Tutti i canyons d’ America

TUTTI I CANYONS D’AMERICA Dallas: cosa c’è di più texano di questo nome? Petrolio e miliardi. Già, e poi Bush senior e junior e poi le rose gialle e poi i colpi di carabina del 22 novembre 1963 e poi le maxi bistecche fornite dalle maxi mandrie che pascolano nelle sterminate pianure e poi e poi i supercarceri ed il record di condanne alla...
Scritto da: Gloria Bava
tutti i canyons d' america
Partenza il: 27/02/2000
Ritorno il: 08/03/2000
Viaggiatori: fino a 6
TUTTI I CANYONS D’AMERICA Dallas: cosa c’è di più texano di questo nome? Petrolio e miliardi.

Già, e poi Bush senior e junior e poi le rose gialle e poi i colpi di carabina del 22 novembre 1963 e poi le maxi bistecche fornite dalle maxi mandrie che pascolano nelle sterminate pianure e poi e poi i supercarceri ed il record di condanne alla pena capitale e poi tante altre cose ed in fondo poco o nulla.

Partiamo da Dallas per un giro nel West e nello stato Messicano di Sinaloa alla scoperta dei canyons che segnano come profonde cicatrici questi immensi territori.

Come tutte le città degli States Dallas è un non luogo, è un coacervo di strade e svincoli, di centri commerciali, di aeroporti, di alberghi, di uffici sparsi nel vuoto della pianura.

I villaggi residenziali sono circondati da recinzioni che impediscono la vista all’interno.

Dormiamo in un hotel nei pressi dell’aeroporto: tutto è di plastica. Le colonne dell’atrio, i fiori sui tavolini, le sedie, le tende, i tappeti, le lenzuola, i sanitari. Ma tant’è, si sa che da queste parti è il trionfo di tutto quello che la mente umana può escogitare per involgarire ogni cosa! Al mattino partiamo di buon’ora direzione nord. Viaggiamo per centinaia di chilometri in una piana coltivata a cotone e punteggiata di pompe petrolifere di ogni dimensione.

Nello spazio sconfinato ad un certo punto appaiono delle costruzioni grandissime, circondate da più recinzioni di filo spinato e con numerose postazioni di guardia : sono penitenziari.

Sapere che in quegli edifici marroni c’è una stanza blindata come il caveau di una banca in cui in nome della Giustizia degli Stati Uniti uomini probi ed onesti danno la morte ad altri uomini, disonesti e criminali, la cui morte però non è mai servita, nè mai servirà a far si che un assassino o uno stupratore desista dal commettere un delitto, metti i brividi.

Un vento freddo solleva mulinelli di polvere ed oscura la luce del giorno: è uno scenario piuttosto cupo e scostante.

Ci fermiamo per la notte a Carlsbad un paese che più ‘americano’ non può essere: via principale fiancheggiata da bassi edifici quadrati nei quali hanno sede la banca, l’ufficio postale, il supermarket, la pizzeria, il ristorane messicano, le scuole, la camera funeraria, la stazione di polizia, al fondo un motel gestito da un indiano. Cena inenarrabile in una pizzeria.

Siamo già nello stato del New Messico: saliamo la catena delle Sacramento Mountains da dove abbiamo splendide vedute delle White Sands. È questo un parco di dune di sabbia bianchissima racchiusa fra una catena di montagne di roccia nera.

Ci perdiamo fra le morbide forme il cui candore viene esaltato dal sole splendente e dal cielo terso.

Da qui andiamo a Tucson: Arizona attraversando montagne aride costellate di cactus.

Tucson è una grande base aerea militare con tutto ciò che questo comporta in termini di presenza di marines, top-guns, caccia che sfrecciano raso terra ad ogni ora del giorno e della notte: un bel posticino per gli appassionati di films di guerra.

Noi lasciamo l’auto in un parcheggio e c’imbarchiamo per il volo verso Los Mochis in Messico da dove partiremo per la visita di quattro giorni al complesso di canyons che compongono la Barranca del Cobre.

Arriviamo all’aeroporto di Los Mochis con grande ritardo, qui troviamo dei taxi che ci portano ad El Fuerte, cittadina all’imbocco della zona dei canyons.

Dormiamo in un hotel ricavato in una casa coloniale, le camere sono arredate con vecchi mobili ed oggetti d’uso contadino, ceniamo sulla terrazza attorno ad un grande falò che mitiga l’aria frizzante della Sierra. Sempre in taxi raggiungiamo la stazione di El Fuerte. Dopo una breve attesa arriva ‘El Jefe’ il treno che unisce la città di Chihuahua alla costa passando sul bordo dei canyons con un percorso veramente spettacolare.

