Un’omelette nell’oceano Indiano
[ Gerald Durrell, “Io e i lemuri” ] Nel 2003 l’Ariary ha sostituito il Franco Malgascio, che non è un cantante confidenziale degli anni ’70 con i basettoni e la camicia sbottonata sul petto villoso, bensì la vecchia moneta del Madagascar. Sulle banconote dell’Ariary sono stampate le seguenti immagini: due lemuri di specie diverse aggrappati al ramo con tartaruga, esemplari vegetali come la palma ravenala, il baobab, il cactus e l’agave, zebù accompagnati da pastore con cappello tondo e coperta sulle spalle, donne che intrecciano cesti e cappelli di rafia, totem di legno infilzati nel terreno, villaggio degli altipiani con capanne di paglia, baie di Fort Dauphin e di Antsiranana, piroga con vela triangolare raffazzonata e pescatori al lavoro al sorgere del sole, risaie a terrazze e poi, incredibilmente, sulla banconota da 10.000, un cantiere con una ruspa, una gru e gli operai impegnati in lavori stradali: gli operai sono tre silhouette nere sullo sfondo giallo di un sole stilizzato e scintillante e solo il primo dei tre è dotato di una preziosa vanga bianca. Su ogni banconota, indipendentemente dal taglio, è piazzato il disegno miniaturizzato di questa orma del piede sinistro che è il Madagascar.
Si può partire dalle banconote per raccontare questo Paese ricco di meravigliose specie vegetali e animali uniche, ma con un reddito pro-capite tra i più bassi al mondo. Un Paese diviso in 18 etnie, ognuna con i suoi tabù e i suoi riti religiosi. Un Paese che si sforza di crescere mettendo 50 persone fortunate, con la pettorina gialla fosforescente, a riparare un pezzo di strada di duecento metri con un’unica zappetta e un martello che passa di mano in mano. Un Paese che indossa in massa la maglietta del Presidente Marc Ravalomanana, magnate dello yogurth, il cui bel faccione sorride sopra i seni delle donne che ricamano tovaglie, e il cui slogan campeggia sulla loro schiena: “Tiako i Madagasikara”, “Amo il Madagascar”. Un Paese che, se lo gratti, rivela un sostrato di terra rossa come se fosse costruito su un enorme campo da tennis e guardando bene sembra che sia stato grattato un po’ troppo.
Cosa mi aspettava, dunque, lo avevo visualizzato in anteprima una volta cambiati i soldi a Tanà, come viene chiamata amichevolmente la capitale Antananarivo in questo Paese dai toponimi e nomi propri infiniti e impronunciabili. Poiché la banconota di maggior taglio è quella da 10.000 Ariary, che equivalgono oggi a circa 4 euro, serve un portafogli ben grande per un vazaha (in gergo, straniero di pelle bianca) che intenda visitare il Madagascar. E i malgasci lo sanno. Questo giusto per chiarire l’impronta che accomuna virtualmente ogni tipo di relazione umana che si potrebbe intrecciare sulla quarta isola più grande del mondo. E tralascio, per non fare la figura della schizzinosa, il colore e l’odore dei soldi di carta malgasci, ché è meglio non riflettere sulla certezza assoluta dei posti in cui sono transitati prima di giungere nelle tue mani bianche e morbide di vazaha.
Nella patria della biodiversità è obbligatorio visitare riserve e parchi naturali per poter ammirare quel che di protetto resta in un Paese dove il disboscamento è la pratica comune (e suicida), dove cioè è abitudine consolidata bruciare foreste per ricavare nuovi terreni da coltivare o su cui far pascolare le bestie. Così tutto scorre, la terra verso i laghi, che sono rossi come ciotole di sugo, e verso i fiumi, simili a colate laviche annacquate. A questo fine si procede da Tanà a Tuleàr in circa una settimana percorrendo la Route National n° 7, una delle tre strade asfaltate di tutta l’isola. E non vi immaginate un’autostrada poiché non è altro che una doppia corsia in alcuni tratti talmente stretta che due grossi camion quasi si sfiorano, anche se tutto sto gran traffico non ci sta poiché la benzina costa un euro al litro e lo stipendio medio mensile di un malgascio non supera i 25 euro. Siamo un gruppo di 12 persone e possiamo dividere i costi per un un pulmino con autista; muoversi coi mezzi locali (leggi: taxi-brousse) decuplicherebbe i tempi, deformerebbe l’osso pubico e farebbe morire di noia.
Lasciata la capitale, procediamo tra mattoni d’argilla impilati a seccare e vestiti stesi sull’erba ad asciugare dopo essere stati strofinati vigorosamente in canali e pozze d’acqua. Nel mese di luglio, finita la raccolta del riso, è possibile incappare in una delle cerimonie più rivoltanti delle popolazioni che abitano qui sugli altipiani centrali: la riesumazione dei cadaveri, o Famadihana. Più del matrimonio, più del funerale, è questa la festa più importante per un’etnia che considera i morti entità da ingraziarsi in quanto tramite tra i viventi e Dio. Così uno o due anni dopo la morte riaprono il sudario, scarnificano e puliscono eventualmente le ossa, le coccolano e ci parlano come se fossero ancora attaccate a un corpo vivo, spesso gli fanno fare un giretto per informarli sulle novità, e poi le mettono in un lamba nuovo e le riseppelliscono. Intanto festeggiano anche per una settimana, avendoci i soldi, visto che è consuetudine offrire carne a volontà e rum, ballare e divertirsi. Ed è ciò che stanno facendo questi uomini, donne e soprattutto bambini e ragazzini nello spiazzo davanti a questa casa al lato della strada, dove ci invitano a ballare con loro e suonano e ci mostrano la stanza al piano terra che è piena di nauseabondi pezzi di carne pronti per essere cucinati, felici ché domani andranno a vedere come stanno messe le ossa dei loro cari.
