USA WEST, le città e le rocce scolpite
Diamo i numeri: 4 stati attraversati: California, Nevada, Utah e Arizona 5.100 km percorsi, in media 400 al giorno 2 guide utilizzate: Lonely Planet e Routard 2.800 € circa spesi a testa 1.200 fotografie scattate 1 serio rischio di rimanere senza benzina in Arizona (il mattino fate sempre il pieno!) 1 solo menu standard disponibile: hamburger/sandwich-patatine-coca/sprite-gelato 30 pasti a chiedere “no ice” nelle bevande: in USA arrivano in automatico caraffe di ghiaccio con tracce di liquido Zero dollari spesi nei casino a Las Vegas (guinness dei primati?)
5/7/08 SABATO – IL VIAGGIO E’ notte fonda quando ci alziamo, avremo dormito sì e no tre ore e, quando la sveglia suona, dentro ci si domanda se vogliamo proprio andare là dove da qualche mese abbiamo deciso di trascorrere i nostri consueti 15 giorni di “viaggio fai da te”. Per fortuna siamo in due, uno spinge l’altro e così eccoci davanti al cancello ad attendere Giovanni e partire alla volta di Brescia per recuperare Valeria. La strada per Malpensa (non siamo riusciti ad evitare di partire da quell’aeroporto così antipatico per noi!) trascorre nel silenzio e solo arrivati là, siamo risvegliati dalla frenesia degli operatori del parcheggio, a cui lasceremo l’auto nelle due settimane che seguono.
Siamo in aeroporto prima delle 5 e sbrighiamo tutti i controlli e le pratiche. Il volo parte in orario e così sarà, per fortuna, anche nelle successive tappe di avvicinamento a san Francisco, Francoforte e Philadelphia.
Quest’ultimo cambio è il più lungo, i controlli sono seri e le domande incalzano, ci fotografano la retina e lasciamo le nostre impronte digitali: ora siamo “schedati”, possiamo entrare negli Stati Uniti d’America! Ma per arrivare a destinazione ci sono ancora diverse ore d’aereo e il fuso orario ci mette del suo: dormiamo profondamente! E’ sera quando atterriamo nella mitica San Francisco, metro leggero (la BART) per raggiungere Union street, dove siamo alloggiati (abbiamo prenotato dall’Italia giusto gli hotel delle tappe più significative: San Francisco, Las Vegas, il Grand Canyon e Los Angeles. Il resto si fa sul posto. Ottima soluzione, consigliabile a tutti) e ovviamente crollo verticale. Dormiamo, ma la vita sotto di noi scorre allegra; ogni tanto durante la notte sento rumori, voci di persone e bottiglie di vetro rotte in terra. San Francisco è una città vivissima.
6/7/08 DOMENICA – SAN FRANCISCO/PARTE I Apriamo gli occhi sulla città che non è tardi e facciamo colazione nello Starbucks vicino. Gli alberghi americani non includono la colazione e la “colonia” di Starbucks risulterà spesso, durante il nostro tour, una valida soluzione al problema: con 4-5 dollari a testa si può bere un abbondante caffè, the o cappuccino (bollentiiii) e mangiare golosi muffin o brioche al cioccolato. Eccoci San Francisco: siamo pronti per partire! E’ buona cosa, quando si visita una città, percorrerla soprattutto a piedi perché in questo modo si possono sentire suoni, rumori e anche odori, ma soprattutto si può guardare e sentire la sua gente, che ne costituisce l’anima. Con una buona cartina della città, ci muoviamo attraverso UNION SQUARE , MARKET STREET (da qui parte il pittoresco “cable car”, una valida alternativa per chi non ama camminare)e proseguiamo verso il quartiere di CHINATOWN. E’ molto grande, i negozi sono tanti, le facciate molto “china” e finalmente cominciamo a vedere le tipiche strade sali-scendi, quelle che ti vengono in mente se pensi a questa città. Guidati dalla nostra preziosissima “Routard”, fedele compagna di viaggio, sostiamo nella fabbrica dei biscotti della fortuna cinesi; il titolare è sorridente e ossequioso (i cinesi sono così), ce ne fa assaggiare uno e noi ne compriamo un bel sacchetto. Ci dirigiamo quindi verso PORTSMOUTH SQUARE , una sosta da non perdere. Qui tra palazzi altissimi, tra cui la famosa “piramide”, si apre una piazzetta dove i cinesi chiacchierano o giocano insieme a carte o a back gammon; è un angolo davvero insolito, non a caso detto il “salotto dei cinesi”.
I palazzoni davanti a noi costituiscono il confine con la parte “bianca” della città, NORTH BEACH, quartiere che attraversiamo, facendo una sosta alla celebre libreria “City lights”, quella della beat generation. Questo è infatti il quartiere che l’ha vista nascere e la sensazione è proprio di stare in un posto vivo..Da tanto. Attraversiamo il quartiere italiano (indovinate un po’? Ristoranti che offrono pasta e pizza) e ci portiamo in zona COIT TOWER, la torre voluta dalla munifica miliardaria che l’ha donata alla sua città. Salita a pagamento, ma che merita, perchè la vista sulla città e sulla baia è davvero bella. La parte dominante nel panorama la fa l’isola di Alcatraz (come non pensare ai film sul suo celebre carcere? Mette i brividi..), che ci limiteremo a vedere solo così, scegliendo di non andare a visitarla nemmeno il giorno successivo.
E’ ora di pranzo e abbiamo camminato tanto, la fame si fa sentire e così raggiungiamo il FISHERMAN’S WHARF , il porto di San Francisco, per mangiare un boccone. Siamo attirati dai tanto decantati sandwich di polpa di granchio, così prendiamo posto sulla terrazza di un ristorantino e, mentre aspettiamo che ce li servano, facciamo conversazione coi nostri vicini. Le persone da queste parti sono molto allegre e disponibili, californianamente aperte.
