Un coast to coast “do it yourself” in moto

Un viaggio lungo un sogno: diario di un coast to coast “do it yourself” Prendete una sera di novembre, quando Milano ti avvolge nel suo mantello di nebbia, smog e pioggia sottile, quattro amici al caldo del soggiorno di casa: cosa c’è di meglio, per non pensare al tempaccio fuori e alle noie del lavoro che fantasticare sulle prossime...
Scritto da: Chiara Melloni
un coast to coast do it yourself in moto
Partenza il: 04/08/2000
Ritorno il: 05/09/2000
Viaggiatori: fino a 6
Spesa: 3500 €
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Un viaggio lungo un sogno: diario di un coast to coast “do it yourself” Prendete una sera di novembre, quando Milano ti avvolge nel suo mantello di nebbia, smog e pioggia sottile, quattro amici al caldo del soggiorno di casa: cosa c’è di meglio, per non pensare al tempaccio fuori e alle noie del lavoro che fantasticare sulle prossime vacanze? Giorgio, la moto fresca di qualche mese, domanda a Paolo quale sia un bel viaggio da fare in moto: “Capo Nord, è un classico”. Ma Giorgio non si accontenta, vuole qualcosa di più, uno di quei viaggi che non si dimenticano, di cui parlare per tanto tempo: “Un bel coast to coast” risponde Paolo: è stato l’inizio di un sogno. Quattro amici (Paolo, Giorgio, Alberto e Chiara, che sono io) e lo loro moto (due H-D Shovel, uno Sportster H-D 1200 e una Moto Guzzi V50) da New York a Los Angeles… Un sfida sicuramente: grazie a Giorgio, impeccabile agente di viaggio, siamo riusciti a portare le moto via nave da Milano a New York, sobbarcandoci noi l’impresa (comunque nè onerosa nè stancante) di recuperare la casse per l’imballaggio e di preparare le moto per la partenza. Le strutture in ferro le abbiamo avute gratis tramite un amico importatore, e con poche assi e tanti metri di film in plastica abbiamo creato delle casse perfette, le moto sono arrivate a NY senza un graffio! Ed ecco il diario/racconto di un mese memorabile.

L’impressione di stare vivendo un sogno che non si sarebbe mai realizzato è durata fino a quando non sono scesa dall’aereo a New York City. Fuori dall’aeroporto di Newark l’aria calda di agosto e densa di idrocarburi mi aggredisce ma non mi toglie il sorriso stampato sulle labbra dato dall’eccitazione di trovarmi nella città più bella del mondo. Dall’albergo a West End, dignitoso e un po’ decadente, ci muoviamo a piedi in giro per la città: le moto sono state imbarcate su una nave a Genova e non sono ancora arrivate. Camminare per New York è un’esperienza di vita: le sensazioni e le emozioni mi rimbalzano nel cervello come palline da pig pong scagliate da un giocatore cinese cocainomane, e la testa perennemmente all’insù cerca di non perdersi nemmeno una delle prospettive dei grattacieli e dei riflessi che il cristallo crea in un interminabile gioco di rimbalzi. Siamo nella città dove tutto è normale, dove puoi farti servire un pasto completo alle tre del pomeriggio o del mattino, mangiando magari un falafel con contorno di patatine fritte: la mescolanza di stili e culture che ha inizio con le architetture che solo all’apparenza sembrano disposte da uno stilista lobotomizzato si riversa nella vita di ogni giorno, creando qualcosa di unico e inimitabile. Undici agosto, ore 18.00: una pioggia fastidiosa non ci toglie la voglia di partire: dopo essere stati a ritirare le moto imballiamo i bagagli negli immensi sacchi della spazzatura – la mole di rifiuti è proporzionale a quella della città e di molti dei suoi abitanti – che il ragazzo dell’albergo gentilmente ci fornisce, e ci dirigiamo verso nord. Attraversiamo una parte di Manhattan con il cuore in gola (la mia Moto Guzzi 500C a New York!!) e imbocchiamo il Washington Bridge. Alla nostra sinistra lo skyline di Manhattan con i suoi grattacieli ormai illuminati: riconosci solo ora le dimensioni di questa città, dove tutto è grande, le corsie delle strade, le auto, le porzioni di cibo a colazione. Appena fuori dell’ingorgo della rush hour metropolitana ci ritroviamo a percorrere strade che tagliano in due imponenti boschi secolari per raggiungere Suffern, estremo nord dello Stato di New York. La stanchezza ha il sopravvento: le emozioni della giornata sono state tante, e la mente è ancora incredula.

