usa – panorami dell’ovest

FERRUCCIO GIUSTINI DIARIO DI VIAGGIO USA - PANORAMI DELL’OVEST INTRODUZIONE Quella che sto per raccontare è la storia di un viaggio meraviglioso nel quale mi sono completamente abbandonato con il cuore e con la testa ben oltre le due settimane di durata. Il coinvolgimento è iniziato molto tempo prima, perché l’idea di affrontare...
Scritto da: Ferry56
usa - panorami dell'ovest
Partenza il: 08/07/2009
Ritorno il: 23/07/2009
Viaggiatori: in gruppo
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FERRUCCIO GIUSTINI DIARIO DI VIAGGIO USA – PANORAMI DELL’OVEST INTRODUZIONE Quella che sto per raccontare è la storia di un viaggio meraviglioso nel quale mi sono completamente abbandonato con il cuore e con la testa ben oltre le due settimane di durata. Il coinvolgimento è iniziato molto tempo prima, perché l’idea di affrontare insieme alla mia famiglia un’avventura nell’Ovest degli USA era così elettrizzante che letteralmente non mi faceva chiudere gli occhi durante la notte. Che, inoltre, mi consentiva durante la giornata lavorativa, pensando al viaggio come ad un sogno, di trarre una grande energia da tutte le parti più recondite del mio corpo, facendomi affrontare ogni momento anche il più difficoltoso con enorme serenità.

E soprattutto il “progetto” è nato in una anonima stanza del reparto Ortopedia dell’ospedale G.B. Grassi di Ostia, dopo che fui ricoverato per un intervento delicatissimo di ricostruzione del tendine rotuleo lacerato e frattura della rotula nel giugno di un ormai lontano 2007. Li in quei momenti post – operatori di indicibile sofferenza, placata in parte con delle punture di morfina ad alta concentrazione, ad occhi chiusi, mordendomi la lingua, con l’illusione di allontanare quel dolore mostruoso dal mio martoriato ginocchio, iniziavo a pensare di voler realizzare, con la mia adorabile moglie Laura e le mie due fantastiche bambine Eleonora e Valentina “The Dream”, l’incredibile viaggio negli sconfinati spazi del Grande West.

8/7/2009 1° Giorno: Dopo essere rimasto praticamente sveglio tutta la notte per l’emozione della partenza, con i bagagli già preparati nei giorni precedenti, sveglia alle 6.00 per sistemare le ultime cose, lavarsi, vestirsi e chiudere casa. Oggi ricorre il compleanno di Laura, e quale migliore regalo può essere la partenza verso il “sogno”? La giornata è splendida, come spero sarà la nostra avventura. Alle 7.15 trasferimento all’Aeroporto di Roma Fiumicino, grazie alla cortesia del sempre disponibile amico Claudio ed alle 8.05 ci presentiamo puntualissimi al banco del check-in Lufthansa Partenze Internazionali. Dopo che due gentili hostess ci propongono di aderire al programma Miles & More (accumulo di punteggio simile alle Mille Miglia di Alitalia), procediamo ad un check-in molto rapido per poi consegnarci alla trafila dei controlli di sicurezza che, specialmente per chi si reca negli USA, è davvero insopportabile.

Con enorme sollievo, dopo aver superato ogni ostacolo, raggiungiamo il gate per il volo Roma FCO – Monaco di Baviera – LH 3857, operato dalla compagnia Air Dolomiti, partner del colosso Lufthansa.

Partenza in perfetto orario, con questa efficiente compagnia regionale, alle ore 11.05 ed arrivo alle 12.40 all’aeroporto di Monaco “Franz Joseph Strauss”, così chiamato ufficialmente e dichiarato il migliore d’Europa ed il terzo al mondo. Fortunatamente l’intervallo di coincidenza con l’altro volo verso Los Angeles è abbastanza lungo, quindi ci possiamo concedere tempo per rifocillarci con calma. Calma sì, ma non esagerata, perchè mia moglie raggiunto il gate e ritornando indietro dopo aver superato il Boarding Pass, si allontana un po’ troppo per le solite occhiatine al Duty Free costringendomi ad inviare mia figlia Eleonora a richiamarla non vedendola tornare. Passato il piccolo spavento, poco dopo, veniamo chiamati per l’imbarco sul volo Lufthansa LH 0452 destinazione (evviva !!!) Los Angeles con partenza alle 15.35 ed arrivo previsto alle 18.50 ora locale.

Una volta a bordo, inizia la nostra avventura, non prima di aver notato e verificato purtroppo la distanza ravvicinata tra le varie poltrone della classe Economy, in contrasto con le dimensioni piuttosto notevoli del più lungo tra tutti gli aerei in circolazione, l’Airbus A 340 – 600. La rotta tracciata da questo, e puntualmente visualizzata attraverso il monitor touch-screen davanti ai nostri occhi in tempo reale, disegna un arco che parte da Monaco per toccare i cieli della Scozia, l’Oceano Atlantico settentrionale attraverso l’Islanda, raggiunge il vertice della parabola sfiorando le estreme propaggini della Groenlandia, quindi scende in Canada su Labrador e Manitoba, si abbassa sul Montana, Wyoming, Utah e Nevada terminando infine la sua traiettoria in California a Los Angeles. Il viaggio si rivela un tormento, non tanto per la durata e la distanza coperta, quanto per la scomodità, poiché mi ritrovo all’interno della fila centrale da quattro posti con un ragazzo di fronte a me che per tutto il viaggio ha tenuto la poltrona abbassata completamente nonostante da me ripetutamente invitato ad alzarsi, costringendomi a muovermi in pochi centimetri, e soprattutto, per non scomodare gli altri passeggeri, ad alzarmi solo in caso di necessità, manifestata puntualmente verso la fine del volo, per evidenti bisogni fisiologici. Ma questa è la vita, e per raggiungere il sogno, si sa, si è costretti anche a questo.

Tredici sono le fatidiche ed interminabili ore di viaggio, rese un pochino più digeribili dalla presenza di fronte alla poltrona di un sistema di intrattenimento multimediale con proiezione di film, ascolto di musica e notiziari vari. Poi, come per incanto, atterriamo finalmente nella città degli Angeli.

Dopo aver espletato, non senza un po’ di difficoltà, le estenuanti operazioni burocratiche, con enorme stanchezza recuperiamo i nostri ancora esigui bagagli dirigendoci fuori il “Tom Bradley International Airport” di Los Angeles, dal nome di un vecchio e prestigioso sindaco, e da qui, con uno shuttle, ci avviamo verso la nostra destinazione “Hilton Airport”. Eseguito un check-in rapido alla Reception dell’albergo, in men che non si dica siamo nella nostra stanza, meritandoci un sospiratissimo riposo e tuffandoci letteralmente strafatti su dei lettoni accoglienti per raccogliere energie per l’indomani, partenza alle ore 7.30 del nostro avventuroso viaggio: PANORAMI DELL’OVEST.

9/7/2009 2° Giorno: Dopo aver trascorso una notte insonne, ricordando di essere a ben nove ore di differenza di fuso dall’Italia, io e mia moglie ci risvegliamo alle 3.00 ben prima dell’orario previsto delle 6.00 e cautamente, facendo attenzione a non svegliare le bambine, usciamo dall’albergo come lupi affamati dirigendoci per pochi metri lungo la West Century Boulevard, avendo notato in precedenza all’angolo della strada un Mac Drive aperto 24 ore su 24, dove speriamo di reperire qualcosa da mangiare. Fallito il nostro tentativo, frettolosamente ripieghiamo nella nostra stanza non prima di esserci riforniti di biscotti ed un po’ di latte nel bar dell’albergo stesso. Si dorme fino alle 6.00, lasciando che mia moglie e le bambine dormano ancora per qualche minuto, rapida toilette con rasatura della barba, che puntualmente eseguo ogni mattina che ha fatto Iddio da almeno quasi 40 anni. Poi sveglia per tutti, preparazione dei bagagli e puntuali ci troviamo nella hall all’appuntamento con la nostra guida, al secolo Hugo Auler, un personaggio disponibile, molto professionale, esigente, simpatico e dotato di un notevole rigore nel far rispettare gli orari, virtù che si sarebbero rivelate in seguito estremamente importanti nella riuscita del nostro Tour.

Ora traccio un profilo di Hugo: prestante ed atletico brasiliano di Rio de Janeiro, due separazioni alle spalle, 48 anni portati molto ma molto dignitosamente e con fortunate partecipazioni a gare di triathlon molto impegnative.

Saliti su un bel Pullman Granturismo della Lion Express alle 7.15, si procede alla rapida identificazione dei presenti alloggiati all’Hilton. Alle 7.30, come da programma, partenza dall’Hilton in direzione degli altri alberghi dislocati in altre parti della città (se così si può definire L.A.) per raccogliere gli altri partecipanti al viaggio. Facciamo rotta su downtown dove poco dopo si completa il gruppo rappresentato da italiani per la maggior parte in viaggio di nozze e da uno sparuto gruppetto di simpatici spagnoli. Immediatamente, percorrendo una delle innumerevoli freeway che affollano la città, si coglie un fatto curioso: il nostro Pullman procede speditamente nella corsia più esterna di sinistra, delimitata da una riga gialla, così come altre macchine che trasportano due o più passeggeri. Tutte le altre auto invece, con a bordo una persona, e sono la maggioranza, che percorrono le altre cinque o più corsie per senso di marcia, procedono lentamente o sono addirittura bloccate nel traffico. L’intento chiaramente dichiarato, è quello di penalizzare l’uso delle auto, per favorire la diminuzione dell’ inquinamento che qui come in tutta la California costituisce un problema molto sentito. Dal centro di L.A., percorrendo di gran lena l’interstate n° 10, con direzione Phoenix, attraversiamo Pomona, Riverside, la Moreno Valley, e tuffandoci nel Deserto, la famosa Palm Springs, piccola oasi, di una bellezza incomparabile, capace di contenere quasi un’ottantina di campi da golf, e rifugio di facoltosi miliardari. Dopo un paio di ore di marcia, lasciandoci alle spalle la S.Bernardino National Forest, ci fermiamo per una sosta tecnica per ristorarci, andare nei provvidenziali restrooms e soprattutto iniziare a comprare qualche ricordino caratteristico. Ripartendo, costeggiamo a sinistra il Joshua Tree National Park dal nome dell’omonima pianta del deserto. I Joshua Tree si stagliano contro il cielo terso ed arrivano fino a 12 metri di altezza. A dar loro questo nome furono i mormoni, che vedendo i rami contorti delle piante pensarono al personaggio biblico Giosuè che con le braccia alzate indicava loro la via del Paradiso. Incontriamo a destra le Chocolate Mountains, entriamo nel Sonora Desert con i suoi mulini a vento, di cui se ne contano circa 3500, che permettono, sfruttando l’energia eolica, di soddisfare i fabbisogni di intere cittadine tra cui la stessa Palm Springs. Più avanti all’ora di pranzo ci fermiamo per mangiare a Blythe, in uno di quei posti di frontiera, diventati con il trascorrere del tempo a noi familiari, che è facile ritrovare in migliaia tutti uguali qui negli USA. Hamburger con patatine per tutti, e riempiti per benino si riprende il viaggio senza interruzione per Phoenix-Scottsdale. Superiamo il confine tra i due Stati California ed Arizona, in coincidenza del fiume Colorado, scorgiamo in lontananza le sagome sinistre della centrale nucleare di Palo Verde, questo sì polmone di energia per gran parte dello stato dell’Arizona, e nel pomeriggio raggiungiamo Scottsdale, la Beverly Hills di Phoenix, non prima di aver attraversato l’intera città. Essa è posizionata nella Valley of the Sun, al centro del Sonora Desert, dove il clima è caratterizzato da un basso livello di umidità e da oltre 300 giorni di sole all’anno, con temperature che superano di molto i 40° C. Da Giugno a Settembre, come ci ha più volte ricordato Hugo, è veramente difficile vivere in queste condizioni. Phoenix negli ultimi anni si è via via ingrandita fino a diventare una importantissima metropoli ed una delle più importanti città d’America.

Ciò è dovuto principalmente alla presenza, per ragioni essenzialmente di agevolazione fiscale, di importanti multinazionali del campo economico-finanziario e soprattutto informatico, che hanno trovato qui in pieno deserto la sede ideale per la propria attività. E’ interessante ricordare a proposito che la maggior parte delle transazioni economiche eseguite con la carta di credito è dovuta al flusso informatico che ha il suo punto nevralgico a Phoenix nelle sedi di Visa, Mastercard ed American Express, e da qui si irradia in tutte le parti del mondo.

Phoenix inoltre, da appassionato di basket quale sono, significa che siamo nel regno dei Phoenix Suns, formidabile franchigia che ha fatto la storia dell’NBA, ed ha annoverato nei suoi ranghi, durante gli anni, autentiche stelle quali Connie Hawkins, Paul Westphal, Alvan Adams, Charles Barkley, Tom Chambers, Walter Davies, Dan Majerle per finire al grande Steve Nash. Siamo partiti di prima mattina da L.A. Con una temperatura di 74° Fahrenheit, corrispondente ai nostri 23° centigradi, per raggiungere a Phoenix i 42° Centigradi. A Scottsdale scendiamo al Marriott, senz’altro il migliore albergo tra tutti quelli in cui abbiamo soggiornato, ed accompagnati per tutto il viaggio dalla presenza sul Bus dell’aria condizionata, una volta scesi, siamo assaliti da un caldo torrido con la temperatura ben al di sopra dei 40° C, come se qualcuno ci scaraventasse aria caldissima sprigionata da enormi fohn, o se qualcuno ci avesse infilato la testa in un enorme forno. Come mosche impazzite ritiriamo i nostri bagagli, ed immediatamente ci rifugiamo nella fresca hall di questo accoglientissimo albergo e poi di corsa nella suite pronta ad accoglierci. Suite? Ma quale suite, era un vero e proprio appartamento quello che abbiamo occupato, facendo felici noi e soprattutto le bambine, che alla vista di quel po’ po’ di roba, si sarebbero stropicciate gli occhi, per capire dove si erano trovate, tanta era la meraviglia!!! Non perdendo un attimo di tempo, una volta abbondantemente dissetati e sfruttando la presenza di una piscina, immergiamo i nostri corpi nell’acqua un po’ meno calda dell’aria che respiriamo, tale però da procurarci un bel sollievo. Qui, iniziamo a conoscere gli altri partecipanti al Tour, scambiandoci le prime impressioni sulle bellezze dei luoghi che andremo a visitare. Stranamente però, avverto un nervosismo inspiegabile; ogni volta che mia moglie e le mie figlie mi chiedono qualcosa, rispondo in malo modo; sembro un’altra persona, diversa dal Ferruccio solito. Cosa mi sarà mai successo? Il mio atteggiamento non è assolutamente giustificabile, una volta che ci si dovrebbe rilassare e godere appieno di quello che si sta vivendo.

La risposta arriva qualche giorno dopo, ed è l’adattamento al fuso orario, come mi confermano alcuni amici con cui mi sono confrontato ed a cui ho chiesto se avvertivano lo stesso disagio. Ricevuta risposta positiva mi sono tranquillizzato, e con me tutta la mia famiglia.

Verso sera partecipiamo alla prima “escursione” a cui naturalmente abbiamo tutti aderito, trasferendoci in un ristorante caratteristico a Scottsdale, il “Pinnacle Peak”, per rivivere le sensazioni del passato nel selvaggio west in un suggestivo luogo impreziosito dalla presenza di enormi saguari, piante grasse del deserto, simbolo dello Stato dell’Arizona. Qualcuno di noi chiede alla guida se è necessario vestirsi elegantemente, ma Hugo risponde, quasi quasi non facendoci terminare la domanda, che coloro che avranno il coraggio di vestirsi in giacca e cravatta riceveranno un’amara sorpresa una volta all’interno del locale, poiché gli sarà tagliata la cravatta. Cosa che puntualmente constatiamo appena entriamo. Un’enorme distesa di cravatte tagliate disseminata per tutti i saloni. Fuori di qui, all’aperto gustando della buona carne cotta alla brace e sorseggiando grandi boccali di birra siamo accompagnati dalla musica e dalla voce di un bravo musicista country, che ha allietato la nostra serata. Stanchi e sazi, riprendiamo la via del nostro albergo. Iniziamo a fraternizzare tra noi, ricordando Massimiliano e Cristina di Roma, Davide e Lisa di Sorrento, Giuseppe e Carolina, Stefania e Domenico, Gabriele ed Elisa, una coppia di Chiasso e poi una dalla Sardegna, Umbria ecc.Ecc. Tutti ragazzi simpaticissimi, con l’esilarante Davide dall’ immarcescibile spirito napoletano, che per tutto il viaggio avrebbe in seguito fronteggiato con disinvoltura l’esigentissimo Hugo. E Davide con Giuseppe, altro ragazzo simpaticissimo, avrebbero cercato con le loro battutine di stemperare l’atmosfera, facendo in modo che si creasse tra noi un bel coinvolgimento. Si è fatta notte, quindi a nanna, costretti a prendere sonno.

