Uzbekistan: cucina tipica

Lepjoshke e montoni Il barbaro destino umano è di aspettare con ansia quello che sta per arrivare, per poi lamentarsene appena giunge e passare al successivo step di attesa. Così questa gelida e piovigginosa mattinata rimanda ad una primavera ancora lontana, sognata come una panacea risolutrice. In un'altra primavera ancora da sbocciare, gli...
Scritto da: Enrico Bo
uzbekistan: cucina tipica
Viaggiatori: in coppia
Spesa: 1000 €
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Lepjoshke e montoni Il barbaro destino umano è di aspettare con ansia quello che sta per arrivare, per poi lamentarsene appena giunge e passare al successivo step di attesa. Così questa gelida e piovigginosa mattinata rimanda ad una primavera ancora lontana, sognata come una panacea risolutrice. In un’altra primavera ancora da sbocciare, gli spogli alberi di Taskent esitavano a spingere linfa nelle gemme ancora esili di un marzo fresco e polveroso. Bisognava festeggiare però; l’impianto appena inaugurato in un fatiscente edificio richiedeva una consacrazione trimalcionica. Il nostro anfitrione pensò di evitare il classico banchetto ufficiale nella sala dell’Hotel e ci propose un localino tipico dove assaporare la esoticità di un ambiente ed una cucina tipicamente uzbeka. Ecco dunque una corsa nella polverosa periferia sovietica (chissà perchè gli autisti dovevano sempre andare a tutta birra come se fossimo perennemente in ritardo?) per poi entrare nel cortile di una vecchia casa, circondato da un portico un po’ malandato. In parte orientale, in parte turchesco, in salsa sovietica, il banchetto uzbeko è intinto di tutte le caratteristiche dell’Asia centrale. Le insalate crude, soprattutto di cipolla e pomodoro ne sono base costante, ma il piatto forte, la vera rivelazione paradigmatica della gastronomia uzbeka, il costituente centrale che condiziona la festa, ciò per cui si sceglie un posto (come da noi il bollito alla piemontese o il bue grasso), è il plof. Il nome stesso è allusivo e onomatopeico e pareva che quello, fosse il luogo dove avremmo mangiato il miglior plof di tutto l’Uzbekistan. Al centro del cortile stava un grande calderone di ferro nero, simile alla pentolaccia in cui il druido mescola la pozione per Asterix e compagni. Qui, fin dal mattino viene prodotto un amalgama di verdure, abbondante cipolla, uva passa e parti grasse di montone in cui successivamente viene cotto il riso che si intride a poco a poco, assorbendo il grasso mentre le ossa rilasciano le loro collosità midollari. E’ un piatto unico dai sapori forti dove il peperoncino abbondante gioca un ulteriore parte di dueteragonista. Un punto essenziale nella riuscita di un buon plof sta nel fatto che il pentolone non deve essere mai lavato, ma i sapori di tutti gli storici plof che lo hanno preceduto, concorrono ad arricchire quello che viene portato in tavola. La quantità di residuati escrementizi di topo che circondava il focolare e la nuvola di mosche che avvolgeva tutto e tutti, facevano parte integrante dell’ambiente e del suo colore, un’area da cui sono nate tutte le grandi pestilenze del millennio scorso, inclusa la peste bubbonica di manzoniana memoria, tutt’ora giustamente endemica in quei luoghi, ma non sembrava preoccupare nessuno. L’occhio spento di Gianni mi guidò verso le tavole che rosseggiavano di pomodori cipollosi, ornate dalle ciambelle di lepjoshke, il caratteristico e fragrante pane uzbeko che veniva dal forno in fondo al cortile, proprio davanti alle latrine, su cui fitte schiere di mosche si organizzavano prima di lanciare le loro falangi all’attacco delle mense. Il succo di mela ed il thè irrorò l’intero banchetto fino all’apoteosi finale dei famosi meloni uzbeki, che come sottolineava Rustam sono i più dolci del mondo e che tentarono di ricoprire con un velo vegetale l’intero pasto, avvolgendolo in un sudario cauterizzante. Vodka, brindisi finali e pridladjenije sulla imperitura amicizia italo-uzbeka e tutti a casa. Il giorno dopo tutti sul water fino a sera, mentre un Gianni febbricitante ma non domo, tentava di raccogliere i cocci della spedizione; una prova dura, da cui uscimmo comunque tutti vivi e più forti, anche se, sul momento non pareva possibile. La guerra batteriologica è stata inventata qui.


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