Un paese in bilico

Libano 21 – 28 settembre 2003Eccomi qui, in un paese che fino a pochi anni fa era in guerra, un massacro durato quindici anni e del quale riporta chiaramente i segni. Il primo impatto con Beirut è tremendo, il taxi ci porta in hotel, lungo la strada il susseguirsi di orribili casermoni, tutti uguali, palazzi fatiscenti crivellati dai...
Scritto da: Simona Portaluppi
un paese in bilico
Partenza il: 21/09/2003
Ritorno il: 28/09/2003
Viaggiatori: in coppia
Spesa: 1000 €
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Libano 21 – 28 settembre 2003

Eccomi qui, in un paese che fino a pochi anni fa era in guerra, un massacro durato quindici anni e del quale riporta chiaramente i segni. Il primo impatto con Beirut è tremendo, il taxi ci porta in hotel, lungo la strada il susseguirsi di orribili casermoni, tutti uguali, palazzi fatiscenti crivellati dai proiettili, parzialmente distrutti dai bombardamenti, è dove vivono i profughi palestinesi, nelle macerie e nella sporcizia.

Lo scenario cambia man mano che ci si avvicina al mare, palazzine nuove si alternano a case vecchie e rovinate, negozi di ogni genere e viuzze che pullulano di gente, in parte con abiti islamici, altri vestiti all’europea, il traffico è intenso, l’inquinamento acustico e lo smog si toccano con mano, le automobili che ci circondano portano la sigla “D” o “CH”, evidentemente importate dall’Europa dove sono uscite di produzione da almeno un decennio.

La stanchezza comincia a sentirsi, siamo partiti in ritardo da Milano e il volo ha fatto uno scalo tecnico a Roma, alla fine siamo stati in ballo più di sei ore, l’aeroporto è moderno, rimesso a nuovo e pieno di duty free, anche all’arrivo, il visto turistico valido per due settimane ci costa 16 euro.

Arriviamo al Mayflower hotel all’ imbrunire, c’è molta gente in strada, i paesi arabi iniziano a vivere quando fa sera, il taxista vorrebbe più dei 15 dollari promessi, ha dovuto pagarsi il posteggio perché il volo era in ritardo, considerando che l’aeroporto si trova a cinque minuti mi sembrano già troppo quelli che gli diamo, ci rifiutiamo categoricamente, in cambio ci prendiamo un rosario di insulti in arabo.

L’ hotel è perfetto, locato in mezzo al quartiere di Hamra, a 10 minuti dal lungomare, la stanza è pulita, spaziosa e dotata di minibar, TV via cavo e aria condizionata, il tutto per 50 dollari al giorno la doppia inclusa la colazione. Che lusso! Ci spalmiamo sul letto, doccione caldo e ci buttiamo nella vita della città, ma capire dove siamo esattamente è problematico, trovare la strada giusta per raggiungere la Corniche praticamente impossibile. E’ buio, le strade sono tutte uguali, i taxi ci suonano di continuo, sembra di stare al luna park, gira e rigira finalmente ci arriviamo, e davanti a noi si stagliano i bellissimi faraglioni meglio conosciuti come “Pigeon Rocks”, illuminati dai faretti. Siamo sulla Corniche, ossia il lungomare che costeggia tutta la città, una camminata di circa tre chilometri, sembrerebbe di stare a Miami beach, circondati da Pizza Hut, Mcdonalds, Starbucks e caffè eleganti che danno sulle scogliere se non fosse per il traffico caotico, le donne bardate da veli e la sporcizia. La strada non è sporca in verità, la gente nemmeno, ma appena sporgi lo sguardo al di là della ringhiera verso il mare ti vedi al di sotto una discarica a cielo aperto, hanno buttato giù di tutto, vetro, plastica, cartoni, un modo come un altro per ovviare al problema della raccolta differenziata? Giriamo lo sguardo e passeggiamo, ci sono uomini che ci vogliono far foto ricordo, altri che vendono pannocchie abbrustolite, altri ancora pane arabo ai semi di sesamo o caffè in bicchieri di plastica, tutti hanno il loro piccolo banchetto con le rotelle e fanno avanti e indietro. Assaporo l’aria fresca, il profumo del tabacco di mela dei narghilè, la musica araba sparata a mille dalle autoradio delle macchine in corsa, gli odori, osservo le famiglie, le coppie, i bambini, tutti di carnagione abbastanza chiara, con lineamenti tra l’arabo e l’italiano. Mi stupisco davanti all’abbigliamento, soprattutto quello femminile, molto più “moderno” di quanto pensassi, si vede che la presenza di popolazione di religione cristiana è preponderante. Ci allarmiamo di fronte al passaggio di un convoglio di mezzi cinghiati, scortati da un buon numero di camioncini militari, ma mi ci abituerò, il soldato con mitra in mano fa parte del paesaggio del Libano, come gli alberi di mele e le moschee.

Torniamo all’hotel, ma non possiamo fare a meno di assaporare il nostro primo shwarma (pezzetti di carne di montone o pollo misti a insalata e salsa di yogurt rinchiusi in un panino arabo arrotolato) libanese, ci fermiamo alla Bliss Hause, di fronte all’università americana, è un locale molto alla moda, fa di tutto, dal frullato di frutta fresca al gelato al kebab, spiedini di pollo, agnello, filetto, insalate, è molto frequentato, ci sono un sacco di giovani. La mangiata ci concilia il sonno, crolliamo.

