Un anno dopo…. Il vento sul viso
Sto effettivamente passeggiando a Central Park ma ho una sensazione nuova, strana, non piacevole, mi sento solo. La tranquillità che mi avvolge e che di solito ha il potere di rasserenarmi facendomi dimenticare che solo pochi metri più in la c’è il cuore palpitante di una delle città più frenetiche e chiassose del pianeta, stavolta quasi m’infastidisce. Ho voglia di gente, di movimento, di compagnia, e ho bisogno di parlare con qualcuno.
Non sono qui per commemorare l’anniversario, bensì per una molto più banale riunione di lavoro, eppure, qualunque cosa io provi a pensare, immediatamente nella mia testa ritornano sempre le stesse immagini e mi viene spontaneo incamminarmi lungo la quinta strada, verso il fondo di Manhattan.
Ovunque decine e decine di bandiere a stelle e strisce sembrano sottolineare con ancora più forza che domani sarà un giorno importante, forse il più importante. Un giorno dove ripetere una volta di più “We will never forget”, la frase più detta, il pensiero più rimuginato, il sentimento più scritto in quest’ultimo anno così irreale. E da li ripartire ricominciando tutto da capo.
Non c’è casa, negozio, vetrina, ufficio, scuola che non abbia reso il suo omaggio alle vittime. Foto delle torri, della nuvola di polvere, cappelli da pompiere, da poliziotto, stemmi, striscioni e ogni altra cosa possibile ed immaginabile abbia la capacità di ricordare ed onorare chi da quel giorno non c’è più.
Istintivamente fermo un taxi… “World Trade Center, please” gli avrei detto solo un anno fa…Oggi ripiego su “City Hall”, la prima cosa li vicino che mi viene in mente. L’ultimo tratto di strada lo farò a piedi, penso tra me e me.
Inutile provare a fare due chiacchiere con il taxista, sul cartellino leggo un nome che ha più consonanti di quelle che uscirebbero digitando a caso sulla tastiera del PC e, di sicuro, come del resto quasi tutti i suoi colleghi, non parlerà una sola parola d’inglese. La conferma arriva puntuale pochi secondi dopo quando, sconsolato e quasi mortificato, si gira porgendomi una mappa dove indicargli la destinazione, visto che neppure il mio C-I-T-Y H-A-L-L ha sortito alcun effetto.
Peccato, era l’occasione buona. Dal finestrino il susseguirsi di bandiere, cartelloni, fiori ed addobbi bianchi, rossi e blu che mi sfilano davanti non è che un’ulteriore prova di quello che avevo già intuito: la città è unita come non mai, pronta a celebrare un qualcosa che fino a 12 mesi fa sembrava veramente impossibile.
Poco prima della St. Paul Chapel, nel punto dove il City Hall Park (il parco antistante il Municipio) si stringe tra Park Row e la Broadway, una transenna impedisce il passaggio di auto e pedoni, apparentemente per permettere agli operai di ultimare i preparativi per la cerimonia di domani. Mi avvicino e guardo il via vai al di là del blocco. Di fronte a me uno delle decine di marines in assetto da guerra che controllano la zona, vedendomi interessato, si solleva l’elmetto con la canna del fucile come in un film e mi fa: “It’s for tomorrow, you know…The whole New York will be here!!” “Già, non ne dubito” rispondo io, poi mi viene spontanea una domanda “ma la gente non ha paura che possa succedere qualcosa? Le autorità temono altri attentati” gli dico.
“Paura?” risponde “ può darsi, ma nessuno vuole mancare”…”e poi ci siamo noi!!!”…Aggiunge orgoglioso! Effettivamente lo spiegamento di forze sarà impressionante includendo persino un paio di portaerei ancorate nella baia con caccia in assetto da battaglia pronti al decollo e diversi elicotteri da guerra appollaiati sui tetti di alcuni dei maggiori grattacieli della città oltre, ovviamente, a divisioni intere di soldati disseminati un po’ ovunque.