(Speriamo bene !!!)

10/7/2009 3° Giorno: Dopo la prima notte insonne, come da facile pronostico, sveglia alle 6.00, per consentirci di fare colazione in uno dei pochi Starbuck’s aperti la mattina presto. Caricati i bagagli, saliti sul Pullman e contati i partecipanti, arriva puntuale la partenza alle 7.30. Attraversiamo Scottsdale con i suoi bellissimi parchi e campi da golf, e ci dirigiamo, prendendo la interstate 17, verso la nostra prossima tappa Montezuma’s Castle, antica rovina indiana, testimonianza della tribù dei Sinagua. Il percorso inizia con i giardini desertici dell’Arizona costellati di numerosissimi saguari, e poi inerpicandosi sempre di più, in poco meno di 2 ore raggiunge il Colorado Plateau, dove al posto dei simpatici saguari si cominciano a intravvedere pini ed abeti, piante tipiche di un paesaggio di montagna. Raggiungiamo il Castello di Montezuma, un’originalissima costruzione mimetizzata e costruita nella roccia, visitiamo il museo dove sono custoditi i reperti delle antiche popolazioni che vivevano in questi luoghi, rapidamente assaltiamo un negozio di souvenirs per accalappiare qualcosa di interessante e via verso Sedona, graziosissima cittadina del Far West, circondata da pinnacoli di arenaria rossa baciati dal Sole. Qui, seconda tappa della giornata, possiamo sostare solo per 2 ore, in tempo per rovinarci lo stomaco divorando il solito hamburger con patatine fritte, ed entrare in alcuni bellissimi negozi. In uno di questi, ormai alla fine della sosta e 5 minuti prima dell’appuntamento al Pullman per la ripartenza, Laura, con un gran tempismo riesce a regalarsi, dopo un primo tentennamento, dei bellissimi stivali con una bella cinta. L’acquisto, dopo un mio saggio suggerimento, si rivela azzeccatissimo perché stivali così belli non li avremmo più ritrovati. Maledicendo il troppo tempo trascorso per mangiare, ripartiamo per raggiungere inderogabilmente alle ore 15.00 il Grand Canyon, dove in seguito sarebbe partita un’escursione spettacolare con l’elicottero, a cui hanno partecipato alcuni del nostro gruppo con esiti, per alcuni, non troppo lusinghieri. A Sedona, posso ora confessarlo, abbiamo tutti noi lasciato un pezzo del nostro cuore, per l’incantevole bellezza del paesaggio. Lungo il percorso magnifico attraversiamo l’Oak Creek Canyon, conosciuto per i suoi spettacolari scenari e luogo di molti film western. Ritornati sulla 17, costeggiamo la città di Flagstaff e poco dopo ci immettiamo sulla 40, la vecchia Route 66, il mito americano, sinonimo di libertà e di vastità sconfinate, di macchine gigantesche e di “easy rider”, rappresentando in poche parole il simbolo di una nazione che adora essere “on the road”. Dalla 40, che collega Chicago con Los Angeles, dopo poche miglia ci inoltriamo per la strada, US 180, che ci condurrà al “Paradiso”. Superato il Coconino Plateau, finalmente ci appare dinanzi ai nostri occhi una delle sette meraviglie del mondo, il Grand Canyon, un capolavoro di selvaggia e superba bellezza disegnato dagli Dei, creato dalla Natura, un labirinto di roccia che nasconde il segreto della genesi del mondo. Immane fessura di oltre 446 chilometri di gole e rossi bastioni levigati dalle acque impetuose del fiume Colorado, alta fino a 1600 metri e larga fino a 29 chilometri che dividono i 2 Rim: North e South.

Qui mi concentro un momento per un’attenta riflessione.

Chi non lo ha visto non crede a nessuna descrizione. E chi lo ha visto non sa descriverlo. Il Grand Canyon sfida qualsiasi definizione: incommensurabile, per esempio non basta. E’ il Giudizio Universale della Natura. Essa si è superata in molti altri punti del nostro Pianeta, ma qui ha fatto anche di più. E’ una “rivelazione”, fatta dal Colorado: ma le istruzioni deve avergliele fornite Dio.

Si avverte la presenza di un qualcosa di divino, e sempre la certezza di trovarsi di fronte ad una forza gigantesca. Non c’è niente di modesto, di moderato nel Grand Canyon. Delle sette meraviglie, è certamente la prima. Ed è davvero il senso del Giorno del Giudizio che si ricava a vederlo di persona: solo un Michelangelo con uno scalpello ultraterreno potrebbe averlo ideato. Appagati da tanta vista con lo sguardo ammaliato che rimane rapito per diversi minuti, scarichiamo letteralmente la memoria della nostra macchina fotografica. Sostiamo al Bright Angel Point, il più importante tra i tanti punti di osservazione, per circa 3 ore, avendo l’opportunità di rilassarci ampiamente, visitando gli immancabili negozi ricolmi di oggetti realizzati da indiani del luogo. In uno di questi, ricavato all’interno di un caratteristico Taos Pueblo, antica casa in argilla restaurata, faccio incetta di magliette caratteristiche che utilizzerò anche come ricordi da regalare.

Ci troviamo nel territorio del Colorado Plateau che, con una superficie di circa 110.000 Km2 e un’altitudine tra i 1000 ed i 3000 metri è caratterizzata da grandi quantità di gole. Tutte le bellezze naturali che troviamo in questa zona degli USA si formarono oltre 65 milioni di anni fa, quando la spinta della placca pacifica corrugò le Rocky Mountains e sollevò appunto il Colorado Plateau. Gigantesche fratture fecero apparire rocce millenarie, e dalla pietra diversamente erosa a seconda del grado di durezza nacque questo mondo di fantastici crateri, gole, torri che non ha eguali al mondo.

Con le immagini ben impresse nelle nostre menti e nei nostri cuori, terminata la sosta, veniamo dirottati di lì a poco nel Quality Inn, un “lodge” all’interno del Parco, dove prendiamo possesso delle nostre stanze, per poi dirigerci a piedi in un grande supermercato. Cominciamo a prendere confidenza con l’esagerata quantità di prodotti offerti alla clientela, e fatta un’adeguata provvista alimentare ripariamo nel nostro albergo per mangiare prima e crollare sui nostri letti dopo, per affrontare l’indomani un’altra giornata piuttosto impegnativa. Grazie Signore per aver allietato oggi i nostri occhi da bellezze sconvolgenti. Buona notte.

11/07/2009 4° Giorno: Oggi è Sabato 11 Luglio, una data che mi sta particolarmente a cuore, perché ricorre il compleanno di mia sorella Elisabetta, a cui dedico un pensiero affettuoso, e raggiungo i 25 anni di lavoro al Laboratorio Analisi dell’Ospedale Bambino Gesù di Roma dove mi affacciai nel lontano 11/07/1984 per affrontare tutta la trafila consueta: frequenza, tirocinio, contratti di sostituzione, a tempo determinato, a tempo indeterminato ed immissione in ruolo.

Risvegliandomi alla solita buon’ora con queste strambe idee nella testa, ed eccitato per la consapevolezza di affrontare un’altra giornata indimenticabile e faticosa, da amorevole ma esigente “Pater familiae” sveglio le ragazze ancora intente a dormire profondamente.

Questa mattina Hugo ci ha imposto la sveglia ancora prima del solito: ore 6.00 con partenza alle 7.15. Fortunatamente troviamo il Pullman parcheggiato proprio davanti alla nostra stanza, quindi già pronti ci catapultiamo fuori e, con tutto il gruppo al completo, riprendiamo il nostro viaggio. Ci dirigiamo immediatamente verso la Watchtower, un punto di osservazione con una vista spettacolare sul Grand Canyon. Qui sostiamo pochissimo, giusto il tempo di scattare qualche foto, andare in bagno ed acquistare dei regalini. Si riparte in direzione Est lungo il lato meridionale (South Rim) del Grand Canyon verso il Painted Desert e la Monument Valley, terra degli Indiani Navajo. Attraversiamo il Painted Desert, ad est di Flagstaff, percorrendo prima la 64, per un piccolo tratto la 89, e la 160. Il Painted Desert è un colorato paesaggio desertico e colline smussate. Il suo aspetto variopinto è dovuto ai minerali accumulati nella pietra. Circa 225 milioni di anni fa, sul fondo del mare che allora copriva questo territorio si depositarono infatti strati sedimentari spessi fino a 500 metri.

Quando poi emerse il Colorado Plateau, circa 60 milioni di anni fa, gli strati superficiali vennero erosi, portando alla luce diversi tipi di argilla e di sabbia. Dopo diverse ore di marcia in queste meraviglie della natura, arriviamo nella Monument Valley Navajo Tribal Park, un universo mitico, un luogo della fantasia che ci “appartiene” da sempre. I nostri occhi rimangono incantati quando ci troviamo nel punto più famoso il “John Ford Point”. Colpiscono le pittoresche cattedrali di roccia che hanno fatto da sfondo a numerosi film western, tra cui “Ombre rosse” di John Ford del 1939 e “Sfida infernale” del 1946. Ed in lontananza immagino di scorgere su un bellissimo cavallo al galoppo la sagoma di John Wayne. Non possiamo non sentirci rapiti: là doveva essere sistemata la cinepresa; da laggiù arrivavano gli indiani; quello doveva essere il punto da cui partiva la diligenza. Set naturale per eccellenza, qui il cinema hollywoodiano ha posto le fondamenta della propria fortuna.

Tanto da riproporre un dilemma. E’ il cinema che ha trasformato questo paesaggio in mito, o è la selvaggia purezza di questo che ha reso possibile quel cinema. Risposta ardua e difficile. Comunque una cosa è certa: nessun altro, prima e dopo John Ford, ha saputo far recitare le rocce e le guglie, la polvere rossa e le nuvole, la linea piatta dell’orizzonte e i giochi d’ombra e di luce generati dalla rifrazione del sole sulle cuspidi e i pinnacoli di uno dei luoghi più belli del pianeta. John Ford ha regalato questa terra al mondo, l’ha strappata alla sua esistenza appartata in un angolo remoto della riserva Navajo, sul confine tra Arizona e Utah, consacrando la Monument Valley come scenario insostituibile del “vero” West. Qui prende forma, insomma, l’American Dream.

Scattate le solite numerose foto dalla mia cara Nikon D 90, che così generosamente asseconda i miei desideri, e puntualmente catturati in tutte le maniere gli scenari di vertiginosa grandiosità e di quiete maestosa che neanche qualche nuvoletta sparsa qua e là riesce minimamente a scalfire, ci apprestiamo a salire su dei fuoristrada condotti dai Navajo, per un’escursione tra i monoliti. Il sole impietoso incombe sulle nostre teste opportunamente riparate, e piccoli tra i giganti, ci fermiamo su un’altura a ridosso di una di queste cattedrali di roccia rossa. Cinque minuti cinque di sosta e, prima di ripartire, mi lascio convincere ad acquistare delle mattonelle intarsiate e colorate dagli stessi indiani ed esposte alla buona sul cofano del fuoristrada per la modica cifra udite, udite, di 20 $ cadauna!!! Ricevendo ogni forma di cordiale insulto da mia moglie per aver commesso tale reato e convincendola che non si sarebbe presentata più un occasione simile, procediamo per altre tappe. Nell’ultima di queste, proprio mentre il nostro amico Massimiliano gentilmente ci scatta una foto ricordo, ecco che si scatena una specie di piccola tromba d’aria su di noi. Ripariamo le nostre macchine fotografiche e la videocamera sotto le magliette per evitare il vento stracolmo di sabbia, (precauzione ahimé rivelatasi, come poi constatiamo, perfettamente inutile) e frettolosamente terminiamo da lì a poco il giro indimenticabile. Risaliti sul Bus e rinfrescati per benino, lasciamo un altro piccolo pezzo di cuore in questa valle incantata. Marciando a ritroso, superiamo la cittadina di Kayenta, e speditamente puntiamo verso Page a Nord-ovest, al confine tra Arizona e Utah, dove è situata nelle vicinanze la Glen Canyon Dam, la diga sul Glen Canyon che dal 1963 ferma il corso del fiume Colorado per formare il Lake Powell, creato per la produzione di energia elettrica. Anche qui abbiamo la fortuna di vedere scenari meravigliosi sulle formazioni di arenaria che compongono gli altopiani circostanti. Circa trenta minuti di sosta, per verificare la maestosità di questa che costituisce la quinta diga più grande del mondo, e di nuovo attraversando il Colorado via verso Kanab sede del nostro prossimo pernottamento. A Kanab, conosciuta come la “piccola Hollywood” dello Utah, arriviamo abbastanza provati rifugiandoci in un discreto albergo lo Shilo Inn.

Dopo esserci frettolosamente rinfrescati con una bella doccia, raggiungiamo per la cena un locale caratteristico, denominato ”Frontier movie town”, dove trascorriamo una piacevolissima serata. Qui prima di mangiare veniamo tutti convocati sul set di un film, per vivere un’esperienza unica. La scena in cui ci troviamo è ambientata nel selvaggio west, con i soliti cowboys, ragazze di saloon piuttosto accondiscendenti ed alla fine immancabilmente non potevano mancare gli indiani. Risate a non finire per l’improbabile recitazione ed i costumi indossati dai nostri con una bella foto di gruppo finale. Accompagnati da una buona musica western cantata da una biondona del luogo, si comincia a gustare un piatto tipico a base di carne, specialità del luogo, tanto decantata da Hugo per la sua lunghissima preparazione, buona sì ma non tanto da entusiasmare la maggior parte di noi. Dopo cena, visita al solito negozio di souvenir adiacente al ristorante, ed incetta di mille ricordini. Anche questa giornata indimenticabile è trascorsa e, morti per la stanchezza, andiamo a dormire sazi di immensità. Good night America.

12/07/2009 5° Giorno: “Rocce rosse che stanno in piedi come una moltitudine di uomini” così gli indiani chiamavano il pittoresco Bryce Canyon, perché secondo una leggenda, lo Spirito Coyote trasformò in pietra le creature maligne.

Ripartiamo da Kanab percorrendo la statale 9, la Highway 89 e dopo aver superato Glendale giungiamo al Bryce Canyon National Park, al centro del Colorado Plateau. Lo spettacolo che ci si para davanti agli occhi, la mattina di domenica 12 luglio, è impressionante. Rosse torri di pietra si alzano dal suolo come canne d’organo. Il vento e le condizioni atmosferiche in milioni di anni hanno creato queste formazioni calcaree dai colori intensi, dal giallo più chiaro a quello più intenso, dall’arancione al rosso fuoco. Il nome del parco deriva da un pioniere mormone di nome Bryce, che giunto in queste terre con la sua famiglia vi costruì un ranch, ma ben presto si trasferì in Arizona perché stanco di cercare le sue mucche per settimane intere nelle sue tortuose gole. Ci troviamo al Sunset Point a 2200 metri di altitudine, che insieme al Sunrise Point rappresenta il punto più panoramico del parco. Immobile e rapito di fronte a questo panorama mozzafiato, cerco di immortalare ogni possibile scorcio di questo anfiteatro. Foto di gruppo, e poi coraggiosamente alcuni di noi provano a scendere lungo il Rim Trail che corre appena sotto il bordo del canyon. Spinto anch’io dalla curiosità, senza giungere alla fine del percorso che sembra un imbuto infernale, mi inabbisso per pochi metri circondato da guglie, lance e pinnacoli variopinti. Scatto, scatto foto a più non posso con frenesia, come preso da un raptus, mi giro e rigiro come una trottola per cogliere ogni minimo particolare, poi, accorgendomi che la temperatura sale rapidamente man mano che si scende, risalgo su per il sentiero. In procinto di ritirarci nel nostro Pullman per riprendere il viaggio, nel punto di raduno improvvisamente sento una voce che urla: “dottore, dottore” . Faccio per voltarmi, e non credendo ai miei occhi appare Andrea, un ausiliario del Bambin Gesù in viaggio di nozze, che mi chiama insistentemente. Noooooooo!!!!!!!!!! Anche tu qui, no, non è possibile… Dai momenti un po’ malinconici delle notti in Ospedale trascorsi insieme, allo scenario incantato del Bryce a 13 ore di differenza ed a oltre 10.000 chilometri di distanza dalla nostra tanto amata Roma. Mah, non ci si crede, il mondo è talmente piccolo… Comunque si confabula amabilmente sotto gli abeti che provvidenzialmente ci riparano. Ci salutiamo, augurandoci una buona prosecuzione del viaggio ed un buon ritorno a casa.