Per la notte ci fermiamo ad Antsirabe, dove si produce la birra Three horses e si lavorano le pietre preziose, in un orrendo hotel gestito da cinesi, dotato di labirintici corridoi che conducono alle stanze site in un agglomerato che comprende un night e un casinò. A causa delle sue acque termali la città è considerata la Vichy malgascia (adesso in verità un po’ in decadenza) ed è la capitale dei pousse-pousse, come qui chiamano i coloratissimi risciò condotti da atletici uomini scalzi. La strada al mattino si snoda tra risaie terrazzate in cui si specchiano le nuvole bianche e gonfie che sembra di stare in Indonesia e passa per Ambositra, dove c’è il mercato. Noi ci andiamo in minibus mentre loro, i malgasci e le malgasce, ci vanno a piedi e a seconda di dove abitano si fanno anche 15 o 20 chilometri con in testa sacchi di riso ceste secchi borse colorate pesanti di pomodori insalata verdura frutta legna stoppie o involti misteriosi in buste di plastica sovrapposti, com’è loro costume. Anche qui sfilate di risciò colorati sui quali gli sfaccendati conducenti schiacciano un pisolino riparati dal sole sotto enormi poinsezie, che poi non sono altro che le nostre stelle di Natale ma di dimensioni paurose. Luca, dodicenne che ha imparato l’italiano nella vicina missione, ci accompagna alla scoperta di questa città specializzata nell’artigianato del legno. Ci mostra dove fanno il rodeo degli zebù e il resto e poi vuole che gli compriamo il pallone e vorrebbe anche le scarpe per quando tornerà a scuola a settembre, che ha solo questo paio di infradito rovinate e comunque è già fortunato perché la maggior parte della gente qua le scarpe non le tiene proprio. A dire il vero Luca è solo il nom de plume del giovanotto, che in realtà risponde al nome di Andriamampiomina Ando Nirina Louis, anzi non so se fa in tempo a rispondere o se nel frattempo è già scappato via, e non so nemmeno se esistono cartoline abbastanza grandi affinché qualcuno possa scrivergli davvero, come lui pretenderebbe.
Ci sono anche due cinema, in uno danno Terminator con Arnold Schwarze, come è scritto sulla lavagna col gesso bianco, e poi c’è un film di karate che poi non è che sono cinema, sono baracche di legno e da fuori si sente l’audio dei film e tutti si accalcano sulla porta dietro la tendina. Parliamo con Fabio, un italiano che gestisce un atelier di tessuti specializzato nella lavorazione di una raffinata seta selvatica ottenuta dai bachi della tapìa, un albero con il tronco spesso e robusto simile a quello dell’ulivo. Poiché questo legno non prende fuoco facilmente, quella di tapìa è una delle pochissime foreste originarie ancora esistenti in questo paese con la fissa degli incendi. Fabio organizza eventi e festival musicali e insomma si dà da fare per portare un po’ di sviluppo e tra le altre cose ci racconta che nelle zone più povere degli altipiani esiste ancora il fenomeno del brigantaggio, anche perché rubare gli zebù è molto cool, fai il tuo bel figurone con le donne.
Tra pini ed eucalipti si giunge al Parco Nazionale di Ranomafana, una foresta pluviale di circa 40mila ettari, intricata e pelosa, dove regna la solidarietà tra le varie specie che vivono in simbiosi o in rapporti di parassitaggio. Ci sono enormi orchidee e bambù giganteschi, piante medicinali e carnivore, felci ataviche e palme ravenala che si aprono a ventaglio, dette palme del viaggiatore perché ripiene d’acqua con cui, teoricamente, il viandante assetato può abbeverarsi. C’è una cascata e pietre viscide o ponticelli di fortuna per attraversare i piccoli corsi d’acqua che vanno a gettarsi nelle acque spumeggianti del fiume Namorona, ma soprattutto questo è il regno di diverse specie di lemuri, queste buffe proscimmie che puoi vedere soltanto in Madagascar e che noi avremo modo di scorgere qui, se avremo pazienza. Al calar delle tenebre è possibile avvistare il fossa, l’unico predatore dell’isola, una specie di zibetto che fa capolino nella radura ed è la star dei nostri flash fino all’apparire del microcebus rufus, un lemure piccolissimo ghiotto di banane. Il mitico aye-aye dal dito medio sproporzionato è invece impossibile vederlo e tanto vale mettersi l’anima in pace. Di giorno invece tra i rami si intravedono i sifaka della specie edwardsi, lemuri orsacchiosi che dormono abbracciati, l’apalemure dorato, una rarissima specie crepuscolare che mangia il bambù, i lemuri a naso largo, che hanno il collare perché sono studiati da due ricercatori che stanno là con dei giubbotti arancioni e taccuini da ricercatore. Dentro un tronco, staziona incorniciato da un buco il Lepilemur microdon, che è praticamente quel pupazzo Furby ed è buffissimo e dolcissimo con il suo unico dentone; non a caso nel film d’animazione Madagascar lo fanno scoppiare a piangere come un bambino piccolo quando, sfuggito ai fossa che se lo vogliono magnare in insalata, si trova faccia a faccia con il leone Alex, che è un animale che loro sull’isola non conoscono affatto e ci credo che possa far paura. Intravediamo anche i lemuri dalla fronte o la pancia rossa e non so bene che altro perché ste bestie sono molto sfuggenti e saltellano come la scimmia Cita di ramo in ramo e di liana in liana e dopo 3 ore ti viene il torcicollo.
