Una vacanza infernale: crociera da incubo a San Blas
La mattina dell’8 febbraio, desiderosi di avventura, ci incontriamo alla stazione dei bus di Citta´del Panama con Ian, un Canadese che ha una barca a vela e che ci portera´ fino alla Colombia passando per l’arcipelago di San Blas. Chi mi conosce, sa che avevo da un po’ il pallino di fare questa traversata, vedere il mare cristallino dell’arcipelago, conoscere i Kuna Yala, ovvero il popolo indigeno dell’arcipelago, e insomma… vivere questa avventura. Peccato che sia stata una DISavventura, quasi totale.
Alla stazione dei bus, conosciamo Michelle e Gavin, Londinesi, che si imbarcheranno con noi, e insieme a loro e ad Ian saliamo su un bus sgangherato in direzione Colon – talmente sgangherato che ogni volta che deve scendere un passeggero e il bus si ferma, non riesce ad ingranare la prima per ripartire. Talmente sgangherato che arrivati a Colon ci lascia in periferia e non in centro, perché scarica tutti che non ce la fa proprio a ripartire. Vabbè. Pranzo veloce a Colon, per me a base di sole verdure saltate (ormai mi sono spuntate le ali del pollo) e dopo montiamo su un taxi che in teoria ci deve portare alla stazione centrale, in pratica poi ci porta fino a Portobelo (un’ora circa di viaggio, peccato che dietro siamo in 4 e la strada sia tutta curve). Arrivati a Portobelo – cittadina che è stata chiamata cosi´da Colombo, di cui restano le rovine dopo che è stata completamente rasa al suolo dai pirati – vediamo il resto dell’equipaggio: due ragazzi del Belgio e una Tedesca; e le altre due persone che si imbarcheranno con noi, ovvero due ragazze olandesi. Andiamo a lasciare la roba sulla barca a vela. Prima sorpresa: con noi viaggia un gatto!! Un micione di circa un anno, castrato, che si chiama Mici e che è il mozzo di Ian 😉 nero e bianco, subito si strofina su me e Massimo (ha capito tutto, lui!!). Poi entriamo in barca, sotto, e ci domandiamo come faremo a stare la´ dentro per 5 giorni. UN BUCO forse è più spazioso. Ci vengono date le disposizioni per dormire. Io e Massi il posto d’onore, a prua: una specie di letto triangolare (non vi dico le risate, a canticchiare “il triangolo nooooooo!!!!”), con un oblò sopra, e il serbatoio dell’acqua sotto. Risultato: siccome piove sempre, cade acqua dall’oblò e siccome il serbatoio viene caricato, il materasso si bagna. La sera dormiamo belli all’umido. Il bagno consiste in un gabinetto dove la catena non è altro che una pompa che tira su acqua di mare, e c’è un mini-lavandino per lavarsi le mani – solo che se non viene attaccata l’acqua, non si apre il rubinetto. Scordatevi la doccia. Ci viene detto che per lavarci, ci dobbiamo bagnare nell’acqua di mare, insaponarci, e poi veniamo risciacquati sotto il getto della pompa. Massimo inorridisce, pensando ai suoi ricci. Io inorridisco pensando che siccome sono una degna Tavani, mi sono fatta venire il ciclo giusto in tempo per la traversata. Vabbè, ci diciamo che alla fine dei conti ne varrà sicuramente la pena, e ne varranno i 440 dollari (contro la media di 500 o 550 che vengono richiesti per fare la stessa tratta, sempre in barca, e sempre in condizioni simili in termini di grandezza e numero di persone).