La mattina seguente torniamo sulla Corniche a fare qualche foto, il sole splende e ci inebria di tutto il suo calore, un po’ troppo forse, visitiamo l’Università Americana (AUB) la più bella e celebre di tutto il Medio Oriente, rimasta intaccata dalla guerra, a mezzogiorno e mezzo sentiamo la voce del Muezzin che dalla moschea incita i fedeli musulmani alla preghiera. Chissà perché a me piace moltissimo sentirlo, che sia alle cinque del mattino o al tramonto è molto coinvolgente, sebbene non capisco un accidente di quello che dice, è come una musica, un canto che culla e avvolge, la cosa buffa è quando ci sono più moschee nelle vicinanze, allora le voci si confondono, si mischiano a creare un coro incredibile, mistico, verrebbe da chiudere gli occhi e farsi trasportare.

Ma gli occhi mi servono per vedere e rendermi conto dei disastri causati dalla guerra, il Business Center è stata l’area più colpita dai bombardamenti, mi fermo stupefatta ad ogni angolo, fotografo i buchi nel cemento, le macerie tutt’ora visibili a distanza di anni. Il caldo è torrido e ci forniamo di bottigliette d’acqua di continuo, costano solo 500 lire libanesi (LLB), considerando che il cambio col dollaro è di 1 dollaro uguale 1500 LLB, sono alquanto economiche per noi occidentali.

Oltretutto in ogni esercizio è possibile pagare tanto in lire libanesi quanto in dollari americani e gli sportelli bancari automatici, tra l’altro numerosissimi, permettono di prelevare indifferentemente in entrambe le valute.

Di tanto in tanto ci fermiamo a guardare la guida, in meno di un minuto qualcuno ci chiede se abbiamo bisogno d’aiuto e ci indica le strade, pur essendo arabo e francese le lingue ufficiali anche l’inglese è parlato da gran parte della popolazione, e anche piuttosto bene per nostra fortuna.

Il traffico è, come sempre, ingestibile, malgrado i vigili pare che non esistano norme di circolazione, queste auto preistoriche bislunghe e gibollate corrono e si infilano per ogni dove, si cozzano tra loro come fossero su una pista Busnelli e i loro conduttori urlano e pigiano quelle mani sui clacson con una insistenza che ha dell’isterico, ma il tuto rientra nella normalità.

Arriviamo a Place d’Etoile, grazie alle indicazioni di un militare appostato all’ingresso del palazzo del Parlamento, è completamente nuova, moderna, colma di caffè all’aperto e notiamo con piacere che risplende come unico vecchio palazzo rimasto intatto durante la guerra l’ambasciata italiana, con in cima la scritta “assicurazioni generali” e annessa la banca di Roma. Andiamo verso il quartiere di Achrafiye, ci fermiamo a bere una birra e stuzzicare qualche meze (antipastino) al caffè Gemayze, un bel caffè antico con soffitti alti.

La nostra prossima meta è la “linea verde”, un tempo non troppo lontano segnava la demarcazione tra la Beirut cristiana e quella musulmana, ora è un cumulo di macerie cui seguono altre macerie e palazzi semidistrutti, in esse vive tutt’ora la stragrande maggioranza della popolazione musulmana, in condizioni di sporcizia e povertà. Ci inoltriamo appena, già ci guardano in modo strano, vediamo appesi ai muri volantini che incitano alla lotta armata, decidiamo che non è il caso di proseguire e torniamo indietro. La zona cristiana adiacente alla linea verde è invece una delle più “in” della città, vi si scorgono edifici vecchi in stile “liberty”, quale il carissimo Hotel Albergo, il più amato da dai vip europei che qui si recavano prima della guerra, inoltre molti locali alla moda.

Abbiamo camminato così a lungo che sento i miei piedi friggere, in hotel ci addormentiamo e veniamo svegliati dal canto del Muezzin, ceniamo al Marrauche, ottimi spiedini di pollo e vitello, insalata fresca e hommos (crema di ceci e olio di sesamo), 32000 llb. Dopo cena ci rechiamo sulla Corniche, seduti su una panchina Gianni mi legge un po’ di storia moderna libanese.

Riassumere la storia di questo paese in poche righe è impossibile, tanto è lunga e complessa.

Lo Stato moderno del Libano esiste solo dal 1946 ma i primi insediamenti di coloni in questo territorio risalgono al 10.000 a.C. Si susseguirono dominazioni e colonizzazioni da parte dei Fenici, i Greci, i Romani, gli Arabi, i Crociati, i Mamelucchi, gli Ottomani, i Francesi.

Tanti furono gli avvenimenti storici, le guerre, le invasioni, le situazioni internazionali che portarono questo Stato ad essere una sorta di pentola a pressione pronta ad esplodere in qualsiasi momento.

L’arrivo dei profughi palestinesi dal confinante Israele, la politica filo-occidentale da un lato, il nazionalismo arabo dall’altro furono fattori destabilizzanti che sfociarono nella guerra Civile, con l’intervento delle forze multinazionali e della Siria e i terribili episodi di violenza e gli attacchi israeliani di cui tutti abbiamo sentito parlare.