Il governo ha portato l’allerta all’orange level, l’ultimo nella scala di emergenza prima del rosso che significa guerra e, considerato che domani qui ci saranno le maggiori autorità americane, lo stesso Presidente, ed i capi di stato di numerosi paesi esteri, la presenza di una considerevole fetta d’esercito USA è quantomeno comprensibile.
Ciononostante a me il senso di disagio non passa, saluto il marine e prendo la metro per tornare al Village verso casa di James, l’amico che mi ospita.
Alla sera si cena con alcuni colleghi in un ristorante brasiliano. Alle pareti le foto del Carnevale di Rio e di Copacabana, del Mato Grosso e della nazionale carioca stridono forse un po’ con la miriade di bandierine USA, coccarde e drappi che ornano ovunque la sala ma sono ancora una volta lo specchio dell’emozione di una città intera: tutti, indipendentemente dalla nazionalità, fede politica o credo religioso si sono sentiti toccati da quanto successo, chiunque vuole fare la sua piccola parte. Sui tavoli candele rosse bianche e blu sagomate, a sottolineare di nuovo: “NYC 9-11-01 We will never forget” L’argomento di conversazione, naturalmente, è uno solo. C’è un comune senso di dolore, tutti qui a New York conoscevano direttamente o indirettamente qualcuno che è morto nel crollo e i miei colleghi non fanno eccezione. Essendo l’unico del gruppo a non aver vissuto la cosa in prima persona intervengo poco ma ascolto molto e mi sorprendo nel constatare come il sentimento più diffuso non sia l’odio o il desiderio di rivalsa (anche se Bin Laden verrebbe visto volentieri morto) quanto piuttosto la voglia di riconquistare la serenità e chiudere in fretta questo che senza dubbio è stato il più tragico e triste capitolo della storia americana e non solo. Senza però dimenticare, mai! Se solo questa cena si fosse svolta qualche mese fa la parola “revenge” – vendetta – sarebbe stata sulla bocca di tutti ma adesso sono in molti a dubitare della politica aggressiva di Bush.
L’indomani del crollo delle torri un sondaggio fra i cittadini di New York aveva evidenziato come oltre il 95% ritenesse necessaria una prova di forza immediata e schiacciante contro l’Afghanistan, oggi l’idea di un nuovo attacco a Saddam suscita più di una perplessità.
Per la prima volta gli americani hanno paura, paura delle ritorsioni. L’undici settembre ha definitivamente cancellato quel senso di invulnerabilità che provavano in patria, quella certezza che nessuno avrebbe mai osato tanto.
Finita la cena decidiamo di comune accordo di spostare la riunione al tardo pomeriggio per permettere a tutti di andare alla commemorazione ed avere il tempo poi di tornare a casa a cambiarsi prima di trovarsi in ufficio. Già…Andare alla cerimonia…Per la verità non ci avevo pensato, ma adesso mi sembra scontato.
Rapido giro d’opinioni per concordare un meeting point per l’indomani (illudendosi di potersi trovare in mezzo a migliaia di persone) poi tutti a casa. Sulla via del ritorno mi colpisce il numero di bar, tavole calde, pubs solitamente aperti fino a notte fonda, che hanno le serrande già abbassate nonostante sia ancora molto presto. Sembra proprio che nessuno, stasera, abbia voglia di festeggiare, ridere o anche solo fare tardi…Domani sarà un giorno importante e nessuno vuole mancare!!! Sono distrutto ma il jet-lag ancora una volta dà il meglio di se tenendomi sveglio e così dopo aver analizzato ogni centimetro quadrato del soffitto di casa di James, averlo scomposto in immaginarie figure prima con l’occhio destro poi con quello sinistro, averlo fantasticamente dipinto di rosso, poi di blu, di verde e di fucsia (a proposito è giallo ocra), aver avuto voglia di demolirlo, sventrarlo e non so che altro… Decido di alzarmi e puntare verso il frigo.
