Un punto di vista australe

Il passato del viaggiatore cambia a seconda dell'itinerario compiuto, non diciamo il passato prossimo cui ogni giorno che passa aggiunge un giorno, ma il passato più remoto. Arrivando a ogni nuova città il viaggiatore ritrova un suo passato che non sapeva di avere: l'estraneità di ciò che non sei più o non possiedi più t'aspetta al varco nei...
Scritto da: robinia
un punto di vista australe
Viaggiatori: in gruppo
Spesa: 2000 €
Il passato del viaggiatore cambia a seconda dell’itinerario compiuto, non diciamo il passato prossimo cui ogni giorno che passa aggiunge un giorno, ma il passato più remoto. Arrivando a ogni nuova città il viaggiatore ritrova un suo passato che non sapeva di avere: l’estraneità di ciò che non sei più o non possiedi più t’aspetta al varco nei luoghi estranei e non posseduti.

[ Italo Calvino, “Le città invisibili” ] Visitare il Sudamerica è come puntare un cannocchiale sull’Europa e riconoscerla per quello che è: un continente ridicolmente piccolo ma storicamente ingombrante. Osservando l’Europa da un punto di vista australe, ritroviamo un passato che non sapevamo di avere. La mia prima volta in Sudamerica è Argentina, ma soltanto per una coincidenza di tipo amministrativo: perché la mia prima volta in Sudamerica è il Vicereame del Rio de la Plata, sono i contadini quechua e gli indios guaranì, le statue sacre della cultura creola e i palazzi coloniali bianchissimi, i tucani e le infradito, i sacchi colorati trasportati dalle donne e i cactus altissimi a forma di mano, gli altopiani nudi e desolati e i canyon dai tanti colori, il mais e i lama, il campionato mondiale di tango e l’obelisco di Avenida Corrientes.

Visitare l’Argentina è conveniente per gli europei, oggi che un euro vale circa 4 pesos. Bisogna sapere che agli inizi degli anni Novanta il Presidente Menem aveva introdotto la parità tra il peso e il dollaro, e immediatamente tutti i cittadini si erano ritrovati ricchi. Poi, il sistema economico del paese era catastroficamente crollato. Attualmente, nonostante la situazione sia migliorata rispetto al recente passato, gli stipendi non sono molto elevati e le difficoltà economiche sono ancora tangibili: basta guardare i negozi delle grandi città che offrono la possibilità di acquistare a rate anche oggetti non molto costosi come scarpe o capi di abbigliamento.

Visitare l’Argentina del nord permette di alloggiare in ottime strutture alberghiere, mangiare un sacco di piatti succulenti e trovare servizi di qualità. Ultimamente il Paese ha vissuto un boom turistico dovuto alla convenienza economica, alla rivalutazione del turismo di natura e al fatto che l’America Latina è una meta relativamente sicura, visti i casini internazionali. Inoltre per noi esiste un legame particolare, visto che una grossa parte dell’attuale popolazione argentina discende dagli italiani che sono emigrati qui dalla fine dell’Ottocento in poi.

A Buenos Aires, alloggiamo in Avenida de Mayo, che ricorda i viali haussmanniani di Parigi ed è costellata di edifici in stile art deco. La sera fa freddo, ma è logico: qui in agosto è inverno. Cena in un ristorante con parrilla, suprema griglia su cui campeggiano gigantesche bistecche e imponenti salsicce. Primo impatto con il parterre di camerieri che mi hanno conquistato in tutto il paese, con le loro facce da commedia all’italiana. Immancabile il cameriere Tiberio Murgia: capelli neri imbrillantinati, baffi neri impomatati, espressione seria e sguardo imperturbabile. Dopo cena nessuno vuole accompagnarmi in una milonga (una serata danzante, per così dire) e mi consolano promettendomi di portarmi a fine vacanza, quando torneremo nella capitale per un giorno ancora.

