Una Pasqua dietro casa

Tre giorni all'insegna di cultura, mare, cucina, natura e tanto vento...
Scritto da: lete72
una pasqua dietro casa
Partenza il: 06/04/2012
Ritorno il: 09/04/2012
Viaggiatori: 2
Spesa: 500 €
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Eccoci sulla Moby Wonder che ci riporta verso casa… già, a casa, ma anche la Sardegna la sento come casa e infatti ho un groppo alla gola quando dall’oblò saluto i gabbiani e gli allevamenti di cozze di Olbia… ma riavvolgiamo il nastro dei ricordi a soli 3 giorni fa, quando invece entravo in porto.

Quest’anno io e mio marito ci siamo concessi una pausa pasquale e causa impegni di lavoro di lui, catapultato per un mese in questa terra meravigliosa, decidiamo che per Pasqua lo avrei raggiunto sull’isola dal venerdì al lunedì di Pasqua.

Parto da Livorno la mattina presto di Venerdì Santo (con una corsa in taxi da casa al porto che mi costa ben 17,50 euro per neanche 6 km) dopo aver consultato convulsamente le previsioni meteo mi metto il cuore in pace visto che è previsto cattivo tempo, infatti all’imbarco della Moby piove.

La nave non è piena e riesco a trovare un posto comodo dove piazzarmi col Pc, musica e il libro; ho preferito viaggiare di mattina, perché è più veloce e comodo anche se il prezzo non è il più conveniente visto che per un biglietto A/R vado a spendere quasi 130 euro, ma d’altronde se non mettono dei voli con orari più intelligenti quella del traghetto rimane l’unica soluzione più ragionevole. La traversata scivola via tranquilla con un mare che è una tavola e nessun delfino che ci segue, con mio rammarico, eppure mi hanno detto che è uno dei loro giochi preferiti seguire la scia della Moby… si vede che non hanno voglia di questi tempi.

Arrivo a Olbia puntuale (15.00), una navetta mi porta fino all’uscita e sembra di essere all’aeroporto e lì mi aspetta mio marito abbronzato… si vede che un mese lontano da me gli ha fatto molto bene! Dopo i ‘convenevoli di rito’ ci dirigiamo verso Santa Teresa di Gallura dove ho trovato un delizioso B&B sul mare per la nostra fuga romantica di Pasqua. Arriviamo a destinazione dopo poco più di un’ora in uno dei posti ‘più magnifici’ (e anche le regole dell’italiano in questo caso lo permetterebbero perché è proprio così!) che abbia mai visto: la spiaggia di Rena bianca! È strano come si cerchino posti esotici da sfoggiare nelle conversazioni con gli amici, foto di spiagge da cartolina scattate dall’altra parte del mondo e non si conoscano posti come questi che sono dietro casa e che sono magici e splendidi da visitare non solo in estate, anzi forse la primavera è la stagione migliore per godersi questo paradiso tutto italiano.

Marcello e Sabrina, i proprietari del B&B La terrazza di Lilly ci accolgono come dei vecchi amici, con la loro confidenza sincera ci introducono in quella che è la loro vecchia casa di famiglia sapientemente adibita a struttura ricettiva, con la sensazione di essere arrivati anche noi a casa. Dalla terrazza tocchiamo con mano il panorama che ci era apparso dal parcheggio vicino la Torre spagnola. La nostra camera, blu, ci mostra dalla finestra la spiaggia, la penisola di Municca e il mare che con i suoi colori e il suo rumore ci danno il benvenuto con la costa corsa che spunta all’orizzonte. Pochi posti rapiscono il cuore e questo è uno di quelli, perché se il paradiso esiste davvero me lo immagino così… Dopo aver chiacchierato un po’ con i padroni di casa ci avventuriamo alla scoperta di questo paesino abitato anche d’inverno e che offre degli scorci suggestivi tra la Torre spagnola, i suoi vicoletti, e i colori delle sue case. Santa Teresa, ci spiegano, è nata per volere dei Savoia nel 1808 e infatti le sue strade, disegnate dritte e parallele, portano i nomi dei principali sovrani d’Italia, anche se intorno nel suo territorio sono stati ritrovati reperti della civiltà nuragica (a circa 2 km dal paese nella stessa direzione di Capo Testa/S. Reparata si trova il complesso archeologico di Lu Brandali, risalente al II millennio a.C. con resti di tombe, un villaggio e un nuraghe, e poi anche quello di La Testa); la stessa Torre, chiamata anche Longonsardo, fu ricostruita e abitata sul finire del ‘500 dagli spagnoli come punto di vedetta e di controllo strategico sulle Bocche di Bonifacio. Il borgo da rurale, già da fine ‘800 conosce uno sviluppo turistico con le prime strutture ricettive e adesso la sua vocazione è totalmente votata al turista, ma nello stesso tempo mantiene l’aspetto di paesino vivo e movimentato.