Ci sono alcune carrozze riservate per i turisti ed altre, più interessanti, per i locali. Il treno comincia ad inoltrarsi nella Sierra: si aprono scenari amplissimi, si viaggia fra boschi e rocce costellate di saguari e yucche, si sale con tornanti stretti e si passa su ponti mozzafiato.

Molto bello.

Però commettiamo un errore: scendiamo alla fermata sbagliata.

Questa è una fermata secondaria riservata al traffico locale, non quella che serve l’insediamento di Mansion Tarahumara dove noi abbiamo la prenotazione.

Restiamo a terra con le nostre valigie mentre il treno se ne va.

Che fare? In mezzo ad una piccola folla eterogenea che staziona sul marciapiede c’è una specie di furgoncino scassatissimo il cui proprietario si fa avanti proponendo di portarci a destinazione: siamo sgomenti dall’aspetto del veicolo, ma non abbiamo molte altre possibilità, per cui pattuiamo il prezzo e saliamo sul mezzo: mai termine fu più appropriato, poiché quella specie di camioncino era proprio la metà di un’auto normale. I sedili ridotti all’osso appoggiavano su un pianale sfondato, la leva del cambio era libera da protezioni, i fili elettrici correvano per tutto l’abitacolo, i pedali dei comandi davano direttamente sul motore e via discorrendo.

Imbarchiamo un altro personaggio che per tutto il viaggio rimarrà accucciato nel cassone fra le valigie e, dopo aver attraversato il villaggio per far rifornimento, partiamo per quello che è stato uno dei viaggi più allucinanti e spettacolari che mai abbiamo fatto.

Siamo scesi su dei sentieri sassosi al fondo del canyon, abbiamo percorso un lungo tratto del fondo sabbioso e poi, sempre su piste sconnesse, siamo risaliti. Paesaggi splendidi, natura incontaminata ed ambiente molto particolare, con rocce e foreste, cascate e grotte, peccato che la paura che il mezzo non riuscisse a farcela e la fatica di aggrapparsi a qualcosa per non essere sbalzati dai sedili ci abbiamo impedito di godere a pieno di quanto stava passando davanti ai nostri occhi.

Dopo circa quattro ore di salti, scosse, ruggiti e gemiti del motore sfinito siamo arrivati alla Mansion Tarahumara dopo erano tutti in agitazione per la nostra scomparsa. Comunque in breve ci siamo rinfrancati e rifocillati.

Con la guida facciamo una passeggiata sul bordo della Barranca che vedremo meglio il giorno successivo durante un’escursione in auto fino a Divisadero uno sperone roccioso da cui si domina tutta a Barranca del Cobre.

Nascosto nella parte nord occidentale della Sierra Madre questo sistema di 5/6 canyons comprende un’area più grande del Gran Canyon ed in alcuni di essi la profondità è maggiore di alcune centinaia di metri.

Questa è la patria delle genti Raramuri, gli indios Tarahumara che vivono come 200/300 anni orsono.

Per numero sono il secondo gruppo di popolazione indigena del Nord America, vivono secondo antiche tradizioni costituendo nuclei familiari molto numerosi.

In piccoli appezzamenti di terreno coltivano mais, fagioli e zucchine ed allevano qualche animale, vivono in semplici capanne, spesso in grotte o in case di pietra sotto le falesie lungo i fianchi dei canyon. I contatti con il resto del mondo sono molto sporadici consentendo loro di conservare costumi e semplici tradizioni.

Il nome Raramuri significa “piedi veloci” ed essi sono famosi come forti corridori e camminatori su lunghe distanze.

Ora questi indios sono al centro del grande sfruttamento turistico del loro territorio, che inevitabilmente porta ad uno snaturamento dell’ambiente e, se da un lato consente loro di accedere a qualche beneficio della nostra civiltà , dall’altro trasforma il loro sistema di vita e delle loro tradizioni, che vengono già ora usate come attrattiva per i sempre più numerosi turisti.