La mattina è libera prima del volo pomeridiano per Iguazù, sede delle cataratas, luogo mitico e simbolico per i due protagonisti omosessuali e innamorati del film di Wong Kar-Way “Happy together”. Piove ed è grigio in Avenida de Mayo: i cani previdentemente indossano caldi maglioncini. Scorgo la sede delle mamme di Plaza de Mayo il cui simbolo è un fazzoletto legato sotto il mento; mi riferiscono che da un po’ di mesi, e dopo quasi 30 anni, è cessato lo storico appuntamento di protesta del giovedì pomeriggio, dopo i passi avanti compiuti dalla giustizia nel tanto necessario processo di condanna dei colpevoli delle atrocità della dittatura. Siamo a un soffio dalla movimentata Avenida Corrientes, una via così larga che ci sono 4 semafori di seguito da attraversare a piedi: qui Carlotto inizia il suo tour dell’orrore nei meandri della storia della guerra sucia e dei desaparecidos nel libro “Le irregolari”. Il nostro tour metereologicamente mesto procede invece verso plaza de Mayo dominata dalla Casa rosada, il palazzo governativo da dove si sono affacciati, tra gli altri, Evita Peron e Maradona. Di fronte invece vi è il cabildo, unico edificio in stile coloniale della città, semplice e lineare con le sue forme arrotondate e la bianchezza abbacinante della calce. Proseguiamo la passeggiata per vie commerciali come Calle Florida, poco battute in questa cupa mattinata, se non fosse per i venditori di pellame che a quanto pare sono informati sull’interesse maniacale degli italiani per borsette, cinture e giacconi in pelle. Superata Plaza San Martin, dedicata all’onnipresente generale che guidò la lotta per l’indipendenza del Paese dalle potenze europee, giungiamo a costeggiare il Porto Madero con un’infilata di magazzini in mattoni rossi molti dei quali trasformati in ristoranti fighetti. Pranzo notevole con ottimo prosciutto crudo e insalata di merluzzo. Per inciso, i camerieri in Argentina sono iper formali anche nelle bettole, le birre sono sempre gelate e i caffè e i tè sempre ustionanti.

A Iguazù (regione de El litoral, provincia di Misiones) ci attende tutt’altro clima e ambiente naturale: caldo e umido, vegetazione lussureggiante, amache e farfalle. Alloggiamo a Puerto Iguazù per tre notti in un simpatico hotel con cortile e bagni “maestosi”, secondo i commenti della Lonely Planet (che probabilmente non faceva riferimento alle nostre camere). Il paesello è infestato di negozi di souvenir, tra i quali spicca la tazza per il mate a forma di zoccolo di mucca con tanto di peli. Le cene sono precedute e seguite da aperitivi e cocktail sorseggiati in posizione orizzontale sulle sdraio del semibuio bar simpsoniano “Moe’s”, che mi dà l’illusione di avere un’abitudine e dunque un luogo dove consistere. Al ristorante scopriamo che quella che loro chiamano mozzarella è in realtà galbanino e che la pizza a la piedra è molto più buona di quella di alcune pizzerie romane.

Ci aspetta la visita alle cascate più imponenti del Sudamerica, le Cataratas di Iguazù (che in lingua guaranì vuol dire “grandi acque”), dove precipitano almeno 5000 metri cubi d’acqua al secondo per oltre 70 metri d’altezza e 2 Km di larghezza, nello scenario indimenticabile della foresta subtropicale. Le cascate nacquero quasi 200 mila anni fa dalla confluenza tra i fiumi Iguazú e Paraná e il luogo è ora conosciuto come “Unione Tre Frontiere” (Argentina, Brasile e Paraguay). Ci prepariamo con costumi da bagno e buste di plastica ad essere travolti dall’acqua che ti bagna completamente quando attraversi le passerelle, ad essere assordati dalla favolosa Garganta del Diablo, ad essere praticamente sommersi durante la gita in barca. E invece non veniamo sfiorati nemmeno da una goccia d’acqua perché non piove da tre mesi e anche il giro in barca si riduce di un pezzo perché il fiume è di gran lunga sotto il livello solito e le grandi pietre levigate sono squallidamente nude sotto il sole. Era dal ’78 che non capitava un evento del genere e io mi chiedo che avrebbero fatto Jeremy Irons e Robert De Niro alle prese con la siccità alle cascate di Iguazù.

Nel giro in jeep rimediamo soltanto una minuscola scimmia cappuccino: la nostra speranza di vedere qualche animale tropicale, anche messo lì apposta, viene drammaticamente frustrata. Le farfalle sono belle sì ma non grandi quanto una mano come ci avevano detto, ci lasciamo intenerire dal coatimundi, che è una specie di procione simbolo stesso del Parco Naturale, e purtroppo non appare nemmeno il becco di un tucano. Sul trenino del parco chiacchiero amabilmente con una mia anziana conterranea, che insieme alla sua amica di origine calabrese è venuta in vacanza da Buenos Aires, dove sono emigrate da bambine.