La Guerra ebbe inizio ufficialmente nel 1976, dopo diversi massacri cui facevano seguito rappresaglie e tregue precarie ebbe fine nel 1991, tuttavia nei territori a sud del paese continuò a dilagare la violenza per quasi un decennio ancora. Mentre sento questa terribile cronaca uscire dalle pagine della nostra guida, mi guardo intorno e non posso fare a meno di soffermarmi sui volti delle persone che passano, volti di adulti che hanno visto tanta violenza e magari hanno perso parenti e amici, oppure hanno loro stessi ucciso altra gente per difendersi. Giovani che hanno avuto la fortuna di nascere sul finire della guerra ed ora ne sentono i racconti come noi, da piccoli, sentivamo i nostri nonni parlare della seconda Guerra Mondiale e delle privazioni cui erano stati obbligati.

Come si fa ad ignorare tutto quello che è successo e andare avanti? I libanesi ci stanno provando, ma tutti questi mezzi cinghiati che circolano sulle strade e i posti di blocco che si incontrano ogni 20 / 30 chilometri sembrano sempre ricordare che non è ancora finita, che il nemico è tra di loro e vicino a loro ed è sempre pronto ad attaccare. Qui come in nessun altro posto dove sono stata sento di capire il significato del “cogliere l’attimo”, godere ciò che la vita ti può dare in questo momento che del domani, non c’è alcuna certezza.

Mattina successiva: siamo pronti per la nostra prima escursione, fermiamo un taxi, o meglio, è lui che ferma noi. Infatti a Beirut ci sono circa 100 mila taxisti, cui si aggiungono quelli non ufficiali che si muovono con auto propria, girano per la città con itinerari prefissati e strombazzano ad ogni pedone per vedere di recuperare passeggeri, la tariffa è fissa, 1000 llb a persona, ma solo se il taxi è collettivo. Occorre chiedere all’autista se è “servees” o “taxi”, nel secondo caso non prenderà altri passeggeri ma si sarà tenuti a pagare la tariffa piena.

Alla Cola Station il kaos fa da padrone, un crocevia di mezzi di trasporto di ogni genere e per ogni destinazione, una moltitudine di gente ci chiede dove vogliamo andare, alla parola “Baalbeck” subito ci indicano un pulmino scassato non più di tutti gli altri, saliamo ma non si parte fino a che non viene riempito del tutto. Lungo la strada assistiamo ad un saliscendi di gente ad ogni chilometro, è bellissimo viaggiare con i mezzi locali, vedere volti, gente che qui ci vive, passiamo da una zona abbastanza malridotta, poi finalmente superiamo la periferia e ci inoltriamo nella campagna, dobbiamo scendere e cambiare a Tchaurra, paghiamo 4000 e saliamo sul nuovo “bus”, l’autista è un po’ agitato, litiga con un altro pulmino, a suon di clacson e non so che insulti in lingua araba, si arrabbia con una signora che lo paga meno del previsto, infine rimaniamo soli con lui, io sono un po’ tesa ma si dimostra molto disponibile a chiacchierare amichevolmente con noi fino all’arrivo, circa due ore dopo essere partiti da Beirut.

I templi di Baalbek sono qualcosa di straordinario, dominano la valle della Beqaa con le loro gigantesche proporzioni e rientrano a giusto titolo tra le meraviglie del mondo antico.

Leggiamo che già nel terzo millennio a.C. questa zona era un luogo di culto, la Bibbia cita che nel primo millennio a.C. Ivi si trovava un altare costruito all’interno di una corte recintata. La città di Baalbeck subì in seguito influenze elleniche e egiziane.

La costruzione del tempio di Giove, di cui ora rimane parte del colonnato e del cortile, ebbe inizio ad opera dei Romani nel primo secolo a.C. Sotto Augusto, seguita da altri templi e corti. Il meglio conservato è il tempio di Bacco, costruito nel corso del secondo secolo d.C., così chiamato per via dei papaveri e di scene “bacchiche” scolpite all’interno. Pare infatti che all’epoca vino e oppio venissero utilizzate dai fedeli allo scopo di raggiungere l’estasi. Il che mi fa pensare che, tutto sommato, le cose non sono cambiate molto da allora.

Nel corso dei secoli queste opere monumentali passarono sotto diverse dominazioni e dinastie, così come tutto il Libano, subirono i danni di numerosi terremoti e distruzioni, tuttavia si mostrano ora in tutto il loro splendore e in ottimo stato di conservazione.

Le colonne del tempio di Giove sono in assoluto le più grandi mai edificate nei tempi antichi, alte 22 metri e sormontate da un cornicione con decorazioni che pare incredibile vedere così precise e dettagliate dopo tutta questa moltitudine di anni! Scattiamo una marea di foto, da solo questo sito merita una visita in Libano, molto più bello del Partenone ad Atene o della valle dei templi di Agrigento, senza nulla togliere loro chiaramente. E qui troviamo un gruppo di italiani in visita, i primi per ora , e anche unici che vedremo durante la nostra permanenza. Probabilmente sono con un tour organizzato da qui li porterà in Siria e in Giordania, normalmente in Libano non si ferma nessuno a lungo, è un peccato, meriterebbe più attenzione.

