il boss dei fornelli con piatti quasi esclusivamente italiani, ma anche con Barracuda, Marlin ed altri, pescati direttamente da Elio, figlio di Tony, molto abile nella pesca.
Due masai dall’aria pacifica sono addetti alla sorveglianza 24 ore al giorno, vestiti con i tipici abiti della tradizione, grandi fori alle orecchie, calzari tipici e fasce ad avvolgere polsi e caviglie, armati di bastone in legno di mango lungo quasi un metro e mezzo e coltello affilatissimo.
Sulla spiaggia sono appoggiate le barche dei pescatori, anch’esse in legno di mango strette ed affusolate con i caratteristici contrappesi laterali; alcune possono montare una vela.
Con il fenomeno delle maree, molto evidente a seconda della fase lunare, le barche che galleggiano si trovano dopo poche ore in secca totale.
Da queste parti la marea ha un dislivello complessivo anche di 4 metri ed in effetti, quando le acque si ritirano, per riuscire a bagnarsi i piedi occorre camminare anche per 500 metri in direzione della barriera corallina.
Nei momenti in cui la marea è bassa emergono le coltivazioni di alghe che le donne del villaggio vicino accudiscono per ore con estrema cura ed attenzione, in attesa del momento in cui saranno pronte per essere prelevate dalla piantagione e messe ad essiccare al sole prima di essere inviate in un centro di raccolta e spedizione per la Cina, dove vengono utilizzate per la produzione di creme e balsami per i trattamenti estetici.
La passeggiata lungo la spiaggia ci permette di vedere piccoli granchi che entrano ed escono dalla sabbia in pochi istanti formando fori perfettamente circolari che ricamano la sabbia un ovunque.
Avvicinandosi ai villaggi turistici di grandi dimensioni ecco apparire piccole bottegucce gestite da giovani masai e da ragazzi del posto con richiami ed insegne assolutamente improvvisati ed in italiano, dai nomi più disparati, da “Barcollo ma non mollo” a “Ipercoop”, da “Esselunga” a “Mercatone Uno”.
Non insistono eccessivamente e dicendo loro che saremmo tornati in settimana a dare un’occhiata alle collanine, ai quadri ed alle maschere in legno, si limitano a chiederti il nome dicendoti di ricordare il loro, che quasi sempre è legato a personaggi biblici, come Lazzaro, Zaccaria, Geremia o Samuele.
Proprio l’arrivo all’hotel di alcuni masai ha battezzato la prima serata dove si è ritornati ad apprezzare il valore delle parole, della conversazione, senza orologi al polso, senza radio né televisione; neppure un giornale.
I masai ci hanno chiesto notizie sull’immigrazione in Italia, sul freddo che li terrorizzava letteralmente e la verità sui maltrattamenti alla gente di colore, di cui anche dalle loro parti sin sente parlare.
La visita di Stone Town, la capitale, è stata tutto sommato deludente, la città di pietra pare piuttosto decrepita e malconcia.
Si salvano pochi palazzi storici e quelli di matrice araba, ma il percorso più interessante è quello del mercato dove si vede di tutto, dalla carne esposta a 35° all’ombra, al pesce adagiato sull’asfalto e letteralmente segato in porzioni da vendere.
Bellissima la frutta e svariati i tipi di banane tra le quali una varietà di una lunghezza smisurata.
D’obbligo la visita alla prigione degli schiavi dove un monumento decisamente inquietante rappresenta la sofferenza di quei poveretti.
Nota curiosa nella chiesa cristiana che sorge nei pressi: l’inesperienza di chi l’ha costruita ha fatto sì che le colonne poggino sui capitelli, mentre il basamento lo si trova al soffitto.
Decisamente interessante la visita a Prison Island, l’isola prigione degli schiavi, raggiungibile in pochi minuti con partenza dal porto di Stone Town.
Con noi viene caricata una cassa di frutta e bibite fresche da consumare sull’isola, che si staglia davanti a noi con alberi giganteschi e lingue di sabbia bianchissima.