Ci troviamo nel cuore della cultura di lingua guaranì, regione di grandi consumatori di mate, la bevanda energizzante e amarissima che gli argentini si portano dietro dovunque in grossi thermos. Oltre alla yerba mate, qui si producono anche tè, legno e il prelibato palmito, che è l’interno del tronco della palma tenuto a macerare per cinque anni.

Le cascate ce le andiamo a guardare meglio anche dal lato brasiliano: attraversiamo il confine di stato, ci puliamo i piedi su un tappetino disinfettante e ci puliamo le ruote del pulmino su un tappetone disinfettante. Prima di raggiungere il Parco visitiamo la gigantesca diga idroelettrica di Itaipu, la più grande del mondo, situata al confine tra Brasile e Paraguay, che fornisce un quarto dell’energia di tutto il Brasile e la quasi totalità di quella del Paraguay. Ci informa il depliant che con il ferro e l’acciaio usati nella centrale si sarebbero potute costruire 380 Tour Eiffel. Quindi visitiamo un negozio superkitsch con annessa cioccolateria e attraversiamo la cittadina di Foz de Iguaçu, dotata di moderni grattacieli e di un numero spaventoso di farmacie. Il Parque Nacional do Iguaçu del versante brasiliano è privato (e non pubblico come dal lato argentino) e dunque perfettamente organizzato con attività di arborismo, canoa, rafting, elicottero, corde sospese.

Il viaggio prosegue ancora nella provincia di Misiones con visita della Miniera Wanda, dove si estraggono topazi, ametiste, cristalli di rocca, acquemarine e quarzi. I minatori con vari mezzi spaccano la roccia alla ricerca di pietre preziose che vengono poi trasformate in gioielli ma anche, per esempio, in orrendi soprammobili a forma di farfalle striate.

Giungiamo poi alle rovine della missione di San Ignacio Miní, patrimonio UNESCO, una delle comunità di indios convertiti gestite dai gesuiti, create nel XVII secolo negli attuali territori dell’Argentina, del Paraguay e del Brasile. All’interno di queste reducciones venivano rispettati lo stile di vita, le tradizioni e la lingua autoctone; gli indios abitavano in case tutte uguali, dividevano equamente le risorse della terra ed erano accomunati dai riti cristiani. I gesuiti presto divennero la potenza più influente e le reducciones godettero di autonomia politica e amministrativa grazie alla libertà che veniva loro garantita dalle autorità civili ed ecclesiastiche. Grazie all’istituzione di questi villaggi gli indios guaranì ebbero modo di raggiungere rapidamente un buon livello di sviluppo e di istruzione. Quella di San Ignacio Minì fu fondata nell’anno 1610 nel Guairá (Brasile) e poi trasferita dove si trova attualmente nel 1695. Dopo l’espulsione dei gesuiti nel 1767 da tutta l’America spagnola, per ordine di Carlo III, tutte le missioni vennero distrutte e gli indigeni, privi di protezione, furono annientati. Visitiamo i resti delle abitazioni, della chiesa (di cui sono rimaste ampie porzioni ricoperte di bassorilievi guaranì simili a quelli maya), del collegio, del cimitero; qui nel periodo di apogeo vivevano piú di 3.300 abitanti. Gli edifici erano tutti realizzati in roccia arenaria, il cui colore rosso crea un bellissimo contrasto con il verde dell’erba della Plaza de armas in questo pomeriggio di luce perfetta. La nostra guida parla troppo velocemente, ha metà viso devastata da un’ustione e la mattina insegna in una scuola; mi riferisce che lo stipendio di un insegnante in Argentina è pari a 250 dollari circa, troppo pochi per vivere dignitosamente. I resti delle missioni di Loreto e sant’Ana non valgono la pena quanto San Ignacio che, grazie ai lavori di restauro, è una delle missioni meglio conservate.