Nel pomeriggio a Fianàr, il secondo centro del Paese per estensione, la temperatura è scesa di brutto e gli abitanti betsileo camminano scalzi, ma ben avvolti in queste pesanti coperte a scacchi. L’hotel qui è così orrendo che soppianta quello di Antsirabe: è una mastodontica costruzione a pagoda con ideogrammi e dragoni e una piscina col fondale dipinto a fiori orientali stilizzati. La sua architettura kitsch ha colpito molto anche lo scrittore ex giovane Enrico Brizzi che lo cita nel suo romanzo Razorama, anche se gli cambia nome chiamandolo non so perché Sebastopòl invece di Soafia che è il nome vero. Lungo le strade una teoria infinita di bancarelle dove vendono minuscole piramidi di 4 pomodori, 8 patate, una manciata di noccioline, 7 arance, 10 verzine microscopiche, 5 patate dolci, che ci scorrono davanti alla finestra mentre l’autista cerca di condurci alla missione di Padre Maurice, che purtroppo adesso è andato a Tanà per una commissione ma possiamo comunque parlare con i suoi collaboratori. In effetti questa missione non riusciamo a trovarla, nonostante la consulenza (non richiesta, a dirla tutta) di un alcolizzato endemico del luogo che insiste per salire sul bus. Ci fermiamo davanti al Villaggio “Ambalakilonga”, una comunità gestita dalla fondazione Exodus, dove un abruzzese ex-tossico simpatico monta su al posto dell’ubriacone logorroico e ci porta all’orfanotrofio gestito dalle suore nazarene di Torino. Ci spupazziamo questi dolcissimi meravigliosi cicciobelli negri, che sono per la maggior parte figli di ragazze madri morte di parto, o provenienti da famiglie troppo povere o numerose o problematiche per mantenerli. Sono fin troppo bravi considerando il fatto che, se a noi da bambini ci terrorizzavano con la storia dell’uomo nero che arriva e ci mangia, per simmetria il loro arcinemico dovrebbe essere l’uomo bianco (e questo non so se abbia, e fino a che punto, implicazioni anticolonialiste). Il momento commozione e pelle d’oca si svolge in questi termini: Donatella scopre che la suora che ha curato pochi giorni prima nell’ospedale di Cuneo dove lavora è amica intima della suora che è lì ad accudire i pupi e le può così comunicare che l’operazione è andata a buon fine, senza che debba aspettare un mese per la risposta. La suora può approfittare di Donatella per consegnare direttamente a mano la lettera che era già pronta ed imbustata per la suora amica degente in quell’ospedale di Cuneo. La vita è fatta di coincidenze incredibili. La madre superiora ci spiega che questi bambini e ragazzini vanno tutti a scuola, così hanno la possibilità di svolgere un lavoro dignitoso e avere un futuro migliore, e ciò può essere realizzato grazie alle donazioni e ai finanziamenti. Allora facciamo una colletta e in quel momento arriva un sedicente collaboratore dell’ineffabile padre Maurice per cui il cerchio si chiude.
Il mercoledì ad Ambalavao è il giorno del mercato settimanale degli zebù, che incontriamo in mandrie già sulla strada e anche sulla terra rossa punteggiata da vigneti, a cotè. Si fanno una lunga lunga strada queste bestie dalle corna a mezzaluna e una volta arrivate devono subire l’umiliazione di passare sotto l’apposita commissione di valutazione prima di essere venduti. In questo spiazzo immenso di terra battuta, centinaia di bambini cenciosi ci si fanno incontro: come in tutti i miseri villaggi e le bidonville sovraffollate della Terra indossano ex vestiti ridotti a brandelli e resi indistinguibili dalla polvere e dalla sporcizia di mesi e anni. Sotto questo strato si riconoscono vestaglie, accappatoi, camicie da uomo taglia XL, vestitini rosa a balze da prima comunione, abiti da fatina o da ballerina di tulle color pesca, cappottini di pelouche viola con cappellino coordinato munito di finti capelli biondi incollati, magliette con personaggio di cartoni giapponese con gli occhi enormi e dentro l’iride una stellina, t-shirt rosse con imitazione di Goldrake, maglioni di lana tipo col panda bianco e nero disegnato a tricot, magliette nere con John Cena, pigiami rosa di flanella, felpe con il cappuccio con stampate scritte americane, divise da calciatore, calzoncini traforati di buchi, orli sfrangiati, bottoni persi o pendenti. È estate, autunno, inverno e primavera contemporaneamente. Spesso due bambini sono legati da un lamba e fai fatica a distinguere il portatore dal portato, visto che hanno quasi la stessa età e stazza. E tutti questi incontri sotto il sole abbagliante avvengono con il sottofondo di un salmodiare continuo e monotono di bonjourvasà-bonbonvasà-styloperl’ecole-argentvasà. Nei pressi del mercato una suora francescana italiana che opera sul territorio ci ragguaglia in merito ai problemi più seri che sono la prostituzione delle ragazzine e l’alcolismo. Stanno attendendo che la scuola in costruzione ad Ambalavao sia pronta, mentre a Tanà hanno più strutture e hanno già salvato diverse donne e bambini.
Nei paraggi si può visitare il laboratorio di carta degli Antemoro, l’etnia che abita nella regione costiera a fianco, fatta a mano e decorata con petali di fiori freschi. Possiamo guardare gratuitamente come avviene il processo di lavorazione, non dissimile da quello dei loro colleghi fabrianesi, a patto che poi entriamo e spendiamo nell’annesso negozio. Infine facciamo sosta alla piccola riserva di Anjaha dove i lemuri catta, i più sympa, quelli con la lunga coda a strisce bianche e nere, passeggiano felpati a pochi centimetri da noi con la loro mascherina nera e gli occhi gialli e ci manca poco che si facciano accarezzare. Il tutto in uno scenario naturale di incomparabile bellezza, tra farfalle e camaleonti.
Il prossimo parco nazionale si chiama Andringitra e per raggiungerlo bisogna farsi sbatacchiare per un’ora dentro un camion. Siamo in un anfiteatro naturale circondati da meravigliose montagne nude ed è tutto giallo di graminacee e rosso di terra che emerge dalle cicatrici e in alto il blu compatto del cielo terso e intenso che la sera regalerà una stellata indimenticabile. Il Camp Catta è costituito da case tradizionali restaurate ed appartiene ad una ONG marsigliese che si preoccupa di sostenere la vita nei villaggi sparsi nella vallata. Poiché il massiccio comprende alcune delle vette più imponenti del Paese, i più tosti ci vengono per fare arrampicate e ci giungono a piedi, con la tenda e lo zaino in spalla, come questi due ragazzi svizzeri. Altrimenti è possibile compiere lunghe passeggiate e visitare i villaggi: in questa vallata abitano in case fatte di argilla e paglia circa 6000 persone che appartengono sia alla tribù dei bara sia a quella dei betsileo. Le due etnie convivono pacificamente per merito della divisione dei compiti: i bara allevano gli zebù mentre i betsileo sono coltivatori e i rispettivi prodotti se li scambiano l’un con l’altro. Gli unici screzi nascono quando un bara vende uno zebù a un betsileo e poi glielo ruba (per fare il figo, come abbiamo visto). Le case dei bara sono a due piani: sopra vivono i genitori, sotto i figli, anche se sposati, e quando muoiono la casa viene distrutta e se ne costruisce un’altra. Sfoggiando con orgoglio una chiostra di denti di metallo, che sono l’ultima tendenza modaiola della zona, le donne ci mostrano l’interno delle loro abitazioni dove, al piano terra, spiccano le foto elettorali del presidente Marc Ravalomanana, sbarazzino con la giacca sulla spalla. Nella vallata c’è un dispensario dove le donne vanno a partorire o portano i bambini con la polmonite o la bilarziosi. Accanto all’ospedale c’è uno spazioso edificio che ospita i parenti più robusti, le cui braccia sono fondamentali per trasportare fin qui il malato. Il problema è che queste popolazioni continuano a curarsi con le piante, ricorrendo ai consigli degli influentissimi guaritori, e dunque quando arrivano in ospedale spesso è l’ultima spiaggia e non c’è più niente da fare. Come il dispensario, anche la scuola è sorta grazie all’iniziativa della ONG francese, che fornisce anche i libri. Fino al 1975 i libri scolastici in Madagascar erano scritti in francese e contenevano tutte le informazioni per raggiungere Lione da Parigi ma non per andare da Tulear a Tanà. Praticamente iniziavano con la frase “i nostri antenati, i Galli”, come se il fatto di essere stati un protettorato francese per qualche decina di anni avesse trasferito fisicamente il Paese nei paraggi dell’Ile de France. Dopo quell’anno c’è stata una specie di rivoluzione culturale, infatti era il periodo in cui un cambio di regime aveva avvicinato il Madagascar all’area socialista, che ha reintrodotto la lingua e cultura malgascia nelle scuole, ma anche qui si sono dati la zappa sui piedi in quanto all’università si continuava a parlare in francese e dunque quelli che vi accedevano non ci capivano un’acca. Nel 1993 dunque si è tornati ai libri in lingua francese, immagino purgati dal riferimento agli eroici Galli.