Noi abbiamo, forse, ancora visto qualcosa di un po’ autentico nelle donne che fanno cesti coi giunchi raccolti sul fondo della Barranca e li offrono in prossimità delle stazioni o degli alberghi, ma già la simulazione di gara con palle di legno o la falsa corsa sono indici di un prossimo adeguamento di queste popolazioni alle richieste di folklore che sempre più si fanno pressanti da parte dei visitatori: fra qualche anno saranno come i ‘mariachi’ dalle cui ‘Palome’ non si trova scampo in nessuna parte del Messico.

Il mattino successivo riprendiamo il treno in senso inverso e ci fermiamo nella stazioncina nella quale due giorni prima eravamo avventatamente scesi. Stavolta va tutto bene ed ad attenderci c’è un pulmino che, con viaggio di più di un’ora nella foresta ci porta ad Urique: un hotel nuovissimo su uno sperone roccioso un vero nido d’aquila.

Qui non è ancora arrivata l’elettricità e ciò contribuisce a creare un’affascinante atmosfera.

Facciamo una lunga escursione sui bordi della Barranca de Urique, profondissima e spettacolare.

Riprendiamo ‘El Jefe’ ripercorrendo i tornanti e le gole profonde e siamo nuovamente ad El Fuerte dove dormiamo. Il mattino seguente un simpaticissimo taxista ci conduce all’aeroporto di Los Mochis per il ritorno negli USA.

Hasta Luego! E rieccoci fra i caccia supersonici che sfrecciano nel cielo di Tucson, da cui ci allontaniamo di un centinaio di chilometri per andare a Casa Grande Ruins: un parco dove sono conservati i resti di un villaggio precolombiano. Ancora una cena da Guiness dei primati: negativi.

Sotto un cielo grigio di nuvole gonfie di pioggia proseguiamo verso nord. Nel tardo pomeriggio visitiamo le rovine del cosiddetto Castello di Montezuma: probabilmente un insediamento di popolazioni Anazazi che nulla ha a che vedere con l’ultimo imperatore atzeco, ma si sa la suggestione di un nome è difficile da cancellare! In serata arriviamo a Sedona, centro di gran fama alle soglie del Colorado Plateau. Ci fermiamo a dormire al passo fra impressionanti torrioni di rocce rosso scuro che si perdono fra le nuvole.

Cena in un carissimo ristorante giapponese.

Aperte le tende della finestra la luce abbagliante della neve riempie la stanza: nella notte è nevicato abbondantemente. Allegri come tutti i bambini e cani di questo mondo alla vista del manto bianco che copre la terra partiamo. Il sole comincia ad illuminare le torri rosse che circondano Sedona dando loro dei riflessi meravigliosi e poi tutta quella neve è uno spettacolo. La strada verso Flagstaff è una splendida galleria di pini carichi di neve che cade dai rami come polvere brillante e luccicante al sole. Valli e valli di pini altissimi, neve e silenzio, è la preparazione bellissima allo spettacolo che ci aspetta tra poco: il Gran Canyon del Colorado.

Ci affacciamo ai vari punti panoramici per ammirare questo spettacolo creato dalle forze primordiali dell’acqua e del vento.

Non è facile descrivere tali spettacoli, né sfuggire la retorica dei luoghi comuni. Meglio conservare nella mente il ricordo delle mille guglie, degli infiniti colori che incendiano le gole e gli anfratti, del sibilo del vento freddo che fischia fra i rami dei pini e sferza il volto. Pernottiamo al Gran Canyon Village un vero labirinto di camere, ristoranti, negozi. Nella notte la temperatura scende di parecchio ed al mattino le strade sono una lastra di ghiaccio. Andiamo ora verso ovest sull’altipiano di Coconino, selvaggio e con orizzonti infiniti. Entriamo in Nevada saliamo alla diga Hoover e scendiamo verso Las Vegas. Una serata di folle gioco ci gratifica con una discreta vincita.

Las Vegas è la solita follia di edifici incredibili, di insegne gigantesche, di cascate di luci, di distese di tavoli da gioco, ma rispetto a una decina d’anni fa ha perso tutto il movimento di gente per le strade. Nella ‘strip’ non scorrono più fiumi di auto cariche di giovani che si dimenano al ritmo di musica, i marciapiedi non sono più percorsi dalla fiumana di giocatori che passano da un casino all’altro: ora vi sono delle navette che portano nei locali direttamente dagli hotel molti dei quali sono collegati alle sale da gioco da gallerie e tunnel.

Via via dalla pazza folla: attraverso il deserto del Nevada, quasi tutto demanio militare, andiamo verso una delle meraviglie del West: lo Zion National Park nello stato dello Utah.