Giungiamo a Posadas, capoluogo della provincia, da cui il giorno dopo affronteremo una delle visite più speciali: alla Reserva Natural del Iberà. Per arrivarci bisogna attraversare immense pianure brulle su strade sterrate, battute da sporadici gauchos, motivo per il quale non è molto frequentata. Il giro in barca di due ore ci porta dentro la laguna a stretto contatto con numerosissimi caimani mangiatori di piranha, capibara (sorta di castoroni nuotatori che vivono su queste isole flottanti e mangiano l’erba), cicogne, cormorani, cervi delle lagune e numerosi altri uccelli. Dopo il pranzo possiamo scegliere tra un giro a cavallo e una passeggiata nell’umidissima foresta delle scimmie urlatrici, infestata da zanzare voraci e formiche enormi, arbusti strangolatori e alberi pelosi.

Ultima tappa orientale nella cosiddetta Mesopotamia Argentina è Corrientes, dove campeggia un enorme murales realizzato dagli italiani per celebrare la grandezza argentina. Gli italiani che lottarono insieme agli argentini nell’eroica battaglia del 25 maggio 1865 sono ricordati anche nell’adiacente busto di Dante Alighieri.

È trascorsa una settimana dal nostro arrivo in questo emisfero e abbiamo trovato clima piacevole, paesaggi paradisiaci, storia e cultura. Le restanti due settimane ci vedranno scorrazzare in climi e ambienti totalmente diversi, quelli del nord ovest andino, dove potremo finalmente tirare fuori pile, sciarpe e cappelli finora relegati negli anfratti più nascosti dello zaino. In pratica di ciò che bisogna obbligatoriamente visitare in Argentina resta fuori soltanto la regione più meridionale, dove non è consigliabile recarsi in estate a causa delle basse temperature.

Il trasferimento nel nord ovest avviene con un bus notturno semi-cama (ossia quasi-letto, ossia molto comodo), con sandwich, merendina, Superman e Titanic inclusi nel prezzo, che parte a Resistencia e arriva a Guemes alle 5 di mattina. Da qui un altro bus ci conduce a Jujuy, capoluogo della provincia omonima, dove fa un freddo cane, le donne vendono tè bollente e mi si rompono i sandali. Visitiamo la piazza principale di forma quadrata e la cattedrale dotata di un fantastico pulpito in legno. Dopo la notte disagiata in bus ci ristoriamo alle terme Reyes, dove colgo l’occasione per rilassarmi con un massaggio Armonia e raggi di sole. Chiacchierando nell’atrio, una coppia di Buenos Aires mi svela che tutti gli argentini di pelle bianca sono o italiani o spagnoli.

Da oggi abbiamo un pulmino giallo che ci accompagnerà per diversi giorni su e giù tra valli e altipiani, guidato dal godereccio Renè affiancato dal suo fido servitore muto. I primi giorni visitiamo la provincia di Jujuy, la più nord-orientale di tutta l’Argentina, situata ai confini con la Bolivia a nord e il Cile a Ovest. Ci inoltriamo subito nella Quebrada di Humauaca (altro patrimonio dell’umanità), un canyon scavato dal Rio Grande lungo più di 150 km, storico asse di collegamento tra le pianure meridionali e le Ande. In questo straordinario tragitto effettuiamo varie soste in luoghi significativi per motivi storici, naturalistici, culturali.

A Tumbaya c’è una delle tante deliziose cappelle risalenti al Seicento, in questo caso dipinta di giallo intenso e dalle forme semplici e arrotondate, che contiene un crocifisso adornato da una gonna di pizzo. Un passante in bicicletta ci racconta che il giorno della domenica delle palme il paese, normalmente di 600 anime, si affolla fino a contare circa 30mila presenze. La fede cattolica è molto sentita e c’è un nutrito calendario di festività religiose, anche se in questa provincia in particolare i riti cattolici convivono con le antiche tradizioni dei popoli andini. A Mainara veniamo accolti da donne che ci lasciano i loro indirizzi per spedirgli cartoline e vestiti, sulla strada da cui si ammira la “tavolozza del pittore”, una particolarissima conformazione di rocce con colori che vanno dal rosso scuro al giallo. Ci concediamo un’escursione fino al cimitero, abbarbicato sul fianco della montagna, con le tipiche corone di coloratissimi fiori finti appese alle croci bianche sparse disordinatamente. A Tilcara c’è il pucarà, il villaggio fortificato abitato già nel periodo pre-inca, tra il 1000 e il 1480, e poi nel periodo incaico, fino alla definitiva occupazione spagnola alla fine del ‘500. Questi popoli coltivavano mais e patate e allevavano lama, vigogne e alpaca per la carne e per vestirsi. Bevo una gustosa birra blanca e acquisto cappello e sciarpa di lana per affrontare i rigori del clima andino. All’arrivo a Humauaca ci aspetta un hotel senza riscaldamento dotato di lenzuola che con un niente prendono fuoco e un lugubre corridoio che potrebbe benissimo condurre alla cella della morte. Il paese è pieno di turisti fricchettoni e infestato da bambini che, con la scusa che oggi è il Dìa del niño, ci sciorinano poesiole in cambio di propina (soldi). L’arrivo in quota miete le prime vittime di mal di testa fulminante, da cui per il momento sono indenne e così mi posso liberamente ingozzare di picante de mondongo (trippa), locro (una zuppa di mais, cipolle, carne e legumi), carne di lama e capretto.