Al ritorno sulla via asfaltata il paesaggio diventa una sconfinata savana fino a Ranohira, che praticamente non è altro che la base per raggiungere il Parco dell’Isalo e oltre a qualche albergo e negozietto che vende sigarette sfuse e pasta sfusa non vi è. Il Parco è costituito dall’immensa prateria gialla stile Far West dell’altopiano dell’Horombe e da massicci di arenaria scolpiti dagli agenti atmosferici e nel pomeriggio sembra l’Acacus libico, con le rocce che si scuriscono e le graminacee che da lontano sembrano dune di sabbia. Nel Canyon dei Maki passeggiamo a testa in su a spiare i sifaka che mangiano o saltellano sui rami e poi strisciamo lungo un torrente fin dentro alla gola, cercando di scansare le specie endemiche come la palma piuma, l’aloe dell’Isalo e il pachypodium, che è una specie di baobab nano chiamato anche piede di elefante. Poi intraprendiamo un percorso di 3 km tra licheni multicolori e suggestive conformazioni rocciose fino a giungere ad una splendida piscina naturale circondata di felci e pandani dove bisogna per forza fare il bagno e farsi idromassaggiare dalla cascata. In chiusura di giornata il tramonto va guardato in un posto fatto apposta per guardare i tramonti che si chiama “finestra dell’Isalo” perché è una roccia che ha un buco quadrato in mezzo e sembra proprio una finestra. Per la notte soggiorniamo al Relais de la Reine, in una cornice naturale straordinaria vicino alla roccia che somiglia al profilo di una regina, un posto per miliardari con tanto di piscina alimentata da un ruscello, pista per elicotteri, centro d’equitazione, campi da tennis e trionfi di bouganville. Quattro giorni dopo il nostro soggiorno questo super albergo è stato semi-distrutto da un incendio scoppiato dal camino della cucina e rapidissimamente propagatosi e quindi probabilmente nessun altro ormai ci può andare più e a saperlo prima ci saremmo trafugati più candelieri e porta-incensi e anche quelle belle foto in bianco e nero che erano appese tra i mobili in legno nei cottage costruiti in pietra locale. Nemmeno il tempo di godercelo però questo albergo di lusso, perché la mattina alle 5 già partiamo col buio per arrivare a Tuleàr in tempo per il traghetto che ci aspetta la-bas.
L’ultimo tratto della RN7 lo percorriamo in un’alba rosa su cui spiccano le silhouette dei baobab, il clima diventa infatti più secco e il paesaggio una savana semi-arida costellata di arbusti. Si passa attraverso i villaggi dei cercatori di zaffiri e a lato della strada è possibile intravedere le costruzioni funerarie della tribù Mahafaly. A Tuleàr abbandoniamo definitivamente il minibus, l’autista dal torrido sguardo orientale degli attori di Wong Kar-Wai e il suo figlioletto serio e compito di 8 anni.
A Tuleàr non c’è niente tranne la barca che ci condurrà ad Anakao, un pittoresco villaggio di pescatori situato a sud e ancora poco conosciuto dal turismo. E lì devi solo pregare che il motoscafo non si cappotti nel tragitto, poi se te ne capita una funzionante, o addirittura veloce, tanto di guadagnato. Già l’inizio non è confortante, quando realizzi che per issare le tue chiappe a bordo devi farti dare un passaggio da un carretto di legno trainato da zebù anfibi. La compagnia sul motoscafo è invece prestigiosa: vi è il sindaco di Sarodrano, villaggio a cotè di Anakao, c’è un dj rasta fumatissimo tutto vestito di nero, con grandiosi occhiali a specchio, cappello trendy e ciondolo gigante, che nonostante le apparenze è nientepopodimeno che il nipote del re di Anakao e figlio del sindaco di Tuleàr, e infine ovviamente c’è il pilota che è un energumeno di nome Rigoberto. Il comitato di accoglienza a destinazione è costituito dal tristissimo titolare dell’hotel in cui dormiremo, un francese spiegazzato e pallido con l’aria esistenzialista da chansonnier, e dai suoi dipendenti abbigliati con lucenti camicie a righe verticali. Questa è vita! ci scappa da esclamare di fronte al drink di benvenuto e poi stesi al sole su dei superlettini imbottiti sulla spiaggia. Bambini e donne deambulano sulla battigia e ti braccano quando vai a fare un bagno per sciorinare la loro mercanzia di parei, conchiglie giganti, collane, massaggi. Alle 2 si alza il vento. Alle 4 fa freddo. Alle 6 è buio.