I sandwich meritavano davvero e adesso possiamo riprendere il nostro giro, rigorosamente a piedi. Per prima cosa “giroliamo” per il molo (il PIER 39), che è una specie di luna park molto americano, dove non mancano dolciumi di ogni dimensione e colore (l’importante è che siano dolcidolci) e tante famigliole che gironzolano oziosamente (è domenica!), osservando le varie attrattive, il mare e naturalmente i celebri leoni marini, che indolenti continuano il loro sonno incuranti degli sguardi incuriositi. L’aria continua ad essere fresca: San Francisco non è una città calda, anzi (occorre non dimenticare di mettere in valigia felpe e giacche antivento). Ci spostiamo verso la non lontana LOMBARD STREET, sulla collina di RUSSIAN HILL. E’ curiosa, perchè un’incessante processione di auto, regolate in alto dalla polizia locale, la percorre in discesa a getto continuo, ma a passo d’uomo, tra vasche di ortensie fiorite e colorate, che la rendono pittoresca e fotografatissima. Non ancora paghi da tanto camminare, ci avventuriamo per il quartiere di NOB HILL, del tutto residenziale, con eleganti case di legno dall’immancabile bowindow e alle finestre gli slogan di sostegno ad Obama (San Francisco ha un’interessante anima democratica). No, non stiamo gironzolando a vuoto, abbiamo una meta e che nessuno rida: stiamo cercando la casa in cui è stato girato il film “Mrs Doubtfire”, con R. Williams (l’America d’altronde è anche questo, sono anche i film che ce l’hanno resa nota). Una delle nostre guide ci fornisce l’indirizzo e noi, un passo dietro l’altro ( e posso garantire che i passi sono stati molti!), la raggiungiamo, la fotografiamo, ci riposiamo seduti lì davanti e poi ripartiamo alla volta dell’hotel. Sì, siamo stanchi, ma proprio soddisfatti della nostra domenica a San Francisco, che ha ragione chi sostiene che è “molte città in un’unica città”, perché i suoi volti sono davvero numerosi e non stancano mai (gambe a parte).
7/7’/’08 LUNEDI’ – SAN FRANCISCO/PARTE II Secondo e ultimo giorno a San Francisco. Gambe penzoloni sul cable car (mezzo curioso, trainato da cavi interrati) raggiungiamo di nuovo il FISHERMANS WARF e noleggiamo le biciclette. Illustriamo ai due ragazzi il percorso che abbiamo intenzione di fare e, mentre “strisciano” la nostra carta di credito, ci salutano con un ironico “see you tomorrow!”, ma in effetti gironzoleremo per tutto il giorno rispettando il nostro itinerario, e riconsegneremo le bici un’ora prima della chiusura. Il serpentone della pista ciclabile non ci abbandona mai, mettendoci al riparo dal traffico cittadino, intenso ma mai nevrotico. Certo ogni tanto c’è una salita (benedette bici con le marce!), ma si sa che a questa segue sempre la discesa e che è a perdifiato. Percorriamo la strada che costeggia il porto, il FINANCIAL DISTRICT, vediamo il San Francisco MOMA, progettato da Botta, arriviamo a MARKET STREET, vediamo la CITY HALL (niente di speciale, un grande edificio in stile neoclassico), siamo quindi a CASTRO, il famoso quartiere degli omosessuali di San Francisco,che però , forse perché è giorno, non ha la vitalità che ci aspetteremmo; attraversiamo il QUARTIERE HIPPY, ci fermiamo davanti alle famose sei case in stile vittoriano, quindi pranziamo in un ristorantino vegetariano niente male. Dopo pranzo approdiamo al GOLDEN GATE PARK, frequentatissimo per fare biciclettate, passeggiate o corse, perché totalmente immerso in un verde, difeso e rispettato, dove ogni direzione è ben segnalata e nulla dà l’impressione di brutto o trascurato. Facciamo il nostro ingresso nel tanto celebre quanto stucchevole JAPANESE TEA GARDEN, un angolo di Giappone in mezzo a questa città, che non finisce mai di stupirti per tanta varietà di sapori. Ci riposiamo davanti a uno stagno di meravigliose ninfee ed ecco siamo di nuovo in sella alle nostre biciclette. Attraversiamo un ampio parco, praticamente montano, che guarda a picco sulla baia (il nostro cerchio si sta chiudendo): è il PRESIDIO, che ci dà filo da torcere perché è piuttosto impegnativo, ma si rivela un’ affascinante porta per il mare, a cui arriviamo diretti e lo spettacolo fa scordare la fatica. Davanti a noi adesso sta il GOLDEN GATE, in tutta la sua rosso -fiammante magnificenza. E’ il ponte simbolo della città e lo percorriamo con le nostre bici sino a metà, facendoci strada tra gruppi di turisti a piedi, che sostano per ammirare la vista su San Francisco (che da lì è davvero notevole) e per fare coreografiche fotografie. Il vento fischia freddo. Scendiamo e costeggiamo il MARE: a sinistra, davanti ad esso c’è chi come noi pedala, chi corre o passeggia da solo o in compagnia, magari del cane, ma anche chi fa volare gli aquiloni (e ci viene in mente l’ultima scena del film “il cacciatore di aquiloni”); a destra altre bellissime case, le cui vetrate sono vista-mare e, tende aperte, ci permettono di scorgere salotti belli e “vissuti”. Consegniamo le biciclette, mangiamo del buon pesce in un ristorante sul mare e poi, con il cable car, facciamo ritorno in hotel, non senza aver fatto qualche tappa nei numerosissimi negozietti di souvenir, di ogni foggia e tipo (la fantasia in questo ambito non manca proprio!). Un’altra giornata piena di grandi soddisfazioni, con la consapevolezza che occorrerà tempo per assimilare tutto quello che abbiamo assaporato in questi due intensissimi giorni.