Superata la notte (fortunosamente senza incendi) facciamo un breve giro della città, dove svetta il monumento all’indipendenza, sotto il quale gli studenti fanno due chiacchiere prima di andare a scuola. È troppo presto per entrare nel clou del mercato mattutino ma ciò non ci intimidisce e si riesce lo stesso a comprare qualche tovaglia o copricuscino. La nostra meta è Iruya, dove giungiamo all’ora di pranzo dopo aver attraversato canyon a zampa d’elefante e superato un valico situato a 4000 metri, battuto da un vento gelido. Il delizioso paesino, dalle solide radici indigene, è situato a quasi 3000 metri di altitudine, incastonato tra suggestive montagne, pieno di viuzze strette e ripide, attraversato da signore con maglioni di lana colorata e cappelli andini. L’hotel gestito da un tizio capriccioso e frocissimo sembra carino ma è un bluff: il bastone con la tenda cade al minimo tocco, nei letti si affonda e le lenzuola sono incendiabili, il soffitto del bagno è composto da pannelli che non ne vogliono sapere di stare al posto loro facendo entrare correnti siberiane. Di fronte c’è una scuola elementare dove i pupi entrano alle 8, cantano e recitano poesie per mezz’ora ed escono alle 18, dopo aver cantato e recitato poesie per un’altra mezz’ora. Il pomeriggio è all’insegna del relax, birra blanca e empanadas, tramonto mozzafiato all’ora della messa, artigianato inutile e sopa per cena.

Al risveglio il pulmino ci attende per condurci in Bolivia, dove si compra meglio. Effettuate soste in punti panoramici di montagne rosse screziate e ad Abra Pampa per il pranzo (polvere e desolazione), giungiamo a La Quiaca, distante 5121 km da Ushuaia, estremo sud dello stesso Paese infinitamente largo (cioè lungo) ed estremo sud di tutte le terre emerse del mondo. Qui a La Quiaca c’è la frontiera con la Bolivia per giungere a Villazon, dove ci incamminiamo insieme a decine di persone cariche di sacchi di merce, proteggendoci dal vento, dalla polvere e dal fumo di copertoni bruciati da alcuni manifestanti. La confusione e i colori di questa cittadina boliviana sono abbaglianti e lo shopping ci risucchia, come doveva essere. Per la cena e la notte raggiungiamo Yavi, sede dell’unico marchesato della provincia, ricordato con un museo che visitiamo insieme all’iglesia. Poi ci rinchiudiamo in un hostal con camino in cui si festeggia il compleanno di Michele stappando bottiglie di vino tinto acquistate alla bisogna. L’altitudine regala mal di testa e difficoltà respiratorie e io agogno il livello del mare. Chiacchieriamo dopo cena con degli italiani in viaggio con le loro super jeep mega accessoriate imbarcate dall’Italia.