Siamo su un’infinita spiaggia bianca, protetta dalla barriera corallina, a ridosso della quale vi sono alcuni hotel e ristoranti più o meno scalcagnati, e a seguire il vero e proprio villaggio dei pescatori Vezo, che è il nome dell’etnia locale. La loro vita si svolge sulla spiaggia, dove costruiscono le loro piroghe in legno dipinto a colori sgargianti e dotate di vela realizzata con la tela dei sacchi di riso: le vele sono quadrate così che da lontano sembra un kolossal sull’Odissea con Ulisse che ci fa ciao ciao con la mano. Le donne utilizzano una polvere di legno gialla o arancione come maschera di bellezza e per proteggersi dal sole. I pesci li affumicano infilzandoli in bastoni piantati nella sabbia a cerchio al centro del quale accendono il fuoco. La sabbia serve a molteplici scopi: lavare i piatti, seppellire i propri bisogni, disegnarci su opere d’arte (piroghe e zebù), trovarci conchiglie giganti da rivendere ai turisti. I due giorni di soggiorno ad Anakao prevedono mare, sole, passeggiate e laute mangiate da “Emile aime île” (questo Paese è pieno di geni del copywriting) dove ci strafochiamo di aragoste, granchi, calamari, polpo, pesci grigliati. Di fronte, raggiungibile via motoscafo, vi è l’isolotto di Nosy Ve, riserva naturale marina dove nidificano i rarissimi fetonti dalla coda rossa, questi uccelli bianchi e neri appollaiati tra i cespugli.
Per andare a Ifaty, altro villaggio sul mare situato a nord di Tuleàr, chiediamo al mitico Rigoberto di accompagnarci in barca. Questa volta ha come aiutanti i suoi 4 figli ed è una gran fortuna perché il motore ha un po’ di problemucci e il nostro uomo deve trascorrere tutto il tempo della traversata a ripararlo in corsa, sostituendo candele ricoperte di ruggine millenaria. Ifaty è costituita da: bungalow sulla spiaggia, enormi palme da cocco, bar e piroghe. Un’aria di desolazione circonda la donna con la muta che pulisce la piscina, la ragazzina magra che fa i massaggi, il cameriere rasta con i suoi orrendi cd, il ristorante pretenzioso ma deserto. Visitiamo con le infradito la foresta spinosa Reniala: terra rossa, baobab con i loro frutti simili a maracas di alcantara marrone, piante medicinali, piante succulente, su tutto incombono grigie nuvole rapide sospinte da un vento continuo.
Uscire da Ifaty via terra richiede stomaci forti e resistenza fisica, la strada è tutto un buco e raggiungere l’aeroporto di Tuleàr all’alba, quando è buio e freddo, è piuttosto scoraggiante. L’aeroporto è ancora deserto, sola nel parcheggio una Renault 4 arancione. Poi man mano arrivano alla spicciolata i turisti (tra cui la solita famiglia francese che, da Milano in poi, incontriamo ad ogni tappa), i malgasci ricchi (donne attillatissime dai lunghi capelli ricci mesciati, rossettone e orecchini a cerchio giganti), alcuni elegantissimi indiani.
A Fort Dauphin (Tolagnaro in malgascio) si potrebbe arrivare via terra ma le condizioni stradali sconsigliano l’impresa e praticamente tutti ci vanno in aereo, quindi è una meta ancora più esclusiva delle altre se possibile. Ciò è ben noto agli abitanti del luogo che, di fronte al tuo rifiuto di acquistare un pareo o una collana, ti spiegano pazientemente che è impossibile che tu non abbia soldi in quanto sei giunto lì in aereo e quindi sei ricco. Il ragionamento non fa una grinza. Per le strade oltre a venerande Renault e Citroen adibite a tassì, un incredibile numero di SUV e 4×4 costosissimi, che pare appartengano alle varie ONG e ai canadesi alle prese con un progetto di sfruttamento dei minerali.
Qui il clima è meno secco che altrove e infatti ha piovuto per tre giorni ma adesso basta: visitiamo con il sole la riserva privata di Nahampoana, un grande giardino botanico molto curato a 7 km dalla città. Gli amici lemuri Catta, i sifaka di Verraux e gli apalemuri del bambù sono tutti lieti di fare la nostra conoscenza, le tartarughe radiate invece continuano a fare la solita tranquilla vita di sempre. La vegetazione è un trionfo tropicale di palme, didieracee, euforbie, eucalipti, baobab, sisal, canfora, ciliegi, chiodi di garofano, ci si può addentrare in una piscina naturale e percorrere in piroga un corso d’acqua tra mangrovie e orecchie d’elefante e sfogliare addirittura l’albero della carta igienica.
A Fort Dauphin alloggiamo in questo complesso di bungalow più o meno confortevoli, immersi nella vegetazione e nel solito zoo di mosche zanzare galli e altre non meglio identificate ma rumorose bestie, dove è un’impresa avere asciugamani che non sappiano di pesce, papier toilette in quantità sufficiente a gestire la famosa diarrea del viaggiatore, un fabbro che ti aggiusti la serratura dopo che un pezzo di chiave è rimasto dentro. E comunque il Madagascar c’ha proprio un problema in fatto di serrature perché la chiave va girata al contrario e spesso servono trucchetti noti solo agli indigeni per aprire una porta. Qui tra i bungalow tra l’altro se cerchi aiuto trovi sempre e solo il monotematico venditore di vaniglia, notoriamente incapace di alcun conforto. Va detto che i malgasci hanno ancora qualche miglioria da applicare nell’erogazione del servizio. Due sono i punti di debolezza: i tempi e la rigidità. In merito ai tempi, nulla di nuovo: il tempo non esiste, siamo in Africa, basta saperlo, anzi fai la figura del cretino che non ha mai viaggiato se te ne meravigli, e ti organizzi prenotando la cena due ore prima come quando vai a pranzo dalla mamma. In merito alla assoluta mancanza di flessibilità è tutto molto più divertente: se per esempio siete seduti in 4 al tavolino di un bar e chiedete solo 2 sandwich il personale assume espressioni sconvolte, se cambiate idea in merito ad una ordinazione vi rispondono che ormai hanno scritto coca cola non possono poi portare aranciata, fargli capire che se si è in 6 persone si può dormire in 2 stanze da 3 o in 3 da 2 è un’impresa al di sopra delle possibilità.