La cittadina non è nulla di speciale, ci mangiamo qualche ottima falafel (frittella di semolino e verdure) mentre giriamo un po’ a zonzo.

A questo punto l’idea originaria era di proseguire per Bcharrè ma non ci sono taxi, così ci tocca tornare fino a Beirut, il nuovo bus è anche dotato di un ragazzino scatenato che fa da “buttadentro”, urla “Beirut, Beirut” a tutti i passanti. Conosciamo un tizio, ci parla in un ottimo spagnolo, racconta di essere vissuto molti anni in Venezuela, ora è tornato in Libano e commercia in oro, ci parla della sua brutta esperienza in Italia, all’aeroporto di Fiumicino, dove gli volevano sborsare 110 dollari per un piatto di spaghetti. Ci dice inoltre che si può ottenere il visto per la Siria direttamente a Tchaurra, in non so quale ufficio, mentre sulla mia guida sta scritto tutt’altro, ossia che è necessario essere in possesso di visto emesso dall’ambasciata siriana in Italia per poter varcare il confine.

Noi vorremmo fare un salto a Damasco, ma io non mi fido molto delle sue informazioni, mi sembra un tipo strano, attacca bottone con tutti i passeggeri e non smette un attimo di parlare, temo le spari un po’ grosse. Boh. Alla Cola troviamo subito una coincidenza per Tripoli (Trablos), percorriamo la costa verso nord, non vediamo spiagge lungo il mare, solamente scogliere, un’ora dopo siamo a destinazione, per 2500 llb a testa. Siamo un po’ spaesati, un ragazzo si ferma a chiederci se abbiamo bisogno d’aiuto e ci indica dove si trova l’hotel Koura. Sono veramente allibita, questa gente è gentilissima, si ferma sempre qualcuno a indicarci la strada, senza doppi fini.

L’hotel è piuttosto una casa privata, si affaccia su una viuzza laterale abbastanza silenziosa, la stanza è al terzo piano, modesta ma pulita, con bagno e condizionatore, il proprietario non c’è, gli parliamo al cellulare perché lo chiama un altro tizio che parla solamente in arabo e ci accordiamo per due notti a 35 dollari ciascuna.

Tripoli è decisamente di gran lunga più araba di Beirut, il suq è vivace e colorito, pieno di negozietti di oro, abiti e saponette, che scopriamo essere ampliamente prodotte da queste parti. In alto si erge la cittadella fortificata che al buio però non vediamo, l’illuminazione è scarsa, l’elettricità viene e va, questo probabilmente dipende dal fatto che le centrali elettriche libanesi sono state più volte bombardate dagli israeliani. Ceniamo in un take away, shwarma e hommos, passeggiamo e notiamo che qui ci sono molti più musulmani, le donne sono più coperte, è una città più integralista, i giovani però ci salutano, ci chiedono di dove siamo e quando sentono “Italia” esultano richiamando nomi di calciatori, in tutto il mondo la stessa storia.

Dormiamo male, un po’ per una zanzara che ci perseguita, un po’ per la luce e i rumori del traffico che arrivano dall’esterno, alle 7.30 arriva il colpo di grazia da un martello pneumatico a pochi metri dalle mie orecchie, il proprietario si scusa per i lavori di ristrutturazione che sta facendo, vabbè, se è per una buona causa lo perdono. Ci fa trovare una bella colazione a base di nescafè, uva e mele, croissant caldi al cioccolato e formaggio, belli rimpinzati siamo pronti a partire per Bcharrè con un altro bus collettivo. Il percorso è molto bello, saliamo verso le montagne e raggiungiamo la valle di Kadisha, si trova come in un canyon, noi le giriamo intorno fino ad arrivare a quasi duemila metri d’altitudine, l’aria si fa più fresca e la vegetazione più brulla, attraversiamo bei paesini di case in mattoni di pietra e tetti rossi. Qui la guerra non è arrivata o comunque di tracce non ne ha lasciate. Finalmente vedo un po’ di cimiteri, non che mi piacciano, mi chiedevo solo dove mai fossero, questa zona è infatti abitata esclusivamente da cristiani maroniti, ci sono molte coltivazioni di alberi di mele, sembra di stare in Trentino, o comunque a mille miglia da Tripoli.

In un’ora e mezza siamo a Bcharrè, qui troviamo un taxista che ci porta alla foresta di Cedri per 15000 andata e ritorno, il costo è sproporzionato considerando che si tratta di 5 o 6 chilometri ma purtroppo di taxi collettivi che ci vanno non ce ne sono, nella stagione estiva almeno, d’inverno il paesino si popola di sciatori, il taxista ci dice che le piste attirano spesso anche famosi campioni europei. Mi permetto il beneficio del dubbio, non ho mai sentito parlare di gare famose in Libano, ma non oso replicare, oltretutto ci offre delle mele ottime.