Al mattino il freddo è intenso, Renè impreca contro il hijo de pute dell’albergo dove ha dormito come un surgelato (come si dice hijo de pute in italiano? UGUALE). Lo convinciamo a portarci nei pressi di una duna sul cui fianco ci danno per iscritto il “Bienvenidos al Huancar” e l’escursione è deliziosa: lama al pascolo, mini laguna, scalata sulla sabbia chiara. Sosta a Uquia dove sorge la chiesetta di San Francesco e dove acquisto delle maschere in terracotta per una volta gradevolmente originali. Attraversato il Tropico del capricorno a Huacalera, segnalato da cippo e vela di pietra, si giunge a Purmamarca, dove si affaccia la montagna dai sette colori, parte della Quebrada di Humauaca. Tutto ci ricorda che la Quebrada è inserita da poco nel Patrimonio dell’umanità: bustine di zucchero, di shampo, di cuffie da bagno. Questo riconoscimento ha apportato denari utili a risollevare il paese dove infatti si costruiscono case a più non posso, con i tetti in canne di bambù raccolte dalla strada adiacente e legate una per una con filo di ferro (tutto a norma). Un hotel tutto rosa molto confortevole e un freddo intenso. Nonostante ciò ancora non è stato avvistato uno spazzolone per il water: attendiamo notizie.

ll cerro de los sietes colores, davanti al quale siamo alloggiati, ha acquisito queste splendide sfumature poiché le montagne contengono notevoli quantità di ferro, zolfo, rame e altri minerali. Ma invece di andarlo a toccare compiendo la passeggiata dei colori preferiamo andare ad acquistare tappeti colorati nelle botteghe artigianali. Procediamo dunque attraverso la puna andina verso la Salina Grandes abbagliante e abbronzante come campi da sci. Il ristorante tutto di sale (tavoli, sedie, pareti) è chiuso perché secondo l’autista “quelli non hanno voglia di lavorare”. Gli scultori di statue di sale fanno una pausa per partecipare a una mitica partita di pallone Italia-Argentina a quasi 4000 metri di altura, che vede la vittoria degli indigeni sicuramente perché gli italiani non sono avvezzi a questa altitudine. Offriamo torta alla nutella e vino ad altri turisti e lavoratori della zona e ci rimettiamo sulla strada: tre ore di sterrato polveroso per giungere a San Antonio de Los Cobres (del rame). Il paese è desolato e polveroso, i pochi abitanti quechua sembra che non se la passino tanto bene, l’unico riferimento politico alla distantissima capitale te lo ricordano i graffiti elettorali sui muri. L’hotel è veramente un’isola di tepore e bellezza, riscaldato dal camino, arredamento di ottimo gusto e uno chef simpatico e creativo. Il mal d’altura continua nonostante l’infuso di foglie di coca, che dovrebbe aiutare. Il giorno dopo compiamo a ritroso l’itinerario del Treno delle nubi, che quando funziona collega Salta a San Antonio attraverso la Quebrada del Toro. In particolare sostiamo sotto un viadotto prodigioso, oggi usato solo per i treni merce, che secondo la Lonely Planet non aveva nessuna giustificazione economica visto quanto è costato. Sulla via ci fermiamo a visitare il sito preincaico di Tastil e l’annesso museo.

Rimessici in moto il paesaggio comincia a mutare radicalmente: verde, mucche al pascolo, grandi fattorie. Ci stiamo avvicinando a Salta la linda (la bella) dove ci attendono due giornate, alloggiati in un grande appartamento. Finalmente una grande città, dove la sera fino a tardi c’è gente, negozi aperti, bancarelle, locali, pop corn, noccioline, cd taroccati, zucchero filato. C’è tanto da vedere il giorno dopo. Nella piazza principale si erge la cattedrale dove, terminata la messa, c’è una cerimonia in onore della vergine di Urkupiña, la Madonna dell’Assunzione nella cultura boliviana: su un drappo sono appesi banconote, bamboline e altri oggetti coloratissimi. Poi la chiesa di San Francisco rossa e dorata, realizzata da un architetto italiano praticamente ubriaco, il museo delle belle arti, il cabildo. Questo edificio, risalente al periodo coloniale ma restaurato a fine ‘800 per combattere l’eccessiva europeizzazione architettonica della città, ospita il museo storico, dedicato alla storia della regione e di Salta stessa, caratterizzata da splendidi portoni, balconi, case antiche. Un giro della città conferma la presenza di numerosissime testimonianze storiche risalenti all’epoca coloniale.