Al mattino ci attende un’ora in motoscafo, tra mangrovie e orecchie d’elefante, pandani e palme ravenala, canoe, montagne e capanne che si specchiano nell’acqua immobile, alla volta di Evatra, un villaggio di pescatori Antanosy situato a sud-est di Fort Dauphin, dove il lago e l’Oceano Indiano si incontrano. Qui c’è un campo dove si può dormire in semplici capanne senza acqua nè luce ed essere sfamati da alcuni ottimi manicaretti malgasci a base di pesce, zebù, cocco, papaya, yucca e altre bontà. Sulle condizioni igieniche sorvolo per non turbare gli stomaci deboli ma comunque per fortuna avevo fatto l’antiepatite. Per andare ad ammirare le baie e spiaggette circostanti bisogna attraversare il villaggio: circa 1500 persone abitano in casette di legno circondate da gigantesche palme da cocco in uno scenario da mozzare il fiato e guardandomi intorno pensavo che i villaggi turistici li copiano da posti meravigliosi come questo e ciò è ironico in sommo grado. Qui è tutto un insieme di maiali galline e nidiate di pulcini dietro alla mamma e cani e gatti che gironzolano tra i bambini che hanno pance gonfie e solo una maglietta e sarebbe da portargli tutti i nostri guardaroba inutilizzati negli armadi. Nei banchetti vendono piramidine di arachidi e tra di loro, sedute, le donne e le bambine si fanno le treccine a vicenda. Dalle baracche proviene il fumo di un fuocherello e da alcune anche il suono della radio, qualcuno è tornato dal mare e vende dei pesci enormi. Le donne fanno il bucato e i bambini a gruppetti ci seguono in tutto il tragitto tra zebù e cactus fino al punto panoramico che sembra l’Irlanda per il verde squillante e le onde che schiumano con forza sugli scogli.
Al pomeriggio raggiungiamo un barcone abbandonato in uno scenario sturm und drang metallico di nuvole che avrebbe affascinato il pittore Caspar David Friedrich: onde lunghe, il cielo nebbioso, la marea che sale e individui che trasportano fascine di legna, ceste gemelle attaccate a un bastone in bilico sulla spalla e vari attrezzi arrugginiti. E meno male che all’ultimo un sesto senso mi ha suggerito di non andarci in canoa, perché Giovanna e Uliano si sono cappottati e hanno dovuto asciugare al sole passaporti e soldi e purtroppo le inutilizzabili apparecchiature elettroniche. E la barca tornò sola… Mare crudele mare crudele, cantava quello. Per cena ci hanno procurato a fatica delle aragoste, considerato che il mare è agitato e la pesca poco fruttuosa. Il giorno dopo prevede una spedizione a piedi verso l’incontaminata penisola di Lokaro, tra banani, pervinche, piante carnivore e medicinali, scenari di mare e montagne incantevoli. Al ritorno in barca deviamo per ammirare un coccodrillo che riposa sull’argine con la sua solita espressione intelligente e vivace. All’arrivo alla terraferma per farci scendere dal motoscafo, in mancanza di zebù, entra in acqua direttamente un SUV.
Giornata stanziale a Fort Dauphin con le sue baie frequentate dai surfisti, le sue montagne e quell’aria di abbandono post-coloniale. La spiaggia Libanona è la più bella bianca e deserta, sfruttabile al mattino prima dell’alzarsi del vento e vicina a scheletri di bungalow abbandonati. A conti fatti, rinunciare alla visita della riserva di Andohela è stata una scelta saggia perché richiedeva in totale 5 ore di tragitto su pista insopportabile e poi se avevi problemi intestinali lì era un casino perché un sacco di posti nella foresta sono fady (ossia tabù) e dunque se fai la cacca nel posto sbagliato rischi che tutti gli antenati in massa, oppure qualche animale leggendario tipo il gatto con 7 fegati, ti infilino qualcosa di orrendo proprio in quel posto. Ignoriamo anche la riserva privata di Barenty e dire che praticamente era la meta vera e propria di Aldo Busi in quel viaggio che ha fatto in Madagascar per poi raccontarlo in un suo libro.
A Tanà, in Avenue dell’Indépendance, per un momento sembra tutto ormai alle spalle: i villaggi la paglia l’argilla i palloni di stracci i pantaloncini a brandelli i baobab le piroghe le conchiglie le palme da cocco. Sfilano venditori di scope colorate e uomini che vendono grandi antenne televisive, c’è chi indossa colbacchi nonostante il caldo, decine di venditori di timbri personalizzati attirano l’attenzione ai lati della scalinata che porta alla parte alta. Fuori dal supermercato un poliziotto cerca di toglierci dai piedi gli invadenti venditori di fragole e arance senza alcun successo, dentro invece è tutto pulitissimo, ordinato e deserto, il reparto macelleria è infinito e impeccabile ma il macellaio è solo col suo cappellino e guarda immobile un punto lontanissimo davanti a sè. Trovare un prodotto fabbricato in loco è quasi impossibile, tranne naturalmente gli yoghurt e l’acqua Tiko, l’azienda del Presidente, che ha appunto come slogan “Prodotto malgascio” (Vita malagasy) mentre per esempio la crema Nivea, la pasta Barilla e l’Autan costano molto più che in Italia. Passiamo sulle sponde del lago di Anosy e cerchiamo di tornare in hotel accompagnati da due militari molto gentili: sulla strada centinaia e centinaia di metri di bancarelle di ogni genere, tra cui spiccano i venditori di galli, galline, anatre e gatti, piccoli e legati al guinzaglio. Non so questi ultimi a quale uso siano atti: di certo c’è che in questo modo giganteschi toponi sono liberi di rincorrersi tra i banchi del mercato alimentare. Nella capitale la miseria non è l’unica realtà, ma proprio perché mescolata a situazioni opposte turba maggiormente: centinaia di migliaia di persone non hanno un posto per dormire e vivono sul marciapiede, o sotto il tunnel tra i gas di scarico, o in bidonville di lamiera e di notte senza nemmeno un lampione la vita continua a brulicare senza un posto dove ripararsi. È necessaria una doccia e un po’ di riflessione guardando i video di cantanti rap francesi alla tele. La ciliegina sulla torta è una cena in un ristorante di lusso che propone la cucina reale malgascia, dove paghiamo l’oscenità di quasi 20 euro a persona per essere serviti da un parterre di camerieri tra i più rincoglioniti della terra.