Rimaniamo un po’ delusi in realtà, il boschetto è proprio piccolo, sono ben pochi i cedri sopravvissuti, in un passato lontano il Libano ne era strapieno, poi i popoli antichi hanno scoperto quanto fosse forte e pregiato il legno dei cedri ed hanno iniziato ad utilizzarlo per ogni genere di costruzione. La Bibbia racconta che anche il tetto del tempio di Salomone venne fatto in legno di cedro.

Alcuni di questi alberi hanno millecinquecento anni, sono imponenti e hanno quella classica forma, che mi ricorda un bonsai enorme e che è il simbolo del Libano, infatti appare anche sulla bandiera nazionale.

Attualmente una associazione di “amici della foresta dei cedri” sta cercano di riparare ai danni causati dalla natura e dagli uomini, ripulendo la zona da detriti e legni morti e ripiantando piccoli cedri. A proposito di legni morti, è soltanto con essi che vengono fatti tutti i piccoli souvenir incisi su pezzetti di tronco che troviamo all’uscita dal parco in una dozzina di bancarelle. Almeno è quello che ci viene detto.

Mentre aspettiamo il bus entriamo in un negozio di CD, qui sono tutti masterizzati e costano meno di due euro, peccato solo che siano un po’ datati, comunque compro un nastro della più celebre cantante libanese del momento. Facciamo quattro chiacchiere con il ragazzo che ce lo vende, ci racconta che nel bosco dei cedri è apparsa la Santa Trinità e che Gesù Cristo nella Bibbia viene descritto “forte come il legno di Cedro del libano”, inoltre ci chiede se siamo sposati, anche il taxista aveva fatto la stessa domanda ed io, di nuovo non oso dire la verità, temo che ci caccino dal paese a malo modo e invochino l’ira del Signore su di noi che viviamo nel peccato.

L’autista è un pazzo spericolato, mi vedo a filo della scarpata ad ogni curva, non oso guardare in basso, oltretutto tutti i finestrini sono spalancati ed entra un’aria dell’accidente, per fortuna, vista la velocità a cui scende, arriviamo presto a Tripoli, ci facciamo un giro nel suq, e vediamo un paio di moschee veramente belle, peccato che noi donne non siamo ammesse! Gianni per solidarietà non entra nemmeno lui.

La sera ci facciamo portare da un taxi ad Al Mina, a circa 3 chilometri, è la parte sul mare di Tripoli, c’è una Corniche più piccola di quella di Beirut e neppure troppo viva, non ci sono che poche gelaterie qua e là. Andiamo a farci un bel frullato in un localino gestito da Ziki, è strasimpatico e purtroppo per noi parla solo arabo, cerco di fargli capire che vorrei che mi frullasse un guava, ma alla fine ci capiamo solo sul mango. Appena scopre che siamo italiani fa un sorriso smaliante, ci fa capire che Libanesi e italiani sono amici e alla fine rifiuta i soldi che gli porgiamo, ci offre i frullati. Pensiamo che sia probabilmente merito dei soldati italiani che sono venuti in Libano per missioni di pace, devono essere stati molto apprezzati e benvoluti.

Non so che dire, mi piace questa gente, dopo essere stata in Tunisia o in Turchia mi ero fatta un’idea completamente diversa degli arabi, ossia normalmente rifiutare i soldi non sta nelle loro cultura! Ma qui sembra tutto diverso, la popolazione sembra più orgogliosa, difficilmente accetta l’elemosina. Solamente i taxisti cercano a volte di cavarti qualche 1000 llb in più del dovuto, ma in fondo sono coì pochi soldi.

Vicino al mare ci sono tanti piccoli ristoranti che cucinano pesce ma tutto è scritto in arabo il che renderebbe difficile capire che cosa dovremmo mangiare, ci portiamo così nel vialone centrale, ci sono molti negozi di scarpe, tra l’altro estremamente economici, parrucchieri, pasticcerie ma tutto continua ad essere scritto in geroglifici! Alla fine ci mangiamo un polletto arrosto con patatine in un localino che sprizza carenza di igiene da tutti in pori. Tutte le guide consigliano sempre di stare molto attenti a ciò che si mangia, e soprattutto a dove si va a mangiare, ma come sempre accade si ignorano i buoni consigli in nome di non so quale convinzione di essere indistruttibili. Gianni si pentirà amaramente di aver pucciato i pezzi di pollo nella salsina rancida di yogurt e aglio che accompagnava la pietanza….

Spendiamo meno di 4 dollari, poi facciamo ancora due passi e rientriamo in “hotel”, l’aria condizionata non va, il che è preoccupante visto il caldo e l’umidità tremendi, allora apriamo la finestra e accendiamo il fornelletto contro le zanzare, sperando che non entri troppo rumore, ma per fortuna un’oretta più tardi riparte, così chiudiamo ed io dormo meravigliosamente.

Gianni si sveglia con un gran mal di testa, dopo colazione prendiamo il bus collettivo per Byblos (Jbeil in arabo), a circa 40 chilometri da Beirut.

Leggiamo che si tratta di una tra le città più antiche del mondo e abitata continuativamente dall’epoca della sua fondazione, circa settemila anni prima di Cristo fino ai nostri giorni. Attualmente si presenta come un miscuglio di modernità e tradizione, il castello e le vecchie case coabitano con edifici moderni, è bello addentrarsi nelle viuzze, costellate di negozietti di souvenir, fino a giungere alla zona degli scavi dove si trova il castello medievale. Ci sono persino dei bagni pubblici abbastanza puliti.

