Un giorno a Gaza
Un semplice ricordo in un luogo dove il turismo non c'è
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Ero con altre sette persone quando partii per Gaza una mattina del 13 febbraio 1993. Insieme a me c’erano Susan e Neil, australiani, Elizabeth, dalla Nuova Zelanda, Steve e Matthew britannici, ed io, il solito ed unico italiano in giro per il mondo con zaino e sacco a pelo. L’idea di andare a Gaza l’avevo data io. Lo dissi per scherzo, ma fui preso sul serio dai miei compagni di viaggio, e così quel sabato mattina di febbraio ci mettemmo in cammino. Dal Moshav dove ci trovavamo avremmo dovuto raggiungere Jericho. Il sabato in Israele non viaggiavano autobus e così ci dividemmo in due gruppetti per fare l’autostop e raggiungere la città più antica del mondo. Susan, Steve ed io i primi tre. L’attesa è stata breve ed in poco tempo arrivammo a Jericho. Qui cercai subito un taxi con targa palestinese, chiaramente, e l’ebbi trovato. Arrivato il secondo gruppo eravamo pronti per partire. Voleva 40 shekels a persona il tassista, quasi 20 dollari, per andare e tornare. La spesa era ottima e senza contrattare entrammo in quel taxi con la targa blu, io mi misi davanti e dissi all’autista palestinese: “Gaza Strip!” Mi girai verso gli altri ragazzi e sorridendo dissi: “We are arriving at the famous Gaza! Stiamo arrivando alla famosa Gaza!” La striscia di Gaza, un’ora o poco più sarei arrivato in quella città dove nel 1987 cominciò l’Intifada, la rivolta delle pietre. Vedere le bidonville di Jabaliya e di Khan Yunis, dove è nata hamas e la Jhad Islamica. Dove centinaia di manifestanti caddero sotto i colpi di mitra israeliani. Ero esaltato, come pure i miei compagni, di arrivare in quella città che dà notizia in tutti i notiziari del mondo. Dopo un’ora eccoci arrivati all’entrata della striscia. Chiaramente c’era un posto di blocco controllato dall’esercito israeliano. Passiamo da uno di questi canali pensando di essere controllati dalla testa ai piedi invece il soldato ci fa passare senza nessun problema. Attraversiamo il posto di blocco ed arriviamo subito nella bidonville di Jabaliya. Le eleganti e asfaltate strade israeliane si trasformano, qui, in strade mal ridotte con delle grosse buche nel mezzo, le auto diventano carri trainate da asini. Continuiamo per Al Shati, attraversata lungo la strada si vedeva il panorama di tutta la città. “Fermati!” dissi al tassista. Lui si fermò, scendemmo dall’auto una foto dalla strada a questa città di case piatte senza nessun monumento che appariva. Ma che monumento può esserci a Gaza ? La torre Eiffel? La moschea di Omar di Gerusalemme? Un’opera house come a Sidney? Che cosa può vedere uno nella città di Gaza? Che cosa volevamo vedere noi sette? La città appariva distrutta ma pur non sapendo quello che stavamo cercando e quello che volevamo vedere eravamo esaltati nel vedere questa città distrutta che si trovava di fronte ai nostri occhi. Il tassista ci guardò, scosse la testa e ci disse: “What are you looking for here? Is not Paris, is not Rome, is not New York, is Gaza and a dump city! Che cosa state cercando qui? Non è Parigi, non è Roma, non è New York, è Gaza, un cumulo di rifiuti!” Aveva ragione, che allegria c’era nel vedere la gente disperata, povera e repressa, in questa città dimenticata dal resto del mondo, in questa città con il termine giusto che diede il tassista: “dump city”. Risalimmo sul taxi e continuammo il nostro cammino e arrivammo nel centro della città di Gaza. Mentre percorrevamo queste strade trovammo un allagamento con un camion che stava provando di attraversare questa immensa pozza, ma l’acqua era talmente profonda che arrivava fino al motore del