Turkmenistan: Cocoons
Gospadin Bulik era un Karachaijevo allampanato, sempre stretto in un cappottino liso e leggero, anche in gennaio. Aveva una barbetta rada ed i capelli corti sotto un cappello di pelle nera di antico uso, al di sotto del quale, due occhietti da faina ti esaminavano, sempre un po' in tralice. Andrej assicurava che avesse potenti contatti in Asia...
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Gospadin Bulik era un Karachaijevo allampanato, sempre stretto in un cappottino liso e leggero, anche in gennaio. Aveva una barbetta rada ed i capelli corti sotto un cappello di pelle nera di antico uso, al di sotto del quale, due occhietti da faina ti esaminavano, sempre un po’ in tralice. Andrej assicurava che avesse potenti contatti in Asia centrale, ma quando eravamo andati nel suo ufficio, un buchetto scuro in una specie di conteiner di compensato, non ci aveva fatto una grande impressione. Si occupava soprattutto di trading di cotone dai paesi di lingua turchesca che dominava assai bene, parlando sempre con voce cupa e bassissima. Era un affare grosso quello che aveva per le mani. In Turkmenistan venivano prodotte grosse quantità di bozzoli da seta che, per la mancanza di macchine adatte andavano per la maggior parte perduti. Un progetto ambizioso, da almeno 5 milioni di dollari. Avevamo lavorato per mesi all’idea, con una interessante triangolazione che lo rendeva molto competitivo. La prima parte delle macchine per trattare i bozzoli venivano acquistate in Cina (l’unico posto dove venissero ancora prodotte), mentre quelle più sofisticate della seconda parte dell’impianto, le avremmo ordinate a Como, centro della lavorazione della seta. Noi saremmo stati i main contractors del progetto e del commissioning. Bulik ci confermò con mezze ammissioni che l’offerta era molto piaciuta. Era quindi venuto il momento di chiudere il contratto. In una gelida mattina di gennaio, ci ritrovammo quindi nel cadente stanzone di attesa (sala è un po’ troppo) dell’aeroporto di Mineralnije Vady nel Caucaso, con Stefania, Andrej e Bulik, seduti sulle panche di faesite scrostata, prima di salire sul gigantesco Iljiushin per Ashgabad. Saremo stati al massimo una trentina e le hostess (nessuna di peso inferiore ai cento chili netti) ci fecero sedere tutti in fondo all’aereo, in una tremenda puzza di gatto morto, in quanto pare che quel modello decollasse meglio se ha tutto il peso in coda. In qualche modo il volo si concluse positivamente, depositandoci in Turkmenistan in condizioni igieniche deprecabili. Pensavamo di rassettarci alla meglio in albergo, ma l’orrenda bicocca scelta da Bulik, a suo dire il meglio che offriva la piazza, ci depresse ulteriormente. Come di consueto, il figuro al bancone fece un sacco di problemi; infine riuscimmo ad ottenere almeno due stanze col pavimento coperto di scarafaggi morti e bucce secche di mandarino . Demmo la migliore, se così si può dire, a Stefania, già molto innervosita, io mi presi l’altra, mentre i nostri due, adducendo varie scusanti, si arrangiarono nel ricovero della dejurnaija, una matrona imbellettata che esibiva una nona sotto una maglietta pelosa di angora cinese. Mi rinchiusi, dopo che un topo, ma piccolo, era sgusciato nel corridoio, vagamente illuminato da fioche lampadine, in maggioranza bruciate o mancanti del tutto. Una notte difficile, circondati dalle orde dei germi dell’Asia Centrale, ultimo rifugio della peste bubbonica. Fu un risveglio doloroso, essendo poco praticabili le toilettes, con un tentativo di colazione con cetrioli in composta, pane cementizio e smietana. Alle dieci ci aspettava il cliente per illustrare il progetto. Era in ritardo, ma quando arrivò, la delusione ci fece quasi cadere tutta la documentazione che avevamo accuratamente preparato. Ci si parò innanzi una specie di pastore asiatico leopardiano, male in arnese, con una dubljionka spelacchiata da cui spuntava una giacchetta stazzonata, che spiegò a Bulik come il progetto andasse benissimo, mentre alla mia insistente e dubitosa domanda – Dienghy iest? – (ma i soldi ci sono?) fece spallucce, dicendo che dovevamo andare in banca per il finanziamento. Stefania mi lanciava occhiate interrogative, io cercavo assicurazioni da Andrej che a sua volta le chiedeva ad un sempre più impenetrabile Bulik. Giungemmo alla banca prima di mezzogiorno ed il nostro pecoraio, che per tutto il tragitto ci aveva illustrato le montagne di bozzoli in attesa di essere trattati, fu ricevuto con Bulik in direzione. Dopo un quarto d’ora, i due uscirono a testa bassa, cercando di guadagnare l’uscita con lo sguardo bastonato del cane a cui è scappato il gregge. Il direttore si avvicinò a noi con aria di scusa e ci spiegò che il nostro cliente non aveva ben chiaro come funzionassero i finanziamenti e che aveva creduto che, complice la perestroijka, fosse sufficiente andare in banca a chiedere il denaro (5 milioni di dollari) per ottenerlo! Era assai spiaciuto perchè riteneva il progetto molto interessante, ma come tutti i banchieri, in mancanza di garanzie… Allargò le braccia. Inseguimmo i due e caricammo di contumelie il pastore, che se la filò in fretta promettendo futuri e certi finanziamenti, magari in miliardi di tenghé, la valuta locale, Bulik che ci aveva trascinato in quella sciocchezza, costataci tanto impegno e Andrej che non aveva controllato la serietà della cosa. Lasciammo Bulik al suo destino e quando tempo dopo ci contattò per proporre un ricco baratto di venti chili di veleno di api e bile di orso in cambio di impianti, staccammo il fax per non sprecare carta.
Enrico Bo