Un luogo di potere

Namtso: un luogo di potere. La mia meta era Nam Tso, il “lago del cielo”, situato a 4700 m sul livello del mare, uno dei “luoghi di potere” tibetani, con i suoi Tashi do, le “rocce del buon auspicio”. Dopo aver visitato altri luoghi di potere nel Tibet meridionale e nel Tibet orientale, ero curioso di vedere com’era. Con “luogo di...
Scritto da: Franco Pizzi 1
un luogo di potere
Viaggiatori: da solo
Spesa: 1000 €
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Namtso: un luogo di potere.

La mia meta era Nam Tso, il “lago del cielo”, situato a 4700 m sul livello del mare, uno dei “luoghi di potere” tibetani, con i suoi Tashi do, le “rocce del buon auspicio”. Dopo aver visitato altri luoghi di potere nel Tibet meridionale e nel Tibet orientale, ero curioso di vedere com’era.

Con “luogo di potere” s’intende un posto dove nel passato hanno meditato illustri e potenti yogin. Per esempio, a Nyalam, quasi sul confine nepalese, aveva meditato il grande Milarepa, e nelle grotte nella parete rocciosa (i tashi do) sulle rive del lago Nam Tso, si dice avessero soggiornato Guru Rimpoce, Reciungpa (discepolo di Milarepa) e altri yogin tibetani. Il lago dista poche centinaia di km da Lhasa, sulla strada che conduce a nord verso Dunhang (famoso crocevia delle antiche vie della seta, luogo di ritrovamento di innumerevoli testi sul buddhismo elegantemente saccheggiati da esploratori occidentali), e poi prosegue per la Mongolia o per Pechino. La pista che conduce al lago è stretta e sconnessa, e si inerpica verso il colle a 5300 m, di solito spazzato da un vento che soffia talmente forte da sembrare uno degli innumerevoli protettori del buddhismo himalayano messo a guardia per impedire l’ingresso alla valle a chi non sia degno di scendere lungo l’altro versante, verso l’immensa steppa disseminata di tende nere dei nomadi fatte con pelo di yak, e verso una meravigliosa distesa d’acqua turchese. Infatti il lago è laggiù, lo si vede! Credevo che ci volesse poco a arrivare, ma a quell’altezza le distanze ingannano: ci misi più di due ore, con il Toyota che cercava la pista nella steppa. Così arrivai al tramonto, e cercai una sistemazione nella guest-house primitiva vicina alle rive del lago e a ridosso dei Tashi do. Questo posto, immerso com’è nel silenzio più assoluto e in uno spazio in cui ci si perde quando si entra in rapporto con esso, non richiede la fervida immaginazione tibetana per essere visto come un luogo magico, un luogo di potere, un luogo adatto alla meditazione, dove non si è disturbati da nessun elemento esterno. Mangiai con i proprietari della locanda e mi trattenni con loro a parlare; così venni a conoscenza di alcune grotte trasformate in reliquari a causa di un numero enorme di tsa-tsa, immaginette votive fatte di fango mescolato a resti umani, e di una monaca eremita che viveva in una grotta giusto dietro la locanda. Mi infilai nel sacco a pelo con il pensiero di andare a trovare la monaca-eremita il mattino dopo.

La colazione fu rapida: avevo fretta! Mi avviai per il sentierino e arrivai velocemente alla grotta. Due muri uniti da una porta di latta la chiudevano allo sguardo indiscreto di eventuali curiosi. Sentii delle voci. Chiamai in tibetano: che grande aiuto era conoscere la lingua del posto! Venne a aprirmi una giovane monaca. “Sarà questa l’eremita?” mi chiesi. Entrai. Davanti a me si apriva una grotta abbastanza spaziosa; sulla sinistra ce n’erano altre due più piccole, di cui una adibita a cucina, e l’altra a dispensa; ai muri erano poggiati sacchi pieni di sterco di yak, combustibile prezioso in Tibet. Dal vano più grande uscì un’altra monaca, più anziana della prima, dal volto gentile, che mi invitò nella grotta spaziosa. Era il suo lha khang (tempietto)! In fondo vi era un altare con varie statue, offerte e foto di Lama anche di mia conoscenza; appena vicino alla porta, il suo cuscino di meditazione, dove dormiva, pregava e meditava. L’austerità dell’ambiente mi fece sorridere al pensiero delle ricercatezze di cui io ho bisogno per un periodo di ritiro. Osservai che non vi era né riscaldamento né luce elettrica. La monaca mi fece sedere e mi offrì del po cha, tè tibetano, che sebbene non mi piaccia bevvi fingendo di trovarlo di mio gusto.

Così cominciammo a parlare.

Viveva in quella grotta da tre anni, estate e inverno.

“Tre anni?” domandai. Credo che lei intuì che cosa stessi pensando, perché abbozzò un sorriso. Con la sua voce dolce e calma mi disse che la giovane monaca era la sua assistente, che le provviste le venivano procurate da un suo zio che viveva a Lhasa, e che il suo tempo era continuamente impegnato in esercizi spirituali. E si vedeva! Scoprimmo di avere connessioni con gli stessi Lama, come avevo capito dalle foto, e dopo avermi regalato una piccola pietra mani mi fece capire che era ora di andarmene. Così feci. La sera, ascoltando il suono cristallino della campanella e quello più cupo del damaru provenienti dalla grotta dove la monaca pregava, mi addormentai con il pensiero: “I cinesi non sono riusciti a cambiare proprio tutto in Tibet!”.

Il mattino dopo ripartii per Lhasa, felice che questo “luogo di potere” desse ancora i suoi frutti.

Franco Pizzi



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