La prima settimana: il Canada, la scoperta e l’addio Ci dirigiamo a nord per fare una capatina in Canada: da bravi turisti non possiamo perderci le cascate del Niagara, che notoriamente si vedono meglio oltre il confine. Le moto si comportano bene, da bravi scolari che hanno studiato diligentemente e si godono le vacanze senza pensare agli esami di riparazione. Piove di una pioggia quasi autunnale, invadente: l’umidità ti entra nelle ossa come l’odore di fritto di un take away cinese (Tony del Weather Channel, il canale tella tv americana preferito da Paolo, ci aveva avvisati…) ma le emozioni che proviamo sono ugualmente forti. Percorriamo la Highway 17 attraversando boschi e vallate, incrociando procioni e cervi, alcuni dei quali morti sulle strade: attenzione ai cervi che vi attraversano la strada, soprattutto di notte: qui i segnali stradali si sprecano. Inforchiamo la Route 63 in direzione Buffalo, fermandoci a Batavia, tripudio di motel e diners sulla strada per le Niagara Falls. A tarda notte siamo a letto, in un abbastanza inquietante motel “Psicho style”, circondato dai boschi, il rubinetto che gocciola…

I lavori si fanno sempre all’ultimo momento, come i compiti delle vacanze: Alberto si deve fermare perché nella frenesia della partenza non ha avuto il tempo di regolare la cinghia della primaria del suo Sturgis anno 1982: lungo la strada per Niagara incrociamo Mark col suo Ironhead perfettamente conservato, che ci ospita nel suo garage dove Alberto può fare manutenzione. Mark e Chris, un suo amico anche lui possessore di un Ironhead, mettono a diposizione di Alberto la loro gentilezza e i loro attrezzi, mentre noi ci godiamo uno spaccato di una domenica tipicamente americana: la mamma che rasa il prato, le nipotine che giocano sugli schettini. Nel frattempo è uscito il sole e il caldo si fa sentire: allora la mamma di Mark, come nel più classico film americano, ci disseta con un enorme bicchiere di tè freddo, colmo all’inverosimile di ghiaccio. Il primo impatto con i motociclisti americani è stato positivo: abbiamo potuto constatare che se hai un problema sono subito tutti pronti ad aiutarti. Terminata la messa a punto proseguiamo e arriviamo alle Niagara Falls nel tardo pomeriggio, proseguendo poi in Canada attraversando una parte di Ontario disseminata di vigneti che producono a quanto pare un ottimo vino.