Poco dopo sono seduto fuori dalla finestra, sul ballatoio della scala antincendio sfogando insonnia e conseguente incazzatura su di un incolpevole barattolone gigante di gelato Ben & Jerry’s.
E’ una splendida nottata e se non fosse per una brezza fresca che di tanto in tanto giunge a ricordare che l’autunno è alle porte, potrebbe essere senza dubbio un giorno d’estate inoltrata. Il Village ha un’architettura abbastanza uniforme, le costruzioni alte sono poche soprattutto qui intorno a Washington Square e James abita all’ultimo piano. Il cielo è stellato e mentre contemplo il panorama sperando che uno sbadiglio involontario mi sorprenda, mi accorgo che dalla vicina caserma molti pompieri con le uniformi sgargianti e gli elmetti lucidi stanno uscendo e silenziosamente incamminandosi verso chissà dove.
Accidenti, è vero!!.. Non mi ero accorto che da poco è passata la mezzanotte e, come preannunciato, da ognuno dei cinque distretti di New York, da ciascuna caserma, da ogni avamposto, poliziotti e pompieri partiranno in contemporanea per convergere a Ground Zero, dopo una lunga marcia che toccherà praticamente tutta la città.
Non ho sonno, in un lampo mi vesto, lascio un biglietto a James ed esco unendomi alle decine di newyorkesi che, avuta la mia stessa idea, si riversano in strada da ogni palazzo.
Non so bene dove andare ma istintivamente seguo gli altri. Puntiamo decisamente verso est mentre in lontananza si ode soffuso un rullo di tamburi.
Man mano che ci avviciniamo alla Broadway il rumore si fa più forte.
Non appena girato l’angolo lo spettacolo lascia attoniti! Migliaia di persone, giovani e anziani, bianchi e neri, ebrei ortodossi e sacerdoti con la tonaca seguono silenziosi un camion dei pompieri a sua volta preceduto da un’intera divisione in alta uniforme da cerimonia, poi da un’altra e un’altra ancora. Dalle case un fiume di gente si riversa continuamente in strada unendosi alla processione mentre sui davanzali delle finestre scintillano le fiammelle di migliaia di candele che sembrano accendersi al nostro passaggio, come per illuminarci la via.
E’ uno spettacolo forte, che ti prende e ti scuote con violenza, un “no” deciso gridato – ma in silenzio – contro chi ha voluto fare così tanto male.
Camminiamo molto, giriamo a sinistra poi a destra poi ancora a sinistra, passando davanti ad altre stazioni da cui escono poliziotti e pompieri che vanno ad ingrossare le fila dei colleghi. Non ho più idea di dove siamo, intuisco solo che andiamo verso sud.
Poi, d’improvviso riconosco il Municipio, giro lo sguardo verso sinistra e…Rimango a bocca aperta bloccandomi di sasso! Dall’imbocco del ponte di Brooklyn più gente di quanto io abbia mai visto insieme in vita mia, saranno un milione, avanza lentamente verso di noi trascinata, quasi incantata, dallo struggente suono delle cornamuse che si diffonde in tutta la baia. Vengono dal Queens e da Brooklyn…Mi viene la pelle d’oca.
La mia reazione immediata sarebbe quella di abbracciare chi mi sta accanto, di condividere quel turbinio di emozioni che mi stanno scombussolando dentro, di dissimulare anche quel nodo in gola che sta diventando sempre più grosso…Ma non conosco nessuno. Così mi viene spontaneo telefonare a casa, incurante dell’ora e, passo dopo passo raccontare a Carmen quello che sto vivendo stringendola immaginariamente a me.