8/7/08 MARTEDI’ – MONTEREY – 17 MILES DRIVE – MARIPOSA E’ giorno di partenza e raggiungiamo l’autonoleggio “Alamo”; comoda la scelta dell’albergo in centro, perché ci consente di accedere agilmente all’autonoleggio e prendere possesso dell’auto che abbiamo prenotato da casa, tramite agenzia. Convinciamo il responsabile che per quattro persone sarà sufficiente la berlina che avevamo individuato dall’Italia; è usuale in effetti che cerchino di darti, all’atto del ritiro, un’auto più grande di quella prenotata, sostenendo che i bagagli non ci staranno. Non è vero! A meno che non abbiate con voi il guardaroba dei divi, i loro bagagliai risultano assai capienti. Salutiamo la città e usciamo dal centro con direzione sud, MONTEREY. Arriviamo in questa cittadina sull’oceano all’ora di pranzo, consumiamo nuovamente sandwich alla polpa di granchio, scattiamo qualche foto, ma niente di particolare ci colpisce. Ripartiamo, imboccando la celebre 17 MILES DRIVE, una strada panoramica sulla penisola di Monterey (ingresso a pagamento) che si snoda sinuosa tra bosco e oceano. Molto belle le soste a mare, scogli e cavalloni azzurri: davanti a noi si muove potente l’Oceano Pacifico! Il viaggio è ancora lungo, d’altronde questa è giornata d’ auto, lo sappiamo; la temperatura esterna cresce man mano che ci addentriamo nell’entroterra, tocchiamo i 40°, benedicendo il climatizzatore dell’automobile. Anche il paesaggio naturalmente cambia, la vegetazione si fa secca, i colori si riscaldano; siamo dentro alla California, anche le mucche nei campi cercano fresco sotto agli impianti d’irrigazione. Guidati dai consigli Routard”, approdiamo per la notte nella graziosissima località di MARIPOSA, comoda tappa per raggiungere lo Yosemite l’indomani (40 miglia la distanza), ma anche una piacevole sorpresa per l’originalità di certi posticini che incontreremo. Ma andiamo con ordine. Trovare l’alloggio non è proprio immediato, diversi sono già “no vacancy” e questo genera una certa inquietudine nella truppa, finchè, al limitar del paese, non scorgiamo un motel a conduzione famigliare, che ci offre una sistemazione in appartamento per sei, con salottino e divanoni marroni stile mammouth, molto poco consoni alla temperatura caldissima, nonché cucina, frigo, microonde e all’esterno, su un bel pavimento di cemento, calda e teneramente squallida, una piscinetta, che forse un tempo è stata azzurra. Non fa niente, lo spirito è quello del prendere ciò che viene; gli ambienti sono molto puliti e quel che più conta la truppa si è assai rasserenata. Niente doccia, non c’è tempo, sono le ore 20 passate e i locali (non scordatelo!)offrono cibo fino alle 21, non oltre. Ci infiliamo in un ristorantino assolutamente delizioso e mangiamo cosette dal piacevole gusto mediterraneo nel piccolo “patio” con vista sul monte. Fa caldo, molto caldo. Usciti, percorriamo la strada centrale , l’unica, ed entriamo quasi per caso in una piccola libreria che vende volumi nuovi ed usati (tanti libri per bambini, testi di storia e anche di giardinaggio o agricoltura), gestita da una signora del posto, che, appassionata di lettura, ma soprattutto stanca di certa banalità americana, ha aperto questo angolo di cultura originale e accogliente. Acquistiamo tra le altre cose anche l’atlante stradale che stavamo cercando, è il “Rand Mc Nally” ,da segnalare per la completezza; ci sarà molto utile per tutto il viaggio, anche quando si tratterà di orizzontarci nella “non facile” Los Angeles. Usciamo soddisfatti e rientriamo nella nostra confortevole “suite” con piscina. Doccia e nanna.
9/7/08 MERCOLEDI’ – PARCO DI YOSEMITE Ci alziamo presto e già la vita pullula attorno a noi. Partiamo per il primo parco, quello più verde dell’itinerario: lo YOSEMITE. All’ingresso acquistiamo il pass per l’accesso ai parchi principali (80$), i rangers ci dotano di mappa e, accompagnati dal loro “enjoy”, entriamo e scegliamo il nostro percorso. Lo Yosemite è un bel parco, non c’è dubbio, colpisce subito il contrasto tra la vegetazione montana e la temperatura che continua ad essere calda. Davanti a noi, che procediamo lentamente sulla nostra auto, si aprono nitidi scorci sulla falesia di “El Capitan”, il picco dell’”Half Dom” e le belle cascate. E’ il paradiso di tanti campeggiatori americani, che, lungo il fiume Merced, troviamo impegnati nel nuoto, nella pesca o sui placidi canotti. E’ impeccabile, perfetto. Vediamo molti scoiattoli, ma pare che nascosti ci siano anche orsi e lupi. Pranziamo all’interno con dei panini acquistati al supermercato e nel pomeriggio ci rimettiamo in auto per arrivare il più vicino possibile alla “Valle della morte”, che andremo ad esplorare il giorno dopo. Verso l’uscita il paesaggio si fa più brullo e più particolare, con grandi pareti di granito, dalle tonalità bianche e grigie, e tagli vivi e profondi provocati nel tempo dai ghiacciai. La località che ci ospita per la notte sarà LONE PINE, terra di film western. Il paesaggio è cambiato nuovamente.