Questa giornata di transizione, grandi contrasti e anche un po’ di schifo mi stimola riflessioni e sogni particolari. Alle 4, puntualmente, un gallo canta, con la solita variante malgascia del classico chicchirichì: più strascinata e da basso. Uno di quei galli muniti di zampe magrissime e sproporzionate in lunghezza rispetto al resto del corpo che non mancano in nessuna località del Paese. Quando mi sono riaddormentata ho sognato che ero in classe che leggevo un libro ai miei studenti quando a un certo punto mi imbattevo nell’incomprensibile parola MSIMMNIRINA (parola inesistente ma dal suono molto malagasy), mi alzavo in piedi, la vista mi si annebbiava e raggiungevo barcollando l’armadio dove c’è il dizionario, ma sfogliandolo mi accorgevo che tutta la sezione delle parole che iniziano per M mancava.
L’ultimo volo interno ci sbarca a Nosy Be, l’isola grande situata a nord ovest, dove ci accolgono decine di tassisti sudati e isterici scagnozzi degli albergatori. Siccome nell’isola c’è un Bravo Club italiano allora uno sarebbe portato a credere che dopo il viaggio tosto e avventuroso compiuto finora adesso vergognosamente ci si imborghesisca e magari si cominci a partecipare a balli di gruppo e giochi aperitivo in spiaggia. Ma le cose non stanno propriamente così, in quanto il villaggio turistico si trova in una penisola minuscola situata all’estremità nord-occidentale dell’isola ed è praticamente blindato. Inoltre nell’isola c’è una sola via asfaltata e la corrente elettrica è quasi del tutto assente. Infine il tenore di vita degli abitanti è misero proprio come nella Grande Isola, con l’aggravante che a Nosy Be l’agricoltura è pochissimo praticata, anzi da alcuni viene considerata un’attività da terroni. Non solo, l’equivoco che qui ci siano possibilità di lavoro inganna anche i poveri immigrati da Tuleàr, che vengono qui (alcuni con zebù al seguito) e non sanno che lo zuccherificio è fallito due anni fa e che i turisti ci sono praticamente solo nel mese di agosto e alla maggior parte di loro interessa soltanto scopare a costi irrisori con le malgasce.
Una delle possibilità opzionabili giunti qui è cercarti una barca che non cada a pezzi e organizzare una gita di 4 o 5 giorni nelle meravigliose isole sparse nell’incontaminato mare cristallino che circonda Nosy Be, dormendo nella barca stessa o accampandoti in tenda. Per fare ciò devi andare al porto, chiacchierare con i vari capitani e filibustieri locali, annusare i movimenti di merci, dare un’occhiata alle imbarcazioni, scoraggiarti qualche quarto d’ora e infine trovare quella che fa per te.
L’alternativa è prendere una stanza in un hotel di un località balneare situata sulla costa occidentale (più si va verso nord più salgono i prezzi) ed esplorare in giornata le meraviglie nascoste nel mare circostante. Nel frattempo si può (strade permettendo) visitare l’interno dell’isola che è occupato dalla foresta tropicale, da coltivazioni di ylang ylang (gestite tutte dagli indiani) e canna da zucchero e da piante spontanee di pepe, vetiver, cannella, caffè. A sud-est inoltre vi è la riserva di Lokobe, che presenta un piccolo riassunto della flora e della fauna malgascia, e al centro il monte Passot, alto appena 315 metri ma chiamato dai locali “la grande montagna”, circondato da laghetti vulcanici.
Appena giunti, una lieve indisposizione mi tiene a letto tutta la sera. Poco male, leggo tutto d’un fiato La camicia di Hanta di Aldo Busi, che ha compiuto lo stesso mio giro del Madagascar e lo racconta con il suo solito meraviglioso cinismo e con generose manciate di sana volgarità che lo tengono ai ripari dalle melensaggini da cartolina o, peggio ancora, da crocerossino. Siamo ad Ambatoloaka, un piccolo villaggio finto ma pittoresco affollato di hotel ristoranti e negozietti il più delle volte squallidi (si affretta a dire l’eticissima guida Routard), che sorge a fianco del villaggio vero e proprio che si chiama Dar-Es-Salam. I gestori sono per la maggior parte francesi e italiani che qui hanno trovato il loro paradiso, anche se probabilmente si aspettavano un maggior afflusso turistico. Il grosso di queste attività sorge a ridosso della spiaggia che è più o meno bella col variare delle maree: in alcuni momenti è una lunga porzione di sabbia bianca con mare pulitissimo punteggiato da catamarani e motoscafi, in altri momenti la spiaggia è completamente coperta dalle onde dell’alta marea, alle volte invece l’acqua è distante e poco profonda e sabbia e mare sono pieni di alghe. Proseguendo verso nord la spiaggia assume il nome di Madirokely e gli hotel e i ristoranti diventano più tranquilli e meno ambigui. Andando verso nord-ovest e costeggiando il mare la spiaggia successiva è quella di Ambondrona, poi c’e Dzamandzar, dove c’era lo zuccherificio e la distilleria di rhum, e infine c’è la baia di Andilana e qui la strada finisce. I tassisti pascolano sfaccendati: una corsa e si pagano la giornata. Uno di loro ci accompagna ad Andilana e mi dice che è single e che è molto difficile trovare una donna perché gliele fregano gli europei, e lui è anche andato a scuola e parla un po’ l’italiano per lavorare coi turisti, ma niente. La spiaggia di Andilana è un’ampia conca piatta molto bella e se la percorri tutta arrivi nel pezzo che si è accaparrato il Bravo club; lì non si può entrare però la musica del dj italiano arriva fino da questa parte e anche i clienti di questo club ci arrivano, col portafogli in mano perché ci sono le bancarelle. Mi riferiscono che questo è l’unico posto dove c’è acqua corrente buona da bere e infatti tutti chiedono a chi lavora lì di portargliene alcune bottiglie. A seguire ci facciamo portare a Hell Ville, il capoluogo di Nosy Be. Da qui volendo si potrebbe andare a fare una passeggiata sul lungomare, o raggiungere la vicina distilleria di ylang ylang o recarsi ad un villaggio abbandonato detto “città indiana”, ma abbiamo perso tutto il tempo in banca e ci resta giusto una mezz’ora per visitare il mercato.