Quando arriviamo a Ground Zero sono ormai le sei, il sole è già sorto ma non ha ancora la forza di contrastare il forte bagliore dei milioni di candele appoggiate un po’ ovunque. Sono di fronte al cratere che visto dal basso sembra ancora più grande, vicino ad una palizzata con foto, preghiere e oggetti portati dai familiari di chi non c’è più. Uno in particolare mi colpisce, è il disegno di una bambina, Amy, che con mano ancora incerta ha tratteggiato un cielo con tante nuvole e su una nuvola un angelo con grandi ali e una tunica bianca. Vicino all’angelo una scritta…”Dad”…Deglutisco e inspiro profondamente.
Alla mia sinistra una ragazza sta accendendo una candela sotto ad una foto di tre ragazze incorniciata di verde.Un biglietto dice: “God, tell me, where were you that morning?” ed è firmato Giovanna.
“Sei italiana?” le chiedo non so nemmeno io perché…”si, anche tu?” mi risponde lei un po’ sorpresa ma molto gentile. Iniziamo a parlare e scopro che nel crollo ha perso le sue due migliori amiche, sue compagne di appartamento, che lavoravano al 65° piano della Torre Sud e ancora non riesce ad accettarlo. All’inizio sperava le ritrovassero, per giorni ha girato ospedali e cliniche cercando tra i feriti senza nome, ma niente…
Nel frattempo il flusso di partecipanti non cessa, tutta l’area è circondata da migliaia e migliaia di persone che in silenzio si stringono gli uni agli altri mentre da uno dei palazzi circostanti risparmiati dal crollo pende un enorme telone che recita ”The human spirit is not measured by the size of the act, but by the size of the heart”.
Alle 7:30 circa il sindaco Bloomberg inizia la cerimonia leggendo lo storico discorso pronunciato da Abramo Lincoln all’indomani della sanguinosa battaglia di Gettisburg, il 19 novembre 1863. Non è un discorso retorico scelto a caso ma ha molti punti di contatto con quanto successo qui un anno fa. Parla di numerose vite spezzate, di ideali di libertà e democrazia, di desiderio di imparare affinchè una cosa così non si ripeta mai più…Sembra scritto apposta.
Dopo Bloomberg è la volta di Giuliani, accolto da un commosso applauso, che dà il via alla lettura dei nomi delle vittime. Ad uno ad uno dalla sua voce e da quella dei vari Colin Powell, Hillary Clinton, Robert de Niro, Woody Allen e tantissimi altri famosi e non, tutti i 2801 scomparsi verranno ricordati. Nessuno escluso.
Alle 8:46 in punto si ode un rintocco di campana e tutte le altre campane della città iniziano a suonare. A quest’ora un anno fa il primo aereo si schiantava contro la torre. Di colpo Ground Zero piomba in un silenzio assoluto, irreale. Nessuno fiata, nessuno tossisce, i bambini non piangono più, gli uccellini che fino a poco fa cinguettavano sui fili della luce sono spariti, non si sente nessun rumore di motore, sirena, clacson neppure in lontananza. Solo le campane e una folata di vento che, non incontrando ormai più niente a fermare la sua corsa, mi colpisce in viso portando il forte profumo salmastro del mare.
Per altre tre volte le campane suoneranno, ricordando il secondo schianto e i due crolli. Per altre tre volte il silenzio piomberà su quel cratere. Per altre tre volte Giovanna col viso rigato di lacrime chinerà la testa sussurrando “Perché…Perché?”, senza trovare nessuna risposta logica. Io quasi mi sento in colpa per non aver nessuno da commemorare.
Distinguo chiaramente la rampa utilizzata dai camion per scendere fino alla zona dei lavori. E’ stata ripulita, foderata ed illuminata ed è percorsa dai primi parenti delle vittime che lentamente si dirigono verso il fondo del cratere. Lì una serie di blocchi di legno a forma di parallelepipedo con la parte superiore a griglia traforata sono collocati a formare un cerchio. Ognuno ha una rosa in mano che infila nella griglia contribuendo pian piano a dar forma quella che diventerà una gigantesca corona commemorativa.