Dal paesaggio incantato di Bryce, facciamo dietrofront dirigendoci verso lo Zion National Park. Il percorso si snoda lungo il fondo di un canyon gigantesco, una scenic-drive asfaltata, con le scoscese pareti della gola creata dal Virgin River, un affluente del Colorado, che precipitano da quasi 1000 metri di altezza, formando possenti colonne e profonde nicchie, in cui nell’Ottocento i mormoni videro il “tempio naturale di Dio”. E’ difficile scattare foto dal Pullman in corsa, ma a velocità necessariamente ridotta, riusciamo ad immortalare questi strapiombi che assumono in cima un colore bianco immacolato fino ad un cioccolato intenso in fondo alla valle. Sostiamo un pochino, faccio per scattare le solite foto panoramiche, e noooooo… Ancora una volta loro, sempre loro, i soliti “noti”. I soliti noti non sono altri che “deliziosi” sposini sardi che tutte le sante volte che bisognava scattare foto, erano sempre in posa per primi, come se ci anticipassero nel tragitto per farsi trovare pronti nel punto più panoramico. Penso, anzi sono convinto, che anche da bambini formavano una coppia… Per il calcolo delle probabilità, ci deve essere un rimescolamento di gente. Non è possibile che con un gruppo di 40-50 persone, tutte abbastanza desiderose di farsi scattare foto, i primi erano sempre loro: i sardi. Passi per coloro che avevano i posti in fondo all’autobus, come la mia famiglia, ma per tutti gli altri deve essere stata dura da digerire… Intendiamoci naturalmente scherzo…

Abbandonato presto Zion e tutte le mie elucubrazioni cerebrali, puntiamo dritti dritti verso Las Vegas, nostra prossima tappa.

E che tappa… Las Vegas. La città più scintillante del Nevada esercita una forza di attrazione quasi magica. Fu Bugsy Siegel, un boss della criminalità della East Coast, ad aprire in questa nicchia nel deserto il primo casinò: il Flamingo Hotel, che trasformò la città in una mecca per giocatori d’azzardo.

Arriviamo nel pomeriggio a Las Vegas, temperatura 43° Centigradi, lasciamo boccheggianti i nostri bagagli nelle stanze del Circus Circus elettrizzante Hotel dove alloggiamo, e senza perdere tempo, con delle scorte di abbondante acqua, iniziamo la nostra escursione nel centro della città alla scoperta di alcuni tra i più mirabolanti alberghi, dove il nostro abilissimo autista Richard, come in un ottovolante, in pochi minuti, si districa mirabilmente attraverso freeway, sottopassaggi, strade apparentemente inaccessibili, facendoci scivolare dentro la pancia del primo che andiamo a visitare, il maestoso Caesar’s Palace. Qui visitiamo un enorme centro commerciale arredato con uno stile che richiama visibilmente l’impero romano, con un soffitto identico alla volta celeste, e come il cielo, con il passare delle ore assume colori diversi. Passeggiamo rapidamente per i viali come se stessimo nell’antica Roma, osserviamo estasiati le vetrine delle griffes, da Armani a Gucci, Valentino, Prada, Missoni, ecc.Ecc., usciamo da qui ed attraversiamo “The Strip”, il viale principale di Las Vegas, dove sono affacciati, tra gli altri, 14 dei 20 alberghi più grandi del mondo ed improvvisamente ci troviamo all’interno del Venetian, piuttosto kitsch, con all’interno addirittura improbabili canali percorsi da gondole piene di turisti orientali e situati, udite udite, al terzo piano dell’albergo (sic !!!). Ma che razza di solai hanno costruito ‘sti americani per sostenere il peso di chissà quante tonnellate di acqua? Magia, vera e propria magia, del resto non ci troviamo a Las Vegas? Usciamo dall’albergo e dirottiamo le nostre affaticate membra al Bellagio, dove poco dopo è in programma lo spettacolo con luci e fontane di acqua che zampillano a ritmo di musica. Siamo in dirittura d’arrivo di un’altra giornata vissuta molto intensamente, e stanchi torniamo in albergo per rinfrescarci con la solita bella doccia. Poco dopo scendiamo nella hall alla ricerca di qualche ristorante adatto ai nostri gusti, e qui troviamo alcuni del nostro gruppo con intenzioni bellicose pronti ad affrontare la movida notturna. A Las Vegas ogni espediente è buono per incantare il turista ed attrarlo nei casinò, e Davide è uno di questi e sembra vestito a suo agio: giacca bianca (alla Gei Ar), cappello da cowboy, stivali ed occhiali da sole… Immaginando ciò che sarebbe successo di lì a poco, lasciamo la compagnia, per addentare finalmente qualcosa di buono da mangiare. Rapida cena e tutti a ronfare per sfinimento…

13/7/2009 6° Giorno: Quello che mi sarebbe piaciuto visitare all’inizio del viaggio, pur non essendo contemplato nei programmi giornalieri del tour, era la Death Valley. Scagli la prima pietra colui che non si è mai incuriosito sentendo questo nome così poco rassicurante, tra l’altro “guadagnato sul campo” quando questo luogo fu teatro della fine di un gruppo di cercatori d’oro che non erano più riusciti a ritrovare la giusta strada. La “valle della morte”, che ora è un parco nazionale, rappresenta un qualcosa di unico, una destinazione ideale per una gita giornaliera da Las Vegas: pur essendo in California, si presta infatti ad essere facilmente raggiunta dalla città della “perdizione” da cui la separano circa 225 Km. Ma la curiosità è soprattutto cresciuta in me da quando, in viaggio di nozze e percorrendo il tragitto Los Angeles – Las Vegas con l’aereo, dall’alto, ebbi modo di intuire l’inaccessibilità ed allo stesso tempo il fascino della zona. Ripromisi a me stesso di ritornarci, ma si sa molto spesso i sogni…

Ebbene questi a volte si realizzano, perché proprio la Death Valley andiamo a visitare la mattina del 13, con una escursione facoltativa a cui tutti del gruppo, su proposta di Hugo, abbiamo entusiasticamente aderito, avendo a disposizione, tra l’altro, l’intera mattinata libera.

Ci svegliamo presto come di consueto, facilitati dal fatto che non dobbiamo lasciare la stanza e preparare i bagagli. Scatto qualche foto, così per non perdere l’abitudine, infilando il braccio, con la mia Nikon ben stretta in mano, attraverso la stretta fessura (10 cm.) della finestra, obbligata ad aprirsi solo per quello spazio per scoraggiare i malintenzionati che avessero voglie strane… Riprendo l’alba su Las Vegas dal 14° piano dell’albergo. (Chissà come avrei reagito se mi fosse accidentalmente caduta la macchina fotografica? Mah, è meglio non pensarci) Dal fresco (o addirittura freddo !!!) della nostra stanza, con l’aria condizionata al massimo, scendiamo frettolosamente per salire sul Bus, constatando che fuori già alle 7.15 la temperatura supera i 30°. Tutti al completo, con Hugo intento a contare con uno strano congegno i partecipanti alla gita, partiamo di ottimo umore ascoltando le peripezie di quelli del nostro gruppo salutati la sera prima nella hall dell’albergo e capaci poi di noleggiare una limousine al modico prezzo di 140 $ e di brindare a champagne. (La leggenda narra che Davide si sia superato, perché girando per i vari locali veniva scambiato per un ricchissimo protagonista del jet-set internazionale e tutti a chiedersi chi fosse !!!…) Usciti rapidamente dal centro urbano di Las Vegas, imbocchiamo la Highway 95 a nord-ovest di Las Vegas.

Sulle carte geografiche, anche le più dettagliate, praticamente non appare niente, o meglio appare una generica Nellis Air Force Base. Ma se si prende la 95, si entra immediatamente nel mondo di ET. O almeno è quello che sostengono gli appassionati di UFO, visto che l’Extraterrestrial Highway, come è stata ribattezzata, costeggia la leggendaria Area 51, la supersegreta base dell’US Air Force dove molti ritengono, appunto, che siano custodite le prove della vita extraterrestre. Se non addirittura i corpi di almeno sei veri e propri alieni precipitati chissà come sul nostro pianeta (l’episodio sarebbe avvenuto l’8 luglio 1947 a Roswell nel New Mexico). L’ipotesi è affascinante, ma rimanendo con i piedi per terra, va detto che la fama deriva dall’avvistamento di strani veicoli testati dall’aviazione USA, dai prototipi degli aerei spia U-2, Stealth ecc. Resta il fatto che “avvistamenti” e film come Indipendence Day, in cui si parla di un attacco alieno al nostro pianeta e la cui controffensiva viene condotta proprio dall’Area 51 hanno contribuito a rinforzare un mito praticamente inossidabile. Tanto che mette paura anche il solo fatto di nominarla. Non è assolutamente il caso di avvicinarsi troppo, perché saremmo subito fermati dalle pattuglie della polizia continuamente in perlustrazione. Hugo ci ha ricordato che la maggior parte dei militari in forza a questa base vivono a Las Vegas, ed è loro vietato svelare qualsiasi attività ai familiari o amici per il tempo di 45 anni, pena una detenzione lunghissima.

La dimostrazione di quanto appena esposto, ci viene fornita fermandoci per una sosta provvidenziale in un punto di ristoro adiacente alla base. Qui troviamo affisse alle pareti poster raffiguranti alieni, come se ci trovassimo a casa loro. Lasciato al suo destino il “Nevada Joe’s”, questo il nome del singolare posto dove abbiamo sostato, (con adiacente un losco e “promiscuo” motel aperto 24 h, adibito ad incontri “ravvicinati” tanto per rimanere in tema e per non farsi mancare proprio nulla) ci dirigiamo verso la nostra meta. Più avanti in pieno deserto scorgiamo in lontananza il penitenziario dove è recluso il “povero” O.J. Simpson, l’ex asso del football americano, che invece di godersi l’enorme fortuna accumulata con la sua dorata attività, ed avendo avuto la possibilità di farla franca per un omicidio consumato ai danni della moglie già una prima volta, ha pensato bene di ricadere con un altro misfatto. Ora, invece di passare il resto della sua esistenza in una delle sue dimore disseminate un po’ in tutti gli States a giocare a golf, come tutti i pensionati che si rispettino da queste parti, si gode l’aria condizionata di una delle migliaia di celle della prigione. Rapiti dai racconti sempre molto interessanti di Hugo, imbocchiamo la 190 dove c’è il cartello che segnala l’entrata nella “Death Valley National Park”. Come ho appena accennato all’inizio, a dare questo nome alla valle furono alcuni pionieri, che nel periodo della febbre dell’oro californiana (1849) cercarono una scorciatoia per raggiungere il promettente Ovest. Il gruppo però finì in questa zona e si salvò solo grazie alla tenacia di due giovani che percorsero più di 400 chilometri per trovare cibo ed acqua. “Goodbye, Death Valley!”, avrebbe gridato uno di loro prima di lasciare la valle. Intorno alla fine dell’ Ottocento qui si estraeva il borace, che veniva caricato sui muli e portato verso Mojave. Come ci avviciniamo verso il cuore del parco, riusciamo a notare le incredibili tonalità del colore delle rocce. Si spazia dal rosso al giallo, dal verde al marrone, al nero, tutto in pochi metri. Ci fermiamo al Zabriskie Point, reso celebre dall’omonimo film di Michelangelo Antonioni, dove, dopo aver percorso un brevissimo tratto in salita dal parcheggio del Bus, possiamo osservare lo spettacolare anfiteatro che la natura ci regala.

Questa valle è una delle regioni più calde del pianeta, e nel periodo di luglio la temperatura può raggiungere i 57° C. Ma noi siamo fortunati, perché passiamo con nonchalance dai 20° C del Bus ai 49° C del posto. (Qual è il problema, sic !!!!!) Comunque, in bermuda, maglietta di tessuto antisudore che saggiamente ho portato da Roma, gentile regalo di mio fratello Gabriele, scarpe sportive e berretto comperato nel parco Zion, ci godiamo quest’immenso museo geologico dove il tempo è visibile nelle rocce esposte. Ma gli strati di queste sono così distorti, spezzati e confusi che è difficile leggerne la storia. Vulcani, venti, terremoti hanno plasmato queste terre. Dopo Zabriskie, ci attende Badwater, il punto più basso e più caldo del Nordamerica, 86 metri sotto il livello del mare, dove sostiamo per circa 10 minuti perché di più non è possibile. L’aria è così tersa che le distanze sembrano ancora più brevi ed il cielo è profondamente blu. Metto a dura prova la mia Nikon ancora una volta, soffermandomi ed inquadrando i cristalli di sale che riempiono questo lago dove la poca acqua rimasta è quasi tutta evaporata.

Rapide foto, e visto che si avvicina l’ora di pranzo, approfittiamo per fermarci a Furnace Creek, vera e propria cattedrale nel deserto, con aiuole di un verde scintillante che sembra finto, ristoranti, bar e chi ne ha più ne metta…Corsa spasmodica ai souvenirs, e poi, seduti su delle panche all’ombra innaffiate con spruzzi di vapor d’acqua provenienti dal tetto della copertura in legno (che so ‘sti yankees !!!!!), mangiamo panini al prosciutto comperati allo spaccio, ingurgitiamo tantissima acqua (che sembra oro tanto è cara) ed attendiamo il momento di ritornare a Las Vegas. Siamo stati fortunati, perché in questo giorno si corre la maratona del deserto e quindi la zona è invasa da “pazzi” atleti che, protetti da berretti, fazzoletti, asciugamani per difendersi dal caldo, sfidano l’impossibile per accaparrarsi i 50.000 $ di premio che spettano al vincitore. Con questa nota di colore, ripercorriamo la strada a ritroso per guadagnarci, una volta a Las Vegas, un intero pomeriggio a scorrazzare per un gigantesco Outlet.

Non l’avessimo mai fatto. Già un po’ stanchi per l’escursione mattutina, iniziamo le nostre “visitine” nei vari negozi. Prima tappa Grog’s, dove per scegliere due paia di scarpe rimaniamo per 1 ora. Sfiduciato, esausto, prego per essere risparmiato da questo supplizio. Ma la mia preghiera non viene esaudita. Poi finalmente la situazione si sblocca, le bambine hanno le loro belle scarpe e si continua nel tour spendereccio: bermuda, pantaloni, magliette, tutto quello che è possibile accalappiare e che in Italia non è possibile comprare, addirittura una valigia dove mettiamo le buste, zaini, zainetti riempiti alla buona, con il tempo che scorre velocemente. L’appuntamento con gli altri, per il ritorno in albergo, era fissato alle 18.30. Ci accorgiamo che si sono fatte le 20.00, ed allora, solo allora, boccheggianti, chiamato un taxi, ritorniamo al Circus Circus.

Per cenare, scendiamo in uno dei tanti ristoranti che affollano l’albergo, e affamati divoriamo hamburger e patatine (sempre loro). Per finire notiamo che l’albergo comunica con un Luna Park (arisic !!!!) dove c’è ogni ben di Dio. Montagne russe, ottovolanti, giochi d’acqua, giri della morte. Noi scegliamo per le bambine dei giochi adeguati, dove possano scorazzare e divertirsi. Soddisfatti io e mia moglie per aver concesso loro un po’ di svago, ci ritiriamo a nanna…E fu subito rooonf…Rooonf… 14/7/2009 7° Giorno: Sveglia all’alba, anticipata di qualche minuto, perché ci attende un lunghissimo trasferimento dovendo giungere in serata ad Oakhurst, località in prossimità del Yosemite National Park.

Imbocchiamo velocemente l’Interstate n° 15, abbandonando definitivamente la favolosa città di Las Vegas, e dal Nevada torniamo in California.