Il giorno dopo ci dirigiamo verso il confine, per rientrare nuovamente negli USA a Detroit. Durante il tragitto la mia moto, che fino ad allora non aveva dato segni di cedimento, comincia ad emettere uno di quei rumori che fanno presagire il peggio e sprofondare in un abisso di “se” e “ma”… Fermi sul ciglio della strada Paolo e Alberto non possono fare altro che confermare le mie paure: sembra proprio qualcosa di serio. Usciamo dalla highway immettendoci in una strada secondaria che costeggia l’aperta campagna: dopo esserci assicurati che non fosse un banale problema alle valvole giungiamo a Hamilton, Ontario, il paese dell’epilogo. Definirlo paese è parola grossa, infatti il nucleo abitato si compone di quattro case attorno a una pompa di benzina, una carrozzeria e un bar. La moto viene quasi completamente smontata, per giungere alla conferma dei nostri dubbi: ho sbiellato. E’ difficile descrivere la sensazione che ho provato nel constatare che nella nostra condizione (in Canada e in uno dei suoi centri più piccoli) non avremmo potuto fare niente se non nel giro di una settimana. La decisione alla fine è presa giocoforza: devo abbandonare qui la moto. All’inizio le gambe mi cedono, e incurante della gente che si dà da fare per aiutarci, scoppio in un pianto disperato, di proporzioni pari solo alla pioggia caduta il giorno prima: da qui in poi non sarà più come prima, come me lo ero sognato: ma anche questo fa parte del viaggio, e con una buona dose di coraggio e incoscienza decido di proseguire sul sellino (!) posteriore del mio fidanzato Paolo. Le mie borse laterali vengono caricate sullo Sportster di Giorgio, che da quel momento in poi assumerà una strana forma, venendo soprannominato il “totem”: borse laterali, borsone legato attorno al sissy, e ciliegina sulla torta, borsa fotografica in cima: un sottile gioco di equilibri e incastri degno di un numero circense. Non possiamo però abbandonare la moto così: a questo punto la provvidenza ci dà una mano mettendoci sulla stessa strada di Rodney, che è venuto a trovare il suo amico carrozziere. Rodney è un motociclista, possiede già due Harley, e dopo un attimo di perplessità si convince a prendere la mia moto: gliela regalo, mi tengo solo il libretto e la targa per poter fare in Italia la denuncia di demolizione per vendita all’estero. Sono sicura che Rodney ne avrà cura: l’ho sentito poi al telefono e mi ha detto che ci stava già lavorando: ora ho qualcosa di me in uno sperduto paese del Canada, e in fondo non è una sensazione spiacevole, ma piuttosto romantica. Non ce ne siamo andati via a mani vuote: Rodney ci ha salutati dandoci in cambio qualcosa che alla sera mi avrebbe sicuramente tirato su il morale.

Cioccolata a ferragosto Negli USA succede anche questo: il freddo che ti investe appena entri in un locale, provocato da faraonici impianti di condizionamento ti spinge a nutrirti di cose corroboranti, come la cioccolata calda. Ci è capitato anche questo, ma appena esci una cappa di calore ti toglie il respiro e maledici la cioccolata sognando coca ghiacciata. Questa è una delle tante cose che ti stupiscono degli USA, insieme per esempio alla insofferenza degli americani per il fumo, quando poi a colazione, pranzo e cena ti rimpinzano di schifezze tali che il tuo fegato desidererebbe essere pure lui, come te, in vacanza.

A ferragosto siamo a Windsor, da cui attraversiamo il confine per raggiungere Detroit: alla dogana statunitense il poliziotto incredulo di fronte a tre moto con targa italiana, ci prende subito in simpatia e comincia a farci domande sui campioni di motociclismo italiani e sulle moto italiane, Ducati e Guzzi, che lui adora: mi spunta una lacrima, che ricaccio indietro a fatica. Da Detroit ci immettiamo nella Route 12 west che attraversa dolcemente il Michigan con i suoi verdi declivi, le casette bianche, circondate da prati tenuti con una cura maniacale. Arriviamo a Sturgis, Michigan, nel tardo pomeriggio: ci meritiamo una birra e un pò di relax. Il locale dove ci fermiamo è tipico: pavimento di legno, luci basse, sfilza di biliardi.Come falene attirate dalla luce cominciano a pioverci addosso quasi tutti gli avventori del locale, per chiederci da dove veniamo, dove andiamo, chi siamo. Tra questi c’è Robert, veterano del Vietnam e motociclista pure lui, che ci invita a passare la notte a casa sua. La casa di Robert è la classica casa americana prefabbricata, di quelle che metti su ruote quando ti stufi di stare in un posto, immersa in un bellissimo bosco vicino al lago. Di fianco alla casa c’è un edificio che una volta doveva essere un fienile dove Robert tiene, insieme al frigo sempre pieno di birre gelate e alla radio perennemente accesa e sintonizzata su una rock-station, pezzi di moto, riviste vecchie, e perfino uno splendido motorhome degli anni 50! Robert è dotato di quella strana ironia e ancor più sana follia che penso ti colga quando hai vissuto esperienze di guerra come la sua: finiamo la serata scherzando e giocando a carambola con Robert, suo figlio e sua moglie e alla fine della serata stramazziamo a letto sprofondando nel più bello dei sonni dei giusti. Il mattino dopo siamo di nuovo pronti a ripartire: dopo i saluti di rito, gli abbracci alla famiglia di Robert ci dirigiamo verso Chicago, dove arriviamo nel pomeriggio e che attraversiamo velocemente perchè la meta della giornata è Milwaukee, la culla delle H-D e di Fonzie! Alla ricerca di un H-D Cercare un Harley-Davidson negli USA è come sperare di trovare una forcina nella parrucca di Platinette, un’impresa impossibile. In tutti i concessionari di Milwaukee, vastissimi e bellissimi, ci hanno risposto la stessa cosa: non ne abbiamo, non le consegnano. Ripiegare sull’usato è quasi una follia, perché costa più del nuovo.