Apro parentesi per darvi un consiglio tecnologico: appena arrivata in paese il cellulare ha preso la linea telefonica francese perché siamo davvero vicini alla Corsica (si vedono anche le case di Bonifacio dalla Torre) quindi è meglio spegnere e riaccendere il telefonino se non ci si vuole ritrovare senza credito.

Per cena seguiamo il consiglio del proprietario del negozio La gallina matta vicino alla chiesa di S. Vittorio (semplice e curata, sorta anche questa nella prima metà dell’800) che vende originali oggetti tutti rigorosamente made in Sardinia (belli i ricami, i tessuti, ma anche le ceramiche con la pavoncella tipica sarda a prezzi onesti). A parte questa divagazione da souvenir, dicevo, ci fidiamo di lui e ci fermiamo al Pappa e Ciccia una pizzeria dove fanno però anche l’ottima zuppa gallurese (chiamata anche zuppa cuatta). Questo delizioso piatto, tipico contadino (lo rimangeremo in altri 2 modi differenti nei giorni a seguire), consiste in pane raffermo bagnato nel brodo di pecora e spolverato con tanto formaggio pecorino e vaccino che in forno si sciolgono formando una crosticina appetitosa sopra, poi ci facciamo una gustosa pizza bianca con bottarga (le uova di muggine o di tonno salate e messe a stagionare) e pomodorini e infine per dolce una seadas calda (un raviolone farcito con formaggio di pecora, fritto e ricoperto di miele o zucchero) che chiude (o apre?) il nostro incontro con la buona cucina sarda e anche qui posto incontriamo la gentilezza e l’ospitalità della gente del posto quando ci offrono il mirto e il finocchietto della casa e ci spiegano il procedimento per ottenere questi due liquori così profumati… ah già il conto? Soli 35 euro con annesse birre, rigorosamente, Ichnusa e vino della casa. Sì, questo posto ci piace davvero tanto.

Il giorno dopo, sabato, siamo svegliati dalla pioggia, nonostante abbia messo la sveglia alle 7 per vedere i delfini che stamattina non arrivano nella baia della Rena bianca, ci alziamo per metterci in cammino verso Castelsardo che dista circa 70 km da S. Teresa. Ma fatta una bella chiacchierata con i padroni di casa, il sole illumina la baia… accompagnato da un bel vento di maestrale. Io e mio marito ci dirigiamo verso la macchina vicino alla Torre spagnola da dove si gode un panorama da mozzare il fiato sulle bocche di Bonifacio (dal porto di S. Teresa è possibile raggiungere la Corsica con un’ora di traghetto)… col mare che si agita sempre più. Prima di mezzogiorno arriviamo a Castelsardo, perché lungo la strada ci siamo fermati a curiosare nelle varie spiagge che si incontrano per la via (ma ahimè si vedono anche tanti cagnolini randagi che a volte attraversano la strada incuranti delle macchine): una delle più belle è quella chiamata Rena Majore e quella subito vicina di Rena di Matteu con lunghe spiagge di sabbia bianca e dune e una profumata pineta che d’estate deve offrire un bel riparo dal caldo.