Così come è stato spostato l’orario in avanti all’inizio del viaggio (da -9 a -8 rispetto all’Italia) per andare dalla California in Arizona, così ripristiniamo l’ora locale una volta superata la frontiera tra i due Stati. Ci troviamo nel cuore del Mojave Desert percorrendo chilometri e chilometri di infinite distese senza vita interrotte quà e là da infernali colline, tanto aspro è il loro profilo. Attendiamo con impazienza la sosta, da effettuare nella città di Barstow. Città spettrale, posta al centro del deserto, funge da centro di rifornimento per i dintorni, estesissimi e molto scarsamente popolati. Ci fermiamo per pochi minuti, apprezzando caratteristici Mac Donald’s allestiti in vecchi vagoni ferroviari simpaticamente restaurati. Tappa obbligatoria nel negozio dei souvenirs, dove sembra poco simpatico non acquistare qualcosina. Riprendiamo il viaggio, volendo da noi allontanare il caldo soffocante che ci accompagna ormai da diversi giorni. Come ci ha solennemente promesso Hugo, d’ ora in poi dobbiamo riporre in valigia l’abbigliamento leggero indossato finora, perché passeremo da una temperatura di 40° C ed oltre, a quella ben più sopportabile di 20 – 25° C procedendo verso Nord. Subito dopo Barstow, scorgiamo ad Ovest la Edwards Air Force Base, famosissima base militare nota per accogliere la pista di atterraggio degli Shuttle provenienti dallo Spazio. Siamo sulla Highway 58 e con nostro notevole piacere notiamo che il paesaggio circostante, da landa desolata si trasforma poco a poco in una lussureggiante e verdeggiante pianura: la San Joaquin Valley. Qui sono localizzate la maggior parte delle industrie agricole dello stato. Si estende per circa 600 km longitudinalmente da nord a sud. La parte settentrionale è nota come Sacramento Valley, mentre la sua parte meridionale come San Joaquin Valley. Le due parti sono unite nel delta formato dai fiumi Sacramento e San Joaquin, chiamato delta del Sacramento. La Valle centrale di California è una depressione di origine tettonica ricoperta da rocce sedimentarie, derivante dall’erosione delle montagne che la circondano. Queste montagne sono le catene costiere del Pacifico a occidente e la Sierra Nevada a oriente. La vista dal pullman in corsa è impressionante e rassicurante al tempo stesso. Dentro di me rifletto a tutto il ben Dio che si può ricavare da queste infinite coltivazioni, che potrebbero risolvere i problemi alimentari di milioni e milioni di esseri umani. Con in mente queste considerazioni, mi lascio rapire dal Dio Morfeo e mi abbandono completamente a Lui, consapevole di non perdere quasi nulla nel prosieguo del viaggio. Al risveglio, come d’incanto, appare Bakersfield, la settima città più vasta della California, che vive di agricoltura, estrazioni del petrolio e industrie di raffinazione. Procediamo in questa nostra folle corsa verso le tanto agognate alture che in seguito raggiungeremo. Lungo la strada, superiamo Visalia, e puntiamo verso Fresno, la città più importante e grande della Valle con un milione di abitanti, e punto di accesso per Yosemite e per altri due importanti parchi: il Sequoia National Park ed il Kings Canyon National Park. A Fresno fu ambientato il film “Mostri contro alieni”, e da qui abbandoniamo la 58 per prendere la 41, cominciando ad assaporare la fine di questa lunga tappa che si conclude ad Oakhurst. Giunti in questa deliziosa cittadina, prima di prendere possesso della nostra stanza al Comfort Inn, facciamo rifornimento per la cena in un comodo supermercato, e tornati nel nostro hotel, approfittiamo per un bel bagno tonificante nella piscina scoperta. Ceniamo velocemente nella nostra stanza e ci prepariamo per un fuori programma non previsto. Oggi è il compleanno di Hugo…Ed allora vogliamo sorprenderlo…Regalandogli un bel momento di allegria. Radunatici intorno alla piscina in tarda serata, noi e tutto il gruppo del tour davanti alla stanza di Hugo cominciamo ad intonare Happy Birthday to You a gran voce. Si apre la porta e compare Hugo in tutto il suo “splendore” (naturalmente per le ragazze), che trafelato, assonnato e colto di sorpresa dà inizio al festeggiamento del suo compleanno. Trascorriamo dei bei momenti, perché cogliamo Hugo impreparato a questa dimostrazione di riconoscenza da parte nostra, e forse più naturale del solito. Lui che solitamente assume la maschera di “burbero” buono per gli ovvi motivi dettati dal suo ruolo, appare più sciolto, partecipando e divertendosi. E così si conclude anche questa lunghissima giornata, ritirandoci nelle nostre stanze perché: the show must go on.

15/7/2009 8° Giorno: Quest’oggi, per gentile concessione del nostro Hugo forse addolcito dalle nostre premure, ci svegliamo un po’ più tardi (comunque alle 7.00). Come già ci era stato anticipato la sera prima, ci viene offerta la colazione dall’Hotel e quindi una volta pronti ci precipitiamo in una saletta per degustare le “specialità” del luogo. Dall’inizio del viaggio fino ad’ora credo di essermi dimagrito di qualche chilo perché così come sono affascinanti questi luoghi, così è deprimente il mangiare. Tutti noi rimpiangiamo il nostro caffè, il cappuccino, i cornetti, la pasta, addirittura il pane…Tranne la carne che è abbastanza buona ma non eccezionale.

Il nostro Tour prevede una giornata intera al Yosemite National Park con ritorno qui ad Oakhurst in serata.

Siamo a 24 km. Di distanza dall’entrata sud del parco dove ci dirigiamo immediatamente una volta saliti sul Bus. Raggiunto il parco, in un’area attrezzata aspettiamo un autobus che ci condurrà nel celebre Mariposa Grove of Big Trees, raggruppamento di alcune centinaie di sequoie la cui età media raggiunge e supera i 2000 anni, come il Grizzly Giant, che si pensa abbia 2700 anni. In questa zona del parco Hugo ci trascina per una camminata di circa 1 ora attraverso le gigantesche sequoie. Già viste nei documentari svariate volte, non si può mai abbastanza apprezzare la loro incredibile dimensione se non trovandosi a pochi metri da loro. Si innalzano per decine e decine di metri, su su nell’azzurro del cielo, e non si riesce a scorgere la loro cima tanto sono alte.

Incantati da tanta meraviglia, a malapena riusciamo ad ascoltare la guida che ci descrive le loro caratteristiche. Scopriamo che esse appartengono al genere dei cipressi e prendono il nome da Sequoiah, un pellerossa inventore del sillabario Cherokee. Comprendono due specie: La Sequoia sempervirens della California (Coast Redwood in inglese), l’albero più alto del mondo potendo raggiungere i 115 metri, e la Sequoia gigante che è l’albero più grande del mondo come volume. Hanno un aspetto conico-piramidale, un tronco aromatico e profumato ed una corteccia arancione-rossastra, dovuta alla presenza di tannino. E proprio per questo motivo nel caso si incendiasse la foresta in cui vivono, a differenza delle altre piante ad alto fusto che prendono fuoco, la sequoia, solo lievemente e superficialmente si incenerisce. Anche la sua riproduzione è caratteristica: i coni femminili (volgarmente chiamate pigne), terminali ai rami, non si sfaldano a maturità, e cadono interi dall’albero. A loro volta, rosicchiati dai provvidenziali scoiattoli, notevolmente presenti alla base di questi alberi come abbiamo personalmente potuto constatare, si aprono lasciando cadere i semi che daranno vita a nuove sequoie, perpetuando il ciclo vitale. Incredibile la simbiosi scoiattolo-sequoia per la sopravvivenza di quest’ultima. Terminata questa breve ma interessantissima passeggiata tra i “giganti”, finalmente è giunta l’ora di presentare “il palcoscenico della natura” per eccellenza: Signori e Signore ecco a voi lo Yosemite National Park.

Cascate, rocce di granito, vallate, foreste ed animali allo stato brado celebrano la natura, incontrastata protagonista della regione. Il parco, un gioiello incastonato nella catena montuosa della Sierra Nevada, era per i suoi primi abitanti, gli indiani Ahwahneechee, un luogo sacro.

Un posto isolato dove convivono da secoli vallate e foreste, cervi ed orsi, scoiattoli ed uccelli. Insomma una combinazione esplosiva, che nel 1851, un anno dopo l’ingresso della California nell’Unione, fece restare a bocca aperta i primi uomini bianchi che riuscirono ad arrivare da queste parti. Il pittoresco Merced River attraversa la Yosemite Valley, le cui pareti di granito superano le rocce circostanti anche di 1500 metri, ed è sorvegliata da due imponenti colossi, l’Half Dome (2695 metri) e l’El Capitan (2307 metri) quest’ultimo particolarmente indicato per i free climber, la cui liscia parete di roccia monumentale è alta tre volte l’Empire State Building. “O-ha-mi-te”, ecco come gli indiani chiamavano l’incantevole valle: la “valle degli orsi”, da questo nome derivò poi quello attuale di Yosemite. Quando entriamo nella valle davanti ai nostri occhi (ormai allenati), si apre un panorama di incomparabile bellezza. Ci fermiamo, come è doveroso, per scattare foto e quindi con la sosta pomeridiana nelle immediate vicinanze delle Yosemite Falls, abbiamo la possibilità di placare il nostro appetito, che specialmente dopo la passeggiata tra le sequoie, è diventato via via sempre più insistente. Nonostante la presenza di tanto verde, la temperatura è sempre piuttosto alta e troviamo il modo di rinfrescarci immergendo le nostre povere gambe nel delizioso torrente alimentato dalle stupende cascate, che con una caduta di 739 metri, sono le più alte del Nordamerica. L’appuntamento con il Bus è per le 18.30 e quindi c’è il tempo di ricorrere ai sempre più desiderati “restrooms” (ce ne fossero di così puliti in Italia !!!) ed ai proverbiali negozi di souvenirs ( ce n’è sempre uno fornitissimo anche nel posto più sperduto degli USA). Facciamo incetta di ogni ben di Dio, naturalmente, e si riparte per trascorrere la seconda notte ad Oakhurst.

16/7/2009 9° Giorno: Consapevoli di esserci riposati per benino durante la notte ed elettrizzati per il programma giornaliero, ripartiamo alla volta della “Città della Baia”, la splendida San Francisco.

Ma prima che il sogno si avveri, ne dobbiamo trascorrere di tempo… Per prima cosa, per l’appunto, dopo che siamo partiti da una mezzora buona, un “simpatico” ragazzo in viaggio di nozze, di nome Antonello, si ricorda di aver dimenticato la sua fede nuziale sul comodino della camera da letto !!!! Già preso di mira da tutti noi per la sua scemenza, lo “Stolto di Colleferro” (questo il suo nickname) ha peggiorato, grazie alla sua performance, ancor di più la sua posizione. Non vi sto qui a raccontare la reazione di Hugo. Paonazzo in volto, ma freddo come un iceberg per non far trasparire la sua irritazione, come se volesse ucciderlo (e noi con lui), ha intimato all’autista Richard un rapido dietrofront per tornare ad Oakhurst a riprendere la fede. Tutti siamo rimasti increduli di fronte a tanta disponibilità, perché al posto di Hugo l’avremmo volentieri abbandonato al suo misero destino una volta sceso dal Pullman. (Con infiniti ringraziamenti da parte della povera moglie, la cui felicità era direttamente proporzionale allo stato semi-comatoso che traspariva dal suo sguardo ormai esangue…) E meno male che l’amata si trovava in viaggio di nozze, figuriamoci dopo un anno di matrimonio con quel demente !!! Va bè, persa un’ora buona, in seguito ci saremmo rifatti con gli interessi. Riprendiamo la nostra avventura percorrendo la statale 49 direzione Mariposa, situata sulle pendici occidentali della Sierra Nevada, a nord di Fresno e a sud est di Stockton. Da qui svoltiamo verso Sud-ovest prendendo la 140 verso Merced, capoluogo dell’omonima Contea, il cui nome deriva dal fiume che scorre nel Yosemite National Park. Siamo tornati nella San Joaquin Valley, ci troviamo sulla 99. Superiamo l’anonima Turlock e poi subito dopo la più famosa Modesto, città nota per aver dato i natali al regista George Lucas ed al leggendario nuotatore Mark Spitz. A Manteca, un’altra città lungo il nostro cammino, giriamo ad ovest prendendo la 205 e poi la 580 per Oakland, che insieme a Richmond, Berkeley, Sunnyvale, San Josè, Fremont, Hayward, forma la Bay Area. Solo quando attraversiamo Oakland ci rendiamo conto che il tanto atteso momento sta per giungere… Le città degli Stati Uniti non ammettono mai mezze misure: piacciono o non piacciono, suscitano emozioni oppure repulsione, divertono o risultano noiose. Però, quando da Oakland imbocchiamo il Bay Bridge, avvolti dalla musica stupenda irradiata a tutto volume di “If you’re going to San Francisco” di Scott Mc Kenzie, canzone trionfalmente presentata al Monterey International Pop Festival tenutosi nel Giugno del 1967, si staglia davanti a noi San Francisco e comprendiamo perché questa bellissima città riesce a conquistare, apparentemente senza sforzo, l’amore di tutti coloro che decidono di visitarla.

Ci contendiamo un po’ tutti le poltrone in prima fila, con una prepotenza sconosciuta fino a quel momento, per fotografare le famose strade di questa città. Ci tuffiamo letteralmente nel ventre di downtown, come se il nostro bus fosse telecomandato e volesse recuperare il tempo maldestramente perso questa mattina. Raggiungiamo Union Square che, considerata all’epoca dei pionieri il centro geografico della città, deve il suo nome alle manifestazioni, qui ospitate, a favore dell’unione degli stati americani e contro la secessione sudista. La piazza è una tappa d’obbligo soprattutto per la presenza dei più raffinati grandi magazzini e negozi della città. Svicoliamo per il Financial District “la Wall Street del West” che si distingue dal resto della città per gli altissimi edifici in vetro e acciaio che la fanno tanto somigliare a un angolo di Manhattan. Ma la costruzione più notevole, quella che segna in modo indelebile lo skyline di Frisco è la Transamerica Pyramid, costruita su grandi piloni idraulici per renderla inattaccabile anche dai più potenti terremoti. E’ l’ora di pranzo, e per non far mugugnare ancora a lungo il nostro stomaco cosa c’è di meglio del Fisherman’s Wharf. Non si può resistere al fascino del molo dei pescatori che rappresenta sia il centro commerciale dell’industria legata alla pesca, sia una delle maggiori attrazioni turistiche dell’intera California. Ci sono negozi, ristoranti di ogni tipo tali da soddisfare ogni tipo di palato. Sostiamo per il pranzo al Pier 39, il molo più famoso che ospita un complesso dedicato al divertimento: ci sono artisti di strada, ristoranti lussuosi, chioschi, attrazioni tipo Luna-Park, negozi che offrono gioielli, articoli in pelle, argenti. Io e Laura facciamo conoscenza con il claim e crab chowder, due piatti tipici caldamente consigliati da Hugo, costituiti da zuppe si molluschi o di granchio in crosta di pane, veramente deliziosi. Terminata la sosta mangereccia si riprende il tour con il nostro mastodontico Bus, guidato dal bravissimo Richard, che si inerpica su su per le salite impossibili come fosse un’anguilla. Ci chiediamo come si possa guidare con queste pendenze e quanto possano resistere i freni delle auto che percorrono questi saliscendi. In pochissimo tempo raggiungiamo le famosissime “painted ladies” o le sette sorelle, casette vittoriane di legno in tinta pastello, sempre presenti nelle foto più caratteristiche di San Francisco, e da qui verso un’altra tappa obbligatoria: Lombard Street, la famosa strada a serpentina, circondata da aiuole sfavillanti di piante e di colori. Tempo di scattare qualche foto e subito sull’attenti davanti ad Hugo ci si riunisce per andare verso la famosa collina di Twin Peaks. E’ posta al centro della città e la sommità costituisce il punto più panoramico di San Francisco e dell’intera Baia. Facciamo a gara naturalmente per accaparrarci i primi posti per le foto di rito, poi preso dallo scenario suggestivo, mi allontano, metto a dura prova le capacità della mia Nikon scattando foto panoramiche, zoomando certi particolari, filmando il possibile e l’impossibile e colpevolmente dimenticando la mia famiglia che mi stava cercando tra moltissimi turisti. Al ritorno sul Pullman vengo bonariamente rimproverato da mia moglie che raccomanda di non lasciarmi più coinvolgere da tutte ‘ste foto…