E così la prospettiva di comprarmi un 883 per continuare il viaggio da “biker” è sfumata, nonostante l’aiuto di Mario, ristoratore calabrese a Milwaukee. Appena entrati nel suo locale ci riconosce subito: “Siete italiani!”. Gli spieghiamo il problema e con una telefonata ci manda da un suo amico concessionario che si fa in quattro per aiutarci, ma la storia la sapete. A Milwaukee si respira aria di moto (la fabbrica dell Harley-Davidson) e di anni 50 a ogni angolo: così, presi da un attacco di nostalgia adolescenziale il giorno dopo finiamo a fare colazione al “Mel’s Diner”, che ricostruisce fedelmente il classico locale visto nei telefilm di Fonzie: e in questo strano incrocio televisivo (“Happy days” e “Alice”) ci lasciamo andare ai ricordi più struggenti della nostra gioventù…

Ripresa la strada, giungiamo nel Minnesota marciando sulla route 14 West (abbiamo seguito quasi sempre le strade secondarie) giungendo a sera a La Crescent, grazioso paesino sul Mississippi: il giorno dopo attraversiamo il Minnesota arrivando a Pierre, capitale del South Dakota.

Tutto il mondo è paese La nostra cultura degli oggetti in gesso da giardino è composta di nani, amanite muscarie giganti e madonne nella grotta: in Minnesota invece è rappresentata da mucche e inquietanti cervi con prole al seguito che costellano i giardini delle casette in legno verniciato di bianco lungo le avenues dei pochi paesi che si attraversano.

Il Minnesota è un immenso campo di granoturco e patate: la strada taglia in due distese di campi, rettilinei interminabili, dossi dolcissimi, curve pressoché inesistenti. I paesi sono pochi e per niente abitati: duecento, cento, addirittura sessanta abitanti. Il Minnesota propone un paesaggio un pò monotono ma anche evocativo: chiunque abbia visto almeno un episodio della “Casa nella prateria” sa di cosa sto parlando: d’altra parte in questo Stato c’è Walnut Grove, il paese natale di Laura Ingalls, l’autrice del libro da cui è stato tratto il più famoso telefilm. Alla sera ci fermiamo in un suggestivo motel sul lago (il Minnesota è lo Stato dei diecimila laghi!) e trascorriamo la serata nel più romantico relax, scaldandoci come cena due scatole di bacon and beans…