mezzo, per noi non ci sarebbe stata nessuna possibilità di attraversare quell’allagamento . Cambiammo percorso, passando tra piccole vie con fossi e strade sterrate. Girammo a sinistra, poi a destra e dopo ancora a sinistra, continuammo con questa gimcana di strade arrivando nella via principale della città. “Problems!” ci disse il tassista. La strada era pieno di pietre, un movimento strano c’era attorno a noi. Gente stava correndo, tre bambini in mezzo alla strada stavano dando fuoco ad un sedile di un autobus. Presi subito la mia macchina fotografica ma: “Don’t take photo now, and wear the kefya please! Non fare foto adesso e indossa la kefya per favore!” Elizabeth mi dette la kefya e me la avvolsi attorno al collo per non dare all’occhio che dentro a questo taxi non c’erano palestinesi. Il mio cuore batteva dall’esaltazione per quello che stavo vedendo, per quello fino a quel giorno avevo visto solo nei telegiornali. Il tassista andava piano, cerano talmente tante pietre che se accelerava saremmo arrivati nel centro di Gaza senza ruote. Sembrava infinita questa strada, guardavo a destra e a sinistra. Ogni tanto vedevamo dei vicoli barricati da dei bidoni di latta e di ferro. Non c’era nessuna sparatoria, ma dal movimento e dalle pietre che c’erano era ovvio che il nostro arrivo nella città era avvenuto pochi minuti dopo la fine di un combattimento con gli israeliani. Lasciammo la strada principale con le pietre e arrivammo nella piazza principale di Gaza. Il tassista si fermò. “Siamo arrivati in Gaza città!” Scendemmo dal taxi armati di macchine fotografiche. “See you at 3.30. Take care. If i will don’t see you, i will come to looking for you. Ci vediamo alle 15.30. Fate attenzione. Se non vi vedo vi verrò a cercare.” Ci disse il tassista sorridendo. Iniziammo a camminare, un po’ impauriti, un po’ spersi, senza sapere quale direzione prendere. “Siamo nella Beirut israeliana, anzi qui è peggio di Beirut.” La gente ci guardava sconvolta. “Are you journalists? Fotographers? Do you work for some tv? Where are you from? Why you are here? Siete giornalisti? Fotografi? Lavorate per qualche televisione? Di dove siete? Perché siete qui?” Queste erano le domande della gente che ci vedeva camminare per le strade di gaza, guardandoci straniti quando la nostra risposta era semplicemente: “We are tourists! Siamo turisti!” “Turisti in Gaza?” Ma come si poteva essere turisti in quell’inferno? In quella disperata e miserabile terra. Camminavamo senza una meta, ed era esaltante. I bambini erano ovunque. Ci prendevano per mano portandoci in giro per quell’inferno di baracche e sordidi tuguri arroventati del sole, soffocati dalla polvere, da montagne di immondizia, dal tanfo delle fognature esplose. Otto, dieci persone in una stanza con il tetto di lamiere. Bambini scalzi, vestiti di stracci e armati di pistole giocattolo: “Foto! Foto! Fammi una foto!” Ci dicevano contenti. Sui muri scrostati delle case e delle moschee, centinaia di graffiti parlavano d’odio, condanne a morte, appelli alla rivolta, kalashnikov dipinti con vernice rossa, ela firma di Hamas: “L’ISLAM E’ LA RISPOSTA” Si vedevano fortezze circondate da torrette d’avvistamento e filo spinato. Erano le caserme, i centri di detenzione, gli uffici dell’amministrazione militare israeliana, il bunker della prigione centrale, la sede del Shin Bet, i servizi segreti israeliani: i simboli e i segni visibili della presenza del governo di Gerusalemme. La jeep della polizia faceva la ronda, anche loro erano sconvolti nel vederci in mezzo a quelle strade circondati dalla gente di Gaza. Ottocentocinquantamila persone vivevano e vivono in quella grande prigione che il mondo intero non sa cosa