Appena si lascia la interstate si comincia a salire e l’orizzonte si apre su una serie di catene montuose bellissime, in parte ricoperte di neve , in parte nuda roccia dai colori più vari.

Entriamo in quello che è una dei parchi più ‘preziosi’: non molto grande, senza la spettacolarità dei canyon è solo una valle circondata da bellissime pareti di granito, spesso lisce ed illuminate da spettacolari cascate. Vi è un punto, a metà valle circa, dove le pareti rocciose si chiudono formando un cerchio, solo una piccola fenditura nella roccia permette alla strada di incunearsi. È un posto di grandissima suggestione non dovuta solo alla bellezza del paesaggio, ma dal sentirsi chiusi, isolati, nascosti da quei torrioni. Dà un senso di inquietudine il pensiero che un masso, piccolo in relazione all’imponenza delle montagne, potrebbe ostruire il passaggio e chiuderci in questo cerchio magico di roccia ed acqua. Facciamo un bel giro fino al tramonto, purtroppo data la stagione il sole scende piuttosto presto e subito l’aria diventa pungente. Dormiamo nel bel centro turistico del parco costituito da piccoli chalets sparsi in una radura, nel mezzo vi è il ristorante ed il centro commerciale. È fatto tutto con molto gusto e misura, al ristorante si mangia bene e con calma…Non sembra neanche di essere negli Stati Uniti. Ripartiamo dallo Zion Villange per andare al Bryce Canyon.

E per andare al Bryce Canyon attraversiamo lo Utah innevato. Un paesaggio da favola gli altopiani ricoperti da uno strato considerevole di neve cristallina e luccicante al sole, pini e rocce festonate di bianco, le strade s’insinuano fra muri candidi e portano davanti ad orizzonti sempre più vasti. Era uno dei miei sogni viaggiare per chilometri fra la neve in assoluta solitudine.

Ammiriamo il piccolo, ma spettacolare Red Canyon che fa da quinta ai pinnacoli del Bryce al cui imbocco arriviamo che è già quasi il tramonto per cui ci fermiamo a dormire e rimandiamo la visita al giorno successivo. L’hotel dove sostiamo è modernissimo, con le camere che danno sulla grande piscina, le pareti vetrate consentono un’ampia vista sui campi innevati. Entriamo nel parco del Bryce Canyon a mio parere il più elegante e fantasmagorico con le valli piene di guglie e pinnacoli dalle mille sfumature dal bianco al rosa, all’arancio, al rosso vivo per di più ora tutto è enfatizzato dalla neve e dal sole splendido che incendia i colori, ma non riesce a riscaldare l’aria tagliente degli altipiani. È tutto ghiacciato, anche i sentieri che arrivano al vari punti panoramici sono ricoperti da una crosta di ghiaccio lucente, grossi ghiaccioli pendono dai tetti degli edifici del parco. Percorriamo i circa 30 chilometri del canyon fra i pini sui quali gli scoiattoli che corrono sui rami fanno cadere cascate di neve farinosa.

Scendiamo verso Bouldier attraversando valli verdi con gli alberi fa frutta carichi di fiori: è questa l’antica terra dei Mormoni che si sono rifugiati fra queste montagne per poter vivere secondo i propri costumi. Le case sono piccoli capolavori di grazia e tutto è lindo ed ordinato.

Peccato che si continui a mangiare da cani (o forse peggio: non so se il nostro Gengis avrebbe trangugiato l’abominevole piatto che ci hanno servito a Bouldier) Da qui costeggiamo per un lungo tratto il Capitol Reef: una meravigliosa scogliera che muta ad ogni metro sia nelle forme che nei colori. Percorriamo una pista sabbiosa che s’insinua nel fondo di un ramo laterale. Le pareti di roccia rosa hanno forme bellissime, onde pietrificate, aperture misteriose fanno filtrare raggi di luce che illuminano anfratti e cunicoli. Ci sarebbe da perdere giornate ad esplorare i mille angoli di questi canyons, noi non abbiamo molto tempo, tuttavia passiamo alcune ore veramente gratificanti in un ambiente che non ha molti altri simili al mondo; per di più la temperatura è molto gradevole.