E’ veramente un bel posto, rifatto si, ma rispettando le fattezze originali, è la prima città che vediamo definibile come “turistica” , il porto vecchio è pittoresco, con qualche barchetta e il molo. C’è un ristorante di pesce che pare essere uno dei più celebri di tutto il Libano, gente famosa degli anni 70 veniva a godersi il cibo e il panorama proprio qui. Proseguiamo a piedi lungo la spiaggia, ne troviamo una bellissima gestita da un hotel e, di seguito una libera abbastanza pulita e trascorriamo parte del pomeriggio lunghi distesi sotto il sole cocente, tuffandoci in acqua di tanto in tanto a sfidare le onde. Risalire verso la strada principale è faticoso, la sete mi sta facendo essiccare la lingua, per fortuna un piccolo negozietto mi salva la salivazione con un bottiglione di succo di Guava, mi piace troppo questo frutto, peccato in Italia non lo si trovi.

Rientriamo al caro Mayflower, l’avevamo bloccato per altre tre notti prima di andarcene, è piacevole tornare in un ambiente conosciuto, ci si sente un po’ a casa.

Gianni non si sente al meglio, lo stomaco, o meglio quella parte che sta sotto allo stomaco, gli sta dando alcuni problemi, così anzicchè il solito shwarma andiamo a mangiarci una pizza non troppo italiana da pizza hut, accompagnamo con birra per 22000 llb e poi torniamo in albergo.

Ci rimangono due giorni, ne vorremmo sfruttare uno per recarci in Siria ma le informazioni sul visto sono sempre più confuse, chiamo l’ambasciata italiana a Beirut. Inizialmente un ragazzo mi conferma che ora il visto viene rilasciato al confine senza problemi, poi mi passa la cancelleria e una una voce femminile con accento francese mi risponde in tono tutt’altro che patriottico. Non ricordo le testuali parole, ma il succo del discorso è il seguente: primo, non avrei dovuto chiamare lei bensì l’ambasciata siriana, che per inciso in Libano non c’è, secondo, ha sentito dire che qualcuno ha forse ottenuto in qualche modo il visto al confine ma non c’è nulla di certo e lei non può assolutamente garantire che ciò sia effettivamente possibile. Non mi dovrei meravigliare troppo in verità, gli enti statali italiani sono uguali in tutto il mondo, di rado sono in grado di darti informazioni sicure e nella maggior parte dei casi sono scortesi e scocciati quando li chiami. Per fortuna non mi trovo in situazioni critiche tipo passaporto smarrito o rubato, altrimenti immagino quanto potrei metterci a spiegarmi con loro e tornare in Italia. Non mi piace fare polemica e nemmeno fare di tutta l’erba un fascio ma quando ci vuole ci vuole! Comunque decidiamo di esplorare il sud del paese, così di nuovo ci cerchiamo il taxi per la Cola station, l’autista è forte, mentre si ingozza con uno shwarma con cetrioli di prima mattina, conversiamo in tedesco, lui lo parla benissimo, si è trasferito in Germania in cerca di lavoro mentre la guerra civile imperversava in Libano, e ci racconta che molti altri hanno fatto lo stesso. E’ veramente simpatico, alla fine gli diamo 1000 llb di mancia.

Prendiamo il bus per Tiro ( in arabo Sur), la quale dista solo 80 chilometri da Beirut, ma sembra non arrivare mai, tante le volte in cui si ferma. Proseguendo verso sud la vegetazione assume toni caraibici, con banani, palme, cespugli verdissimi da un lato e il mare azzurro dall’altro.

Fondata all’inizio del terzo millennio a.C. Dai Fenici, la città traeva grandi ricchezze dalle colonie disseminate lungo le rive del Mediterraneo e soprattutto dalla produzione della porpora e fu per questo presa di mira dai grandi conquistatori dell’antichità, tra i quali il babilonese Nabucodonosor e il macedone Alessandro Magno. Venne più volte assediata, distrutta e ricostruita ed ora, di quegli antichi splendori, rimangono solo poche ma mirabili tracce, una vasta necropoli, le vestigia di una cattedrale bizantina, un arco di trionfo romano.

Il suq è molto bello ma la parte che più mi piace è il porto della pesca, una piccola testimonianza di quello che un tempo era il “porto Sidoniano”, vi troviamo anche attraccata la riproduzione di una antica imbarcazione fenicia, oltre ad altre piccole barchette e motoscafi. Intorno ad esso c’è molta vita, i pescatori riordinano le reti ed i ristoranti cucinano il pescato della giornata, vediamo un gruppo di tedeschi con telecamera ed attrezzature televisive, staranno facendo un programma televisivo per incentivare il turismo in Libano probabilmente. In centro città è posizionata una base ONU, da dove escono militari europei, non siamo abituati a vederne, fino ad ora abbiamo solo incontrato soldato libanesi o siriani ai posti di blocco disseminati lungo l’interera rete stradale, soprattutto avvicinandosi a sud, ad Israele.