Scendiamo verso il centro incrociando i celeberrimi Cable cars considerati la maggior attrazione turistica della città, carrozze simili a tram che scalano le strade e le colline di San Francisco, anche quelle di Nob Hill e Russian Hill, la cui inclinazione raggiunge il 21%. La cosa più originale è lo stranissimo sistema di trazione: trainate da un cavo lungo le salite e semplicemente frenate nelle altrettanto ripide discese, le vetture vengono governate da robusti guidatori che si devono anche occupare di girarle a mano ai vari capolinea. Terminata la interessante e minuziosa descrizione di Hugo, ci soffermiamo per qualche minuto in una grande piazza del Civic Center dove possiamo ammirare il City Hall (Municipio), di stile rinascimentale, considerato uno dei più belli edifici degli Stati Uniti, con una cupola alta più di novanta metri molto simile a quella di San Pietro a Roma. Nel nostro girovagare passiamo davanti alla War Memorial Opera House, dove fu firmata la Carta costitutiva delle Nazioni Unite nel 1945 e dove oggi ha sede il San Francisco Opera and Ballett. A questo punto perché non fare un giro, già che ci siamo, su uno dei Cable Car intravisti di tanto in tanto dal Pullman? E’ giunta l’ora di trasferirci nell’Hotel Whitcomb, nostro alloggio di turno, situato in Market Street, la via più importante che taglia in due trasversalmente la città. Rapida rinfrescata, e per rispondere al quesito suddetto provvede Hugo che, come per magia, ci accontenta immediatamente, perché saliamo su uno di questi tram e stretti come sardine andiamo verso China Town. La China Town di San Francisco è la più grande città cinese fuori dai confini asiatici e un ininterrotto afflusso di immigrati la fa crescere sempre di più. Una bella porta sormontata da un dragone che si affaccia su Grant Avenue è l’ingresso in questa specie di Hong Kong della West Coast: negozietti di generi alimentari, filiali di banche orientali, ristoranti e megaempori dove si vende di tutto, dai tappeti alle giade, dall’avorio all’elettronica. Hugo con la sua solita sapienza ci spiega la storia del megaquartiere, ma io, sono sincero, non vedo l’ora di uscirne, perché proprio non sopporto il tanfo caratteristico dei loro cibi emanato dalle case che ci circondano. Anzi, addirittura, entriamo in una sorta di pasticceria dove ci viene offerto un dolce tipico che tutti accettano molto volentieri tranne il sottoscritto che rifiuta l’assaggio. Uscendo dal quartiere rinasco, ricomincio a respirare, come fossi rimasto in apnea per diversi minuti. Attraversando una piazza scorgiamo una chiesa apparentemente anonima dove si celebrò il matrimonio di Marilyn Monroe con Joe Di Maggio nel 1954. Intanto però, un dubbio doveroso comincia ad tormentare la mia testa e quella di mia moglie: dove è andato a finire lo zainetto Timberland che Laura portava sulle spalle e adesso ha fatto perdere le sue tracce? Dopo attente ricerche effettuate anche in albergo più tardi, siamo arrivati ad un’amara conclusione: lo zaino purtroppo è stato abbandonato sul Cable Car, e meno male che non conteneva niente di importante. Si fa sera, abbiamo fame, ed allora Hugo ci consiglia due o tre locali, in Fisherman’s Wharf, specializzati nel cucinare dell’ottimo pesce. Il gruppo si divide in due parti, noi scegliamo un ottimo ristorante con vista sul mare. Al nostro tavolo la famiglia Giustini, Cristina e Massimiliano, Enrica ed il marito Maurizio. Iniziamo ad ordinare le prelibatezze della casa, facendo attenzione a non esagerare per questione di linea e per esigenze di bilancio. Io “ripiego” sul meraviglioso crab chowder, scambiandomi i vari assaggi con gli altri commensali. Si trascorre un’ottima serata, resa esilarante dai vari Davide, Gabriele, Lisa, Giuseppe, che presi dalla fame, dalla gola, dall’allegria e chi ne ha più ne metta, hanno gozzovigliato abbondantemente, subendo anche gli sberleffi da noi che, seduti al tavolo a fianco, vedevamo il loro tavolo inondato di portate di pesce di ogni tipo. Alla resa dei “conti”, è proprio il caso di dirlo, quando hanno ricevuto la salatissima sentenza finale (circa 500 $ !!!!), allibiti, hanno inscenato un ”ammuina” simpaticissima, perché ci hanno rimproverato di aver mangiato le stesse pietanze pagando la metà.

Ma così evidentemente non era, perché le loro portate erano il triplo rispetto alle nostre… Troviamo il tempo, nonostante il freddo e l’ora tarda, di attraversare la Baia, e dall’altro capo del Bay Bridge di scattare foto notturne della città. Resistiamo appena una decina di minuti perché fa freddo, quindi con il Pullman si rientra finalmente in albergo dopo una lunghissima giornata davvero speciale, iniziata sotto cattivi auspici e fortunatamente conclusasi come meglio non si poteva desiderare. E così sia.

17/7/2009 10° Giorno: San Francisco fu fondata dagli spagnoli nel 1776 con il nome di Yerba Buena ed assunse il nome attuale solo nel 1847 in onore della missione San Francisco de Asis, fondata da Peter Serra.

Il periodo più turbolento della città iniziò nel 1848, quando nella California del Nord fu scoperto l’oro e la città divenne l’avamposto per molti avventurieri ed affaristi, trasformandosi in un importante centro di commerci nonostante il devastante terremoto del 1906 che rase al suolo interi quartieri della città.

Oggi è giornata di escursione, quindi, come poche volte è successo durante il viaggio, non siamo costretti a ripartire per un’altra meta, potendoci permettere un tranquillo risveglio.

Uno squillante Gooood Moooorning di Hugo ci accoglie appena saliamo sul Bus per iniziare il decimo giorno di un viaggio da sogno. Siamo diretti verso il Golden Gate Park, uno dei più grandi parchi cittadini del mondo. Lungo quasi 5 chilometri e largo oltre 800 metri, racchiude piste ciclabili, sentieri per escursioni a piedi e a cavallo, campi sportivi, spiazzi erbosi, un giardino delle rose, orti botanici, una serra vittoriana ricca di lussureggianti piante tropicali e tre laghetti, in uno dei quali ci soffermiamo per pochi attimi prima di intraprendere una lunga passeggiata sulla meraviglia e sul simbolo indiscusso della città: il Golden Gate Bridge. Esso è il ponte sospeso più alto del mondo e uno dei più lunghi a campata unica; complessivamente misura infatti 11 chilometri, mentre la parte sospesa, da sola, è lunga 2 chilometri e 320 metri. I pilastri portanti sono alti 228 metri, mentre l’altezza è di circa 70 metri. Ma il dato più interessante è che per mantenere il caratteristico colore rosso-arancio dei pilastri, ogni anno, vengono utilizzati 398.000 litri di pittura.

Purtroppo la mattina si presenta all’inizio abbastanza nebbiosa, ed incamminandoci sul ponte sospeso a malapena riusciamo ad intravvedere la sommità dei piloni. Con il passar del tempo però, ad intermittenza compaiono, con il fiume di nebbia che giunge dall’Oceano Pacifico e va a morire nella Baia, i pilastri rosso-fuoco del ponte illuminati dal sole con sullo sfondo il blu cobalto del cielo. Siamo letteralmente colti da un’incredibile suggestione soprattutto indirizzando il nostro sguardo verso la città, che da invisibile, ammantata da una nebbia fittissima, improvvisamente si scopre in tutta la sua sconvolgente bellezza. Camminiamo speditamente, facendo attenzione a non invadere la ciclabile che affianca la nostra corsia e cercando di non perdere di vista la testa del gruppo con a capo l’immarcescibile Hugo, che già dai primissimi metri ha fatto valere e pesare le sue doti di triathleta. Ogni tanto, soffermandomi a scattare foto, rimango attardato dalle imperturbabili ed eroiche Eleonora e Valentina che accompagnano la chioccia Laura, sembrando damigelle di una principessa. Giunti al termine della “fatica”, ci riposiamo in un punto panoramico, dove ad attenderci troviamo Hugo e Richard pronti a raccoglierci e condurci nella vicina Sausalito per il pranzo. Sausalito è una caratteristica cittadina dotata di un bel porto e incorniciata dai monti della Marin County, a 13 km da San Francisco. La città deve il suo nome al fatto che i navigatori messicani avevano soprannominato il porto sauce, cioè salice. Le acque antistanti la città ospitano invece una grande quantità di House Boat, le bizzarre case galleggianti, tutt’oggi abitate, che negli anni ’50 erano state elette a dimora da innumerevoli artisti, intellettuali e poeti. La via principale di Sausalito è il Bridgeway Boulevard, sempre molto animato e ricco di ristoranti e caffè, che conduce ai moli in cui attraccano i battelli per San Francisco. Dopo esserci dati appuntamento più tardi, (neanche tanto purtroppo) nel punto in cui prenderemo il ferry per San Francisco, volgiamo le nostre attenzioni a questa cittadina deliziosa soprannominata la Portofino d’America, perché c’è un microclima tale da riprodurre la riviera italiana. Tappe obbligate i consueti negozi di souvenir della via principale, al termine della quale si staglia l’insegna del ristorante vivamente consigliatoci da Hugo: Angelino.

Quasi tutti abbiamo subito pensato fosse una “bufala”, perché la fama dei ristoranti italiani negli USA non è proprio rinomata. Invece ci siamo ricreduti immediatamente perché ci vengono serviti degli antipastini di pesce niente male e degli spaghetti alle vongole veramente soddisfacenti. Onore al proprietario nonché cuoco Angelino da Napoli, che da giovane emigrante di belle speranze ha fatto fortuna in questo paradiso dispensando il suo talento culinario e tenendo alto il nome della tanto vituperata Italia. Con il suo simpatico dialetto napoletano ci ha voluto ringraziare, alla fine del pasto, offrendoci dell’ ottimo caffè espresso, come da tempo non gustavamo, ed un gradevole digestivo. Ringraziando e salutando doverosamente Angelino e il suo staff, rientriamo al molo per imbarcarci sul ferry che ci traghetterà fino a San Francisco. La navigazione attraverso la gigantesca Baia sembra più breve del previsto, perché non si fa altro che correre da una parte all’altra della nave per fotografare come impazziti il Golden Gate avvolto dalla nebbia, il famoso penitenziario di Alcatraz, l’incredibile skyline di San Francisco, il Bay Bridge che collega la città ad Oakland. Circumnavigando Alcatraz, non possiamo non ricordare il famoso criminale Al Capone, che soggiornò in quella galera. La prigione fu chiusa nel 1963 a causa degli enormi costi operativi e dal 1973 fu aperta alle visite.

Giunti al porto, avendo a disposizione un intero pomeriggio libero, decidiamo di farci lasciare dal pullman a Union Square, con buona parte del gruppo che si divide in due. Chi, come me ed altri ragazzi, si dirige con il taxi verso un grande supermarket di elettronica, e chi invece rimane a passeggiare lungo le più importanti vie dedite allo shopping. La mia scelta, a dir la verità non si rivela proprio fortunata, perché non acquisto nient’altro che una misera memory card per la macchina fotografica e nulla più, constatando che i prezzi non sono così allettanti come speravo che fossero. Ed allora, incamminandoci alla ricerca di un taxi abbastanza capiente, si fa dietro-front per andare verso il Fisherman’s Wharf, dove ci saremmo riuniti alle nostre famiglie e a tutti gli altri.

Dopo aver percorso qualche chilometro attraverso zone isolate ed anonime, come d’incanto ci ritroviamo improvvisamente sulla Market Street, dove finalmente riusciamo a salire su un tram che ci porterà a destinazione. A passo d’uomo, quasi rimpiangendo il caotico traffico di Roma, per coprire la distanza di pochi chilometri trascorrono 90 minuti, cosicché ci riuniamo con tutti per l’ora di cena. Esausti, approfittiamo per cenare e tornarcene, con il taxi, immediatamente in albergo, dove terminiamo un’altra delle nostre meravigliose giornate cercando assolutamente di recuperare le nostre povere forze che, andando avanti così, saranno volte all’esaurimento.

18/7/2009 11° Giorno: Ore 6.00: driiin…Driiin…Driiin. E’ così che il telefono della nostra stanza ci augura il buon giorno e ci invita a svegliarci per preparare i nostri sempre più ingombranti bagagli. Da quattro valigie che avevamo alla partenza dall’Italia ne cont¬iamo ora sei più due zaini. Come se queste, durante la notte, si fossero accoppiate e moltiplicate. Bah, misteri della natura !!!!…

Alle 7.00 in punto lasciamo i bagagli fuori dalla porta e ci portiamo nella hall pronti a balzare sul nostro beneamato bus, che come un fedele compagno, sarà pronto ad accompagnarci ancora per condurci in posti incantevoli.

Se generalmente, di prima mattina, siamo sempre un po’ assonnati per non dire di peggio…, interviene Hugo a darci una scossa di energia (visto che lui ne ha da vendere con tutti i red-bull che si trangugia a tutte le ore del giorno) con il suo stentoreo “buon giorno”, e “buenos dìas” per omaggiare gli amici spagnoli, pronunciati da consumato attore hollywoodiano.

Partiti di buon ora, siamo già sulla 280 o Pacifica direzione Monterey. Sul nostro percorso si susseguono varie città tra cui San Mateo, Sunnyvale, Cupertino famosa per essere la sede della Microsoft di Bill Gates e di tante altre aziende di informatica, e soprattutto San Josè, terza città della California (dopo Los Angeles e San Diego), e capoluogo della Contea di Santa Clara. Si trova a circa 70 km a sud di San Francisco, nella Santa Clara Valley. San Josè, inclusa nei confini ufficiosi della Silicon Valley, chiude a sud la Baia di San Francisco ed è la città più popolata della Bay Area (parte dell’area urbana sviluppatasi intorno alla Baia di San Francisco che, con circa 7 milioni di abitanti, costituisce la quinta area urbana degli USA) e di tutta la parte settentrionale della California. Nel 1989 San Josè, infatti, ha superato il numero di abitanti di San Francisco e nel 2005 è diventata la decima città degli Stati Uniti d’America, superando Detroit. Tra il 1850 ed il 1851 fu capitale della California, ed è importante sede di Adobe, Cisco, eBay, Apple, Hewlett-Packard, IBM, Lockheed Martin e di Google.

Lasciata San Francisco che su di noi ha esercitato un fascino magnetico, il tratto immediatamente a sud della città offre un volto diverso della California. Un volto fatto soprattutto di tranquillità, di splendide cittadine, di vere e proprie esplosioni di lusso e natura che coniugano ville ed aree protette, campi da golf e animali in libertà, negozietti accattivanti e romantici ristoranti.

Percorsi duecentotrenta chilometri raggiungiamo Monterey, in cui notiamo molti e vecchi edifici tra cui la bella Cannery Row, dove una volta si inscatolavano sardine, e che oggi ospita negozi, ristoranti e locali notturni. Ai tempi della dominazione coloniale spagnola era la capitale dell’Alta California nonché sede di una missione. Sostiamo per circa un’ora per ristorarci ed avere il modo di visitare le zone più caratteristiche, tra cui un molo delizioso caratterizzato da una impressionante varietà di fiori. E che sosta sarebbe se non ci impegnassimo rigorosamente nel liturgico shopping? Anche da qui ci riportiamo a casa qualche ricordino per non farci mancare proprio nulla. E’ arrivato il momento di visitare un’altra grande attrattiva a sfondo naturalistico della penisola di Monterey e cioè il 17-Mile-Drive, un circuito che, malgrado il suo nome, è lungo solo 12 miglia e che racchiude ville superlussuose e campi da golf tra i più belli del mondo. Per entrare nel circuito privato bisogna pagare un pedaggio e, sbrigata questa formalità, partiamo da Pacific Grove attraversando una delle zone residenziali più prestigiose del pianeta, dove a bellissimi campi da golf si intervallano “dimore” da decine e decine di milioni di dollari. Dal bus, posseduti da un’invidia schifosa, all’unisono si sente una sola voce esclamare “poverini” all’indirizzo di quei golfisti che, tra mazze e palline, trascorrono la loro “noiosa” esistenza…

Ci fermiamo ad ammirare un’isoletta letteralmente ricoperta da gabbiani che non aspettano altro che di essere fotografati. Purtroppo per noi siamo capitati nel posto giusto al momento sbagliato, perché c’è una nebbia così fitta paragonabile forse a quella della pianura padana in pieno inverno. Fortunatamente non ci facciamo impressionare più di tanto, e che il clima fosse ideale per un thriller lo si comprende subito dopo, perché alle nostre spalle compare alle pendici di una collinetta la sagoma di una delle più famose case del cinema dove venne ambientato il film di Alfred Hitchcock “Gli Uccelli”. Di fronte a queste rarità e bellezze, pensando di essere a nove ore di fuso orario ed all’incirca a 13.000 chilometri dall’Italia, il solito deprecabile Antonello, lo “Stolto di Colleferro”, con voce annoiata e pure infastidita esclama: “ma che schifo qui, c’è tutta ‘sta nebbia, non si vede niente…Ma quando ce ne andiamo?” confermando appieno il suo appellativo mai così azzeccato.

Poco più avanti siamo a “Cypress Point”, sicuramente uno fra i punti panoramici più visitati della costa pacifica californiana tra San Francisco e Los Angeles. Il nodoso cipresso (Lone Cypress) che cresce isolato sulla roccia a picco sul mare è uno degli alberi più frequentati del mondo.