Viaggiamo per tutto il pomeriggio in un ambiente desertico che però varia continuamente: si passa fra montagne grigie e verdi di minerali affioranti, pianure sassose si aprono su sistemi di canyons amplissimi, catene montuose e muraglie di rocce chiudono l’orizzonte per lasciare il posto ad altopiani verdeggianti. Proprio su uno di questi altopiani troviamo un piccolo paese dove passiamo la notte, il silenzio totale è rotto solo dal rumore degli zoccoli dei cavalli che corrono nella prateria. Da qui andiamo verso la regione del Canyoland, che però non ci dà grandi emozioni; forse non l’abbiamo presa dalla parte giusta o forse è una zona che si presta più ad un’esplorazione a piedi o a cavallo che non in auto, oppure è difficile trovare qualcosa all’altezza degli spettacoli dei giorni precedenti. Andiamo a vedere il piccolo parco delle Dune di Corallo: è una piccola distesa di dune rosa corallo, bellissime fra il verde dei pini che le circondano ed anche qui qualche residua chiazza di neve aumenta il fascino del paesaggio. Scendiamo verso lo spettacolare lago Powell che illumina con la sua luce di smeraldo le brulle pareti del Gran Canyon e per la notte arriviamo a Moab ex città mineraria ora diventata centro turistico di grande importanza all’imbocco del parco dei Natural Archers. Ha conservato l’aspetto delle cittadine di frontiera nei sui edifici di legno dalle facciate squadrate che ora anziché stores e saloons ospitano negozi eleganti, gallerie d’arte, bar e ristoranti.

Andiamo a cena in un suggestivo locale alto sul costone che domina Moab: è un ambiente raffinato all’europea, la vista della valle è splendida, le luci della città si vanno accendendo mentre il cielo si colora nell’oro del tramonto. Mangiamo anche bene, tutto sarebbe perfetto se ci lasciassero restare almeno un po’ tranquilli dopo la cena, invece con la loro malefica fretta, appena abbiamo terminato l’ultimo cucchiaio del dessert arrivano col conto, modo anche non troppo elegante per far capire che è ora di lasciare libero il tavolo. Oh, America, quando imparerai a goderti la vita veramente, non in base ad una tabella di marcia! Trascorriamo tutta la mattinata nel Parco degli archi naturali: in questa zona molte rocce presentano dei veri e propri archi formatesi per l’azione di erosione dell’acqua e del vento. Ce ne sono moltissimi, i più spettacolari nella parte più interna del parco che oltre a queste bizzarie geologiche ha anche paesaggi bellissimi di un’ampiezza che toglie il respiro.

Scendiamo verso Blanding, la città nodo fra lo Utah ed il Colorado. Destinazione di oggi la Monument Valley: senz’altro il più famoso paesaggio del West. Ci arriviamo da dietro, passando per la meno famosa, ma più solitaria ed altrettanto suggestiva Valley of Gods. Una facile pista sabbiosa lascia la strada principale ed entra fra torrioni di roccia isolati fra loro, con delle forme che ricordano la forma di idoli e totem. Percorsi una quarantina di chilometri si torna sulla strada asfaltata da dove appare il profilo della Monument Valley nitido contro il cielo del tardo pomeriggio. Dal piazzale che domina la Valle si ha una bella veduta d’insieme, ma molto più emozionante è percorre la pista che passa alla base delle immani rocce dalla forme fantastiche: la chioccola, la cattedrale, le quattro sorelle ecc, c’è anche il J. Ford Point che è il punto in cui si ha la visione del paesaggio immortalato in Ombre Rosse.

Anche se arcinoto il luogo riesce a comunicare emozioni ed è indubbiamente bello.

Lasciamo la Monument Valley ed attraversiamo il deserto; dopo Kayenta non c’è più nulla, tanto che viaggiamo fino a notte e riusciamo a trovare da dormire in un misero motel in un paese che non ricordo.

Entriamo in New Messico attraverso altipiani arsi dal gelo con rari piccoli paesi che paiono deserti. Qui fa decisamente freddo ed il tempo è grigio e ventoso. Alla sera arriviamo a Santa Fè, città famosa per la storia western ed ora centro molto chic con gallerie d’arte , locali eleganti, negozi di generi di lusso: naturalmente tutto è artefatto dalle case in finto adobe alle false taverne tex-mex.

La mattina successiva troviamo che un bello strato di neve ha ricoperto tutto e continua a nevicare.

Viaggiamo verso Dallas sulle grandi Interstates battute dal vento gelido che scende dalle Montagne Rocciose e ghiaccia tutto. Fra i soliti pascoli sterminati e gli innumerevoli pozzi petroliferi arriviamo a Dallas dove troviamo il sereno ed una misera pizza per cena. Domani si torna a casa.



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