Uno sciamano mi disse…
Da quando avevo undici anni che riecheggiava quel nome nella mia testa… Vidi delle foto nell’appartamento di uno studente universitario: bambini e sciamani dallo sguardo ipnotizzante. “Dove le hai scattate quelle foto?” chiesi timidamente tenendo per mano la mia mamma.”Kathmandu, la capitale del Nepal, ai piedi dell’Himalaya”. Rispose lo studente. “Wow, Kathmandu”, dissi tra me e me. C’era qualcosa in quel nome che mi affascinava e mi incuriosiva… Sentivo che c’era qualcosa di misterioso, esoterico e intrigante. Iniziai ad immaginare santoni vestiti di arancione, con le loro lunghe barbe bianche ed il viso dipinto, che seduti sui gradini di un tempio induista, tra una canna e un’altra, leggevano il passato, il presente e il futuro, nelle mani dei viaggiatori che si erano fumati anche più canne di loro. Mentre all’orizzonte dominavano incontrastate le vette più alte del mondo. Già, doveva essere un posto davvero magico! Sono cresciuta con questa immagine mentale di Kathmandu, ok forse un po’ distorta, ma comunque molto intrigante e affascinante. Il nome aveva una sonorità unica, rievocava nella mia mente un posto tra mito e leggenda. Uno dei miei sogni era diventato quello di girovagare per le vie di Kathmandu ed incontrare uno sciamano dallo sguardo saggio e destabilizzante, che potesse leggere la mia vita nella mia mano.
Vent’anni dopo Carlotta, una delle mie più care amiche, mi disse: “Sere, perché non andiamo in Nepal?”. NEPAL? KATHMANDU? “Certo che Siiiiiiiiiiiiiiii!” Non me lo feci ripetere due volte: finalmente avrei potuto conoscere Kathmandu di persona.
Dieci giorni in Nepal erano molto pochi, ma quelli avevamo a disposizione. Decidemmo di dividere il viaggio in due parti: 5 giorni di trekking, e 4 giorni dedicati alla visita della capitale e delle bellissime storiche città in prossimità di Kathmandu. Per molti aspetti la città mi ricordava Antananarivo… forse perché le zone limitrofe al centro della città erano abbastanza sgarrupate proprio come nella capitale del Madagascar. E poi pioveva. Già, eravamo proprio nel periodo dei monsoni. Il che non migliorava l’aspetto, anzi. E quello che ci aspettava era ancora più disarmante. Una guest house abbastanza squallida, con camere buie e pochi mobili usurati dal tempo e dai viaggiatori. Il bagno rispecchiava la camera. Per dieci euro poteva anche andare. Non è che eravamo così tirchie, ma non ci eravamo rese conto del rapporto qualità-prezzo negli alloggi nepalesi. Ma nell’attimo in cui constatammo che le prese e la luce non funzionavano, senza pensarci due volte, ci scapitolammo giù dalle scale per dichiarare all’anziano proprietario della guest house che avremmo cambiato alloggio. Provò a darci una qualche spiegazione, ma a noi non convinse molto. Ripresi in spalla zaini e borsoni, con la pioggia battente sulla testa, e il fango della strada che ci schizzava fino alle caviglie, ci incamminammo trionfalmente verso il nostro nuovo alloggio: Kathmandu Guest House, mitico hotel ritrovo di tanti viaggiatori, tra cui si annovera anche George Harrison. La stanza era decisamente più accogliente dell’altra…. ma la questione elettricità ci piombò nuovamente come un macigno sulla testa: scoprimmo che non erano le due Guest house in questione ad avere problemi di elettricità, bensì tutta Kathmandu. Praticamente in tutta la città, tutti i giorni dell’anno, veniva tolta l’elettricità per 3/4 volte nell’arco delle 24 ore.
Incredibile, non potevo credere che nella capitale di uno stato nel 2014 potesse succedere qualcosa del genere. Comunque ci riuscimmo ad organizzare per ricaricare il vario materiale elettronico. L’unico problema era che la mattina capitava di svegliarsi in un bagno di sudore, causa spegnimento ventola e condizionatore. Il primo impatto con la città non fu così idilliaco. Dovevo abituarmi alla sporcizia e alla spazzatura, dovevo abituarmi ai clacson dei motorini, dovevo abituarmi al fango nella strada, dovevo abituarmi a sentire e a vedere gente che sputava ovunque in maniera non propriamente silenziosa, ma piuttosto accompagnando il tutto da un vigoroso e rumoroso sollecitamento dell’epiglottide. Insomma, il tempo di arrivare dal mio hotel sito nel cuore di Thamel, quartiere dei viaggiatori, alla Durbar Square, che già avevo la sensazione di essere sporca e maleodorante.
La mattinata concitata, il caos e l’ambiente in cui mi ero catapultata mi avevano spiazzato completamente. Questa fu la mia prima Impressione. Tornai in camera di albergo delusa. Non era la Kathmandu che mi aspettavo. L’indomani saremmo partite per il trekking, ed al nostro ritorno avremmo avuto modo forse di rivalutare la città. E così fu. Kathmandu mi conquistò con i suoi colori, le sue spezie, il suo caos, le sue campane tibetane, i profumi degli incensi, i suoi templi unici nel genere, le sue stupe più belle di sempre. Mi conquistò il modo con cui l’induismo conviveva con il buddismo. Asceti Induisti, o sadhu, che passeggiavano per le vie della Durbar Square con il loro secchino delle elemosine, mentre sui gradini di un tempio nella medesima piazza, monaci buddisti tibetani erano alle prese con qualche preghiera. Bambini che giocavano con gli aquiloni, donne che si recavano ai templi per la preghiera con il vassoio delle offerte in mano. Ancora donne che facevano il bucato nelle fonti pubbliche delle principali piazze della città, e bambini e uomini che usavano quelle stesse fonti per lavarsi. Mi innamorai ancora di più di Bakhtaphur, unica nel suo genere, una piccola perla il cui centro è tutelato dall’Unesco. Viuzze di terra rossa si snodavano tra vecchi palazzi e templi risalenti al Medioevo, mentre anziani signori svolgevano gli antichi mestieri sulle porte delle loro case e i bambini si rincorrevano tra capre, piccioni e distese di peperoncini lasciati essiccare al sole.
La mia prima impressione fu completamente rovesciata. Adesso ero in grado di gustarmi e valorizzare tutto cio’ che questo paese aveva da offrire, primo tra tutti la dolcezza, la semplicità e la riservatezza del suo popolo. E non c’era cosa che mi emozionava di più di alzare gli occhi al cielo e vedere le centinaia di bandierine tibetane che sventolavano contro sole, con il profumo dell’incenso al sandalo e i canti tibetani che mi inebriavano la mente. Poi chiudevo gli occhi e con il cuore ritornavo nel silenzio e nella pace delle montagne himalayane.
Il Nepal era riuscito alla fine a conquistarmi e a non deludere le mie aspettative… Merito senz’altro anche dello sciamano che leggendomi la mano mi disse che il mio destino era quello di girovagare da un paese del mondo ad un altro…