Giovanna s’incammina, faccio per salutarla ma lei mi prega di seguirla…”vieni anche tu ti prego, da sola non ce la faccio” aggiunge.
Il mio imbarazzo aumenta, io proprio non mi ci vedo a scendere quella rampa in mezzo a tanta gente che ne ha veramente motivo, mi sembra di fare del turismo tanto spicciolo quanto cinico ma lei insiste e la seguo.
Dopo circa un’ora abbiamo in mano una rosa ciascuno e mentre scendiamo verso il cratere accompagnati dal suono di mille cornamuse, decine di fotografi e cameraman ci inquadrano e riprendono. Mi vergogno come un ladro… Cosa ci faccio io lì? I blocchi di legno sono ormai colmi di rose, la corona ha già un aspetto definitivo e la gente butta i fiori anche al suo interno. Tutt’intorno a me persone che piangono, mogli che hanno perso i mariti, bambini senza più madre, anziani che ricordano il loro figlio e Giovanna che singhiozza e, abbracciandomi scoppia in un pianto dirotto.
Io che non piango mai e prego raramente mi trovo a scambiare un pensiero con chi è lassù mentre due goccioloni mi scendono sulle guance bagnandomi il colletto della camicia…Se è un brutto sogno voglio svegliarmi subito! Pian piano come siamo scesi risaliamo, anche per dare la possibilità agli altri di lasciare il loro fiore. Tra non molto dovrebbe giungere Bush direttamente dal Pentagono o forse dalla Pennsylvania, lo conferma il numero di furgoni neri dai vetri specchiati che continuano ad arrivare e dalla frenesia di uomini in giacca cravatta e auricolare che si scambiano istruzioni.
Ma non ho più voglia di restare, fino a ieri non avevo neppure pensato di partecipare ed oggi mi trovo qui a condividere il dolore di migliaia di persone circondato da chi in quel cerchio di rose multicolori ha davvero immaginato, per un attimo, di rivedere una persona cara che non c’è più.
M’incammino con Giovanna lungo Church street risalendo Manhattan. Nessuno dei due ha voglia di parlare, travolti da un’emozione un po’ troppo grande. Camminiamo una buona mezz’ora prima che lei, di fronte ad un caffè di Soho si fermi e finalmente sorridendo mi chieda “Ti va una tazza di te?”…Guardo l’orologio, c’è tempo…”Certo” le rispondo.
Ground Zero è a qualche bel Km da noi e laggiù sembra rimasta anche la nostra tristezza. Sappiamo benissimo tutti e due che non è così ma cambiare il chip è un buon punto di partenza.
Parliamo a lungo, di tutto, e mi confida che vuole tornarsene in Italia, il suo sogno americano è morto con le sue due amiche, restare non le va più.
Ci scambiamo la mail, dal cameriere ci facciamo fare una foto insieme usando la macchina che aveva nella borsa e che, confessa, non aveva avuto il coraggio di usare alla cerimonia. Poi ci abbracciamo salutandoci, probabilmente per l’ultima volta nonostante le promesse reciproche.
Ho tutto il tempo di farmi una doccia, riposare un po’, cambiarmi e mangiare qualcosa prima della riunione poi, se finiamo presto, magari faccio pure in tempo a prendere il volo della notte. Un paio di telefonate e via.
A casa di James non c’è nessuno, un post-it mi avverte che lo troverò direttamente in ufficio…
Sul tavolo il PC è acceso, quasi quasi ne approfitto per scrivere a Carmen e raccontarle, a caldo, tutta la mia giornata, la più lunga che abbia mai passato a New York, una giornata intensa, sofferta e “combattuta” minuto dopo minuto che, mi ha fatto riflettere, commuovere e stare male. Una giornata che, ne sono certo, I will never forget! Mi siedo e comincio… New York mi dà il suo benvenuto con un caldo sole settembrino, tipico di…
Steve