Il paese del vento Il South Dakota è brullo, arido e ventoso: qui è la prateria a farla da padrone: il tempo incerto accentua il senso di smarrimento che provo nel trovarmi in mezzo a tanta terra nuda popolata unicamente da mandrie di bestiame. Un pomeriggio nel South Dakota capitiamo a Crow Creek, nella riserva Sioux della Contea di Buffalo: il rodeo è purtroppo finito, ma riusciamo comunque ad assistere a una gara di ballo indiano, che coinvolge tutti, dai bambini agli anziani. Ci sentiamo un po’ fuori luogo, perchè ci rendiamo conto di essere non solo gli unici turisti, ma addirittura gli unici bianchi (e per pudore e rispetto non scattiamo foto) ad assistere alla manifestazione: ma la cordialità dei nativi è tale – hanno un altissimo rispetto per i motociclisti e per il loro “tuono che cammina” – che veniamo invitati a mangiare con loro alla sera. Purtroppo non ci possiamo fermare, dobbiamo fare ancora un bel po’ di chilometri. Proseguiamo a malincuore col vento in faccia e nei capelli (il casco non è obbligatorio) e, appena fuori dalla riserva incrociamo il Missouri, il maestoso fiume che costeggiamo al tramonto fino a Pierre. E’ un percorso ideale da fare in moto, soprattutto con queste moto: andatura lenta (d’altra parte i limiti di velocità negli States sono molto bassi), senza sbalzi. Il tempo passa in fretta in compagnia dei tuoi pensieri e del nastro nero di asfalto: arrivi a sera che hai percorso cinquecento chilometri senza accorgertene. Non volevamo andare a Sturgis I motociclisti e gli automobilisti americani sono molto cordiali: sottoposti al loro fuoco di fila di domande la risposta classica è sempre stata: “No, non abbiamo fatto questo viaggio per andare al raduno di Sturgis, ma per attraversare gli Stati Uniti”. E’ comunque capibile la loro cordialità, in fondo siamo quasi una novità, quattro italiani con le loro moto a zonzo per il paese. Qui in South Dakota è ancora più normale: a Elling, dove ci siamo fermati a fare uno spuntino, il proprietario dello store non aveva mai avuto degli italiani come clienti.

La cordialità degli americani è qui ancora più sentita perchè gli spazi sono così dilatati, le praterie così immense che la possibilità di vedere gente è molto scarsa. E’ proprio come nei film: la classica frase: “Vado in città” non è fantasia, qui i proprietari terrieri percorrono parecchie miglia sui loro pick-up Dodge o Chevrolet per raggiungere il posto abitato più vicino, per rifornirsi o solo per scambiare quattro chiacchere. Sempre a proposito di cinema, mi vengono in mente quei film degli anni 60 in cui la centralinista del posto telefonico pubblico era pressochè obbligata a sapere tutto degli abitanti dei ranch perchè da lei passavano tutte le informazioni più importanti… Da Pierre, capitale del South Dakota arriviamo a Sturgis, quello del raduno, e qui facciamo un altro simpatico incontro. Nel pub/officina “Busted Knuckle”, dove si respira ancora l’aria del raduno appena terminato, facciamo la conoscenza di J.C. E del suo compagno di lavoro: dopo avere fatto a gara a chi offriva più birre, accettiamo il suo invito a dormire a casa sua e dopo una spesa al supermercato, arriviamo a casa di J.C. Pronti per cucinare un bel piatto italiano, nella migliore delle tradizioni: penne al pomodoro. Alberto, rispolverando le sue indubbie doti di cuoco, ci prepara un sugo buonissimo, piccante al punto giusto per noi, ma per i figli di J.C.? La prole di J.C. È composta da due femmine e un maschio, da età compresa tra gli otto e i quindici anni: sarà per l’emozione della novità di trovarsi per casa quattro estranei e per di più di un altro paese, ma mangiano tutto, fino all’ultima penna!! La moglie di J.C., gentilissima, ci offre il soggiorno per dormire. Tutto procede nella migliore delle ipotesi: una sana dormita per affrontare bene il giorno dopo. Ma non abbiamo calcolato l’incognita gatto. Il gatto di J.C., sei chili di pelo arruffato, non è da meno in quanto a gentilezza, e ci intrattiene tutta la notte camminandoci addosso con improvvisi balzi sul divano letto! La gentilezza di J.C. Non si esaurisce nemmeno la mattina dopo, quando per una manutenzione di routine alla moto di Giorgio ritarda la partenza per il lavoro aiutandoci in tutti i modi. Dobbiamo ripartire, e la meta questa volta sono le Black Hills e il Monte Rushmore.

Four in rock Anche noi come i Deep, anzi meglio dei Deep (loro erano in cinque!) ci facciamo ritrarre nelle stesse posizioni ed espressioni dei faccioni dei presidenti scavate nella roccia del Monte Rushmore: un ricordo poco kitch…

La Black Hills National Forest è una tappa iperturistica, ma d’obbligo: il Canyon di Spearfish è incantevole e evocativo (qui hanno girato le scene più belle di “Balla coi lupi”). Siamo in mezzo a foreste di conifere e fa freddo: nel giro di pochi chilometri abbiamo assistito a un repentino cambio di clima e paesaggio, dalla desolazione delle praterie alla vegetazione più folta. Questo è uno degli aspetti degli Stati Uniti che ci ha colpito di più, come in un attimo tutto cambi in maniera così evidente.