Dopo una breve sosta per consumare la cassa di viveri di fronte ad un vero paradiso fatto di acque cristalline, decidiamo di fare il bagno e non si fa a tempo a mettere piede in acqua che l’incontro con una fantastica stella marina verde – azzurra ci fa capire in quale mondo siamo finiti.
L’acqua è calda e trasparente, mentre il bianco della sabbia diventa accecante quando il sole decide di uscire da quelle poche nuvole che tentavano di farsi avanti.
Il mio amico Dario arriva con altre stelle marine, gialle, azzurre, ocra: insomma, alla fine lo fotografiamo con una decina di stelle attaccate al corpo come se fossero calamite.
Usciti a malincuore da quel sogno, Eddy ci accompagna all’interno della piccole isoletta e ci addentriamo dove un tempo sorgeva la prigione degli schiavi : qui venivano reclusi in attesa di essere venduti. Ora al suo posto è nato un albergo dall’aspetto piuttosto cupo.
Nel parco di piante secolari sorge anche un ristorante dai prezzi piuttosto “italiani”, mentre poco distante ecco il parco delle tartarughe giganti.
Sono oltre una trentina e vi sono esemplari che superano i 190 anni, accuditi da un ometto il cui compito, tramandato da padre a figlio, è anche quello di controllare proprio l’età degli animali, voracissimi di spinaci.
Lasciare l’isoletta immersa in quelle acque paradisiache lascia l’amaro in bocca, ma il solo guardare l’orizzonte luminoso, dai colori accesi e così nitidi è sufficiente a far tornare il buon umore.
Il tour delle spezie ha la capacità di catturare l’attenzione anche dei più distratti grazie alla sapiente regìa dei ragazzini davvero bravi a spiegare tutto in perfetto italiano ed al paesaggio di inconsueta bellezza, immerso in un silenzio rotto sotto dal cinguettare degli uccelli.
La visita alle piantagioni di coriandolo, cardamomo, citronella, cannella, noce moscata e tante altre, costituiscono una vera scoperta, sino all’albero del “gianduiotto”, come i ragazzi hanno chiamato la pianta del cacao.
Alla fine, acquistate poche spezie, lasciamo i ragazzi (Rino è simpaticissimo) che ci offrono vere e proprie piccole opere d’arte fatte con le foglie di palma e di banano, cappelli, collane, cravatte, bracciali ed anelli. Incredibile… Visto che alla fine il mondo è piccolo, siamo riusciti, per puro caso, a trovare un vecchio amico cuoco che da alcuni anni era scomparso dalla nostra città: ora è qui a Zanzibar, capo chef del lussuoso hotel Blu Bay (ci ha alloggiato Bill Gates), felicemente sposato e pure papà. Carramba….Che sorpresa!!!!!! Ricordando di aver portato penne, matite, quaderni, piccoli giocattoli ed altre cosucce, decidiamo di far visita al villaggio che si trova alle spalle dell’hotel.
Dopo pochi metri veniamo presi d’assalto dai bambini che fanno gara per aggiudicarsi i nostri semplici doni, mentre Hatibu acquista dal negozietto alcuni biscotti (che non osiamo assaggiare) da offrire un po’ a tutti.
Alla fine Luisa riesce a fare una foto degna di un calendario, seduta su un muretto vicino all’unica casa tinteggiata (forse l’asilo) in azzurro, attorniata da una miriade di bimbi dai sorrisi immacolati.
La notte è sempre fantastica, con stelle enormi che sembrano lampadine accese nel cielo terso che non conosce tracce di smog.
Dal lettino piazzato sulla spiaggia all’ombra delle palme è facile rimanere per lungo tempo incantati a seguire il lento e regolare fenomeno delle maree, ascoltare i bimbi del vicino villaggio cantare nenie dolci ed incomprensibili, seguirne con lo sguardo alcuni che si divertono con aquiloni ormai logori ma sempre in grado di solcare il cielo, seguire i sapienti movimenti del pescatore che riassetta la propria barca bruciando le incrostazioni di alghe formatesi sulla parte esterna del fondo.