Poggiata la roba, scendiamo di nuovo a terra per fare la spesa: le bevande non sono incluse e dobbiamo comprarci acqua e tutto quello che possiamo desiderare durante la traversata. Per fortuna (mi dico ora) siamo stati molto parchi con la spesa. Passato il solito acquazzone caribeño, alle 8 siamo di nuovo sulla barca, con una quantità incredibile di acqua, birra, snack etc. Mi domando dove verrà sistemata tutta quella roba. I ragazzi belgi e la tedesca, che fanno parte della ciurma, iniziano a preparare la cena, che alla fine consiste in puré di patate con carote, e uova strapazzate con cipolla e pomodoro, una fetta di pane, il tutto servito in scodelle, da mangiare senza coltello, e senza un tavolo su cui poggiarsi – che del resto non c’e’ perché se ci fosse non ci sarebbe spazio per la gente… Dopo cena, il primo accenno di nausea. Corro a sdraiarmi sul ponte, guardo le stelle, mi mastico una travelgum e poco dopo mi piazzo nel mio bel letto umidiccio, vestita di tutto punto (shorts, canottiera). Poco dopo, ad uno ad uno scendono anche gli altri, gatto incluso. Anche Massimo collassa vestito.
La mattina, nonostante il leggero dondolio della barca, mi sembra di stare bene. E che emozione, finalmente SI PARTE! La colazione consiste – per me – in una banana. Massimo, che ci ha visto lungo, non ha mangiato niente. Gli altri, tutti felici e contenti, hanno festeggiato con caffé, frutta, cereali etc. Alle 10 del mattino si accende il motore e la barca va. Appena usciti dalla baia di Portobelo, la sorpresa: il mare è bello grosso. Impossibile stare dentro se non si vuole morire di nausea. Dobbiamo stare tutti fuori. Mi mastico la mia travelgum e cerco di rilassarmi. In tutto questo, non mi sono ancora lavata i denti, men che meno la faccia, e non mi sono ancora cambiata l’assorbente dalla sera prima – meno male che ho il ciclo leggero. Massimo vede che su la situazione è bagnata (ogni tanto ci sono i soliti scrosci di pioggia caribeña) e torna dentro a mettersi i boxer: il gatto, piazzato ai piedi del suo zaino, non fa una mossa per spostarsi (sai la nausea, poverino). Poco dopo, Massimo riemerge, la faccia gialla di nausea. Vabbé. La barca va piano, stiamo andando solo a motore perché abbiamo il vento contro. Andiamo ad una velocità di circa 3,8 nodi. Si sta stretti su quel maledetto ponte. Ma finalmente riesco a trovare una posizione che, seppur non il massimo, mi consente di appoggiare la testa. Non mi posso assolutamente girare, se mi giro mi viene da vomitare. Devo restare il più ferma possibile. Peccato che dopo qualche ora debba fare la pipì. Chiedo se mi posso buttare in acqua per farlo – meglio in altomare che sotto, in quel bagnetto, con il caldo soffocante. Non posso, ma mi viene suggerito che, se tutti si girano per evitare di guardarmi, posso fare la pipì nel buco da dove passa l’acqua che raffredda il motore. Ok – mi dico – vada per il buco. Dopo varie manovre, tra cui una quasi caduta in acqua, mi posiziono. Ma fare la pipì cercando di mantenere l’equilibrio mi richiede uno sforzo enorme, anche perché ho il timone tra le gambe! Ma io sono una tosta, non mi arrendo, e poco dopo mi risollevo svuotata e contenta, pronta a risedermi e a farmi riprendere dalla nausea. Gli altri stanno più o meno tutti bene. Si spalmano la crema solare (il cui odore non fa altro che aumentare la mia nausea) e mangiano allegramente panini con una specie di mayonese mista a tonno e pomodoro – altro odore che mi provoca conati. Non riesco nemmeno a dire “no grazie!”: riesco solo a sollevare una manina per bloccare chiunque mi voglia parlare, perché non ho la forza di rispondere. NB: Massimo non parla Inglese e là dentro l’unico che sa mettere insieme (malamente e con un orribile accento del Quebec) due parole di Spagnolo è il capitano. Quindi, se non traduco, Massimo è praticamente isolato, cosa che peraltro non lo disturba hihihi
Dopo un’altra eternità il capitano avvisa che siamo a circa un terzo del viaggio. E lì inizio a preoccuparmi: mi volete dire che devo stare male così per altre 8 ore? Bene… mi faccio passare una pillola per il mal di mare, dice che funziona… magari meglio della travelgum. Presa la pillola, dopo un po’ mi sento meglio e sono quasi ottimista. Si – mi dico – ne varrà la pena, vedrò il paradiso di San Blas, i Kuna Yala e mangerò aragosta sulla barca.