10/7/08 GIOVEDI’ – VALLE DELLA MORTE – LAS VEGAS/PARTE I Questo è il punto più alto della nostra vacanza, ma ancora non lo sappiamo. Sappiamo bene invece che dobbiamo fare rifornimento per l’auto (nel parco non ci sono distributori), togliere dalla valigia il cappello e dotarci di tanta, tanta acqua. I racconti sui famosi 49ers, che qui cercarono l’oro, ma trovarono la morte, ci accompagnano lasciandoci un indefinito senso di inquietudine. Partiamo presto e cominciamo un’arida, secca traversata fino al celebre cartello: “DEATH VALLEY”. Proprio lì, facciamo la divertente conoscenza di due coreografici motociclisti che si prestano entusiasti ad alcune foto insieme a noi (that’s America!). La temperatura intanto sale, sale , sale e tocca il suo picco (49°) quando scendiamo al primo celebre punto panoramico: siamo a Zabriskie point. Come si fa a descrivere quello che si prova al cospetto di luoghi così incredibilmente unici? E’ molto personale, le parole lo ridurrebbero. Solo quando sarete là, capirete! Straordinari i successivi “Dante’s view”, dove il sale dipinge curiose forme che a volte si allargano in tondo, a volte si stringono in capricciose volute; e il “Devil’s golf course”, il campo da golf del diavolo, uno spazio che sembra quello della terra arata della nostra pianura, ma che in realtà è il risultato delle profonde increspature prodotte dal sale all’evaporazione dell’ acqua. Raggiungiamo quindi, sempre al riparo della nostra automobile climatizzata (ma come facevano quando le auto non lo erano?), il punto più basso dell’intera America: è “bad water”, 86 m. Sotto il livello del mare. Diamo fondo un po’ alla volta alle nostre riserve idriche, ai preziosi “gatorade” e alle bottiglione di acqua, che abbiamo bevuto anche se caldissime. Abbiamo ancora però forza e volontà per un’ultima sosta, quella lungo il percorso della “Artist’s palette drive” e davanti a noi si staglia maestoso un arcobaleno di rocce, a cui vari minerali hanno dato colorazioni diverse, accordate in modo così armonico, come solo la natura riesce a fare. Adesso siamo proprio pronti per uscire, e la nostra direzione è il Nevada. E’ sera quando approdiamo, ancora carichi dell’entusiasmo per la Valle della Morte, nella luccicante città di LAS VEGAS. E qui la realtà cambia radicalmente. L’ingresso è stupefacente (forse un po’ meno per Giovanni concentrato alla guida, intento a districarsi nel traffico di questo posto nuovo e sconosciuto): un piccolo manuale storico- geografico tridimensionale. Ora a destra, ora a sinistra gli imponenti alberghi tematici impongono alla vista, sfacciatamente, maestose piramidi, cupole medievali, grattacieli di New York, scorci di Roma antica, accanto a una scenografica tour Eiffel o a una signorile facciata del lago di Como. Ma ecco finalmente il nostro approdo: Venezia. Ebbene sì: Las Vegas è il regno del kitsch? E noi quel kitsch lo volevamo “abitare”, così dall’Italia avevamo prenotato proprio all’ “hotel Venetian”, che non ha certo deluso le nostre aspettative. Al di là dei mille confort, che non si può negare facciano piacere, ma che non erano una nostra priorità, alloggiare in un hotel come questo consente di entrare immediatamente a contatto con lo spirito del luogo e con tutto ciò che ha da offrirti: finzione e illusione. La serata, benché parecchio stanchi, trascorre all’insegna dello sfavillio. Percorriamo in lungo e in largo la strip, la strada su cui si snodano i tanti albergoni, e ci soffermiamo increduli davanti a tanta imponenza. La gente è assolutamente libera di vestire nei modi più bizzarri, libera di entrare nei casino e tentare la sorte o di “organizzarsi” per perdere denaro davanti alle luccicanti slot machine, con sigaretta e bicchiere colmo (quante le donne di mezza età!); ai lati delle strade gruppi di persone richiamano l’attenzione maschile offrendo appuntamenti veloci e facili con donne disponibili. Ovunque lo sguardo si posi è un invito a entrare, a partecipare, a consumare… a spendere. Las Vegas è il tempio del consumismo puro! Eppure ci coinvolge, ci stupisce, ci diverte. Tappa d’obbligo lo spettacolo delle fontane del Bellagio, che si rivela così curioso, che attendiamo trascorra il successivo quarto d’ora per gustarne un altro. Camminiamo a lungo quasi senza sentire la stanchezza; rientriamo in hotel e i gondolieri con le maglie a strisce bianche e rosse su una finta gondola, che corre lungo un finto canale che sa di cloro, sotto un finto cielo azzurro, ancora cantano “O sole mioooo”. Qualcuno dovrebbe dir loro che non è esattamente un pezzo veneziano, ma va bene così, non stiamo a sottilizzare. L’indomani d’altronde apriranno la giornata sfilando al grido di “Apriteci le porte che passano… Gli alpin!” Misteri geografici! 11/7/08 VENERDI’ – LAS VEGAS/PARTE II Ci svegliamo con tutta calma nella nostra “lussuosa” camera, facciamo colazione in uno dei tantissimi localini interni all’ hotel e poi usciamo per gustare “il lato B” di Las Vegas, quello diurno. Forse c’è stato un tempo in cui questa città viveva solo la notte, ma ora non è più così, anche di giorno è affollatissima di giovani e non in cerca di divertimento, ma anche di tante famiglie, che, attraverso una sola strada, consentono ai loro piccoli di fare il giro del mondo. Entriamo qua e là nei casino (ogni albergo a piano terra ne possiede uno) e ci rendiamo conto, prestissimo, che entrare è davvero facile, uscirne un po’ meno. No, non veniamo traviati dal gioco d’azzardo, anzi non ci viene neanche in mente di fare una puntata, ma constatiamo presto che l’indicazione EXIT, a differenza di tutte le altre, non è mai in vista. All’interno tutto è già assai vitale: dadi che saltellano, tavoli dove “fare il proprio gioco”, slot bollenti e disinvolti crupier che maneggiano le carte come i prestigiatori (è proprio il gioco delle illusioni!). Facciamo sosta al Planet Hollywood per acquistare i biglietti per la serata: assisteremo allo spettacolo di STOMP, che da qualche tempo ha trovato fissa dimora a Las Vegas (non è l’unico, moltissimi alberghi offrono spettacoli di Cirque du soleil). E poi eccoci alle prese con il pupazzone MM’S, che ci invita a visitare il palazzo alle sue spalle, dove i coloratissimi dolcetti al cioccolato divengono soggetto per qualsiasi cosa, dai banali portachiavi, alle calze, ai boxer (lo stesso accade poco più in là per la Coca-Cola). Vediamo gli alberghi dal loro interno, un trionfo di cartapesta, ma certamente di grande effetto. La giornata scivola via così, ma arriva inevitabile l’effetto saturazione e la sera non ha più il “fascino” della precedente. Per fortuna, il gruppo degli Stomp ci riscalda ed emoziona: sono incredibili!! 12/7/08 SABATO – RED CANYON – BRICE CANYON Lasciamo La s Vegas il mattino percorrendo, oltre la strip, Fremont street, la strada attorno a cui si è sviluppata la Las Vegas dei casino, per tanto tempo simbolo dello spirito luccicante di questa città del gioco e del vizio. Non manchiamo di fotografare una delle più celebri cappelle per la celebrazione dei ben noti matrimoni, la White Chapel, una piccola costruzione di legno bianco collocata molto romanticamente sulla strada, tra un distributore di benzina e anonimi motel. Imbocchiamo quindi la strada che dal Nevada ci porterà nello Utah. Il percorso è lungo e piuttosto noioso e la vegetazione si fa più verde e usuale via via che ci avviciniamo al nuovo stato. Lo Utah è terra di Mormoni e non ci dispiacerebbe incappare in qualche curioso personaggio vestito in modo tradizionale, magari con mogli e figli al seguito, ma questo non si può certo prenotare, per cui proseguiamo osservando attorno a noi i prati con le grosse mucche al pascolo e scorgiamo qualche esemplare di bisonte, che immortaliamo prontamente con le nostre macchine. Ma ad un tratto ecco davanti a noi uno spettacolo davvero notevole: al cospetto di un limpido cielo azzurro si stagliano, imponenti, alti pinnacoli di pietra rossa: è il RED CANYON, un piccolo, seppur spettacolare, preambolo di ciò che vedremo poco dopo.