Dopo quest’altra “schifezza”, come d’ora in poi chiamerò le bellezze di questi luoghi, ci dirigiamo verso la “perla” di questa penisola: Carmel. Essa fu fondata dopo il devastante terremoto del 1906, quando una colonia di artisti si trasferì quì dalla distrutta San Francisco. Scesi dal Pullman, ci dirigiamo verso il mare passeggiando tra ville deliziose, nascoste nel verde forse per allontanare per pudore gli sguardi indiscreti nostri e dei tantissimi turisti qui presenti. Sembra di essere in una cittadina a noi familiare della costa tirrenica, ma quando siamo sulla larghissima e lunghissima spiaggia bagnata dall’Oceano Pacifico, ci rendiamo conto che l’accostamento non è possibile. Lasciamo stare i luoghi che sono magnifici, per carità, ma il calore, i profumi, i sapori che ci offre il nostro mare sono imbattibili e quindi per me non c’è partita tra la tanto decantata Carmel e per esempio una qualsiasi cittadina della costiera amalfitana. Sarà la nebbia, che ad ondate appare e scompare, sarà per il fatto che quando Eleonora e Valentina si sono appena bagnate i piedi con l’acqua oceanica, sono state costrette ad asciugarsi immediatamente rischiando il congelamento…, con i bambini che scorazzavano sulla sabbia indossando il solito costume e l’insolita felpa per il freddo!!! Del resto la temperatura, sebbene si fosse a luglio inoltrato, tocca a malapena i 22-23° C. Mi dispiace, ma sapere di essere al mare e non potersi bagnare non è consolante, anzi per come siamo abituati noi italiani è davvero deludente. Dopo queste amare considerazioni, si fa per dire, visto che forse abbiamo colto l’unica nota stonata o stridente di tutto il viaggio, andiamo a saziarci in un bar con degli sfilatini riccamente farciti, che per una volta non ci fanno rimpiangere la nostra cucina. Ed appunto per respirare aria di casa simpaticamente noto un curioso poster in bianco e nero affisso alla parete del locale, posta di fronte a me, in cui è raffigurata una bella ragazza bionda americana, a passeggio nella Roma degli anni ’60, fatta oggetto di sguardi ammiccanti da parte di navigati galletti in dolce far niente. Non posso immaginare l’idea che di noi si sono fatti gli americani e soprattutto le americane…

Terminata la piacevole sosta a Carmel, che, ricordiamolo, ebbe qualche anno fa come primo cittadino Clint Eastwood, ci trasferiamo nella famosa Missione di San Carlos Borromeo del Rio Carmelo (Carmel Mission) fondata nel 1770 da Padre Junipero Serra, che chiese una volta morto, di esservi sepolto, ed elevata al rango di Basilica Minore da Papa Giovanni XXIII nel 1960.

Da qui, prendendo la 101, si procede verso sud nella valle di Salinas sfiorando alcune cittadine e ne approfittiamo per riposarci. Incredibilmente, quando ci fermiamo per una sosta, siamo assaliti da una temperatura proibitiva di oltre 40°C, anche se siamo a poche miglia dall’oceano, rimpiangendo i 23° di Carmel. Ormai manca poco alla destinazione finale giornaliera. Fuori dal finestrino scorrono le abitazioni di San Luis Obispo, altra sede di una celebre Missione, poi superiamo la Vandenberg A.F.B. (Air Force Base) ed a sorpresa terminiamo la nostra corsa a Lompoc, a poche miglia da Santa Maria dove era previsto effettivamente il nostro arrivo. Siamo stanchi ed affamati, come è ormai consuetudine verso sera, e dopo aver sistemato i bagagli, nel primo supermercato disponibile compriamo la cena che di lì a poco consumeremo in albergo.

E sfiancati ancora una volta da una giornata molto intensa, prima si sente il nostro russare, e poi ci addormentiamo, tanta è la stanchezza…

19/7/2009 12° Giorno: Oggi termina a Los Angeles il nostro fantastico viaggio nell’Ovest degli USA.

Ci svegliamo con una strana sensazione, come se fossimo consapevoli di essere alla fine del nostro sogno. Ma ci ribelliamo all’ineluttabile e come sempre pimpanti e puntualissimi (come potrebbe essere altrimenti temendo i rimbrotti di Hugo “sergente di ferro”) riprendiamo la 101 per andare a Santa Barbara.

Accolti da un clima a dir poco stupendo, la città ci sorprende per la grande abbondanza di piante e di fiori, e per il bianco accecante delle sue ville. Santa Barbara fondata nel 1782 come guarnigione spagnola; infatti fu rasa al suolo da un violento terremoto nel 1925 che, riducendola in macerie, fu sfruttato come occasione per una ricostruzione nello stile coloniale spagnolo. Qui ha sede la Missione Santa Barbara la “regina delle Missioni” tra quelle localizzate lungo la costa californiana.

Come scendiamo dal Pullman sul lungomare, subito mi sento tirare per un braccio da Hugo perché avevo osato calpestare con un piede la strada per scattare foto, avvertendomi che in caso di multa avrei pagato la bella cifra di 50 dollari!!! Doverosamente mi ritraggo, rinviando il tutto durante l’attraversamento della strisce pedonali per andare a visitare il bellissimo molo sull’oceano. E’ una giornata bellissima, con una temperatura ideale, che ci consente anche qui di trovare deliziosi negozi da esplorare febbrilmente. Qui assistiamo ad un fuori programma esilarante, perché Laura avendo provveduto ad espletare i suoi bisogni fisiologici e volendo uscire dal bagno, emette un urlo tarzanesco perché il chiavistello della porta rimane incastrato non permettendole di uscire. Accorriamo tutti per la paura che si sia sentita male, ma poi, riuscita a liberarsi e conosciuto il vero motivo del panico, le lanciamo uno sguardo di commiserazione… Quello che colpisce di più trovandoci qui è la grandiosità delle strade, delle palme altissime, della vastissima spiaggia e dell’immensità dell’oceano. Non ci sono sfuggiti, riprendendo il viaggio verso Los Angeles, la rigorosa pulizia di tutto quello che ci circonda, la mancanza di sporcizia lungo i marciapiedi, le grandi aiuole ed i prati molto ordinati, da sembrare finti. Sembra di essere in una fiaba, ma la realtà è che siamo in un paese civile, dove innanzitutto vengono rispettate le regole; ed in questo caso chi non rispetta la legge viene multato con una multa salata… Ma quello che mi ha colpito di più durante i cinquemila chilometri di strada percorsa è aver notato che tutti i Trucks, i famosi camion americani, fossero lindi e luccicanti, e che i provvidenziali restrooms (gabinetti) visitati durante il viaggio apparissero ai nostri occhi addirittura forse più puliti dei bagni di casa nostra anche nelle località più remote. Ecco perché l’America, oltre ad essere incredibile per le sue bellezze naturali, è grande per le cose più comuni. Con lo sguardo immalinconito, rivolto verso l’oceano, dentro di me mi interrogo più volte sulla diversità tra due culture, quella italiana e quella americana, così diverse e così lontane. In Italia quello che non ti appartiene non ha valore; mentre la propria macchina, la propria casa, i propri affetti devono essere puliti, curati e in ordine. Ma se metti piede oltre la soglia di casa, allora si sta nella terra di Nessuno e tutti sentono il diritto e il dovere di fare ciò che più gli fa comodo e come gli pare e piace. Negli Stati Uniti no, non è consentito tutto questo. Oltre alla casa, l’auto, la famiglia, c’è il Mondo che Dio ci ha messo a disposizione, non per maltrattarlo ed insultarlo, ma per avere cura delle bellezze ed i tesori di cui è dotato. Come avremmo considerato il Grand Canyon, il Bryce, Zion, Death Valley, San Francisco, Carmel, se fossero ricolme di carte per terra, immondizia, lattine vuote, come capita dalle nostre parti? La risposta purtroppo risiede nel nostro cuore. Se si apre, lasciamo sprigionare il nostro amore, il rispetto e la disponibilità nei confronti degli altri; se si chiude, lasciamo che l’egoismo, la cattiveria, e l’odio prevalgono su tutto e tutti.

Oddio, non è che con queste considerazioni voglio lasciar credere che il bene sia tutto da una parte ed il male dall’altra. Ho solamente notato una delle tante differenze che contraddistinguono i due popoli, uno appartenente alla nazione indubbiamente più potente, ricca, ed autorevole del mondo, e l’altro appartenente ad una nazione perennemente in affanno, in declino, senza più valori ed autorevolezza. Come è lontanissima quella strabiliante civiltà costituita dalla Roma dei Cesari, che per secoli ha insegnato agli altri popoli le leggi, e divulgato la cultura. Con Roma Caput Mundi nel cuore, e le altre considerazioni che hanno invaso le mie circonvoluzioni cerebrali, noto con enorme piacere, attraverso la segnaletica stradale, che stiamo facendo il nostro ingresso nella immensa Los Angeles.

E’ la città di Ventura che si offre come antipasto a chi come noi che, scendendo dal Nord lungo la 101, vuole divorare L.A. E chi non ricorda quella meravigliosa canzone degli America che ha fatto sognare intere generazioni: Ventura Highway, sinonimo di libertà, evasione, che ci riporta con il cuore e la mente agli anni ’70. A questo punto, se qualcuno mi chiedesse come definire Los Angeles, mi metterebbe in serio imbarazzo. Una città? Una regione? Una ragnatela di freeways? Un posto dove albergano tutte le meraviglie, le brutture, e le contraddizioni dell’America? Effettivamente Los Angeles racchiude tutte queste definizioni, ma una cosa è certa: la megalopoli possiede un fascino a dir poco ipnotico, e la ragione si spiegherà strada facendo…

Considerando che Los Angeles è lunga all’incirca 250 chilometri, e da più di 30 minuti stiamo attraversando la periferia, non ci resta altro che ascoltare attentamente la guida che ci illustra, strada facendo, i punti più interessanti della città. Ed allora in sequenza ci appare il Paul Getty Museum, poi in rapida successione Westwood, a ovest di Beverly Hills, che ospita la gigantesca sede dell’ UCLA (University California Los Angeles), uno dei principali atenei di tutto lo Stato e di tutti gli USA. Anche qui riaffiorano ricordi giovanili, come quando, sempre appassionato di basket universitario e professionistico, seguivo le gesta dei leggendari Bruins del santone John Wooden, soprannominato “The Wizard of Westwood”, il Mago di Westwood, che portò UCLA di Gail Goodrich, di Lew Alcindor (Kareem Abdul Jabbar), Bill Walton al successo per 10 anni nel campionato NCAA.

Mentre scavo nella memoria percorriamo la 405, la San Diego Freeway, e poi per andare verso downtown prendiamo la Santa Monica Freeway. Siamo letteralmente circondati da autostrade con 6-7 corsie per senso di marcia che scorrono sopra e sotto di noi come un ottovolante. E’ impossibile districarsi in tale groviglio, se non si ha molta fede e dimestichezza di queste zone. Raggiungiamo velocemente il centro città perché contraddistinto dall’inconfondibile skyline. Grattacieli per tutti i gusti ci sovrastano quasi a proteggerci, finché non approdiamo al Civic Center, che rappresenta un tocco di serenità nella metropoli più motorizzata d’America. Ci fermiamo per una breve sosta al Music Center e qui, nella piazza circondata da tre grandi Hall, approfittando di una fontana che spara ad intermittenza da terra altissime colonne d’acqua, le stoiche Eleonora e Valentina si divertono ad attraversare i getti d’acqua cercando di non bagnarsi. Si divertono tantissimo e noi con loro, perché riuscire nell’intento è praticamente impossibile. Per fortuna che la temperatura è sui trenta gradi, cosicchè almeno si sono rinfrescate… Tempo si scattare qualche foto al più famoso dei tre teatri, il leggendario Dorothy Chandler Pavillion, dove fino a qualche anno fa venivano celebrati i premi Oscar del cinema mondiale, i famosi Academy Awards.

A pochi metri di distanza da questo “monumento”, si erge la Disney Hall, bellissima costruzione, dall’inconsueto stile architettonico, progettata dal genio di Frank Gehry (lo stesso del Geggenheim Museum di Bilbao). Fortemente voluta dalla famiglia Disney, l’Opera è stata realizzata interamente in titanio, senza lesinare sulla qualità dei materiali, e donata al Municipio di Los Angeles in ricordo del grande Walt. Comandati da Hugo e rispettando i tempi, ci spostiamo subito dopo nella favolosa Hollywood.

La visita, a tema cinematografico, inizia dall’Hollywood Boulevard, strada che ospita una delle attrazioni più curiose della città: il Walk of Fame, una sfilata di stelle di bronzo incastonate nel marciapiede e lunga oltre tre chilometri, con incisi i nomi di migliaia di celebrità del mondo della musica, del cinema e della moda. Sentiamo i morsi della fame, ma nonostante ciò, ci soffermiamo su quasi ognuna di queste stelle per decifrare l’artista a cui sono dedicate. Poco lontano scorgiamo un consistente capannello di persone immobile intorno ad una stella sommersa da tantissimi fiori. Ci chiediamo chi sarà mai l’artista che è riuscito ad attirare così tanta gente. Avvicinandoci, leggiamo il nome: Michael Jackson. E così anche noi con un doveroso e leggero inchino rendiamo omaggio ad un artista che, con il suo smisurato talento, è stato il precursore inarrivabile di un nuovo modo di fare musica. Autore, cantante e ballerino eccezionale, è stato il paladino di generazioni e generazioni di afroamericani e non solo. L’eterno Peter Pan, il cui funerale si è celebrato il 6 luglio nello Staples Center con uno sfarzo incredibile, riposa ora nel cimitero di Forest Lawn sulle Hollywood Hills.

Più avanti entriamo nel primo emporio e facciamo incetta di tutto il superfluo possibile ed immaginabile e poi proseguiamo verso il celeberrimo Grauman’s Chinese Theater. Osserviamo con molto interesse la facciata orientaleggiante, le cui colonne esterne, dette “Heaven Dogs”, vennero importate dalla Cina, dove non solo reggevano un tempio della dinastia Ming, ma avevano anche il compito di allontanare gli spiriti maligni. Ma la nostra curiosità è tutta rivolta al largo e famoso marciapiede davanti al teatro, che accoglie le impronte delle mani e dei piedi di grandi attori del presente e passato, ad iniziare dalla grande Sophia (come pomposamente si fa chiamare negli USA) Loren per continuare con George Clooney, Harrison Ford, Arnold Schwarzenegger, Tom Hanks, Ron Howard, Michael Douglas, Morgan Freeman, Robin Williams, Peter Sellers, Bruce Willis, Jack Nicholson, Will Smith, Eddie Murphy, e per tuffarci nel passato Douglas Fairbanks, Tyrone Power, Rita Hayworth, Cary Grant, Jean Harlow, Dean Martin, Kirk Douglas, la mitica, unica, irripetibile Marilyn Monroe e tante, tante altre famosissime star che hanno dato lustro e reso leggendaria la mecca del cinema. Insomma una manna per noi e soprattutto per mia moglie che si fa immortalare naturalmente con i piedi sulle impronte di George Clooney.

Abbiamo abbastanza tempo per visitare un bel centro commerciale proprio nelle vicinanze del teatro cinese, prima di ritrovarci all’appuntamento con Hugo e Richard per riprendere l’escursione attraverso Los Angeles. In questo modo mia moglie Laura e Cristina, la quale ormai da un po’ di tempo ha catturato le simpatie di Eleonora e Valentina, tra negozi sempre molto interessanti, hanno modo di soddisfare i loro desideri. Fa molto caldo, la giornata è meravigliosa e prima di ripartire non ci lasciamo sfuggire l’occasione di scattare foto di gruppo con sullo sfondo l’enorme scritta di Hollywood che dalla vicina collina sovrasta l’intera metropoli. Dall’Hollywood Boulevard a Beverly Hills, nostra prossima tappa, non ci separano molti chilometri. La distanza viene coperta percorrendo un’altra delle celebri strade della città: Sunset Boulevard, il viale del tramonto, che si estende per 35 chilometri dal centro di Los Angeles attraversando tra i tanti quartieri Hollywood, West Hollywood, Beverly Hills, Bel Air, Brentwood, e Pacific Palisades. Il viale del tramonto diede il nome ad un grande film drammatico girato nel 1950 e diretto da Billy Wilder con William Holden e Gloria Swanson. Ogni metro che si sussegue è stato ed è inconsapevolmente partecipe della storia del cinema. Ma non c’è tempo di pensare, perché tra una foto, una spiegazione di Hugo, la curiosità di osservare attentamente posti indimenticabili, non si ha il tempo di centellinare e gustare come vorremmo le bellezze del luogo. E questo prepotentemente accade al momento del nostro trionfale ingresso nel rifugio delle stelle e di tanti altri vip. Ville magnifiche, viali alberati con la presenza imponente di palme altissime che regalano un aspetto esotico a tutto l’insieme, alberghi prestigiosi, ristoranti di primordine: tutto questo è Beverly Hills. Ci piacerebbe tanto addentrarci furtivamente in qualche dimora per spiare la “povera” vita che conducono questi personaggi miliardari, ma non ci resta purtroppo che dare una deludente e veloce occhiata dal finestrino del Pullman. A rendere davvero incantevole l’atmosfera che si respira contribuisce notevolmente anche un clima eccezionale, con una temperatura che per tutto l’anno si aggira tra i 20-30 gradi. Ci accontentiamo di visitare, si fa per dire, “il miglio quadrato più caro del mondo”, ovvero Rodeo Drive, il cuore commerciale di tutto il quartiere. Vien voglia di pavoneggiarsi camminando tra le griffe più famose, stando attenti ad incrociare, anche se con possibilità piuttosto remota, lo sguardo ammaliante di qualche celebre attrice. Sembra di vivere un sogno e quello che osserviamo di fronte a noi in fondo alla strada è il Beverly Wilshire Hotel, dove furono girate le riprese di “Pretty Woman” con Richard Gere e Julia Roberts. Mestamente si sta concludendo la giornata e davvero stanchi ritorniamo da dove era iniziato il nostro incredibile viaggio il 9/7: l’Hilton Airport Hotel. Qui, dolorosamente, ci dobbiamo accomiatare dalla simpaticissima compagnia che ha condiviso con noi momenti irripetibili che porteremo sempre nei nostri cuori. Ad iniziare da Hugo, grande guida ed organizzatore, che ci ha fatto vivere, come meglio non avremmo desiderato, emozioni fantastiche. La sua proverbiale e rigorosa disciplina, alternata di tanto in tanto ad una saggia comprensione e discreta benevolenza nei nostri riguardi, ci hanno rassicurato per le due settimane circa di viaggio; grazie ancora Hugo, come un ringraziamento è da dedicare a quel “mostro” di autista di nome Richard, di origini asiatiche, che con disinvoltura si è sciroppato 5000 chilometri senza batter ciglio, dovendosi sobbarcare spesso l’ingrato compito di caricare i nostri proibitivi bagagli nel Pullman. E poi Massimiliano e Cristina, Davide e Lisa, Giuseppe e Carolina, e via via tutti gli altri, senza dimenticare lo “Stolto di Colleferro”, che proprio alla fine per non smentirsi, sentendosi bonariamente preso in giro dalla maggior parte delle ragazze del nostro gruppo lì presenti perché ancora scattava foto dell’albergo, ha brutalmente lanciato verso di loro un vaffa… clamoroso seguito da altri improperi che sono rimbombati fragorosamente tra le volte dell’ampio salone. Non vi racconto l’espressione allibita e sorpresa delle poverine, che non si aspettavano minimamente di essere apostrofate in quella maniera nonostante conoscessero il calibro signorile del soggetto. Dimenticato l’accaduto, con “profonda commozione”, alcuni hanno versato lacrime vere, altri un po’ meno, ci siamo salutati con la promessa di rivederci magari a Roma.