farne. La gente era triste, ma esaltata e sorridente nel vedere un ragazzo biondo con una macchina fotografica per dargli un semplice saluto: “Salam Aleku!” e ad una risposta sempre da un ragazzo biondo e sempre nella loro lingua: “Alekum Salam!” Erano felici quando ci dicevano: “Welcome to Gaza! Benvenuti a Gaza!” Benvenuti dove? Benvenuti nell’inferno, quella non era una città, non era un paese, che cosa era per me? Sembrava una prigione, La più grande prigione del mondo dove i detenuti sono bambini, uomini, donne, anziani… abbandonati. La loro una colpa era quella di essere nati palestinesi. Gaza non era come Jericho o Betlemme, era qualcosa di veramente triste, di squallido. Era la città e la gente più povera che abbia mai visto in vita mia. “Ma è possibile che non si poteva e non si può fare nulla per questa gente e per questa città?” Potrebbe diventare una piccolissimo stato sul mare elegante e ricco se solo lo volessero tutti, destra, sinistra, israeliani e palestinesi, occidentali e arabi, perché è così difficile, sembrava e sembra che nessuno abbia interesse di creare questo nuovo paese del Mediterraneo che possa vivere in pace come tanti altri. Arrivammo al taxi alle 15.30 come avevamo detto all’inizio. Tanti bambini c’erano attorno a noi. Erano tutti quei ragazzini che dal primo momento che ci videro fin dal nostro arrivo e iniziarono a seguirci per le strade di Gaza senza mai staccarsi da noi. Quando arrivammo avevamo un po’ paura, non sapevamo dove andare, che cosa vedere, che cosa cercare, e senza volerlo questa gente non ci ha fatto paura e quello che volevamo vedere l’abbiamo visto, loro, il popolo di Gaza. Salimmo sul taxi, mi affacciai dal finestrino e vidi i bambini correre dietro l’auto che correvano muovendo la loro mano destra per un ultimo saluto: “Hello! Hello! Salam aleku!” I loro visi erano felici, chissà, forse contenti che qualcuno è andato a vedere e conoscere per quel poco che si può la loro Gaza. Il taxi percorse la stessa strada del nostro arrivo. Le pietre lungo la strada principale non ce n’erano quasi più, l’allagamento era ancora lì, con un’altro camion che cercava di sorpassare l’immensa pozza d’acqua. Arrivammo al confine. Le auto davanti alla nostra si fermarono, i passeggeri scesero per mostrare la loro carta d’identità e il permesso di entrare in Israele. Noi non subimmo questo trattamento, non uscimmo dal taxi, Solo il nostro tassista dovette mostrare i suoi documenti e poi ripartire e lasciare definitivamente la famosa striscia di Gaza. “Ciao Gaza. Ciao bambini. Ciao a voi che state soffrendo vittime degli sbagli del mondo. E noi cosa possiamo fare per loro? Pregare forse, l’unica cosa per noi impotenti è quello di pregare che anche loro possano avere uno stato e una vita dignitosa come molti paesi nel mondo.” Il taxi ripercorreva le strade dell’andata, nelle belle verdi terre d’Israele, con belle case degli israeliani. Non c’erano più le baracche e le strade non erano più allagate e puzzolenti. Ma io non riuscivo e ancora oggi non riesco a incolpare Israele per le condizioni di vita dei palestinesi di Gaza. Capivo tutti e due, il comportamento degli israeliani e la ribellione dei palestinesi contro di loro. Una terra di profughi. Perché questa è Israele. In quel momento ero diviso in due, in due popoli che stavano soffrendo da anni e che purtroppo io da semplice ragazzo ventenne in cerca di emozioni, non riuscivo a vedere un bel futuro per i due popoli. Forse un giorno. Forse un giorno Gaza sarebbe stata indipendente, e Israele non avrebbe dovuto più difendersi dai combattimenti della RIVOLTA ARABA. Ma oggi, nel 2010 è riamasto come allora, anzi, la situazione è decisamente peggiorata.