Infatti, ancora qualche miglio e arriviamo alla destinazione prefissa, il celebre BRICE CANYON, dove in un largo anfiteatro si ergono fittissimi e ancor più spettacolari altri numerosi pinnacoli di pietra rossa, color del tramonto, che il calcare ha scolpito e il ferro ha “dipinto”. Abbiamo l’impressione che siano, con ben altre dimensioni, le “formine” che i bambini fanno al mare con la sabbia bagnata, quando costruiscono i castelli. Ci soffermiamo ad ammirarli dai vari punti di osservazione, che sono facilmente raggiungibili in auto partendo dall’information point che sta all’inizio del percorso. Scattiamo alcune foto e riflettiamo increduli sulla potente maestria della natura.
Usciamo, la nostra direzione è Page, ma lungo il tratto di avvicinamento a questa cittadina, nostra tappa serale, siamo richiamati nuovamente ad immortalare un altro spettacolo naturale: e’ la lunga, imponente parete di rocce rossastre di THE WAVE, l’onda, nome che le deriva dalla forma sinuosa che rimanda appunto a quella delle onde del mare. Purtroppo è quasi l’imbrunire e la luce non favorisce la fotografia, ma, se a voi capitasse di esserci nell’ora giusta, ad esempio al tramonto, non lasciatevela assolutamente sfuggire (la località si chiama Vermillion Clifft).
E’ ormai sera quando arriviamo a PAGE, sul lago Powell; troviamo posto in un motel, ceniamo con una pizza dalle dimensioni extra-large, che non è niente male e ci facciamo preparare gli inevitabili avanzi in un cartone (la cosa è assolutamente usuale in America), in modo da consumarla l’indomani , durante la successiva tappa.
13/7/08 DOMENICA – PAGE – DESERTO DIPINTO – GRAND CANYON E’ domenica, ma nulla lo fa pensare, non squilli di campane, non persone dall’aria particolarmente distesa , tantomeno ben vestite (impossibile vederne negli Stati Uniti!), nulla di ciò, qui è una giornata qualunque e noi consumiamo la nostra prima colazione in un Mc Donald’s qualunque, confondendoci tra gente di tutte le età, dai bimbi piccoli accompagnati dalle mamme, alle coppie di mezza età, agli anziani. Anche questo è vivere il viaggio, frequentare cioè i posti che la gente di là usualmente frequenta. E ci piace! Usciti, sostiamo presso l’attrattiva principale di Page, ossia la grande diga sul fiume Colorado, costruita per garantire rifornimento elettrico alla regione circostante e addirittura alla città di Las Vegas. Imponente! La nostra direzione è il Grand Canyon, ma lungo la strada è d’obbligo un’altra tappa davvero suggestiva: il DESERTO DIPINTO, un canyon molto profondo, attorno al quale si ergono pareti di rocce dalle varie sfumature di colore. Stiamo ormai prendendo confidenza con questi spazi tanto enormi, quanto armonici, con questi luoghi così…Naturalmente maestosi.