Fu solo nel 2000, quindi tre anni or sono, che i territori all’estremo sud sono stati liberati dall’occupazione israeliana, ed è comunque pericoloso avvicinarvisi troppo per via delle mine antiuomo disseminate nel terreno. Vorrei andare a Qana, ho letto che probabilmente lì ebbe luogo il primo miracolo di Gesù Cristo, quando tramutò l’acqua in vino, pare ci sia una grotta con dei bassorilievi, unico problema occorre una torcia per potervisi addentrare anche perché non è custodita. Io la torcia me la ero portata in viaggio, come misura precauzionale all’andirivieni dell’energia elettrica, ma stava nello zaino, in albergo, a Beirut. Arrivare fin là e non poter veder nulla sarebbe troppo frustrante, oltretutto Gianni non è troppo entusiasta all’idea rientrare in una grotta, quindi decidiamo di risalire lungo la costa e fermarci a Sidone (Saida).

Abbiamo però ignorato un particolare, è venerdì, che nei paesi musulmani significa festa, come fosse domenica, perciò, essendo Sidone profondamente mussulmana, ci ritroviamo in una città deserta, negozi chiusi, suq vuoto. Ammiriamo il castello del mare, una fortezza edificata dai crociati nel tredicesimo secolo su un isolotto collegato alla riva con un ponte in parte fisso e in parte mobile, inoltre la collina dei murici, un ponticello artificiale alto circa una cinquantina di metri, interamente costituito dai resti di conchiglie di murici, da cui si estraeva la porpora in epoca fenicia.

Città ricchissime di storia, di antiche civiltà, leggende bibliche di cui ho sempre e solo letto sui banchi di scuola, ed ora che cosa rimane di tutto ciò? Il sottosuolo continua senza dubbio a celare testimonianze degli antichi fasti ma per un visitatore d’oggi occorre compiere uno grosso sforzo di immaginazione per tentare di ritrovare, al di là delle poche testimonianze, la gloria delle città sante dei fenici.

Rientriamo presto e ci facciamo lasciare al Bayrock cafè, sulla Corniche, è un locale molto alla moda e frequentato dalla gioventù ricca della città, hai una magnifica vista sui faraglioni e una maggiore varietà di cibo, oltretutto servono alcolici, cosa non così ovvia da queste parti. Ci mangiamo un Club sandwich, vorrei assaggiare il vino libanese, ma hanno solamente il rosso, io volevo il bianco perciò alla fine opto per la solita birretta ghiacciata. Tutti i tavoli intorno a noi hanno accanto il narghilè, lo puoi richiedere pagando un piccolo “affitto” e tra un boccone e l’atro fanno un tiro, il profumo del tabacco di mela è inebriante. Il conto è un po’ caro, circa 23000 llb, ma qualche volta bisogna un po’ godersi la vita, no? Presi dalla foga ci compriamo anche noi un narghilè in un negozietto accanto all’albergo, 10 dollari compresi tabacco e carbonella.

Decidiamo di concederci una serata mondana, del resto è ormai assodato che la mattina seguente non ci dovremo alzare all’alba per recarci in Siria. Dopo lunghe riflessioni siamo giunti alla conclusione che non vale la pena fare tutto di corsa, rischiare di essere rispediti indietro o, nella migliore delle ipotesi arrivare a Damasco, gettare un occhio e tornare a casa con un timbro in più sul passaporto senza però aver visto nulla. Andremo un’altra volta, con più calma, e ci gireremo anche la Giordania, ora invece ci vogliamo rilassare.

Chicken falafel e frullato alla bliss Hause, poi camminata fino alla Place d’Etoile. Rimaniamo folgorati, sotto il magnifico palazzo del Parlamento ci ritroviamo nel jet set delle serate dei giovani libanesi, tutti tirati a lucido e a passeggio per queste vie o seduti in uno dei tanti caffè e ristoranti all’aperto. Potremmo essere a Barcellona sulla Rambla o a Parigi nel quartiere Latino, c’è la stessa voglia di divertirsi, di vedere e farsi vedere, ragazze bellissime con abiti succinti, minigonne, ragazzi che danzano sui tavoli dei locali, musica a tutto volume. Facciamo fatica a trovare un tavolo dove sederci. Ma come fanno, mi chiedo io, a convivere culture e religioni così diverse? La voglia di vita di questi giovani, come fa a non cozzare con il conservatorismo e l’integralismo della vecchia guardia, e come fanno gli uomini di religione islamica a sopportare la vista di tutte queste donne seminude? Nelle stesse vie vediamo anche i militari, con il loro immancabile mitra, mi è sempre più chiara la precarietà di questa situazione.

Non ci rechiamo ad Achrafiye dove dicono prosegua la nottata con discoteche e localini trendy, siamo troppo assonnati.

E’ sabato, dormiamo fino a tardi, pensiamo di tornare a Sidone per goderci il suq che il giorno prima era chiuso, e così facciamo. Sul bus facciamo la conoscenza di una ragazza libanese, ha 21 anni, parla un ottimo inglese, ci racconta di essere iscritta all’università americana, dopo aver vissuto per diciotto anni in Nigeria con la famiglia. I genitori stanno ancora a Lagos ma lei voleva continuare a studiare dopo le scuole superiori e così è tornata a Beirut da sola. Sebbene il Libano sia effettivamente più liberale e meno integralista di altri Stati di cultura araba, riuscire a fare tutto da sola, come donna non è facile, molte sono le difficoltà che incontra giornalmente. Si fermerà giusto il tempo di finire gli studi, poi tornerà in Nigeria e farà la volontaria insieme ai missionari nei paesi africani più poveri e bisognosi. Alla fine ci saluta e va per la sua strada, in bocca al lupo.