Castelsardo è un antico e misterioso paesino arroccato su una roccia a picco sul mare e ci accoglie con un bel solicello appena sferzato dal vento. Visitiamo la roccaforte (2 euro a persona), che dà il nome al paese, voluta dalla famiglia genovese dei Doria nel 1102, passata agli Aragona, poi ancora ai Savoia e infine ai sardi. La visita è libera e si può scegliere di vedere l’interessante video che mostra le bellezze del territorio, oppure visitare il Museo dell’intreccio o passare al piano superiore alla terrazza d’avvistamento. Partiamo dalla terrazza dove c’era il camminamento le ronde e il bastione per i cannoni, ma dove oggi si gode di un panorama bellissimo che abbraccia tutto il litorale fino al golfo dell’Asinara. Ridiscesi all’interno visitiamo, quindi, l’interessante museo allestito in onore dell’antica arte dell’intreccio, già nota in epoca nuragica, che ha reso e rende il paese un centro rinomato per i suoi cesti dalle diverse fogge e per gli usi più svariati con differenti materiali quali il giunco, la palma nana, il salice, il mirto e la canna… i più belli sono quelli con decori floreali, quelli per la funzione religiosa o magica, e quelli per fare il pane. Affascinati dalla maestria degli antichi va da sé che quando, subito fuori sulla strada verso la cattedrale, incrociamo la solare signora Giuseppina che ci dà prova dell’arte, e ce ne andiamo sottobraccio con una delle sue opere in rafia colorata adatta per ‘girare’ gli gnocchetti sardi o anche i più nostrali gnocchi di patate.

Tra vicoli e vicoletti intricati si scende verso la cattedrale di S. Antonio a picco sul mare. L’edificio, con facciata spoglia, risalente al ‘500 ma con rimaneggiamenti successivi, è un luogo strano: entrando si ha una strana sensazione di pace, ma nello stesso tempo si sente il rumore del mare che è proprio dietro l’antico ingresso della chiesa di legno, stupendamente intarsiato, e si ha nello stesso istante una sensazione quasi di inquietudine. Si dice poi che in questo luogo si possano trovare anche segni dell’alchimia di cui erano esperti i Templari come i fiori (dei boccioli di Rosa di Gerico) che tiene tra le mani la Madonna, opera del Maestro di Castelsardo, sull’altare maggiore o nel disegno che si trova su una lastra tombale in sagrestia del drago che si morde la coda simbolo dell’eterno ritorno. Il campanile poi è davvero pittoresco perché, staccato dalla chiesa, era in origine il faro riadattato alla nuova funzione con l’aggiunta di una cupola in maiolica colorata. Attiguo vi è anche una delle 3 sedi del Museo Diocesano o Ampuriense (le altre due sono nell’ex Seminario e nell’ex Episcopio) che conserva oggetti d’arte sacra molto interessanti che però, ahimè, apre solo nei mesi estivi.