Grande certo è la curiosità per il GRAND CANYON, al quale arriviamo giusto per l’ora di pranzo e che visitiamo solo dopo aver consumato i “resti” delle nostre mega-pizze di Page, che anche oggi si lasciano mangiare gustosamente. Molteplici sono i modi per vedere il Grand Canyon (si può esplorare a piedi, scendendo ben attrezzati sino al suo punto più basso, si può gustare poco alla volta dormendo al suo interno in tenda o nelle sistemazioni ufficiali- per questo occorre però una prenotazione molto anticipata- oppure lo si può sorvolare in aereo), noi scegliamo il modo più usuale, lo percorriamo in auto soffermandoci con tutta calma nei numerosissimi punti panoramici. L’impatto con il primo scorcio non è descrivibile a parole, è semplicemente mozzafiato e, dopo la spontanea condivisione di quelle sensazioni così nuove, ognuno si chiude nel silenzio cercando di concentrare l’attenzione sui singoli particolari, perché nulla sfugga: è il corvo nero-lucido che si ferma proprio davanti a noi, sono le rocce che hanno cento sfumature, è il fiume Colorado che scorre giù giù silenzioso e che addirittura pare immobile, è la luce che cambia colorando nuovi particolari…È l’atmosfera di unicità, che stiamo vivendo. Gli aggettivi si esauriscono, perché le parole stanno strette; scegliamo di rimanere in silenzio. Mentre osservo incantata, Luca mi suggerisce di ascoltare qualcosa con l’I- pod; ha scelto Morricone per questo spettacolo e così, ascoltando le note tanto ben orchestrate de “il buono, il brutto e il cattivo”, mi sembra di volare leggera sopra quella incredibile distesa, di superarne i confini e mi ritrovo a piangere senza riuscire a controllare lacrime di grande emozione. La prenotazione per il pernottamento in località di Tusayan (proprio fuori dal Grand Canyon) si rivela intelligente, perché ci permette di uscire a pomeriggio inoltrato, raggiungere il motel, rinfrescarci e rientrare riposati verso le 19.00 per rivederlo (il parco è sempre aperto, potete entrare ed uscire a vostro piacimento), ma all’ora del tramonto. Un temporale con grosse nubi oscura il cielo e questo fa pensare che sarà difficile immortalare il famoso spettacolo di colori rosseggianti tanto noto e fotografato, e invece, all’improvviso, un raggio di sole si fa breccia in mezzo a quella coltre scura, punta dritto alla parete rocciosa e uno spicchio si colora di rosso: è bellissimo, quasi magico! La sera ceniamo in una steack-house e mangiamo delle bistecche eccezionali, servite coreograficamente da camerieri vestiti da cow-boys. 14/7/08 LUNEDI’ – MONUMENT VALLEY – GOOSENECKES Inizia la nostra seconda settimana e l’avvio è davvero notevole, perché, lasciato il Grand Canyon, ci dirigiamo verso la celebre MONUMENT VALLEY. Arriviamo che è ora di pranzo, mangiamo un hamburger e siamo pronti per inoltrarci in questo territorio Navajo (siamo all’interno di una delle tante riserve in cui gli americani hanno confinato i pellerossa). Paghiamo l’ingresso perché il pass non comprende questa visita e notiamo fin da subito che l’organizzazione non è quella che abbiamo trovato negli altri parchi, tutto qui è più approssimativo e anche meno curato, però concordiamo nel dire che questo è un punto di forza, perché l’aria che si respira è di una maggiore genuinità. La strada non è d’asfalto, ma di una sabbia rossa, che impolvera presto sia l’auto che noi, ma che si fonde col paesaggio in un modo assolutamente perfetto. La Monument Valley è caratteristica per i monoliti rossi dalle varie forme che si innalzano più vicini o più lontani all’orizzonte e che, complice la luce, assumono sfumature assai diverse, ma sempre molto calde. E’ stato il teatro dei più celebri film di John Ford, è un set naturale, da dove ti sembra possano comparire da un momento all’altro gli indiani e i cow- boys. Acquistiamo alcuni souvenir Navajo da regalare agli amici; sono collanine, braccialetti, orecchini di diverse pietre colorate, ma sulle quali prevale il turchese, che, a detta loro, indossato, ha il potere di mettere di buon umore fin dal mattino. Usciamo e, seguendo i consigli della guida, ci dirigiamo verso una località meno celebre, ma altrettanto fascinosa (non fatevela scappare!). E’ a 30 miglia circa dalla Monument Valley e si chiama GOOSENECKS. La sua caratteristica è data dalla forma assai sinuosa che assume il fiume Juan River. Esso scorre alla base di grandi pareti rocciose più volte ripiegato su se stesso, producendo un effetto davvero curioso. Una piacevolissima scoperta! In serata arriviamo in località di CHINLE, la più vicina al CANYON DE CHELLY.
15/7/08 MARTEDI’ – CANYON DE CHELLY – FORESTA PIETRIFICATA – ROUTE 66 Il CANYON DE CHELLY è un canyon di piccole dimensioni (si fa per dire!) e consente di essere percorso a piedi, attraverso un sentiero che conduce al fondo senza grande fatica. Non perdetevelo, perchè la cosa davvero bella è che, arrivati giù, si può ammirare un’antichissima abitazione degli Anasazi, che lo popolavano prima dei pellerossa. E’ scavata nella roccia, in una sorta di grotta naturale e merita veramente di essere vista. Molto bella è comunque la discesa, originale per la prospettiva interna al cayon, che risulta assolutamente suggestiva. Calcolate un’ora e mezza, tra scendere, sostare, acquistare eventualmente souvenir Navajo (sono molto belli, anche meglio che alla Monument Valley) e risalire. Per precauzione, portate con voi dell’acqua, perché il caldo, nella discesa, si fa sentire. Ci rimettiamo in auto con direzione Flagstaff (che ci fa venire in mente Faletti, che qui ha scritto il suo ultimo romanzo ambientato proprio in terra Navajo) e arriviamo nel pomeriggio in un posto incredibile che si chiama FORESTA PIETRIFICATA. Non pensate a una foresta vera e propria,ma piuttosto ad un luogo roccioso nel quale si sono conservati dei pezzi di tronco d’albero, che risalgono alla preistoria. La magia è stata operata dalla particolare condizione in cui si sono trovati, ossia l’assenza di ossigeno. Ciò ha prodotto questo spettacolo incredibile, per cui frammenti più o meno grandi di alberi giacciono a terra, sul suolo roccioso, quasi fossero sculture. E’ possibile camminare in questo paesaggio dal sapore lunare, accedendo gratuitamente al parco che li conserva. Fate, però, attenzione a non rimuovere nessun frammento, le sanzioni sono giustamente severissime. Puntiamo di nuovo l’auto verso Flagstaff, ma un’altra sosta ci richiama prepotentemente: è la fascinosissima ROUTE 66, la strada dei sogni e delle opportunità che collegava Chicago a Los Angeles, della quale, una volta caduta in disuso dopo gli anni ‘60, sono stati conservati alcuni tratti. A volte occorre immaginarla perché è semplicemente segnalata da una targa, altre volte invece si sviluppa proprio come ai vecchi tempi, e mostra l’antica fisionomia. Un buon punto da cui ammirarla è HOLBROOK. Qui non potete perdervi il “Wigwam motel”, un motel appunto , ma con la particolarità di essere stato costruito come un accampamento indiano, con le stanze all’interno di strutture, in muratura ovviamente, ma con la forma dei “tepee”, le tende dei pellerossa. E’ una costruzione che risale agli anni ’40, ma che è stata mantenuta esattamente qual era dalla figlia del proprietario, che ha allestito all’interno della reception (volendo, potete pernottare in questo motel) un piccolo museo coi cimeli di famiglia legati alla Route 66, ma anche alla foresta pietrificata, di cui il padre fu un curatore. Ci scateniamo con le fotografie, anche perché davanti alle “tende” sono state collocate auto americane dell’epoca d’oro della Route, che rendono ancor più originali i nostri scatti.