Il sollievo dura circa mezz’ora, dopo la quale sono di nuovo costretta a prendere un’altra pillola per il mal di mare. Gli altri (tranne Massimo), nel frattempo, iniziano a giocare a dadi, ridono, leggono, si muovono. Ennesima eternità e finalmente si alza il vento: si tira su la vela e per un pochino andiamo solo a vela, per sentire il silenzio del mare. Ammetto che la vista del mare (onde alte, blu profondo) è magnifica, affascinante: ci siamo solo noi. Ma per girarmi bene a vedere, mi viene la nausea. Rinuncio. Riacceso il motore, gli altri hanno di nuovo fame: si ricomincia con i panini con tonno etc, e stavolta anche Massimo gradisce. E qui iniziano le domande per me: ma come, non mangi niente? (Non solo non mangio, ma non bevo nemmeno, e nonostante tutto devo fare la pipì, segno che mi sto disidratando completamente e cosa che mi preoccupa non poco). Ma non hai preso niente per il mal di mare? (Sono solo a quota 4 pastiglie, aspettate che ora prendo la quinta). E poi basta, perché la mia faccia (dice Massi) è eloquente e si vede proprio che non ce la faccio a parlare. Dopo qualche ulteriore ora di tortura, il capitano annuncia che “tra circa tre ore” arriveremo. Non avendo un orologio a portata di mano, le tre ore a me sembrano 20… o dite che è perché veramente sto malissimo? Mi domando: ma come, ancora 3 ore? Ebbene, tra motore e vela, la nostra velocità ora è di 7 nodi, ovvero circa 12 km orari. Immaginate cosa vuol dire percorrere 90 km di mare CON LE ONDE ad un massimo di 12 km orari su una barchetta di 12 metri. 11 ore per 90 km – e con questo ho detto tutto.
Decido che no, non ne vale la pena, e che preferisco buttare 440 dollari ma che appena attracchiamo io devo scendere e andare a terra e SCAPPARE, che se ne vada al diavolo San Blas, la barca a vela, i Kuna Yala e tutto il Panama che mi ha proprio stufato. Ne parlo con Massimo (per come posso) e gli dico che io scendo, che lui può restare visto che non soffre come me, e che ci vediamo direttamente a Cartagena. Dice che non se ne parla, che mica mi molla da sola se sto male, e che comunque non ci sta a fare niente con un gruppo di persone con cui non può nemmeno parlare. Sto per avere una crisi di pianto da quanto sto male, e lui è lì che mi dice di stare calma, che appena attracchiamo scendiamo, mi consola come può, cerca di distrarmi e farmi ridere (non ho la forza nemmeno per fare quello).