Abbandonato il gruppo al loro destino, felice per alcuni che continuavano il loro viaggio di nozze in paesi tropicali, e malinconico per altri che facevano ritorno in Italia, si conclude davvero il Tour dell’Ovest.

POSTILLA Un argomento che volutamente affronto alla fine del racconto, riguarda, ahimè, la famigerata mancia che da queste parti è d’obbligo elargire, per pagare il conto del ristorante, la tariffa del taxi, il facchino dell’albergo, e soprattutto la guida e l’autista.

Ma insomma non sono bastate le migliaia di euro per il volo aereo, il soggiorno, i trasferimenti e le escursioni? Hugo, per esempio, ha sempre sostenuto di ricevere un magro compenso alla fine del mese, sebbene quest’affermazione fosse in evidente contrasto e smentita dal Rolex che teneva al polso. Una mancia di 6 euro per persona a lui al giorno, più 4 all’autista costituisce una bella sommetta, considerando che il gruppo era costituito da oltre 50 persone. Facendo rapidi calcoli, in 15 giorni la coppia diabolica ha intascato la bellezza di circa 6000 euro, oltre al “misero” stipendio dell’agenzia. Comunque sorvoliamo e ci concentriamo sul domani… Infatti se il tour ”Panorami dell’Ovest” termina qui, non termina il nostro viaggio perché abbiamo a disposizione ancora due notti e quasi tre giorni da trascorrere a Los Angeles.

Stanchi ma felici di aver coronato un sogno stupendo, riuniti con la mia famiglia decidiamo di organizzarci per i due giorni a venire. Come era nostro desiderio fin dall’inizio, anche per premiare lo stoicismo e la bravura di Eleonora e Valentina, per l’indomani prenotiamo immediatamente in albergo l’escursione a Disneyland, per poi il giorno successivo sfruttare la mattina per visitare gli Universal Studios e poi in serata prendere il volo di ritorno per l’Italia. (Non erano tre giorni e due notti? Non si sa perché abbiamo deciso così !!!) Al momento di prenotare queste gite, con nostro compiacimento scopriamo che dobbiamo rivedere il calendario delle escursioni, perché in realtà i giorni a disposizione non sono due ma tre. Ed allora si procede in questo modo: giornata completa a Disneyland, poi variando il programma, altra giornata al San Diego Seaworld, e poi come era soprattutto mio desiderio, altra mezza giornata a Santa Monica e Venice con ritorno nel primo pomeriggio in albergo, prendere i bagagli e partire.

20/7/2009 13° Giorno: Ci svegliamo appagati ed energici come sempre, perché anche oggi ci sarà da divertirsi. Fatta colazione, scendiamo veloci giù nella hall perché ad attenderci c’è lo shuttle-navetta. Con questo si arriva in un terminal poco distante dall’albergo dove acquistiamo i biglietti, aspettiamo pochi minuti che il Pullman sia riempito, e si parte per Anaheim nell’Orange County, che dista un’ora abbondante da qui. Walt Disney, il piccolo agricoltore del Missouri creatore di una multinazionale con centinaia di migliaia di dipendenti, inaugurò Disneyland il 18 luglio del 1955; da quel momento Anaheim e tutta l’Orange County non sarebbero state più le stesse. Gli aranceti lasciarono presto il posto a decine e decine di lussuosi alberghi e motel e la crescita del “Magic Kingdom” si allineò ai desideri del suo fondatore: “Disneyland non sarà mai completata – diceva il vecchi Walt – fino a che esisteranno immaginazione e fantasia”. E così gli scettici che davano al Parco tre mesi di vita al massimo, si dovettero presto ricredere: gli arricchimenti e le trasformazioni non hanno mai conosciuto, nel corso degli anni, un vero momento di sosta. L’Orange County inoltre è famosa per aver dato i natali ad un ex presidente degli Stati Uniti molto discusso: Richard Nixon.

Lo slogan con cui Disneyland si autocelebra come “il luogo più felice della Terra”, effettivamente ha la sua ragion d’essere perché, una volta entrati, nonostante per me e per Laura sia un ritorno essendoci venuti nel 1993 durante il viaggio di nozze, vediamo realizzati i sogni di migliaia e migliaia di bambini e ragazzi che impazziscono, e i sogni degli adulti che ritrovano personaggi ed atmosfere che ricordano gli anni felici dell’infanzia. Attraversare la metropoli costituita da un groviglio pazzesco di freeway, nonostante l’abitudine al traffico di Roma, non è proprio agevole. Arrivati alle 11 circa, per non perdere del tempo prezioso, corriamo all’entrata con il biglietto in tasca per cercare di prendere il trenino che circumnavigando il parco ci presenterà le sue attrazioni. Tra queste c’è la Main Street Usa, la ricostruzione della via principale di una piccola cittadina americana di provincia di inizio secolo, che rappresenta il primo impatto che ci si presenta una volta varcato il cancello di ingresso. La strada offre numerosi negozi con articoli made in Disney ed è anche una delle sedi ideali per vedere le parate. Presi dalla smania di voler entrare in quante più attrattive possibili, andiamo nella Haunted Mansion, a New Orleans Square, dove fantasmi un po’ particolari ci accompagnano nelle regno delle tenebre. Poi visitiamo Frontierland, dove siamo rapiti da una delle maggiori attrazioni di Critter Country: Splash Mountain, un viaggio molto bagnato che si ispira ai racconti dello Zio Tom. Purtroppo all’entrata c’è una fila lunghissima, e dobbiamo aspettare circa 50 lunghissimi minuti sotto un sole cocente per il divertimento di qualche minuto. Ma il sacrificio ne è valsa la pena, perché ci divertiamo tantissimo noi grandi, non vi dico le bambine… Sempre a Frontierland esploriamo il Big Thunder Railroad, un ottovolante con caverne, pozzi, grotte, cascate d’acqua.E’ ora di mangiare, anche se vorremmo sfruttare il momento dei pasti per accedere più facilmente alle attrazioni che ci interessano. Ricominciamo con Mickey’s Toontown, l’ultima “terra” realizzata nel parco, quella che vuole riprodurre il paese dei cartoni animati di “Chi ha incastrato Rogger Rabbit?”. Uno strano posto, dove tutti gli edifici sono storti, ed in uno di questi, la casa di Minnie, Eleonora e Valentina aspettano il loro turno per farsi fotografare con lei. Un cocktail di felicità, incredulità e stupore le assale al momento fatidico. La loro gioia è al culmine quando entrano nella casa e visitano la cucina, il salotto e la camera da letto. Tutto l’arredamento corrisponde perfettamente a ciò che è rappresentato sui fumetti. Da qui ci spostiamo nella vicina Fantasyland, il cuore del parco, dove si trovano vere e proprie chicche come le attrazioni dedicate a Dumbo, Peter Pan, Pinocchio, Alice nel Paese delle meraviglie, Biancaneve e i sette nani, oltre alla gettonatissima “It’s a small world”, percorso in barca costruito per una esposizione dell’Unicef e in cui le bambole meccaniche, che rappresentano tutte le popolazioni del mondo, cantano l’omonima e popolarissima canzone in farsetto. Noto con enorme piacere che nel pomeriggio la situazione è migliorata perché le file sono più corte e l’affollamento trovato in mattinata si è un po’ diradato. Sempre a Fantasyland entriamo nel Castello della Bella Addormentata, e poi subito dopo come schegge impazzite siamo al Mattherorn Bobleds, in italiano semplicemente avventura in bob sul Cervino, dove dopo una lenta arrampicata su per la montagna si scende a tutta velocità finendo in un laghetto alpino… Ci meritiamo una pausa, trascorsa in una gelateria in Main Street, perché troppo accaldati, stanchi e quasi disidratati. Presi dal desiderio di soddisfare il nostro entusiasmo non ci rendiamo conto che il tempo scorre inesorabilmente ed è ora di far ritorno sul luogo dell’appuntamento nel parcheggio di fronte al parco per ritornare nel nostro albergo.

Non facciamo in tempo a salire sul Pullman che le mie ragazze crollano inesorabilmente sulle poltrone abbandonandosi ad un profondo sonno riparatore. Mentre, vigile come sempre secondo la filosofia che c’è sempre una notte per dormire, contemplo dal finestrino un apparentemente noioso tragitto di ritorno. Ed anche oggi, a conclusione di questo 13° giorno vissuto inizialmente con non pochi disagi, quali il caldo, le file e la stanchezza, abbiamo assaporato e gustato un’altra delle chicche che rendono l’America veramente unica.

21/7/2009 14° Giorno: La sveglia è anticipata rispetto al giorno precedente perché San Diego dista circa 200 chilometri da Los Angeles. Facciamo la solita trafila di ieri: appuntamento fuori dall’albergo, la navetta che ci porta al terminal, si comprano i biglietti per il Seaworld e si parte per lo stesso identico tragitto che conduce a Disneyland. Imbocchiamo la 105 ossia la Anderson Frwy. E poi la interstate n° 5 che prende il nome di Santa Ana Frwy. Nei pressi di Anaheim cambiamo lo shuttle con un Pullman perché il gruppo si ingrossa e senza più soste facciamo rotta verso San Diego. Durante il viaggio si susseguono varie località, alcune conosciutissime, altre un po’ meno che mi sento di elencare nell’ordine: dopo Anaheim troviamo Santa Ana, il capoluogo dell’Orange County, Irvine, Lake Forest, Mission Vejo, la bellezza mistica di San Juan Capistrano.

Fondata da Padre Junipero Serra nel 1776, era un tempo la più bella di tutte le missioni californiane, almeno fino a quando un terremoto, nel 1812, provocò gravissimi danni al vecchio santuario. Ma San Juan Capistrano, soprattutto, non può non far riandare con la mente alle gesta di Don Diego De La Vega, in arte Zorro, il cavaliere mascherato più fortunato di tutta la storia del cinema che, con il sergente Garcia, ci tenne incollati da bambini davanti al televisore per ore e ore. Il mito di Zorro e la magica “Z” di questo giustiziere dall’identità segreta, nella vita ricco, nobile e bello, avevano come teatro proprio la California con tutto il contorno di tirannia e corruzione legato alla dominazione spagnola. Abbandonati ben presto questi nostalgici ricordi, incontriamo Dana Point, la famosa San Clemente, rifugio di vacanze di Richard Nixon, la leggendaria base dei Marines Camp Pendleton, Oceanside, Carlsbad, l’esclusiva La Jolla (il nome deriva dallo spagnolo La Joya, il gioiello), e finalmente cominciamo ad intravvedere in lontananza lo skyline di San Diego.

“Se la California ha il miglior sistema di freeway del mondo, San Diego ha sicuramente quello migliore della California”, questa affermazione ostentata con una punta d’orgoglio dagli abitanti di questa città, sentiamo di farla nostra proprio constatando l’efficientissima rete autostradale.

Qui è nata la California spagnola, dove Padre J. Serra fondò la prima missione nel 1769, e qui con trepidante attesa non vediamo l’ora di entrare nel fantastico Seaworld, che si trova ad Harbor Island, un isola creata nel 1961 con il materiale ricavato dagli scavi di un canale che serviva alla Marina degli Stati Uniti.

Non facciamo in tempo ad entrare che, catturato in fretta e furia un depliant con tutte le attrazioni, seguiamo il fiume umano che ci conduce al Dolphin Show. Purtroppo l’anfiteatro, dove si tiene lo spettacolo, è stracolmo. Rimangono pochi posti nella terza fila stranamente vuoti e quindi ingenuamente ne approfittiamo per sederci. Gentilmente una signora, seduta accanto a me, indica la macchina fotografica che avevo a tracolla consigliandomi di proteggerla. Lì per lì il suo invito rimane inascoltato, poi capisco l’errore madornale commesso nel sederci lì. Porca miseria, avremmo dovuto scegliere i posti, ancora disponibili, più in alto per non rischiare di essere letteralmente investiti dall’acqua che sicuramente ci scaraventereranno i simpatici delfini. In fondo in fondo poco male, perché fa caldo, c’è un bellissimo sole e ci rinfrescheremo un po’. Prima dello spettacolo acquistiamo una gustosissima limonata ghiacciata immersa in un bicchierone di plastica blu con un tappo a forma di orca Shamu. Fa tanto caldo, ma in realtà siamo attratti più dal bicchiere che dalla bevanda.

Al momento di pagare, fraintendo il prezzo, consegnando meno denaro di quanto dovuto al ragazzo che era lì in attesa. A soccorrermi interviene la “provvidenziale” signora che capisce il disguido ed provvede personalmente ad integrare il resto dei soldi. Faccio per scusarmi e per restituirle il denaro, ma lei rifiuta, spiegandomi che, essendo americana dello stato dello Iowa in vacanza a San Diego, ha compiuto questo gesto per dovere di ospitalità!!! Ci troviamo a 9 ore di fuso orario, a 13000 chilometri da Roma, ma ad anni luce da questo popolo e questa nazione che non stancherà mai di stupirmi. Le spiego che veniamo dall’Italia e siamo di Roma, al termine di un viaggio meraviglioso per l’Ovest degli USA. Come pronuncio Roma, l’americana esclama un ohhhhh!!! di rispetto e ammirazione, facendo seguire un sorriso entusiasta. Orgoglioso e soddisfatto per la sua reazione, inizia lo spettacolo bellissimo dei delfini che, addestrati a dovere, compiono mirabolanti evoluzioni su e giù per la vasca e poco prima di finire lo show, scaraventano con pinnate portentose un mare d’acqua verso gli spalti e quindi verso di noi che rimaniamo completamente inzuppati, risparmiando la macchina fotografica e la videocamera, sapientemente protetti grazie ai suggerimenti ricevuti in precedenza. Naturalmente il mio chiacchiericcio con la sconosciuta non è passato inosservato, perché mia moglie ha iniziato ad incalzarmi con domande a raffica del tipo: chi era quella donna?, che voleva?, perché parlava con me?, ed io a fornirle spiegazioni su spiegazioni…, Laura non conoscendo l’antefatto, era convinta che la signora volesse attaccare bottone… ed amenità simili.