E finalmente, verso le 20.30, arriviamo a FLAGSTAFF (non credevate che ce l’avremmo fatta, vero?) e cerchiamo un motel rigorosamente lontano dalla ferrovia, che la attraversa, per non essere disturbati durante la notte. Guida alla mano, faccio io da navigatrice, condurrò io la truppa in un motel tranquillo. Seguite me! Prendiamo questa strada! Ecco il motel giusto, ed è pure libero. Saliamo subito alle camere, ci affacciamo ad ammirare il panorama e a pochi metri da noi un bel treno carico di merci, quindi anche molto lungo, entra in città suonando la sirena. Un caso isolato? No! A distanza di 15 minuti l’uno dall’altro, altri 100, 1000 treni durante la notte continueranno ad entrare in città, suonando la loro festosa sirena. Perdo in un secondo tutta la mia, già debole, credibilità come navigatrice. Verrò relegata a ruoli subalterni.
16/7/08 MERCOLEDI’ – FLAGSTAFF – SCOTTSDALE – BLYTHE FLAGTAFF è, ferrovia a parte, una piacevole scoperta. Già la sera prima avevamo cenato in una birreria frequentata da studenti universitari, molto vivace e accogliente, il mattino poi lo passiamo a fare acquisti. Individuiamo due negozi molto interessanti di roba usata e trascorriamo un paio d’ore tra questi pezzi di modernariato americano davvero curiosi, uscendo da lì con una luccicante Harley Davidson in miniatura, la cui sella è la cornetta di un vero telefono, alcune possenti fibbie da cintura e una scatola di legno per munizioni da fucile. Mi domando come faremo a far stare tutta quella roba nelle nostre valigie, ma il miracolo accadrà (sarà un momento “esilarante” quando a Francoforte controlleranno a fondo la moto-telefono, sospettando sia un pericoloso ordigno!). E’ ora di pranzo quando arriviamo a SCOTTSDALE, un sobborgo di Phoenix. La nostra meta, che certamente gli appassionati di architettura conosceranno, è TALIESIN WEST, ossia la casa-scuola- laboratorio di F.Lloyd Wright, nel deserto dell’Arizona. In realtà il deserto oggi si può solo immaginare, perché dagli anni ’40, quando il grande architetto si è trasferito qui, ad oggi, molto è stato costruito tutt’attorno. Nell’insieme, comunque, la visita, risulta un po’ costosa, ma interessante.
Passando per la trafficatissima Phoenix, ci dirigiamo verso BLYTHE, una tipica cittadina americana, ossia un luogo assolutamente anonimo e spersonalizzante, un agglomerato di case, attorno a cui stanno, immancabili , il distributore, le tipiche catene di fast-food (molte delle quali hanno colonizzato già anche le nostre città), le tavole calde (dove si consumano rapidamente cibi, uguali in tutto il territorio americano), il grosso supermercato, la lavanderia automatica, il distributore di DVD. Dopo cena, non potendo “fare un giro in centro”, entriamo proprio nel supermercato, aperto fino a tardi, e osserviamo incuriositi ciò che gli americani comperano e in particolare quello che mangiano e come lo condiscono (la corsia delle salse è incredibilmente ricca e varia); siamo abbagliati dal colore e dalle dimensioni dei dolci, dalle vaschette di gelato formato extra (da noi così grandi non ci sono!), dalle torte nuziali (al supermercato!), dall’ immancabile “cotton candy”, una specie di zucchero filato venduto in un sacchetto come se fosse cotone e dal colore smaccatamente rosa o azzurro. E’ il paese dei balocchi! Non mancate di sostare una volta in un supermercato e capirete perché l’obesità in America è una piaga sociale.
17/7/08 GIOVEDI’ – JOSHUA TREE – LOS ANGELES/PARTE I Lasciamo, senza particolare rimpianto, Blythe e ci dirigiamo verso il luogo che fa pensare immediatamente ai grandi U2, il JOSHUA TREE. Un curioso nome biblico per una pianta! Ma c’è una spiegazione: quando i Mormoni videro questi alberi con i caratteristici rami che guardano verso l’alto li considerarono come supplici che guardavano al cielo e diedero loro il nome di un profeta, quello di Joshua. E’ un luogo interessante, una sorta di deserto popolato dai “cholla”, che sono cactus a cui tenersi a debita distanza perché, se sfiorati, rilasciano gli aghi e, nella parte più a nord (anche questo parco si può tranquillamente percorrere in auto in lungo e in largo) dai “Joshua tree” appunto, che sono più alti e coi rami tesi verso l’alto. E’ una visita curiosa, calda (non scordate l’acqua!), ma non impegnativa; in un paio d’ore potete vedere tutto, soste fotografiche comprese. E con il Joshua terminiamo la parte naturalistica del nostro bellissimo viaggio, ora ci attende LOS ANGELES, altro nome che non può non farci pensare a tante cose note, ad Hollywood, ai film e agli attori. Eh, i luoghi mentali! Ti fai un’idea di una città e ti aspetti che ciò che vedrai non potrà che confermarla. Però non è sempre così, e Los Angeles ne è la dimostrazione. L’impatto è brusco: chilometri e chilometri e chilometri di highway, simili alle nostre tangenziali, dove le auto corrono forte(e sembra di essere su certe strade italiane!) e difficilmente ti danno la precedenza, ma che soprattutto ti portano esattamente dove vuoi, solo se sai davvero dove vuoi andare. Intendo dire che l’esitazione o il dubbio, una volta dentro queste piste, non è lecita, a meno di non voler perdere ore per ritrovare la direzione e arrivare alla meta. Utilissimo il navigatore satellitare sull’auto, ma ricordate di selezionare anche il numero civico, o rischierete di essere condotti magari all’inizio della strada selezionata e di dover percorrere, se il punto che vi interessa sta in fondo, miglia e miglia inutilmente, sprecando un sacco di tempo. Avevamo prenotato un hotel vicino all’aeroporto ed è stato utilissimo, perché è stato facile da individuare appena arrivati, ma soprattutto facile da lasciare di lì a due giorni per imbarcarsi, senza perdere tempo. Dall’ingresso di Los Angeles al nostro hotel, viaggiamo per più di due ore (da non credere!). La sera, non senza qualche “problemino” di orientamento, che ci tempra per i giorni successivi, ceniamo a Santa Monica, dove c’è sempre grande “ movida” e i locali sono tantissimi. Fa freschetto (l’escursione tra giorno e sera è notevole), ma l’atmosfera attorno a noi è viva e riscalda.