Più in là le donne masai inanellano collanine e braccialetti, mentre i “guerrieri” improvvisano una danza rituale con ritmi uditi solo nei documentari di National Geografic.
La barriera corallina dista forse meno di 3 km. Ed, in un momento in cui la marea era particolarmente bassa, decidiamo di farci accompagnare.
Capitan Uncino ci guida in acque cristalline che prima diventano più profonde, ma mai oltre i 2 metri, e poi tornano a farsi più basse, sino a quando la barca non riesce a proseguire.
Dario si era tuffato da tempo ed aveva raccolto una decina di stelle marine coloratissime, ma lo spettacolo della barriera è stato davvero da mozzare il fiato.
Da una parte la lontana lingua di sabbia bianca da dove eravamo partiti, dall’altra le onde dell’oceano indiano che si infrangevano, a pochi metri, contro la barriera; noi, con l’acqua all’altezza delle caviglie, a guardare conchiglie, stelle marine rosso fuoco ed altre meravigliose e sconosciute (almeno per noi) specie marine.
L’escursione all’estremo sud dell’isola per assistere allo spettacolo offerto dai delfini nella baia è stato molto bello.
Un nastro di asfalto praticamente nuovo ha reso in buone condizioni la strada che conduce verso sud, dove ancora non è evidente la presenza del turismo.
Una barca ci attende in una baia stupenda, di quelle che si vedono in foto sugli schermi del computer.
Altre barche sembrano sospese nel vuoto tanto l’acqua è trasparente: dopo mezzora di navigazione, con il vento che si alza impetuoso e le onde che si fanno minacciose riusciamo ad avvistare i delfini che, a coppia od anche in trio, escono dall’acqua e rientrano con movenze da ballerini.
Compaiono prima a destra della barca e giocano come bambini, poi scompaiono per ritrovarli improvvisamente sul lato opposto a riprendere la danza.
Sullo sfondo un volto inedito di Zanzibar, dove si allunga una costa fatta di pareti quasi verticali che si alternano a suggestive baie.
Al ritorno sulla spiaggia, dopo un bagno indimenticabile, un gruppetto di bambini ci attende nella speranza di ottenere qualche spicciolo o una caramella: attesa premiata perché come sempre qualcosa abbiamo portato con noi ed i bimbi ne sono felici.
Durante il viaggio di ritorno attraversiamo la foresta dove vivono le scimmie Red Columbus, specie endemica di Zanzibar, affettuose e giocherellone con chiunque.
Un singolare cartello stradale mette in guardia gli automobilisti dalle scimmie che potrebbero attraversare senza alcun preavviso.
La serata con la cucina zanzibarina è piacevole e ricca di piatti e prodotti che abbiamo mangiato senza sapere esattamente di cosa si trattasse, apprezzandoli con ripetuti assaggi.
È poi giunto il momento delle foto di gruppo aggrappati alle palme, alle ultime magliette lasciate a bambini e ragazzi,ai baci e alle strette di mano, ad una indimenticabile passeggiata notturna sulla spiaggia illuminata dalla luna.
Poi, la sveglia del mattino quando alle 5 cerchiamo di fare meno rumore possibile per non svegliare nessuno, ma ci troviamo Hatibu che ci mette le braccia al collo e ci saluta commosso.
La ciliegina sulla torta, giusto per svegliarci ancora meglio è quella di spingere il pulmino che non ne vuol sapere di mettersi in moto: forse un segnale premonitore.
Ritroviamo i venditori di anacardi all’aeroporto, i cacciatori di mance (guardie comprese) e poi, l’inesorabile check-in dell’addio.
Anzi dell’arrivederci.
Renato, Luisa, Gianni e Marina di Tortona (AL)