Una volta attraccati, dopo le manovre per calare l’ancora, scatta la domanda: Claudia, come ti senti? E allora confesso che sto troppo male, che voglio scendere. Il capitano non fa storie, mi dice che magari possiamo fare in modo che io dorma sempre a terra, e si va di isola in isola in barca, che vuole che mi goda San Blas, che il mare nell’arcipelago non sarà mai così grosso come ci è capitato, e che ci sarà solo il tratto finale per la Colombia brutto – ovvero altre 12 ore di tortura – ma che per allora mi sarò abituata. Dice che faremo campeggio, suoneremo, mangeremo aragosta, etc. Gli dico che credo di no, che sto troppo male, ma che se mi porta a terra il giorno dopo ne riparliamo – tanto loro passeranno la notte attraccati là. Allora, cala la scialuppa. Nel frattempo Massimo va dentro a raccogliere la nostra roba alla rinfusa (il gatto è finalmente riemerso dal ritiro, poveraccio), e caliamo gli zainoni, gli zainetti e le scarpe lì. Il mare è grosso, ma il tratto da fare piccolo e ce la dovremmo fare. Caricata la roba, Massimo deve salire sulla scialuppetta. Ci appoggia il suo affezionato sassofono, e poi fa uno scivolone sulla scaletta viscida, sbatte braccio, gamba e quasi ci perde un dente, e cade quasi completamente in acqua. Lo ripescano. Io in quel momento sto per avere un attacco isterico ma mi trattengo. Salgo anche io in acqua e dopo sale uno dei ragazzi belga. Stra-carichi, ne buio pesto illuminati solo dalla torcia, i due iniziano a remare – io e Massimo terrorizzati cerchiamo di non muoverci per non rompere l’equilibrio davvero precario, ma notiamo che nella barchetta entra molta acqua. Arrivati a terra noto che dentro ci saranno 10 cm buoni di acqua!! E la scialuppa da anche un’idea della vera portata della barca a vela, ovvero al massimo 6 persone. Ma TUTTE le compagnie caricano più passeggeri di quel che dovrebbero (un po’ come i famosi chicken bus di cui vi ho giàparlato).
Arrivati a terra, immersi nel buio, Ian ci porta in un piccolo hotel dell’isola, abitata da si e no 3 famiglie. Il guardiano dell’hotel ci porta da quello che è l’amministratore dell’isola. Ian, con il suo Spagnolo precario, gli spiega (dandogli del tu, cosa che infuria l’amministratore) che io sto male e ho bisogno di dormire a terra). Quello gli dice che il suo hotel è pieno, che non si può attraccare nell’isola senza permesso, gli fa una partaccia mentre io, quasi singhiozzando, gli chiedo umilmente perdono, gli dico che è colpa mia che mi sono sentita male e lo imploro di aiutarci. Ci manda nell’altro hotel dell’isoletta, dietro l’aeroporto (immaginate un’unica strisciolina di asfalto dove possono atterrare solo aerei minuscoli). Arrivati lì accoglienza simile: il padrone, antipatico e brontolone, ci dice che è tutto pieno, che non si può assolutamente campeggiare nell’isola, che lui non ci può fare niente, e che a quell’ora della notte (sono le 22 circa) non troveremo mai una lancia che ci porti in qualche altra isola. Sono quasi alla disperazione! Nel frattempo, Ian convince l’amministratore dell’isola a farci piantare la tendina tra gli alberi, dietro l’aeroporto: fa breccia quando l’amministratore gli cita articolo per articolo la costituzione dei Kuna Yala e lui gli domanda se non c’e´ anche un articolo che dice che i Kuna Yala devono aiutare chi sta male. Praticamente i 20 abitanti dell’isola nel giro di un’ora conoscono tutta la mia storia di mal di mare.