Dopo questa bella visita subito fuori il paese sulla statale 134 verso Sedini, sostiamo a vedere la curiosa Roccia dell’Elefante risalente al periodo neolitico, al cui interno furono scavate due tombe, o secondo la credenza locale due domus de janas cioè le case di figure fantastiche, e dove su una parete è possibile vedere l’incisione di due corna taurine. Giunti all’ora di pranzo, ci incamminiamo verso l’agriturismo consigliato da Marcello ad Aggius, nell’entroterra. Il paese è famoso e rinomato per tante cose tra cui i suoi tappeti, a cui viene dedicata in estate anche una festa, il sughero, il noto Coro di musica sarda, addirittura riconosciuto patrimonio dell’umanità dall’Unesco e apprezzato da Gabriele D’Annunzio, e poi, per le celebrazioni della Settimana Santa che ci dicono essere suggestive soprattutto il Venerdì santo, e che quindi abbiamo perso. Ci sono anche due musei interessanti: l’Etnografico, dedicato alla vita quotidiana sarda e alla tradizione locale e il secondo dedicato al banditismo. E per arrivare in questo luogo si attraversa la Valle della Luna, un paesaggio (che mozza il fiato) che arriva fino alla costa: colline di granito dalle forme più varie (io ne fotografo una che mi ricorda Gollum del Signore degli anelli e penso che questo che ho intorno è davvero un ‘tesssoro’), boschi secolari, pascoli infiniti che sembra di stare in Svizzera, colori forti accessi di tutte le tonalità del verde, e poi le ginestre e le mimose e cespugli di mirto e rosmarino, con la strada che lunga si mostra davanti a noi quasi come un serpente liscio. Mio marito mi informa che qui sono stati girati anche parecchi film all’epoca d’oro degli Spaghetti-western di casa nostra. Quando arriviamo al Muto di Gallura sono quasi stordita dalla pace e dalla tranquillità del luogo, ma ancora non so cosa mi aspetta! L’azienda, che vanta anche di essere un presidio SlowFood, ricorda nel nome uno dei più rinomati e feroci banditi della zona vissuto a metà ‘800 (non a caso c’è anche il museo in paese); è immensa, circa 400 ettari di terreno, e comprende anche un maneggio, una fattoria, una piscina, una riserva di caccia e il B&B in casette sparse sulla proprietà o all’interno dello stazzo tipico sardo dove c’è anche il ristorante, in stile country-chic, e dove la signora Francesca ci accoglie con un bellissimo e sincero sorriso e ci fa accomodare al nostro posto iniziando le danze di un pranzo che ricorderemo per sempre. Nonostante siamo in due, Francesca ci riempie con porzioni da famiglia e ci sottolinea che tutto quello che avremmo mangiato era frutto del lavoro della loro terra, dalla carne alle verdure sempre di stagione, ai formaggi, ai salumi, alla pasta e al pane tutto biologico e fatto da loro… e allora ci lasciamo guidare dai nostri sensi e ci abbandoniamo agli antipasti con salumi di cinghiale e maiale e sottoli alla maniera sarda, per passare ai primi con zuppa gallurese questa volta accompagnata da sugo di vitello, ravioli di ricotta al limone, gnocchetti sardi, poi per secondo braciola e salsiccia di maiale tenerissima, cinghiale in agrodolce e vitello in salsa, patate al forno e insalata di campo, il tutto innaffiato da vino rosso e bianco leggermente fruttato e per finire un’infinità di dolcetti sardi (prezzo 60 euro in due). Francesca ci regala una copia del libro scritto dal capostipite della famiglia che racconta la storia del luogo e del bandito a cui deve il nome e che include anche delle belle poesie in lingua gallurese (chiaramente c’è la traduzione in italiano se no non potevo dire che erano belle). Ci alziamo da tavola rotolando e dicendo già che la sera non avremmo mangiato. Al tavolo vicino c’è un’allegra famiglia di Modena che ci illustra la bellezza delle pietre rosse della Costa Paradiso (dove i cinghiali arrivano sulla veranda e si fanno toccare tranquilli) e di Isola Rossa e quindi, visto che sono sulla strada del ritorno decidiamo di fermarci lì. Sinceramente questi sono due posti che mi hanno lasciato un po’ perplessa… La Sardegna è magnifica da nord a sud per la forza della Natura sia di terra che di mare, ma vedere che l’uomo se ne è approfittato e ha costruito su ogni punzone disponibile, sulle rocce battute dal vento solo e soltato per ricavarne case da vacanze, bhè mi lascia pensare a quanto l’uomo sia egoista e aspiri ad avere un ‘posto in Paradiso’ senza rispetto per l’ambiente e penso ai poveri cinghiali costretti ad adattarsi anche alle verande di lusso! Tralascio la descrizione di questi due posti (ma anche di altri lungo la costa sarda) perché non vedo l’utilità di promuovere, e neanche il senso, un posto in cui è rimasto poco di naturale. Come annunciato la sera ‘a letto senza cena’… e come potevamo del resto?