Al mercato artigianale troviamo la solita paccottiglia di presepi, scialli, terracotte, bamboline. Ne approfittiamo allora per pranzare al sole con humitas e tamales, pacchettini avvolti in foglie di granturco e ripieni di pappette a base di farina di granturco (choclo), formaggio, prosciutto, carne. Insieme alle empanadas sono il nostro pranzo più comune, perché le vendono dovunque e sono sfiziose. Dalle 2 alle 5 imitiamo le abitudini locali andando a fare la siesta, la città è calda e deserta. Usciamo giusto in tempo per raggiungere la teleferica che porta sul cerro San Bernardo e trovarla bloccata, con i poveri sfortunati che penzolano rinchiusi in quelle gabbiette sospese. Panorama strepitoso su tutta la città che da lassù sembra la Springfield dei Simpson.

Cena al grandioso mercato coperto, che alle 9 è tutto un casino di ragazzi che mangiano la pizza, casalinghe che comprano salsicce, uomini soli che guardano la partita in una delle decine di tv sintonizzate sul campionato di calcio. Buster Keaton ci serve picante de mondongo pollo e pizza seduti ai tavolini nel cuore del reparto macelleria che sfoggia maiali interi appesi.

Al mattino lasciamo con rammarico questa città vitale e davvero linda alla volta di Cachi, attraversando il parco Los Cardones, pieno di questi giganteschi cactus a forma di enormi mani col dito medio puntato verso la volta celeste. Percorriamo un rettilineo di origine incaica denominato ruta Tin Tin e dopo vari sterrati giungiamo in questo piccolo centro affollato di turisti. La chiesa contiene suppellettili, cornici, confessionali tutti realizzati in legno di cactus. Un cane nero ci accompagna al cimitero che, in cima alla collinetta all’ora del tramonto e circondato da montagne, assume un fascino particolare. In ostello si rompe la caldaia, fa un freddo cane e concludiamo la serata con caffè corretti in un bar affollato di turisti americani e italiani (anche perché è l’unico bar).

Prossima tappa Cafayate, città di vino e cantine, con una bella piazza e piuttosto turistica. Per arrivarci molti sterrati attraverso le valli Calciques, abitate all’epoca da fieri oppositori degli spagnoli conquistatori, e sosta a Molinos con pranzo al sacco di fronte all’Iglesia di San Pedro de Nolasco. Prima di prendere le stanze, ci fermiamo in una bodega a degustare vino. A cena pianobar con applauso a ogni gruppo di commensali provenienti da Rosario, Buenos Aires, Cordoba, ITALIA (campioni del mondo). Però oggi, dopo diversi giorni di cd in bus, chiediamo con vigore: piffero, pietà! Il “Gelato Miranda” è citato da tutte le guide del mondo per il suo gelato al vino e infatti ne approfitta per venderlo a prezzi europei; in gelateria incappiamo in un ennesimo gruppo di oriundi italiani che per fortuna se la passano bene qui poiché hanno attività ben avviate e ci riferiscono dei loro parenti di Milano, Firenze, Calabria. Pomeriggio alla meravigliosa Quebrada di Cafayate con soste su favolose montagne rosse di arenaria tutte da scalare, rocce a forma di castelli, frati, rospi, gole del diavolo e anfiteatri.

Il giorno dopo visitiamo le ruinas di Quilmes, un insediamento precedente all’arrivo degli Incas, di cui rimangono mortai, muri perimetrali, punti di osservazione panoramici da cui guardare i cactus a perdita d’occhio. A seguire il museo della Madre Terra (Pachamama), un altro culto tipico della cultura andina, a cui sono dedicate feste e cerimonie di offerta. Qui osserviamo le ricostruzioni di come si viveva anticamente nelle quebradas e passeggiamo tra enormi statue che fanno rivivere le icone di antiche culture indigene. Dopo un pranzo con tempi d’attesa biblici, per ricevere poi le solite empanadas e milanesas di pollo, sosta nella località denominata El infernillo a 3000 metri di altitudine, con lama paciosi messi lì dalla proloco per fotografarli. Passeremo la notte a Tafi del valle, la località di villeggiatura dei cittadini di San Miguel de Tucumán, che così sfuggono al caldo estivo. Ora però è inverno e non c’è nessuno e la piscina è vuota. Fuori stagione anche i ristoranti, di solito così affollati che sottolineano quanto sia importante la pazienza quando aspetti da mangiare, sono semivuoti e meno male che c’è il mago Harry che ci fa divertire con qualche gioco di prestigio.