Armati di coraggio, Ian e il Belga risalgono sulla scialuppetta, vanno a prendere la tenda. Tornati, andiamo a montare la tenda, illuminati unicamente dalla torcia. La tenda è per due persone, il che significa che una volta che ci mettiamo dentro gli zaini (perché potrebbe piovere, e ci sono tutte le nostre cose), noi ci stiamo di sbieco. Ian se ne va, e ci dice che il giorno dopo ci rivediamo per parlare del da farsi. Mentre Massimo si toglie i vestiti fradici (rendendosi conto che nel salto in acqua ha infradiciato anche il portafogli con i soldi, cosa che lo fa imprecare non poco), io crollo, vestita, non avendo mangiato niente tutto il giorno, sporca e mezza bagnata. Poco dopo crolla anche Massimo. Mi chiedo che altro ci possa mai succedere… e in effetti, si mette a piovere nel cuore della notte e la pioggia entra dalla presa d’aria. Vabbè. Appena si alza il sole, mi sveglio, esco dalla tenda e tiro via gli zaini, così almeno Massimo riposa un pochino meglio. Faccio le foto all’alba, e quando vedo arrivare un signore a bordo di un gommone con un cane, mi faccio due chiacchiere con lui. E’ Americano, con moglie italiana, anche lui con la sua barca a vela. Mi dice che il tratto di mare tra Panama e la Colombia è uno dei più duri da affrontare, e che in molti si sentono male e rinunciano. Decido che no, non risalgo sulla barca, ma me ne torno a Città del Panama e mi prendo il volo. Pazienza per i soldi. Ma non voglio dover soffrire come il giorno prima. Ancora mi sento sballottata… Appena Massimo si sveglia, un’oretta dopo, raccogliamo le nostre cose, smontiamo la tenda, parliamo un po’ del da farsi: la decisione è di passare una notte nell’hotel dell’isola, sperando che ci sia posto, e tornare a Città del Panama o in volo o con una barca VELOCE e poi la macchina.
Alle 8:30 in punto siamo all’albergo (praticamente abbiamo dormito nel loro giardino! vedrete le foto su facebook) e la nonnina che lo gestisce (ma dov’era la notte prima?) ci accoglie di buon grado, dicendo che ha una stanza per noi, ma solo per una notte. Chiama l’aeroporto (ovvero la casetta dietro l’angolo) e le dicono che il prossimo volo per la capitale è giovedì e allora ci organizza il trasporto con la lancia (40 minuti) e il 4×4 (la strada è molto ripida, molte curve…) e dato che in tutto l’arcipelago non esiste internet, chiama anche l’ostello a Città del Panama per prenotarci una stanza. Le dico che lei è la mia salvatrice, e lei sorride soddisfatta, un bel sorriso sdentato. Dopo di che, appoggiata la roba nella nostra stanza super-spartana ma che ci sembra il grand hotel, andiamo a fare colazione. Per il mio stomaco, solo pane. Massimo mangia con soddisfazione le uova strapazzate. Mi sento meglio dopo la doccia (ovviamente fredda, ma SONO PULITA!).
All’appuntamento con Ian, annunciamo che noi sulla barca non torniamo. Mi dice che si tiene i miei 440 dollari (per fortuna non quelli di Massimo). Pazienza, mi dico: è il prezzo per non stare male. Del resto – spiega – per far salire me e Massimo ha dovuto dire di no ad altre due persone. E io lo avrei dovuto avvisare che soffrivo di mal di mare. Gli spiego che veramente non mi era mai capitato, che ogni estate faccio gite in gommone, che anche in questo viaggio ho preso lancia, barca, etc, e non mi sono MAI sentita male. Ma sapete cosa? Non mi interessa. In questo momento voglio solo tornare in camera e DORMIRE!
Tornati in camera, porto la roba sporca a lavare (la signora mi chiede 10 dollari, evidentemente vede la mia faccia stupita e quando le chiedo “quanto?!” mi dice 6 – vada per 6 dollari per il bucato a mano) e mi butto a letto e crollo in un sonno profondo di 3 ore. Al risveglio, vado a ristorante (attraverso la pista per gli aerei!!) e chiedo se per la sera possiamo avere aragosta. Ci dicono di si. Evviva! Si mette bene!! Torno felice in albergo e annuncio la cosa a Massimo che si pregusta l’aragosta e mi dice che mi offre lui la cena. Felici e contenti, e ottimisti, decidiamo di prendere la lancia per andare nell’isoletta vicino, dove c’è il centro più grande, e vedere se troviamo un internet point per cercare un volo per la Colombia. Arrivati lì vediamo che si tratta di – LETTERALMENTE – baracche di canne e legno, con gli scarichi dei gabinetti direttamente in mare (in effetti la Lonely suggerisce di non fare il bagno dove ci sono i centri abitati) e che di internet non se ne parla. E ci sono anche i soliti cumuli di immondizia tipici di tutto il Panama. Aspettando la lancia per tornare nella nostra isoletta, vediamo formarsi una fila di bambini – sporchi, lerci, in mutande e scalzi, sono in fila per prendere una pappa fatta di latte in polvere (sciolto in acqua) e cereali. Ci spiegano che lo fanno una volta al mese, come una festa (e io che da piccola sognavo le patatine e la cocacola!).