18/7/08 VENERDI’ – LOS ANGELES/PARTE II Tenete presente che i vari quartieri di Los Angeles non si possono raggiungere a piedi, ma occorre decidere bene prima dove si vuole andare, visitare quella zona, spostarsi in auto verso la successiva e così via. Come prima giornata, noi decidiamo di visitare DOWNTOWN e in particolare qui vediamo il quartiere di “Little Tokyo”, quello più antico e colorito di “El Pueblo” ( il nucleo messicano originario), la bellissima “Walt Disney Concert Hall”, progettata da F. Gehry e il “Jewlery district”. A parte il capolavoro di Gehry, nulla ci colpisce. Il momento più bello è quello del pranzo perché, cosa frequente in America, possiamo ascoltare un bel concerto dal vivo di musica sudafricana, accanto ad americani di tutte le età, che consumano un pranzo veloce prima di riprendere il lavoro. Dedichiamo il pomeriggio alla collina più famosa (e spelacchiata!) del mondo, ad HOLLYWOOD, ma rimaniamo molto delusi. Il famoso “Walk of fame”, la strada delle star, quella coi nomi celebri, è un lungo marciapiedi decorato dalle famose stelle, ai lati del quale stanno negozi di souvenir, per lo più cinesi, in un’atmosfera polverosa, trasandata e priva di alcun fascino. Poco più in là, giunti davanti al “Grauman’s Chinese Theatre”, fotografiamo alcune impronte delle star più note, facendoci spazio tra schiere di turisti schiamazzanti e finti Elvis Presley o Johnny Depp, o Batman, pronti allo scatto insieme a noi. Giungiamo, infine, al famoso” Kodak Theatre”, quello della notte degli Oscar, e ci ritroviamo praticamente in un grande e affollatissimo centro commerciale, dove, stanchi e delusi, facciamo sosta bevendo qualcosa di fresco , perché la temperatura a Los Angeles durante il giorno è parecchio alta. In auto raggiungiamo quindi il famoso quartiere di MELROSE PLACE, del tutto residenziale e saliamo sulla collina di BEVERLY HILLS, dove, come è noto, coltri di fitte siepi nascondono allo sguardo curioso le milionarie proprietà dei divi. E’ così interessante che io, sul mio spazioso sedile posteriore, mi addormento beata. Dopo aver cenato, in un anonimo ristorante in zona, vediamo la celebre RODEO DRIVE, sciccosa strada della moda, lucida e patinata (non poteva che essere così!). Non posso non domandarmi più di una volta cosa ci facciamo in questa città così poco interessante e individualista, ma soprattutto, col senno di poi, perché non abbiamo riservato un giorno in più alla meravigliosa San Francisco.
19/7’/’08 SABATO – LOS ANGELES/PARTE III La giornata scorre decisamente meglio. Programmiamo di camminare lungo le celebri spiagge di SANTA MONICA E VENICE BEACH e così parcheggiamo l’auto tra le case di Venice ( il nome è più altisonante di quanto non lo sia il luogo), raggiungiamo la spiaggia e cominciamo una lunghissima, ma piacevole camminata sulla sabbia, incrociando gente di tutti i colori che come noi passeggia, surfisti, turisti locali che, manco a dirlo, stanno già addentando i loro mega-sandwich , nonché una coppia di sposi, che sta dicendo il suo sì circondata da fiori, finti, di color glicine e bianco, intonati ai colori degli abiti della sposa, bianca, e dello sposo, in giacca glicine (un’autentica sciccheria!). Abbandoniamo la spiaggia per un hamburger e continuiamo a camminare fino a Santa Monica sul lungo percorso pedonale, a cui corre parallelo quello ciclabile, frequentatissimo da biciclette e skate-board (sono noleggiabili, volendo). E’una bella atmosfera, da ferie! Attraversiamo un ponte e siamo in piena Santa Monica, tra grandi hotel, locali e negozi di ogni tipo. Non possono non colpirci, però, i tantissimi homeless, i senza tetto, reduci di guerra o barboni che dormono abbandonati ai lati delle strade o vi si aggirano con un’ aria profondamente smarrita (che triste questo volto dell’America!). Entriamo in alcuni negozietti della 3th Avenue, anche solo per sbirciare, ma quello che più ci trattiene (ci è già capitato anche a New York) è la libreria della catena“Barnes and Nobles”, perchè è un vero santuario per i lettori, con libri per tutti i gusti e le età. Ritorniamo infine in direzione della spiaggia e percorriamo il serpentone pedonale che ci riporta a Venice beach e che, per un lungo tratto, è occupato da miriadi di bancarelle delle più diverse origini, accanto ad intrattenitori e artisti di strada, alcuni dei quali sono davvero eccezionali. Insomma un volto di Los Angeles alternativo e certamente più curioso. E’quasi sera e la gente adesso arriva a frotte, per un aperitivo in spiaggia.
Noi invece ritorniamo in hotel, parecchio stanchi, ma in fondo soddisfatti di aver dato un senso alla visita di questa città.
E si chiude così il nostro bel tour “fai da te” negli Stati Uniti occidentali. L’indomani sarà occupato dal viaggio di ritorno, che sarà lungo e anche più tedioso di quello d’andata, un po’a causa degli aerei meno puntuali e un po’perché ritornare non è motivante come partire. Le impressioni, però, sono unanimi: un viaggio molto intenso, emozionante, a tratti esaltante e tanto tanto arricchente.
Per tutta la truppa, Marina