Il giorno dopo è Pasqua, durante la notte ha piovuto e tira un vento pazzesco che riesce a sradicare la cerniera della persiana della camera, ma il mare nella baia nonostante la burrasca non è poi così mosso. Marcello e Sabrina ci danno gli auguri di Pasqua con una colazione rinforzata di cioccolata e ci si mette a chiacchierare anche oggi come vecchi amici.

Poi il sole riappare, ma il vento è sempre fortissimo e decidiamo di andare a Palau teatro dello scontro tra l’esercito rivoluzionario francese, tra cui c’era alle prime armi Napoleone e le truppe sarde quando qui c’erano solo rocce, mirti e mare. Arriviamo in paese, il vento ci porta via e in porto le funi delle barche a vela ormeggiate tintinnano fortissimo sbattendo contro le aste, ma comunque si ha una magnifica vista su tutto l’arcipelago della Maddalena. Andiamo, quindi, verso Capo d’Orso, ma è impossibile salire fino in cima per le raffiche di vento e quindi desistiamo non prima di fermarci a fare delle meravigliose foto dal promontorio, peccato per il mare mosso perché i colori sono bellissimi. Indecisi se visitare la granitica fortezza ottocentesca di Monte Altura subito fuori dal paese o Porto Rafael ci dirigiamo verso quest’ultimo, un borghetto creato nel 1960 da uno stravagante conte, Rafael appunto, che richiamò qui altri ricchi personaggi, dando il via a un consorzio di proprietari che ha deciso di costruire le proprie residenze (villoni) in questa baia riparata. Sulla piazzetta troviamo i ‘proprietari’ intenti nell’aperitivo che ci squadrano come intrusi, eppure l’entrata al borgo è libera e quindi arrivati alla spiaggetta e vista l’aria snob che tira decidiamo di togliere il disturbo… è la prima volta che non faccio una foto al posto visitato!

Decisamente più alla nostra portata è invece Porto Pollo con l’Isola dei gabbiani dove ci accolgono (a parte le raffiche di vento penso a 100 km all’ora e non scherzo) uno stuolo di surfisti e kitesurfisti in prevalenza tedeschi che non si lasciano spaventare, anzi amano, questo sport da pazzi, dico io, visto le onde e il vento. Però qui sì che si respira un’aria più naturale e friendly con le mute appese ad asciugare, i ragazzi che si salutano con i loro gesti strani, nugoli di ragazze che parlano tra loro scalze in attesa dei propri ragazzi e intanto preparano panini cercando di ripararsi dal vento. Questo posto è davvero spettacolare e percorrere il lembo di terra che unisce la terraferma all’isolotto è quasi da brivido visto che qualche onda arriva a toccare le ruote della macchina… Wow, questo sì che è un posto da sballo… avessi 20 anni di meno, però!

Pranziamo in un altro agriturismo a circa 5 km da S. Teresa e per arrivarci il paesaggio ci immerge nella natura più selvaggia e sterrata. Il posto si chiama Li Nalboni e anche qui il proprietario ci accoglie sorridente e ci rassicura che le porzioni sono ‘umane’. Infatti si mangia tipico gallurese, con menù fisso come tanti agriturismi ora fanno: antipasti (buone le favette fresche cotte con pancetta) con salumi e sottoli, il tris con zuppa gallurese (anche qui cotta in modo diverso), gnocchetti sardi e ravioli al limone (ancora più buoni perché più profumati al limone), e poi il porceddu e l’agnello con patate (che io ho appena assaggiato) e poi dolci tipici pasquali (pardules), acciuleddi e seadas, mirto e crema di mirto per digerire e anche qui per 60 euri in due. Anche stasera saltiamo la cena!