La visita al Monte Rushmore è coincisa con l’incontro con una coppia di anziani amish che mi hanno sottoposto una sfilza di domande vedendomi insieme a Paolo: siete sposati, vi sposerete, perchè non vi sposate? Non conosco molto bene la loro cultura, ma penso che se è vero che sono contrari a certe forme di progresso, forse non vedano di buon occhio le unioni non consacrate. Sono abbigliati in modo strano, retrò: fa specie vedere persone dall’aspetto così lontano da noi in un paese così all’avanguardia nello sviluppo tecnologico. Ma anche questo fa parte del grande calderone America in cui si mescolano i grandi contrasti, nei paesaggi come nella gente.

Wild horses I cavalli del Wyoming sono selvaggi e bellissimi, corrono nelle praterie senza fine di questa terra, set privilegiato delle centinaia di film western che hanno costellato la nostra infanzia.

Ci siamo appena lasciati dietro le Black Hills che come in una puntata de “Ai confini della realtà” veniamo catapultati nella più aspra delle praterie. Il Wyoming ci accoglie con il suo paesaggio fatto di rocce rosse corrose dal vento che soffia inesorabile e da pascoli brulli: siamo nel West, e l’unica nostra compagnia sono i cavalli bradi e le mandrie di buoi. Abbiamo percorso i primi duecento chilometri in questo Stato (ricordatevi di portarvi sempre dietro una tanica di benzina!) incontrando solo una città che possa definirsi tale: Lusk, cinquemila anime, dove ci siamo fermati per rifornirci di carburante e per fare il primo pasto genuino da quando siamo partiti: stufato di manzo con patate, come i cow boys…

Dopo aver trascorso all’ombra le ore più calde (è sconsigliabile viaggiare tra le 12.00 e le 16.00) ripartiamo e il paesaggio subito cambia, diventa più montagnoso, dalla prateria sbucano rocce bianche squadrate, che in lontananza ci appaiono antiche città abbandonate. Stiamo avvicinandoci al Colorado e proseguendo lo scenario cambia ancora, la prateria brulla lascia spazio a campi coltivati, macchie gialle di girasoli che sbucano improvvisamente dietro a una curva. Arriviamo a Cheyenne che ormai è sera.

Colorado Mountains Ce ne siamo resi conto soltanto dopo: in Colorado abbiamo attraversato passi fino a 12.000 piedi di altezza (4.000 metri circa): a pensarci bene mi girava un po’ la testa, ma ho dato la colpa alla fame e alla stanchezza…

Abbiamo attraversato il Colorado con le sue bellissime montagne e le sue prestigiose mete sciistiche, Aspen, Colorado Springs. A un certo punto abbiamo cominciato a scendere di quota, e il paesaggio è diventato più collinoso, fino a che non siamo arrivati in una zona atrraversata da un fiumiciattolo e circondata da montagne rosse. Al tramonto siamo arrivati ai Dillon Pinnacles e l’emozione è stata grande. Si tratta di depositi di un’eruzione vulcanica avvenuta ottanta milioni di anni fa: la cenere che ha ricoperto questa zona se ne è andata col tempo, mentre la lava solidificatasi è rimasta formando delle altissime guglie di una improbabile cattedrale a picco sul fiume. Fa fresco, l’aria è secca, intorno non c’è nessuno, sembra di stare su un altro pianeta, lontano e silenzioso.

Il giorno dopo siamo alla Mesa Verde, un bellissimo parco naturale purtroppo quasi completamente dsitrutto da un incendio, in cui si trovano i pueblos dei più antichi abitanti degli Stati Uniti, vissuti tra il 600 e il 1200 D.C. Le case sono state costruite all’interno di ampie spaccature nella roccia. E’ il più antico sito archeologico degli statunitensi, e giustamente loro ne vanno fieri, anche se a noi fa il solletico. E’ molto affascinante vedere dove questa gente è andata a vivere, a quasi duemila metri di altezza sotto una roccia a strapiombo di un canyon. Alla sera arriviamo a Cortez: si comincia a sentire la cultura messicana, dai nomi delle città ai ristoranti, e infatti finiamo in uno di questi, rilassandoci finalmente davanti a un buon margarita.