Noi passeggiamo un po’, compriamo anche delle scarpe da Bata, sono ribassate del 70 per cento, niente male. Poi ci fermiamo in una pasticceria, non mi piacciono i dolci medio orientali, sono troppo zuccherosi, ma mi dispiace non provarli, sono una delle prelibatezze libanesi e loro stessi sono molto orgogliosi delle loro pasticcerie.

Come previsto non riesco a mangiarne più di un paio, sono agglomerati di pistacchi, miele, panna e zucchero, esco che ho una leggera nausea, peggiorata dal caffè libanese, che come quello turco ha il vago sapore di lucido da scarpe misto a catrame.

Camminiamo lungo la costa e ci fermiamo in una spiaggia, io mi addormento. Finalmente vediamo degli altri europei, una famiglia di francesi, non fanno in tempo a svestirsi che i due bimbi, maschio e femmina trascinano il povero babbo in acqua, lo obbligano a correre, saltare, uscire, rientrare, mentre la mamma si gode il sole senza nemmeno togliersi i vestiti. Dall’altra parte una coppia musulmana, lei esce dal mare con indosso una palandrana che la copre dalla testa ai piedi.

Il sud, tra Sidone e Beirut è la parte più ricca di spiagge, alcune meglio tenute altre lasciate un po’ andare e sporche, vi si incontrano pezzi di vetro, plastica e altri materiali sconosciuti, eppure non costerebbe tanto ripulirle un po’, se veramente vogliono rilanciare il turismo si devono dar parecchio da fare! Prendiamo il bus, l’autista è un fanatico del canarino giallo Tweety, ci sono vetrofanie su tutti i finestrini e pure il clacson ne fa il verso, è buffo, mi fa un po’ pena, in tutto il tragitto riesce a caricare solo pochi passeggeri, con i pochi soldi che incassa non si coprirà nemmeno i costi della benzina, gli lasciamo una mancia.

Poi prendiamo un taxi, Gharan, l’autista, ci racconta un po’ della sua vita, lavorava in banca durante la guerra, poi nell’89 la banca ha chiuso e lui è emigrato in Venezuela a cercar lavoro dove si è fermato per qualche anno fino a spostarsi in Svizzera, per due anni. In Italia c’è stato una volta, per vacanza, è stato derubato da dei marocchini ed algerini, ne ha un pessimo ricordo purtroppo. Finalmente in Gabon è riuscito ad aprirsi una piccola attività, per otto lunghi anni ha vissuto tranquillamente, finchè un colpo di stato gli ha fatto perdere tutto ciò che si era costruito con fatica, è tornato in libano ed ora fa il taxista. Avrà sui 50 anni, parla cinque lingue, arabo, inglese, francese, tedesco, spagnolo, è una persona colta, in gamba, mi colpisce profondamente quando rifiuta la nostra mancia, ci sentiamo male, è come voler fare l’elemosina ad un poveraccio, ma lui non lo è, lui è probabilmente molto più ricco di noi, e non parlo di soldi. Ci racconta anche che il governo vuole porre una regola a questo sistema selvaggio di taxi, ridurli da centomila a diecimila, obbligarli a comprarsi delle auto nuove, vestirsi con una divisa ed avere una certificazione. Questo creerebbe moltissima disoccupazione e la nascita di ancor più taxisti abusivi e non certificati ma meno cari.

Torniamo in albergo e ci fermiamo a comprare delle birre da un ragazzo che vende liquori, ci riconosce subito come italiani, anche lui, ci racconta di essere stato in Italia tanti anni fa, poi entriamo in un supermercato a comprare dell’hommos da portarci a casa, i prezzi sono veramente più abbordabili che da noi, vendono delle confezioni famiglia di shampoo molto convenienti.

Ci mangiamo gli ultimi shwarma alla Bliss, poi ci mettiamo sul balcone della stanza a riflettere sul nostro viaggio, ormai giunto al termine.

Siamo soddisfatti, abbiamo girato tranquillamente per una intera settimana, senza problema alcuno, da soli e su mezzi locali, per un paese con una situazione politica così complessa, un paese fortemente in bilico tra guerra e pace, tra Oriente e Occidente, tra passato e futuro.

A Beirut si sente più che mai la voglia di avvicinarsi all’Occidente, sono molti i ricchi e non esitano ad ostentarlo con auto nuovissime e abbigliamento griffato, al contrario di tutte le altre città dove la popolazione vive più o meno nelle stesse condizioni e non si notano grossi dislivelli come nella capitale.

Osservo gli appartamenti del palazzo di fronte, sono molto belli, spaziosi, deve viverci gente che sta abbastanza bene, sentiamo la voce di Norah jones uscire da uno stereo chissà dove, tra poco andremo a letto e ci sveglieremo con la voce del Muezzin.



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