Dopo pranzo, decidiamo di arrivare a Capo Testa e per strada ci fermiamo prima alla chiesa di Buoncammino, costruita su resti di un antico luogo di culto romano, che però è chiusa (visto l’ora e la giornata) e ci viene incontro un gattone nero coccoloso… leggiamo poi su un cartello affisso ad un albero che quella è una colonia felina e bisogna seguire delle regole per rispettare questi magnifici animali e mentre lo leggiamo pensiamo al nostro ‘bimbo peloso’ a casa. Descrivere Capo Testa è impossibile! Si arriva attraversando un istmo di terra più grande di quello dell’Isola dei gabbiani e dopo un km si parcheggia davanti l’entrata per il faro. Intanto il vento è aumentato (cosa che si rivelerà fondamentale dopo poco), ma per fortuna c’è il sole. Prendiamo il sentierino che scende verso le rocce più grandi e ci stupiamo delle persone sedute sugli enormi ammassi granitici levigati dal vento (della sua potenza non abbiamo dubbi visto quello che sta tirando anche ora) attirati anche dal rumore del mare e che spettacolo ci si mostra: onde giganti che si infrangono con una tale forza contro le rocce che sembra strano che non si spostino! Ci fermiamo a distanza giusta, ovvio, ma lo stesso ci arrivano gli schizzi di acqua e siamo presi quasi da un’euforia fanciullesca ad ogni onda che vediamo formarsi in lontananza, dietreggiare e poi ‘Sbam!’ con violenza sbattere contro la costa… è incredibile come si riesca a rimanere a fissare quello spettacolo della natura (gratis per aggiunta) per ben 2 ore senza annoiarsi mai! Ci dirigiamo verso il faro e anche lì lo spettacolo è bellissimo, aperto sul mare e sulla costa corsa con le pietre dalle forme strane, tanto che qui sotto è stato girato uno spot pubblicitario di una nota marca di mirto. Ebbri di salsedine e con gli occhiali da sole impiastricciati di sale torniamo giù, ma prima seguiamo l’indicazione per le colonne romane che si trova poco prima di uscire dall’isolotto di Testa nella spiaggia di Levante. La zona era infatti famosa ai tempi dei Romani (II sec. d.C.) per l’estrazione del granito, infatti nella baia di S. Reparata e di cala Spinosa poco distanti si possono ancora vedere in alcuni punti le parti di roccia ‘tagliate’ a gradoni (cioè la roccia veniva tagliata gradualmente dall’alto verso il basso), anche se la zona intorno perde di romanticismo perché fittamente sfruttata a livello turistico con la costruzione delle solite villette da vacanze, e tuttora dalla spiaggia dei Coralli si intravedono sommersi, con mare calmo però, la rampa di carico e l’antico molo delle navi romane. La baia dove si trovano i resti delle colonne è un posto tranquillo e riparato dal vento con una spiaggetta che si presta bene per passare qualche ora di riposo, mentre invece più esposta, ma più estesa, è quella che si trova poco dopo l’istmo di Capo Testa sulla strada di ritorno verso S. Teresa. Tornando verso il B&B, in paese ci fermiamo a prendere qualche ricordino (i dolci gli abbiamo presi al Sisa sulla via Nazionale, mentre il buon mirto e la fregola al panificio Sapo in piazza Vittorio vicino alla chiesa o anche al laboratorio nella zona industriale sulla strada per Castelsardo/Sassari/Porto Torres), anche se per soli 3 giorni ho vagliato bene dove acquistare i souvenir da riportare e il paese è pieno di negozietti che propongono manufatti sardi, ma sinceramente non mi sono fidata degli oggetti tutti uguali nei vari negozi, la qualità si riconosce e quindi ci siamo diretti di nuovo alla Gallina Matta per prendere magneti originali, posacenere in ceramica con la pavoncella e un cuscino con il ricamo tipico di qui. Inoltre ci siamo fermati dal curioso artigiano di maschere lignee (Mascheras, via Maria Teresa, 54, riconoscibile per il manichino, fuori dal negozio, travestito con il caretteristico abbigliamento) tipiche del Carnevale di Ottana (in provincia di Nuoro) chiamate Boes e Merdules. L’uomo ci spiega che rappresentano il bue e il padrone e servono per buona sorte (il bue con la stella dipinta sulla fronte è di solito appeso fuori dalla porta di casa) e per scacciare le forze negative (il padrone, realizzato il più brutto possibile da far paura anche al Diavolo). È stato davvero interessante fermarsi qui e sono contenta di guardare il mio piccolo portafortuna rosso e pensare che è frutto del lavoro di un uomo appassionato e fiero di essere sardo che riesce a trasmettere nei suoi oggetti la passione e la tradizione di questa terra così ricca. Sono queste le cose che ti rimangono in un viaggio gli incontri con persone che non si stancano di spiegare ciò che fanno e perché lo fanno e sono anche rincuorata dal fatto che esistano persone che insistono sulla tipicità dei prodotti autoctoni e non si lasciano tentare dalla facilità di guadagno prospettata da una produzione fatta in terre lontane con sardo solo la forma.