Vita notturna Negli Stati Uniti (a parte nelle grandi città), si mangia presto e ci si va a divertire presto. Con i nostri ritmi cenavamo alle 20.30 e poi non trovavamo – se mai ci fosse stato! – un locale aperto. La sera passata a Cortez, prima di andare a dormire, non trovando neanche un pub per bere la birra della buonanotte, Alberto, Paolo e Giorgio hanno pensato bene di lavare le moto: gli autolavaggi negli USA, come le lavanderie, sono a gettoni e aperti tutta la notte…

Da Cortez, lungo la route 163 South, proseguiamo attraverso gli ultimi lembi di Colorado e approdiamo in Arizona per vedere la Monument Valley.

La Monument Valley In questa terra tre volte il mare si è ritirato ed è ritornato per formare le montagne. Non si può descrivere, raccontare quello che si vede e le sensazioni che si provano: soltandole vivendole si riesce a capire, e non del tutto.

Rocce rosse antiche di milioni di anni si stagliano nel deserto a formare delle cattedrali, oppure delle torri di una probabile città del futuro. Avvicinandoci piano lo skyline che appare in lontananza dà alla testa. Il modo di vedere questa meraviglia è sicuramente in moto, solo così si riesce e sentirsi totalmente immersi nel paesaggio, a respirare l’aria pesante e sentire il vento caldo sulla faccia. Puoi alzare lo sguardo e vedere le nuvole basse in un cielo che sembra più grande, nuvole arrossate dal riflesso di una terra rossa di un ocra intenso, abitata da pochi indiani Navajo (la Monument Valley si trova appunto in una riserva). Un vago senso di stupore ti prende percorrendo la strada stretta, fatta di rettilinei e curve dolci: a ogni angolo la prospettiva cambia e tutto appare diverso. Cerchi di mettere ordine nei tuoi pensieri ma la mente continua a cambiare rotta, portandoti ora verso la pace più assoluta, ora verso un senso di perdita e allontanamento dalla realtà. Ci fermiamo ogni tanto a scattare centinaia di foto che sicuramente non rendono giustizia al silenzioso ma potente fascino che sprigionano queste architetture di pietra, questi obelischi che sembrano progettati da un illusionista. E’ sconvolgente pensare a quanto la natura in questi luoghi sia stata tanto avara di promesse quanto geniale nel realizzare queste forme di pietra che da milioni di anni si innalzano apparentemente senza una logica. Questo luogo unico è meta turistica tra le più affollate – si calcolano più di 400.000 presenze all’anno – e gli Indiani Navajo che abitano questa riserva sono schivi e orgogliosi e lavorano nei motel e nei ristoranti che si trovano nelle città alle porte della Monument Valley: è in una di queste appunto, Kayenta, che ci fermiamo per la notte. Destinazione successiva: il Grand Canyon e Las Vegas. La sera successiva ci fermiamo a dormire a Williams, sulla Historic Route 66: finalmente riusciamo a vedere e percorrere la “Mother Road” e mangiare una vera bistecca, sogno rincorso dall’inizio del viaggio. A Williams la nostalgia si spreca, e la cittadina pullula di negozietti di memorabilia e la Route 66, che la taglia in due, è piena di favolose auto anni 50. Sempre sulla Route 66 facciamo sosta in una vecchia stazione di servizio in disuso trasformata in negozio di memorabilia, in un tripudio di ricordi, vecchie auto e targhe. Qui incontriamo uno strano personaggio, anche lui in viaggio, che allieta la moglie seduta sul sedile posteriore suonando la tromba: per salutarci intona “Tequila” mentre si allontana sotto i nostri sguardi inreduli…

Il paese dei balocchi Ripartiamo per il Grand Canyon con un tempo che minaccia, e sotto la pioggia percorriamo la strada che lo costeggia (il ranger all’ingresso del Parco ci ha avvisati: in agosto qui di pomeriggio piove sempre). Anche sotto la pioggia lo spettacolo è affascinante, e non ci perdiamo nemmeno una delle tante visuali lungo la strada che corre parallela al Canyon. Stremati alla sera arriviamo a Las Vegas. Una puntatina al Casinò e a nanna.