Bando alle ciance e, fradici dalla cima dei capelli fino ai piedi, ci incamminiamo verso il Sea Lion and Otter Show, uno spettacolo di leoni marini presentato da uno spassosissimo comico. Poi è la volta dello spettacolo più famoso e più apprezzato: lo Shamu Show, dove come protagonista si esibisce l’enorme orca Shamu dal peso di 4 tonnellate. Di orche lo Shamu Stadium ne ospita ben quattro, compresa quella che gli da il nome: saltano e si muovono a suon di musica con i loro eccezionali ammaestratori in una piscina con milioni di litri d’acqua. Le orche si fanno cavalcare , si appoggiano su una piattaforma all’esterno e sbattono le grandi code. Questa volta, ci sediamo molto in alto per evitare sorprese, visto poi l’esito che ha colpito i predestinati delle prime file: praticamente affogati in un mare d’acqua, che neanche con lo scafandro da palombaro si sarebbero salvati. Dopo questo, che indubbiamente è lo spettacolo più bello, andiamo al Cirque de la Mer uno spettacolo, a dir la verità, per il sottoscritto, non propriamente entusiasmante, con gli acrobati del Cirque du Soleil che si esibiscono sull’acqua. Ormai affamati cerchiamo il miglior posto per mangiare, e dopo esserci abbondantemente rifocillati, andiamo al Bayside Skyride, una funivia sospesa sul mare con vista sulla Baia davvero interessante. Da qui allo Skytower il passo è breve. Prendiamo un ascensore girevole che ci porta in alto per ammirare il panorama di tutta San Diego. Ma non è finita qui, perché prossimi all’appuntamento per il ritorno, facciamo giusto in tempo ad andare, sopportando una lunghissima fila, allo Shipwrek Rapids, sicuramente la più elettrizzante tra tutte le attrazioni, dove con dei gommoni circolari si discendono progressivamente rapide, con delle cascate d’acqua che sopraggiungono inaspettate sulle nostre teste.

Sono le 18, è ora di raggiungere il luogo dove ci attende il Pullman che ci riporterà a Los Angeles. Peccato non aver potuto visitare altre attrazioni, quali lo Shark Encounter, costituito da una vasca dotata di un tunnel di cristallo che ci avrebbe permesso di ammirare molto da vicino le evoluzioni degli squali, oppure il World of the Sea Aquarium, dove avremmo ammirato la maggior parte dei pesci tropicali.

Saliti sul Bus, stanchi ma felici, ci abbandoniamo ad una meritatissima dormita, che per me, come al solito dura una mezzora. A ritroso superiamo le località incontrate all’andata e via via che ci avviciniamo a Los Angeles cresce sempre di più il traffico di auto che intasa le freeway. Ad un certo punto, rannicchiato sulla mia comoda poltrona, vengo colpito da un concentramento di auto della polizia ferme in mezzo alla strada che hanno circondato un’altra macchina. Mi desto, osservo attentamente, poi vedo dei poliziotti intorno ad un cadavere steso in terra coperto da un lenzuolo bianco. Forse la tragica conclusione di un inseguimento a qualche pregiudicato, con sparatoria finale, come nei films. La scena mi colpisce perché non abituato ad un fatto simile. In Italia capita a volte, purtroppo, di assistere ad incidenti automobilistici, ma nulla più. Per fortuna che le mie “donne”, riposando, hanno evitato questo macabro fuori programma.

Superato l’imbottigliamento di auto, velocemente facciamo ritorno in albergo per comperare qualcosa da mangiare ed alla fine per concederci una doccia salvifica e rigenerante. Intanto già dalla sera prima, spinto dalla curiosità, ho voluto proprio vedere se gli aerei Lufthansa in partenza per Monaco di Baviera alle 21.15, rispettassero l’orario, approfittando del fatto che il nostro albergo fosse attiguo al Los Angeles Airport e la finestra della nostra stanza avesse la vista proprio sulla pista di decollo. Accertata la proverbiale e preventivata puntualità teutonica, con serenità ci corichiamo a letto per l’ultima notte negli USA.

22/7/2009 15° Giorno: Non accampiamo più alibi, non c’è più nessuna scusante, è arrivato per davvero l’ultimo giorno del nostro interminabile viaggio. La malinconia per dover lasciare questi luoghi stupendi ed il desiderio di tornare nel nostro nido si miscelano dando origine ad un sentimento difficile da descrivere.

Frettolosamente distolgo l’attenzione da questi pensieri programmando minuziosamente con la famiglia la nostra giornata.

Preparati i tanti e pesanti bagagli, minuziosamente pesati uno ad uno la sera prima per non superare il massimo consentito, scendiamo nella Hall dove chiediamo informazioni per andare a Santa Monica ed a Venice. Fortunatamente la fermata della linea Big Blue è proprio davanti all’albergo, cosicché all’orario stabilito non è stato difficile salire e sistemarci comodamente sul Bus. Il tragitto da compiere, percorrendo Lincoln Avenue, dura circa trenta minuti. Siamo a Santa Monica, nota per essere abitata da liberal, seguaci della macrobiotica ed intellettuali. La città gode di un clima stupendo e fu così chiamata dagli Spagnoli perché visitarono l’area in cui è sorta nel giorno dedicato a Santa Monica, madre di Sant’Agostino d’Ippona. Di fronte all’Oceano Pacifico in corrispondenza di Santa Monica termina la leggendaria Route 66, la prima grande autostrada americana che la collegava un tempo con Chicago. Le spiagge di Santa Monica sono state rese celebri dal telefilm Baywatch. La località è una delle poche città della contea in cui il problema dei senzatetto sia preso in seria considerazione. Città natale dell’attore e regista Sean Penn e di Robert Redford, è percorsa dalla Santa Monica Promenade, l’unica grande via interamente pedonale di tutta l’area di Los Angeles. Entriamo in qualche negozio nei pressi del lungomare così tanto per dare uno sguardo, ma non troviamo nulla di interessante, a differenza del famoso molo di Santa Monica, costruito nel 1909, con la suggestiva giostra in legno ancora funzionante, che visitiamo in lungo e in largo. Dal molo osserviamo l’impressionante larghezza della spiaggia, dove pochi e coraggiosissimi bagnanti e surfisti si immergono nelle fredde e, a dir la verità, non molto pulite acque dell’Oceano. La gente che vuole abbronzarsi o vuole fare un bagno si porta il proprio asciugamano e si distende sulla sabbia, perché qui il mare è di tutti e a tutti è consentito accedervi senza distinzione alcuna. Non ci sono stabilimenti balneari come dalle nostre parti, che si protraggono per chilometri e chilometri e che non permettono di vedere letteralmente il mare, per cui non ci sono ombrelloni, lettini, sdraio, cabine ed altre diavolerie del genere, appannaggio solo per alcuni. Dal molo, tornando indietro, passeggiamo per pochi metri sull’Ocean Front Walk, la famosissima passeggiata immortalata in tutte le foto che ritraggono Santa Monica e che arriva, lunga ben cinque chilometri, fino a Venice. E’ divertente vedere la folla variopinta che si esibisce: pattinatori, campioni di skateboard, culturisti, belle ragazze con ben poco addosso, e tutti, con il loro corpo scolpito, sembrano usciti da formidabili palestre. Quello che ci interessava a Santa Monica l’abbiamo visto, ed allora non ci resta che prendere un Bus che dopo poche fermate ci lascia praticamente sul lungomare di Venice. Qui si raccoglie una delle comunità più anticonformiste del mondo. I tipi più strani si trovano in questa località, dove sembrano nascere tutti i capricci e le mode dei nostri tempi. Assistiamo letteralmente ad uno spettacolo pirotecnico passeggiando sull’infinita Ocean Front Walk, perché quello che già avevamo intuito a Santa Monica, si ripresenta amplificato a Venice. Playgrounds all’aperto, dove funambolici giocatori di basket si cimentano in incredibili tre contro tre, energumeni più o meno attempati che si sfidano a tennis, muscolari che sotto il sole cocente, sudando anche l’anima, mettono a dura prova il loro fisico facendo pesi, flessioni, addominali, cyclette e tante altre cose, come se stessero lì per attirare lo sguardo e l’invidia dei passanti. Incontriamo davvero la gente più strana, come se ci trovassimo sul palcoscenico di un teatro all’aperto. Per non parlare poi dei negozi, che definire “originali” è puro eufemismo. Per calmare il nostro stomaco ci vengono in soccorso, indovinate un po’, i soliti hamburger con le solite patatine fritte e speriamo che siano le ultime perché non ne posso veramente più.

Alle 16 termina il nostro giro turistico perché dobbiamo rientrare in albergo, ritirare i bagagli ed alle 17.30 andare all’aeroporto.

Arriviamo in hotel alle 16.30, dopo una regolare corsa in autobus da Venice. Siamo nella Hall attorniati, sovrastati e nascosti da una miriade di valigie, zaini e buste manco stessimo in un accampamento. Nessuno capirebbe che stiamo per lasciare la nostra amata America. Il mio stomaco inizia ad attorcigliarsi per l’emozione e la tensione, consapevole che ci attendono le solite difficoltà e restrizioni prima di imbarcarci. Dopo un’ora circa di oziosa attesa spalmati su comodi divani, è sopraggiunto il momento di recarci in aeroporto. Saliamo sullo shuttle ed in cinque minuti, percorrendo il West Century Boulevard, ci troviamo al check-in Lufthansa partenze internazionali. E’ solo l’inizio del “percorso di guerra” che ci porterà due ore e mezzo dopo al gate per volare a Monaco di Baviera. Dopo il check-in, osserviamo un infernale e mostruoso grande cubo che divora i nostri bagagli per esaminarne il contenuto sotto potentissimi raggi x. Uno ad uno tutti i bagagli dei passeggeri subiscono questo trattamento, e quelli che non rispondono ai requisiti vengono aperti brutalmente dalle mani dei poliziotti lì presenti. Trepidiamo per le nostre valigie cariche soprattutto di tanti ricordi e come poi le vediamo intatte per essere imbarcate, ci rilassiamo e procediamo oltre.

Attraverso stati d’animo contrapposti, superiamo tutti gli ostacoli per ritrovarci alla fine della nostra fatica in attesa della partenza. “Gentlemen and Ladies, Lufthansa LH 0453 flight…” è così che l’altoparlante annuncia che è giunto il momento fatidico, frettolosamente prendiamo i nostri bagagli a mano, entriamo nel capiente e già sperimentato Airbus A340-600, e seduti più comodamente che all’andata, vicino ai finestrini, aspettiamo il decollo. Invano. Cinque, dieci, venti, quaranta minuti dopo, impazienti chiediamo spiegazioni al personale di bordo il motivo del ritardo. Per ammazzare il tempo giochiamo con il monitor davanti a noi, ma anche questo è difettoso, non si ricevono i canali. Il ritardo sarà dovuto ad un problema elettrico? Nessuno ci dà delle spiegazioni plausibili. Anzi ci viene garantito che il ritardo sarà recuperato per non perdere la coincidenza a Monaco con l’altro volo che ci porterà a Roma. Ed a cosa sono serviti gli appostamenti da me compiuti per due sere dalla stanza d’albergo? Tempo perso e fatica inutile. Dopo un’ora e venti di snervante attesa sentiamo rullare i motori dell’aereo. Finalmente si parte, e al decollo è ben visibile l’immensità della città con le luci che si propagano fino all’orizzonte. In un attimo siamo sull’Oceano Pacifico, viriamo bruscamente verso sud sorvolando Manhattan Beach, Redondo Beach, Torrance, poi costeggiando la penisola di Palos Verdes viriamo ad est. Dall’alto spero di scorgere, ancorato nel porto di Long Beach, l’enorme transatlantico “Queen Mary”, una delle navi più famose del mondo, costruita nella prima metà del novecento in Inghilterra, ed adibito al trasporto truppe sull’Atlantico durante la seconda guerra mondiale. Ma la speranza viene mortificata dalla quota altissima, dalla visibilità scarsa e dall’oscurità.

Dopo Long Beach c’è il nulla, siamo inghiottiti dagli alti strati dell’atmosfera e come una fionda lanciati a migliaia di chilometri. Andando verso est la notte è sempre più buia, abbassiamo la tendina del finestrino e ci addormentiamo. Di tanto in tanto ad interrompere il sonno intervengono le gentili hostess, così sgranocchiamo qualcosa giusto per trascorrere un po’ di tempo. Il viaggio è interminabile, vissuto poi con la sensazione antipatica e repellente di perdere la coincidenza una volta a Monaco di Baviera. Se l’aereo, come da programma, fosse partito in orario, saremmo atterrati alle 17.35 del 23/7, con un’ora e quaranta a disposizione per ripartire. Così invece è da poveri illusi pensare di recuperare. Ci affidiamo al destino.

Le tenebre notturne si esauriscono prima del solito facendo rotta ad est, cosicché dopo quattro-cinque ore dalla partenza vedo che comincia ad albeggiare non riconoscendo, vista l’altitudine, se ci troviamo sull’Oceano Atlantico oppure ancora sulla terraferma. E così vado avanti per ore ed ore fino all’approdo nordeuropeo. Il tempo è bello, perché si distinguono dapprima delle isole, poi quando ci addentriamo sul continente compaiono veri e propri tappeti di nubi sotto di noi. Sorvoliamo la Germania, e nel momento dell’atterraggio infuria un violento temporale su Monaco.

Concludiamo, tirando un sospiro di sollievo, il nostro volo sani e salvi. Sono le 19.05, teoricamente 10 minuti ci separano dal volo successivo. Come volevasi dimostrare, nonostante il nostro affanno, perdiamo l’aereo per Roma. Sarebbe stato impossibile il contrario. Giunti al gate, tra l’altro dopo aver sbagliato direzione per la fretta, e piuttosto arrabbiati, veniamo indirizzati al banco dell’assistenza Lufthansa, che con molta gentilezza (altro che Alitalia) ci propone, insieme ad altri passeggeri di sventura, un trasferimento con navetta al vicino Sheraton e udite udite serviti e riveriti con cena, pernottamento, prima colazione, trasferimento di nuovo all’aeroporto e partenza con il primo aereo per Roma alle 6.30 del 24/7.

Tutto sommato, poi tanto male non è andata, perché altrimenti saremmo arrivati a Roma oltre le 21, evitando così al nostro amico Claudio, che ci aveva promesso di venirci a prendere, un’inutile attesa. Trascorsa una piacevole e rilassante serata in albergo, abbiamo quasi paura a salire in camera per superare la notte. Riposiamo a malapena per due ore, poi con occhi sbarrati aspettiamo le 5 per alzarci. Non ci dobbiamo incollare i voluminosi bagagli che, lasciati in aeroporto, li rivedremo a Fiumicino. Consumata una leggera colazione, ci spostiamo nel freddo parcheggio dell’hotel in attesa della navetta che poco dopo ci conduce in aeroporto. Le operazioni di imbarco finalmente sono immediate e, con un caffè espresso sorseggiato con gusto, saliamo sull’aereo pronto al decollo.

La giornata è fresca con cielo limpido e saliti in quota mi godo dall’alto la città di Monaco, circondata da un verde lussureggiante, dove in periferia si staglia la supertecnologica ed inconfondibile conchiglia dell’Allianz Arena “casa” della squadra di calcio del Bayern Monaco.

Da Monaco alle pendici delle Alpi si impiegano pochi minuti. Sorvoliamo l’Austria, le fantastiche Dolomiti, la pianura padana, la Romagna, l’Umbria, il lago Trasimeno, di Bolsena, di Vico, di Bracciano e poi ecco Fiumicino dove atterriamo puntualissimi alle 8.00.

Buongiorno Italia, buongiorno Roma, ed il miglior modo per salutarci non poteva che essere un’ora di attesa per ritirare i bagagli. Ritirati questi, uscendo dall’aeroporto respiriamo aria familiare. Veloce viaggio in taxi e siamo a casa stanchi, storditi ma soddisfatti.

CONCLUSIONE Io e la mia famiglia abbiamo viaggiato per poco più di due settimane in America. Ci siamo proiettati nei luoghi magici che abbiamo visitato, e quello che abbiamo ammirato ci ha fatto riempire di orgoglio. Siamo stati spettatori del trionfo della Geologia. Ci sono voluti millenni a volte di impercettibili, altre volte di macroscopici movimenti della crosta terrestre per disegnare quelle infinite distese, aprire quelle immense voragini, innalzare quei monumenti grandiosi, far scaturire impetuose cascate per creare quel territorio unico che è il Grande West, il sogno americano della frontiera, l’espressione tangibile della sete di libertà che ha contraddistinto tutta la nazione ed il popolo americano. Ciò che potevo solo lontanamente immaginare di osservare con i miei occhi, si è ampiamente realizzato in poco tempo di fronte a quello che solo Dio poteva scolpire con le sue mani. Dalle rocce arroventate che dominano come cattedrali i deserti dello Utah e dell’Arizona ai mille diabolici giochi di Las Vegas, dai giganteschi tronchi delle sequoie, ai sorridenti personaggi che popolano il mondo dei cartoons, dai rangers che proteggono come angeli custodi il loro immenso territorio, alle terre inespugnabili esplorate dai leggendari pionieri alla ricerca dell’oro, dal mondo dorato del cinema di Hollywood, ai mormoni che attraverso una strana visione hanno edificato un piccolo impero. Good-bye America.



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