Lunedì di Pasqua

Si riparte con un nodo alla gola, la giornata è splendida, sulla spiaggia sotto la Terrazza di Lilly la gente alle 10 di mattina è già al sole come lucertole o in acqua, trasparente nonostante la burrasca di ieri… e neanche stamattina ho visto i delfini nella baia. Salutiamo Marcello e la dolce Sabrina a malincuore con un ‘arrivederci’ perché questo è davvero uno dei posti in cui vorremmo tornare a breve. Andiamo verso Olbia alla volta di Arzachena, ma prima ci fermiamo a visitare la suggestiva Tomba dei Giganti di Li Lolghi (visita a un monumento 3 euro a persona, altrimenti c’è la possibilità di uno cumulativo per i 3 luoghi archeologici a 7 euro) sperduta in un paesaggio campestre dolcissimo, con uccellini canterini e silenzio di… tomba per l’appunto! Questi resti nuragici (risalenti al 1800-1200 a.C.) vengono chiamati dei Giganti perché si pensava a inumazioni di uomini di statura notevole, ma invece sono delle vere necropoli ‘condominiali’ dove venivano sepolti gli abitanti dell’intero villaggio e quindi vaste e lunghe. Immersi tra ulivi secolari, visitiamo anche il nuraghe Albucciu (3 euro a persona, ma con la possibilità di visitare tutti e 3 i resti per 7 euro) ben conservato, che forse era la casa fortificata del capo villaggio. E anche per oggi un po’ di storia e di cultura l’abbiamo respirata. Visto che l’ora dell’imbarco si avvicina, ci dirigiamo verso Cannigione dove pensiamo di pranzare… Ecco un posto di vacanze dove vorrei passare un po’ di tempo. Il paese si presenta sonnacchioso e lento, con il porto dove sono allineate le barche a vela dei miei sogni e le famigliole tranquille con i cani e intorno le case non ‘stampate’ come in altri posti (anche se dalle colline intorno fanno capolino delle inquietanti gru da costruzione), con i murales, la chiesetta in stile sardo anche se moderna ed è tutto a rilento, ordinato, pulito, rassicurante. Mangiamo dei panini sulla spiaggetta del paese, poi passeggiando e grazie al caldo (22° di oggi contro i 14° di ieri) arriviamo alla gelateria artigianale La Dolce Vita, dove ci lasciamo tentare (per 2 euro ciascuno) da due coni con gusti da favola: puro cioccolato fondente (al 70% senza latte) con yogurth e Mirto con noci e fichi caramellati (per cui sono specialisti e pluripremiati… a ragione). Non c’è che dire, starsene qui è proprio un dolce vivere!

Ed eccomi arrivata all’inizio o alla fine di questa piccola fuga e noi stiamo per attraccare al porto di Livorno; ho finito il mio racconto, l’ho voluto scrivere subito per imprimere tutti i ricordi possibili, fermarli sulla carta e condividerli con gli altri viaggiatori che come me non amano fermarsi all’apparenza, ma ‘vivere’ i posti che si ha la fortuna di vedere e poi conoscere per quel che è possibile la realtà quotidiana e mischiarsi con chi lavora per permettere al turista di ricordare. Sono stati solo tre giorni, sì, ci si potrà anche accontentare, ma la Sardegna non basta mai…



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