Sia di giorno sia di sera, ad Ambatoloaka si può assistere ai continui e proficui scambi culturali di cui sono protagonisti i forti bevitori vazaha e le signorine malgasce. Sulla spiaggia avvengono i primi contatti (non serve conoscere la lingua, i gesti sono abbastanza eloquenti), mentre nei bar e nei ristoranti (che siano gestiti dalla matrona endemica o da napoletani dai lunghi capelli unti) la maggior parte della clientela è costituita da coppie miste: solitamente lui ha i capelli bianchi e la camicia fantasia semi-sbottonata e beve in continuazione, lei è visibilmente annoiata e a volte proprio depressa, salvo i casi in cui è perennemente sbronza. In tarda serata, nel locale con il biliardo e il dj, giovanissime tettone leopardate giocano a stecca, mentre al karaoke c’è un solo cliente alcolista che canta canzoni di Eros Ramazzotti e Laura Pausini. Se ti sposti fino a Dar-es-salam invece tutto avviene al buio: i banchetti di legno vendono cibi già cucinati e uova sode, al bar c’è un televisore che trasmette video malgasci specializzati in primi piani di inguini maschili e culoni femminili che si muovono a ritmo forsennato. Me la rido insieme ad un avventore baffuto del posto che evidentemente trova esilarante la trasmissione, oppure trova esilarante me che me la rido.
Manina tutti la conoscono: ah, l’italienne, andate su per di qui. La troviamo nella sua casa di legno vista mare che durante la stagione delle piogge diventa praticamente isolata nel fango. Tutto iniziò con un viaggio alla ricerca di spiagge incontaminate e buone letture: adesso sono 8 anni che vive qui. Professoressa di filosofia in pensione, cominciò pagando la retta scolastica ad alcuni bambini, che sono solo 4 euro al mese ma per un malgascio sono una grossa cifra. Man mano i bambini di Manina sono aumentati a dismisura finché ha cominciato lei stessa a mettere su scuole gratuite tramite la sua associazione e adesso sono migliaia i bambini che vanno a scuola. Col tempo queste donna simpaticissima ed energica è diventata un punto di riferimento anche dal punto di vista sanitario visto che nel Paese si muore per infezioni, per malaria, per bilarziosi, per sifilide, per i vermi, e a volte basterebbe un semplice disinfettante per salvare una vita. Invece gli ambulatori sono difficili da raggiungere e inoltre bisogna pagare la visita, la ricetta e anche le medicine. Ci spiega Manina che a Nosy Be coltivano solo un po’ di manioca, galli e galline razzolano liberi e solo pochi producono le uova, il riso viene dal Pakistan e tutti i prodotti alimentari arrivano dalla Grande Isola. È nei suoi sogni dunque costruire una scuola di agraria e insegnare a coltivare ai ragazzi, proposito laborioso in quanto prima bisogna cambiare la mentalità della gente. Al momento del commiato gli occhi le si illuminano mentre ci chiede cosa ne pensiamo dell’idea di fare il formaggio a Nosy Be.
Tra le isole raggiungibili in giornata c’è Nosy Komba, dove le donne ricamano tovaglie e tende e gli artigiani creano statue e maschere di legno ed è tutto uno sventolare di bianchi tessuti traforati e plotoni di omini e donnine flessuosi intagliati e tavoli pieni di collane realizzate con grossi semi marroni. In questa stagione la scuola è chiusa e dunque l’edificio è adibito a chiesa, dove adesso c’è una funzione. Tento di scambiare la mia maglietta con quella del Presidente che indossano le ricamatrici, ma loro dopo aver valutato a lungo la qualità del tessuto e delle cuciture rifiutano l’affare, e vabbè che l’avevo pagata 3 euro e 99 ma io al posto loro non me la tirerei così tanto. A poca distanza merita di essere raggiunta Nosy Tanikely per il parco nazionale marino: con maschera e boccaglio puoi passare ore a guardare i pesci coloratissimi, le formazioni di corallo, le tartarughe che nuotano incuranti, i ricci di mare dagli aculei di una lunghezza portentosa, gli anemoni, le stelle marine. Qui ci avventiamo su un pranzo sublime a base di pesce tenendo bene d’occhio i lemuri macaco che potrebbero lasciarci qualche ricordino e infatti lo fanno, cagando sulla testa di un ragazzo francese. Questa specie di lemuri si trova soltanto in queste due isolette e si chiamano così perché hanno il volto incorniciato da peli tipo Cavour. Rispetto agli altri turisti noi di lemuri ne abbiamo già visti di tutti i tipi e ne abbiamo anche un po’ le tasche piene a dire il vero e dunque non ci sdilinquiamo in gridolini e non andiamo là a dargli la banana da mangiare.
Kapuscinski faceva notare che l’Africa è tutta contornata da isole, alcune riunite in arcipelaghi, altre circondate da meravigliosi bracci corallini e fondali sabbiosi che svelano la loro bellezza soltanto durante le basse maree. Ciò gli suggeriva l’idea che il continente compatto che possiamo vedere sia solo una parte dell’Africa vera e propria, mentre il resto, tutto intorno, è rimasto sul fondo lasciando sporgere soltanto le isole, che di questo enorme mondo sommerso costituiscono le cime più alte. È ciò che ti viene da pensare quando sei a Nosy Iranja, se non fossero bastate tutte le spiagge e le coste e le isole frequentate nelle ultime settimane. L’isola delle tartarughe appare all’orizzonte come una sottile striscia di sabbia bianca a metà di due azzurri: quello compatto del cielo in alto e quello tremolante e luminoso del mare in basso (in questi casi c’è sempre qualcuno che si sente in dovere di dire che sembrano le Maldive). Un cordone di sabbia fuoriesce dalle acque soltanto nei momenti di bassa marea e se lo percorri (perché non dovresti farlo?) arrivi su un altro isolotto, talmente esclusivo che vi ha sede un hotel da 500 euro a notte e niente altro. Anche qui l’organizzazione della gita prevede un pasto delizioso costituito da crabes, crevettes, poissons, legumes e fruits, su cui ci avventiamo senza ritegno alcuno. Dopo il pranzo puoi salire fino al faro e godere di una vista a 360 gradi su tutta la terra emersa e il mare a perdita d’occhio, oppure puoi stenderti beato esattamente sotto una palma a contemplare le noci di cocco e a pensare che questo 20 luglio te lo custodirai preziosamente come un momento di perfezione assoluta, probabilmente per tutta la vita.