Tornati alla nostra isoletta, decido che forse vale la pena fare un bagno. L’ acqua non sembra malaccio, anche se gli standard sardi sono irraggiungibili. Mi metto il costume, gli occhialini, e corro fuori. Mi butto in acqua… sembra bella, trasparente, ma sotto ci sono le alghe, è torbido… e allora esco, torno in camera e mi faccio la doccia. Massimo non ha nemmeno tentato di buttarsi dopo che ha visto il mio disgusto. E meno male che San Blas doveva essere il paradiso tropicale… già che non si vede quasi mai il sole… boh?!
Post-doccia, decidiamo di fare nostro il motto di due ragazzi italiani conosciuti in ostello a Città del Panama: Toda Joia, Toda Cerveza (avete presente la canzone Toda Joia Toda Belleza?). In effetti, non c’è niente da fare qui. Si legge, si fa il bagno (ma a noi non piace) e per passare il tempo si sbevazza un pochino. Ci consoliamo pensando all’aragosta che ci aspetta a breve. Alle 7 in punto siamo in ristorante (un paio di tavolacci di legno, sedie da giardino, musica a palla degli Scorpions). Ordianiamo aragosta, e il cameriere (parolone) ci dice che non c’è. Insisto dicendo che poche ore prima avevo fatto richiesta specifica, ma mi viene detto che non l’hanno trovata. Mah. In effetti gli Italiani Toda Joia Toda Cerveza ci avevano avvisato che, nonostante il mare sia pieno di aragoste, i locali mangino le solite cose: pollo, patacones (frittelle di banane) e poco altro. E quindi, la nostra cena diventa pollo e patacones, e cerveza in lattina, calda. Bleah. Dopo cena, Massimo dice che ha ancora fame, e tornati in albergo alle 8, si fa fuori un paio di monoporzioni di biscotti e apre anche un pacchetto di crackers integrali. Io alle 9 sono già addormentata – la mattina ci aspetta la lancia alle 7:30, bisogna alzarsi presto!
Una volta sveglia, noto che Massimo ha un bel bozzo sotto l’occhio: una bella puntura di zanzara. Gli passo la pomata. Lui si tira su dal letto, e addenta un cracker dal pacchetto che aveva lasciato aperto la sera prima. Nel giro di un secondo, si volta e vede che il pacchetto è COPERTO di formiche, peraltro di quelle che pizzicano! Corre in bagno a sputare, le formiche lo stanno pizzicando anche dentro la bocca! Io sono pizzicata mentre butto il pacchetto fuori dalla camera… Orroreeeee! Era la ciliegina sulla torta…
Arrivata la lancia, sospiro di sollievo. Per le 11:20 siamo a Città del Panama. Arrivati in ostello, scopriamo che internet è bloccato in tutto il quartiere. Pare che ci sia stata una bella esplosione e siano saltate le linee. Come facciamo a prenotare un volo per la Colombia? Vabbé, male che vada, andiamo in un altro quartiere per trovare un internet point. Andiamo a mangiare un panino e per quando torniamo internet funziona di nuovo. Amen, spero che questa sia la fine di un incubo che si chiama Panama!! Mai dire mai…