Las Vegas è una città finta e di plastica, un ammasso di architetture kitch in mezzo al deserto. Tanto finta che dopo due ore me ne volevo già andare via: devo riconoscere però che attraversare il Ponte di Rialto ricostruito in un albergo – il “Venezia appunto” – e dotato di tapis roulant, mi ha dato una gioia particolare…

Benvenuti nella Città degli Angeli Il viaggio è finito, siamo a Los Angeles. Arriviamo ancora increduli dell’esperienza fatta, delle cose viste, e ancora adesso, scrivendo queste righe stento a crederci io, che il viaggio l’ho fatto quasi tutto sul sellino posteriore… Figuriamoci i miei compagni di viaggio! Los Angeles ci accoglie con la sua immensità, la giriamo in moto per un giorno, facendo tappa a Venice, Santa Monica e Malibu. Riconsegniamo le moto allo spedizioniere e prima di partire, con una macchina a noleggio ci immergiamo in una giornata di puro divertimento agli Universal Studios, facendo simulazioni di viaggi nel futuro e assistendo a film in 3D: vi diciamo solo che “Terminator 3D” l’abbiamo visto due volte…

Riprendiamo l’aereo che ci riporta a Milano: le moto arriveranno via nave. A questo punto vi possiamo dare un consiglio su questo viaggio: non sognatelo, fatelo, anche se poi il sogno continua…

ITINERARIO Abbiamo attraversato quindici Stati in ventun giorni. Le città e i luoghi più importanti che abbiamo visitato sono stati: New York City, le cascate del Niagara, Detroit, Chicago, Milwaukee, Pierre, Sturgie e le Black Hills, il Monte Rushmore, Cheyenne, le Rocky Mountains, la Mesa Verde, i “Four Corners”, la Monument Valley da Cortez a Kayenta, il Grand Canyon, Las Vegas e Los Angeles. Abbiamo percorso 6.800 chilometri quasi interamente sulle routes compresi alcuni tratti di Route 66. SCHEDA TECNICA Documenti necessari – passaporto – patente di guida – libretto di circolazione e foglio complementare – assicurazione medico bagaglio (vivamente consigliata) – assicurazione temporanea RC auto valida per il periodo di permanenza Imballo della moto Se volete farvi costruire una cassa i costi si aggirano attorno alle L. 700.000. Con costo praticamente “zero” potrete invece utilizzare le casse che le concessionarie buttano letteralmente via. Come trasportare la vostra moto Abbiamo optato per il trasporto via nave per ragioni economiche e pratiche. Gli unici accorgimenti per un trasporto di questo tipo sono quelli di svuotare il serbatoio dalla benzina e di staccare la batteria. Con la moto negli USA Ogni Stato dell’Unione ha il proprio codice della strada: regole comuni sono comunque che: 1) La guida in stato di ubriachezza è punita con estremo rigore 2) Rimanere senza benzina è considerato un crimine 3) I limiti di velocità vanno osservati scrupolosamente 4) In alcuni Stati è legittimo superare da destra 5) In molti Stati non è obbligatoria la guida con il casco Benzina La benzina viene computata in galloni (3,79 lt.) e distribuita nelle versioni unleaded, super unleaded e premium unleaded. Per motori più vecchi funzionanti a benzina super (che negli USA non esiste più dal 1975) è comunque di facile reperibilità un additivo da miscelare al carburante. Manutenzione Sarà utile portare qualche pezzo di ricambio se la vostra moto non è molto diffusa negli USA. Se invece possedete un H-D troverete un’assistenza veramente capillare in tutto il territorio. Una normale manutenzione sarà necessaria se intendete percorrere un così elevato numero di chilometri.



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