Tucumán è l’ultima tappa prima del rientro a Buenos Aires; nel tragitto da Tafi ci fermiamo a contemplare due statue gigantesche: El Indio e il Cristo gigante. C’è nebbia e dall’alto non si vede l’atteso panorama. Tucuman è una grande città, di pomeriggio affollata di studentesse in divisa scolastica che prevede sempre una minigonna, anche per le ciccione. Visitiamo la Casa dell’Indipendenza, dove ci viene illustrato il cammino storico che ha portato alla nascita dello Stato argentino. Dalla conquista spagnola del 1536 al vicereame del Rio de la Plata, creato nel 1776 dalla Spagna e che comprendeva anche Paraguay, Uruguay e Bolivia, alle prime aspirazioni all’indipendenza che maturarono in età napoleonica. L’indipendenza fu proclamata ufficialmente in questo edificio in occasione del Congresso di Tucumán, il 9 luglio 1816. Nel resto del pomeriggio la sottoscritta decide di varcare la soglia di una peluqueria dopo ben 17 anni, sfoggiando un taglio sbarazzino.

Giunti a Buenos Aires c’è tanto da vedere in poche ore, così ci attiviamo immediatamente. Taxi, a La Boca! Il sole sta andando via e riusciamo per un pelo a fotografare con qualche raggio di sole le case in legno e ferro ondulato, dipinte dagli immigrati di inizio secolo con i colori vivacissimi avanzati dalle pitture delle imbarcazioni. Siamo infatti sul lungofiume, in un quartiere portuale. Le vie più vicine al fiume sono quelle turistiche e anche troppo fotogeniche ma allo stesso tempo davvero sorprendenti, piene di ballerini e cantanti di tango, disegni e dipinti del quartiere esposti uno dopo l’altro, bar e ristoranti deliziosi. Ballerine nerovestite prendono i nostri uomini e li baciano sulla bocca lasciando sulle labbra tracce rosso fuoco. Al ristorante, tra una empanada e l’altra, il gestore, anche lui oriundo italiano, mi racconta delle comunità di molfettesi che risiedono in questo quartiere popolare. A pochi isolati c’è la Bombonera, lo stadio del Boca Juniors, la squadra diventata famosa grazie a Maradona.

Dopo aver fatto un salto a San Telmo, quartiere di antiquari e negozi di classe, all’ora di punta ci facciamo portare da un taxi ai campionati mondiali di tango, dove riusciamo a vedere gli ultimi concorrenti in gara. Vincerà, saprò poi, una coppia la cui lei era incinta. L’ultima cena argentina non posso dire di no all’ultimo bife de chorizo, bisteccona succulenta da mezzo chilo, fida compagna del mio viaggio; musicista di tango e attore borgesiano ci allietano una decina di minuti. Infine mi portano all’anelata serata di tango, che non è altro che un triste stanzone simile al salotto di mia nonna ma più capiente, dove gente eterogenea e orribilmente vestita balla un tango dopo l’altro, ogni tanto intervallato da un merengue o un rock’n’roll.

All’aeroporto, al momento del controllo dei bagagli a mano, ci fanno buttare tutti i liquidi: acqua, vino, soluzione per lenti a contatto, shampo eccetera. Chi si rifiuta di mollare la sua preziosa bottiglia di vino acquistata apposta nella bodega di Cafayate, deve berlo in presenza degli incaricati. Giunta in Italia scopro che è stato sventato un attentato aereo in Gran Bretagna, nel quale gli esplosivi erano contenuti in bottiglie di liquidi e che questa era la misura di sicurezza presa a livello internazionale.

Il viaggio di 13 ore è interminabile come all’andata, grazie anche all’equipaggio della Aerolineas Argentinas che è composto nella quasi totalità da gente che ha sbagliato lavoro. La maggior parte di loro anche sforzandosi non riusciva a fare un sorriso, e chi ci riusciva sembrava che la faccia gli si stesse sfasciando dalla fatica. Avere un bicchiere d’acqua era un’utopia, per cui dovevi approfittare dell’unico pranzo servito per accaparrarti qualche lattina. I film erano gli stessi all’andata e al ritorno, scelti probabilmente da un’apposita commissione che pensava di dover organizzare il cineforum di una scuola media. Ma d’altra parte, si sa, dall’Argentina la distanza è atlantica e la memoria cattiva e vicina.



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